Letture e Pensieri sparsi, di Marco Marcucci

Empatia e simpatia, maggio 2015. Marco Marcucci

z 706Empatia e simpatia

Tempo fa Scalfari citava in un suo editoriale questo pensiero sulla sinistra francese dello storico Jacques Julliard: “Il socialismo, certamente, è una mentalità, ma raddoppiata da una empatia popolare”. E cosa resta di una sinistra senza un popolo, senza quell’empatia del proprio popolo? Scalfari poneva la stessa domanda alla sinistra italiana odierna. Renzi, di recente – assieme ad un giudizio assai semplicistico sui risultati delle elezioni inglesi – ha ribadito di avere una sua opinione sull’intera questione: quello che serve, a suo parere, è un nuovo fondamento di tale sostegno popolare. La novità sembrerebbe consistere non tanto negli ingredienti di quella empatia, nel suo essere o meno ‘di sinistra’ – ovvero nel suo esprimere più o meno ‘una mentalità socialista’ – bensì nel suo mirare a cambiamenti tangibili. La differenza sarebbe dunque tra una sinistra che vuole vincere (‘vincere’ è considerato un concetto in pratica equivalente ai cambiamenti tangibili) , rispetto ad una sinistra che si appaga di esistere. Contano, dunque, i risultati.

In apparenza, parrebbe una tautologia, visto che nessun successo è semplice da certificare senza risultati. In realtà si tratta di un giudizio storico, ed anche assai impegnativo. Una intera storia della sinistra italiana viene giudicata, in un certo senso, come un fenomeno abbastanza indifferente ai risultati, almeno in termini di potere politico; unicamente appagata dall’esistere. E probabilmente si coglie un punto di sostanziale verità, visto che per una lunga fase, direi esplicitamente, l’esistere ed il crescere in un contesto democratico fu il senso principale della storia della sinistra italiana. E si potrebbe anche sostenere che si giunse ad un primo esito di quella storia, in fondo, con l’idea del compromesso storico e il successivo, in buona misura ancora misterioso, assassinio del principale interlocutore di quella strategia: Aldo Moro (per inciso, tutte le volte che apprendo la notizia di un qualche gesto terroristico in Europa, mi vien da pensare alle molte centinaia di morti ammazzati nella nostra storia del terrore di quei decenni passati. E mi viene da pensare alla strana incredibile accelerazione con la quale quel decennio o due si sono stampati nella nostra memoria; pare quasi che la storia sia un film che talora salta in fretta intere epoche, per inoltrarsi con assoluta lentezza in epoche di nuovi presunti paradigmi. Curve dello spazio e del tempo che diventano anche curve della intelligenza). Dopodiché il mondo cambiò e divenne in qualche modo intuibile che un filo si era spezzato. Dico tutto questo in vertiginosa sintesi, per rammentare l’entità dei fenomeni che sembrano sottesi a quella ricostruzione; e anche per ricordare che essa, ma in modo assai disinvolto, parte da una verità, che rimanda in pratica a tutto il secolo scorso. Il tema, in sostanza, è assai più impegnativo di quanto non si immagini.

Mi interessa però ragionare un po’ su quel concetto di empatia. Letteralmente, empatia non significa affatto semplicisticamente “approvazione” o “sostegno”. Significa (Treccani): “Capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro”. Dunque, empatia è il risultato di una complessa convergenza sino ad una presunta identificazione – sia pure con linguaggi anche molto diversi – di due psicologie ed anche di due culture. Perché vi sia reciproca empatia tra un partito politico e la parte di popolo che lo sostiene, occorre una convergenza tra i fatti, i pensieri e le esperienze delle esistenze di entrambi.

Facciamo un esempio. Se una ripresa del PIL dello 0,3 per cento avviene dopo quasi un decennio nel quale esso era calato di circa il 10 per cento, significa che i fatti ed i pensieri della gente comune registrano che si è del 9,7 per cento più poveri del passato (in realtà, a seconda di quale gente si parla, per il noto fenomeno dell’ineguaglianza, la percentuale è anche molto superiore, sino al 100 per cento). Se dunque quella interruzione della caduta si pretende che veicoli un messaggio di compiacimento per la propria ritrovata condizione, non c’è alcuna empatia possibile con il proprio popolo. Sono due linguaggi diversi, letteralmente la condizione opposta dell’empatia, ovvero l’impossibilità manifesta di “comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro”.

