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Facciamo festa come se fosse il 1995, di Paul Krugman (New York Times 9 marzo 2015)

 

Partying Like It’s 1995

MARCH 9, 2015

Paul Krugman

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Six years ago, Paul Ryan, who has since become the chairman of the House Ways and Means Committee and the G.O.P.’s leading voice on matters economic, had an Op-Ed article published in The Times. Under the headline “Thirty Years Later, a Return to Stagflation,” he warned that the efforts of the Obama administration and the Federal Reserve to fight the effects of financial crisis would bring back the woes of the 1970s, with both inflation and unemployment high.

True, not all Republicans agreed with his assessment. Many asserted that we were heading for Weimar-style hyperinflation instead.

Needless to say, those warnings proved totally wrong. Soaring inflation never materialized. Job creation was sluggish at first, but more recently has accelerated dramatically. Far from seeing a rerun of that ’70s show, what we’re now looking at is an economy that in important respects resembles that of the 1990s.

To be sure, there are big differences between America in 2015 and America in the ’90s. TV is much better now, the situation of workers much worse. While stocks are high and there is talk of a new technology bubble, there’s nothing like the old euphoria. There is also, unfortunately, no sign that the great productivity surge of 1995-2005, brought on as businesses adopted information technology, is coming back.

Still, we’re now adding jobs at a rate not seen since the Clinton years. And it goes without saying that low inflation combined with rapid job growth makes nonsense of all those predictions that Obamacare, or maybe just the president’s bad attitude, would destroy the private sector.

But pointing out yet again just how wrong the usual suspects on the right have been about, well, everything isn’t the only reason to note parallels with the 1990s. There are also implications for monetary policy: Recent job gains have brought the Fed to a fork in the road very much like the situation it faced circa 1995. Now, as then, job growth has taken the official unemployment rate down to a level at which, according to conventional wisdom, the economy should be overheating and inflation should be rising. But now, as then, there is no sign of the predicted inflation in the actual data.

The Fed has a so-called dual mandate — it’s supposed to achieve both price stability and full employment. At this point price stability is conventionally taken to mean low but positive inflation, at around 2 percent a year. What does it mean to achieve full employment? For the Fed, it means reaching the Nairu — the nonaccelerating inflation rate of unemployment, which is consistent with that inflation target.

The Fed currently estimates the Nairu at between 5.2 percent and 5.5 percent, and the latest report puts the actual unemployment rate at 5.5 percent. So we’re there — time to raise interest rates!

Or maybe not. The Nairu is supposed to be the unemployment rate at which the economy overheats and an inflationary spiral starts to kick in. But there is no sign of inflationary pressure. In particular, if the job market really were tight, wages would be rising quickly, whereas they are in fact going nowhere.

The thing is, we’ve been here before. In the early-to-mid 1990s, the Fed generally estimated the Nairu as being between 5.5 percent and 6 percent, and by 1995, unemployment had already fallen to that level. But inflation wasn’t actually rising. So Fed officials made what turned out to be a very good choice: They held their fire, waiting for clear signs of inflationary pressure. And it turned out that the United States’ economy was capable of generating millions more jobs, without inflation, than it would have if the Fed had reined in the boom too soon.

Are we in a similar situation now? Actually, I don’t know — but neither does the Fed. The question, then, is what to do in the face of that uncertainty, with no inflation problem yet in sight.

To me, as to a number of economists — perhaps most notably Lawrence Summers, the former Treasury secretary — the answer seems painfully obvious: Don’t yank away that punch bowl, don’t pull that rate-hike trigger, until you see the whites of inflation’s eyes. If it turns out that the Fed has waited a bit too long, inflation might overshoot 2 percent for a while, but that wouldn’t be a great tragedy. But if the Fed moves too soon, we might end up losing millions of jobs we could have had — and in the worst case, we might end up sliding into a Japanese-style deflationary trap, which has already happened in Sweden and possibly in the eurozone.

What’s worrisome is that it’s not clear whether Fed officials see it that way. They need to heed the lessons of history — and the relevant history here is the 1990s, not the 1970s. Let’s party like it’s 1995; let the good, or at least better, times keep rolling, and hold off on those rate hikes.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Facciamo festa come se fosse il 1995, di Paul Krugman

New York Times 9 marzo 2015

Sei anni fa, Paul Ryan, che da allora è diventato Presidente del Comitato per il Reperimento e l’Utilizzazione dei fondi ed esponente di primo piano in materia economica del Partito Repubblicano, pubblicò un articolo sulla pagina dei commenti del Times. Sotto il titolo “Trent’anni dopo, il ritorno della stagflazione”, egli ammoniva che gli sforzi della Amministrazione Obama e della Federal Reserve per combattere gli effetti della crisi finanziaria avrebbero riportato ai guai degli anni ’70, con inflazione e disoccupazione elevate contemporaneamente.

E’ vero, non tutti i repubblicani concordarono con questo giudizio. Molti sostennero che stavamo piuttosto andando verso una iperinflazione sul modello di Weimar.

Superfluo dire che questi ammonimenti si dimostrarono totalmente errati. La crescita dell’inflazione non si è mai materializzata. La crescita dei posti di lavoro all’inizio è stata fiacca, ma più di recente ha accelerato in modo spettacolare. Lungi dall’essere una replica degli anni ’70, quello a cui stiamo assistendo è un’economia che per aspetti importanti assomiglia a quella degli anni ’90.

Per la verità, ci sono grandi differenze tra l’America del 2015 e quella degli anni ’90. I televisori sono molto migliorati, le condizioni dei lavoratori sono molto peggiorate. Se i valori azionari salgono, c’è un gran parlare di una nuova bolla della tecnologia e non c’è niente che assomigli alla vecchia euforia. Non c’è nemmeno nessun segno, sfortunatamente, che si stia ritornando alla grande crescita della produttività degli anni dal 1995 al 2005, provocata dalla adozione da parte delle imprese della tecnologia dell’informazione.

Eppure, i posti di lavoro stanno aumentando ad un ritmo che non si vedeva dagli anni di Clinton. E non è il caso di ribadire che la bassa inflazione combinata con la rapida crescita dei posti di lavoro rendono insensate tutte quelle previsioni secondo le quali la riforma della assistenza di Obama, o magari i modi scortesi del Presidente, starebbero distruggendo il settore privato.

Ma, per riferirci ancora una volta a come i soliti noti della destra abbiano avuto torto, ebbene, tutte queste cose non sono l’unica ragione per osservare un parallelismo con gli anni ’90. Ci sono anche implicazioni per la politica monetaria: gli aumenti recenti dei posti di lavoro hanno portato la Fed ad un bivio del tutto simile alla situazione che essa fronteggiò attorno al 1995. Oggi come allora, la crescita dei posti di lavoro ha portato il tasso ufficiale della disoccupazione ad un livello al quale, secondo la concezione tradizionale, l’economia dovrebbe essere in surriscaldamento e l’inflazione in crescita. Ma nei dati attuali, ora come allora, non c’è alcun segno di tale prevista inflazione.

La Fed ha un cosiddetto duplice mandato – si suppone che realizzi sia la stabilità dei prezzi che la piena occupazione. Di questi tempi la stabilità dei prezzi si ritiene convenzionalmente che significhi una inflazione bassa ma positiva, attorno circa ad un 2 per cento all’anno. Cosa significa realizzare la piena occupazione? Per la Fed significa raggiungere il cosiddetto NAIRU – il tasso di disoccupazione che non comporta una accelerazione dell’inflazione [1], che è coerente con quell’obbiettivo di inflazione.

Attualmente, la Fed stima che il NAIRU si collochi tra il 5,2 ed il 5,5 per cento, e l’ultimo rapporto colloca il tasso di disoccupazione effettivo al 5,5 per cento. Dunque, ci siamo – è il momento di aumentare i tassi di interesse!