È un esempio troppo semplicistico? Probabilmente sì, dato che il cervello delle persone non funziona come un termometro, capisce le sfumature, si interroga sulle tendenze, si preoccupa dei fenomeni relativi, arriva talora ad intendere che se in un giorno il tempo si presenta incerto, si può magari compiacersi che sia terminata la tempesta.

Ma allora l’empatia tra un partito e il popolo che lo sostiene, davvero deve essere considerata alla stregua di una convergenza di culture. E la questione principale è quella di come rappresentare la almeno tendenziale convergenza di quelle varie culture: ovvero (secondo Antonio Gramsci) quella diffusa degli “uomini comuni”, il ruolo “coesivo” ed “inventivo” dei gruppi dirigenti nazionali, il ruolo di un “elemento medio” che “metta a contatto, non solo fisico ma morale e intellettuale” gli altri due fattori. In sostanza, per Gramsci non esisteva il problema dell’empatia di un popolo, il problema era almeno reciproco, tra dirigenti e diretti.

Gramsci partiva, in quelle pagine delle “Note sul Machiavelli” (pagg. 18-26), dal principio che “esistono governanti e governati” (i partiti, diceva, “possono presentarsi sotto i nomi più diversi, anche quello di anti partiti e di ‘negazione dei partiti’; in realtà anche i cosiddetti ‘individualisti’ sono uomini di partito, solo che vorrebbero essere ‘capi partito’ per grazia di Dio o dell’imbecillità di chi li segue”). Il processo di formazione di una “empatia” (che Gramsci avrebbe forse chiamato anche “disciplina”) è, dunque, un congegno complesso, che davvero non si riduce alla “approvazione” dei governati. Occorre una convergenza di linguaggi, ovviamente, ed occorre che la cultura dei “governanti” produca un effetto di sistemazione, di natura inventiva, degli stessi fenomeni che la gente comune sperimenta nelle proprie esistenze; ed occorre anche che i dirigenti diffusi, locali, di un partito provochino una integrazione “morale e intellettuale” tra quei due mondi.

L’empatia non è “simpatia” (sempre Treccani: “Sentimento di inclinazione e attrazione istintiva verso persone, cose e idee”). E ogni ragionamento sull’empatia si deve obbligatoriamente misurare con la capacità dei dirigenti di produrre inventiva nel dare sistemazione al complesso delle domande e delle impressioni che si producono nella esistenza delle persone comuni.

Oggi il mondo è sicuramente complicato. Eppure, sarebbe abbastanza fuorviante ritenere che la storia passata della sinistra sia stata semplice (neppure è così semplice ragionare di ‘vocazioni minoritarie’, se si ricordano i risultati elettorali del 1984). Sembra che la grande differenza di oggi stia altrove: i processi della mondializzazione e della finanziarizzazione delle economie e la riorganizzazione dei poteri statali al livello europeo, e poi la crisi di entrambi. In un certo senso, il campo di gioco, che è cambiato ed è entrato in crisi.

Quanto la ‘inventiva’ dei dirigenti riesce a dar conto di queste nuove regole del gioco, ovvero di questa nuova dimensione della statualità?

Io penso che l’idea di fondo espressa da Renzi nella sua intervista, e nella esperienza di governo di questi mesi, non sia priva di senso. In un certo modo, ci si è proposti di dimostrare che c’è uno spazio reale di cambiamento, se si mette in campo la determinazione a liquidare vischiosità e burocratismi nelle nostre strutture pubbliche ed anche corporativismi nel nostri assetti sociali. Mi pare invece che nascano grandi difficoltà, soprattutto nel periodo medio e lungo, quando si pretende che questo ‘carburante’ sia sufficiente a tirar fuori il paese dalle secche nelle quali è impantanato, senza basarsi anche su una nuova lettura e su una riforma di quella statualità. E il problema dei problemi nasce quando si pretende che il popolo a cui ci si riferisce si adegui alla nuova lezione, ovvero si accontenti di mettere la ‘simpatia’ al posto della ‘empatia’.
I rischi sono tre, direi in crescendo. Talora l’enfasi sull’efficienza può essere illusoria e strumentale: ad esempio sembra un po’ illusorio risolvere con i presidi i problemi della efficienza del sistema educativo, oppure sembra un bel po’ strumentale ritenere che premiare le imprese che fanno assunzioni piene in cambio di premi che durano tre anni risolva in modo duraturo la questione dei livelli di disoccupazione giovanile. Il secondo rischio consiste nell’eludere problemi di fondo di una statualità europea che non mira ad integrare le nazioni, ma di fatto le subordina semplicemente agli interessi più forti. Ma il terzo rischio, che forse è il maggiore, è che non fornire al proprio popolo il quadro intero dei problemi del paese, ma ridurre tutto, in fondo, alla fiducia ad un nuovo gruppo dirigente del paese, è davvero come esimersi dal lavoro serio dell’empatia, e pensare di surrogarlo chiedendo alla gente simpatia, o, se si vuole, di partecipare a scommesse improbabili.

La sinistra europea è ancora oggi assai lontana dal tentare un ragionamento sulla condizione dell’Europa. La contraddizione di un meccanismo nel quale la politica economica è stata fissata in un programma indiscutibile di austerità, di rango addirittura costituzionale da noi; il non voler vedere che sicuramente è anche questo che rende persistente la depressione dell’economia; il non voler ammettere che la questione è anche più grave, dato che le aree più forti dell’Europa in sostanza si giovano di un meccanismo di ‘manipolazione valutaria’ che perpetua in modo esagerato la loro competitività (vedi tra queste traduzioni l’analisi della situazione tedesca offerta da Ben Bernanke), mettendo tutto l’onere del riequilibrio sulle spalle dei paesi creditori, e che di conseguenza la scelta coraggiosa della integrazione europea rischia di diventare la copertura del massimo degli egoismi; tutti questi sono gli esempi principali di difficoltà che sono destinate a durare. Non leggere questi problemi equivale a non avere e a non dare al proprio popolo un’idea della partita effettivamente aperta. Non a caso la questione greca è stata trattata dalle principali sinistre europee, diciamo così, con il minimo dell’empatia, quasi con fastidio.

Sarebbe ingiusto ritenere che tutte queste contraddizioni si possano sbrogliare con facilità (a me dà anche un po’ fastidio che non ci sia nessuno disponibile a riconoscere che non sono certo problemi nati oggi). Non è così, in ogni caso ripensare l’Europa sarà un processo lungo e difficile. Ma l’Europa non è un ‘settore’ della politica nazionale, è ormai il luogo principale del nostro stesso Stato nazionale. Per questo la pretesa di sostituire il processo di costruzione di una comune cultura tra un partito e il suo popolo, quando quel partito continua ad essere sprovvisto di una lettura, diciamo così, di una parte del proprio Stato, fa impressione.

Il racconto che stiamo ascoltando, come dicevo in un intervento precedente, è di tipo ‘magico’. Usare il carburante del riformare, dello sveltire e del rottamare, indovinare e imboccare la strada della inversione di tendenza, portare tutto questo in dote ad una Europa che non si sa come riformare. E per farlo anzitutto assicurare un indiscusso margine di manovra ai governanti, nella forma di un premio al carisma. Abbiamo alle spalle una decina d’anni nei quali è cambiato il nostro paesaggio sociale. Quale può essere il prezzo di altri svariati anni di stagnazione? Quale prezzo, qualora rapidamente si dovesse constatare l’esiguità di una ripresa che non modifica i dati di fondo della nostra condizione?

Si potrebbe utilizzare quest’altra citazione di Antonio Gramsci: “A proposito della ‘boria’ del partito, si può dire che essa è peggiore della ‘boria delle nazioni’ di cui parla il Vico. Parchè? Perché una nazione non può non esistere e nel fatto che esiste è sempre possibile …. trovare che l’esistenza è piena di destino e di significato. Invece un partito può non esistere per forza propria.”

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