O forse non è il momento. Si suppone che il NAIRU sia un tasso di disoccupazione al quale l’economia si surriscalda e la spirale inflazionistica comincia ad avere effetto. Ma non c’è alcun segno di pressione inflazionistica. In particolare, se il mercato del lavoro fosse realmente con pochi margini, i salari starebbero crescendo rapidamente, mentre di fatto non si muovono in nessuna direzione.

Il punto è che siamo già stati in questa situazione. Nella prima metà degli anni ’90, la Fed stimava grosso modo che il NAIRU si collocasse tra il 5,5 ed il 6 per cento, e col 1995 la disoccupazione era già scesa a quel livello. Ma l’inflazione non stava in effetti crescendo. I dirigenti della Fed fecero quella che si rivelò un’ottima scelta: frenarono gli entusiasmi, aspettando segni chiari di una spinta inflazionistica. E si scoprì che l’economia degli Stati Uniti era capace di generare milioni di posti di lavoro in più senza inflazione, rispetto a quello che sarebbe successo se la Fed avesse messo sotto controllo l’espansione troppo rapidamente.

Siamo oggi in una situazione simile? Per la verità, io non lo so – ma neanche la Fed lo sa. La domanda, dunque, è cosa fare dinanzi a questa incertezza, senza che sia alle viste alcun problema di inflazione.

A me, come ad un certo numero di economisti – il più autorevole dei quali, forse, è Lawrence Summers, il passato Segretario al Tesoro – la risposta sembra evidente sino alla noia: non togliete di mezzo la scodella del ponce [2], non tirate il grilletto del rialzo del tassi, finché non vedete l’inflazione nelle palle degli occhi [3]. Se si scoprisse che la Fed ha aspettato un po’ troppo a lungo, l’inflazione potrebbe per un po’ sorpassare il 2 per cento, ma non sarebbe una grande tragedia. Ma se la Fed agisse troppo alla svelta, potremmo finir col perdere milioni di posti di lavoro che avremmo potuto avere – e nel peggiore dei casi, potremmo finire con lo scivolare in una trappola deflazionistica sul modello giapponese, la qualcosa è già accaduta in Svezia e forse nell’eurozona.

Quello che è inquietante è che non è chiaro se i dirigenti della Fed siano della stessa opinione. Dovrebbero dar retta alle lezioni della storia – e in questo caso la storia che conta è quella degli anni ’90, non degli anni ’70. Facciamo festa come se fosse il 1995; lasciamo che proseguano i tempi buoni, o almeno migliori, e asteniamoci da quei rialzi dei tassi di interesse.

 

[1] Ovvero il NAIRU (che in inglese sta per ‘tasso di disoccupazione che non accelera l’inflazione’, e che in italiano talvolta è definito più genericamente come “tasso di disoccupazione naturale”) è un tasso di disoccupazione che lascia l’inflazione stabile, giacché si considera che esista una correlazione tra disoccupazione e salari, e dunque tra disoccupazione e inflazione, sulla base di una regola economica nota come la Curva di Phillips, che esamina la correlazione inversa tra gli andamenti della disoccupazione e quelli delle variazioni dei salari. Ovvero, con un tasso di disoccupazione più basso l’inflazione cresce, con un tasso più alto cala. Il tasso di disoccupazione ‘ giusto’, dunque, è quello che non comporta una accelerazione dell’inflazione.

[2] Una espressione del gergo economico, secondo la quale il compito di una banca centrale, dinanzi ai segni di una espansione e di un inizio di surriscaldamento dell’economia, sarebbe quello di togliere dalla circolazione ogni fattore di stimolo monetario, così come si toglie di mezzo la scodella degli alcoolici quando una festa si riscalda.

[3] Mi pare l’espressione corrispondente nel nostro linguaggio popolare; letteralmente sarebbe “finché non vedete il bianco degli occhi dell’inflazione”, ovvero finché non la vedete da vicino.

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