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Un racconto di due Partiti, di Paul Krugman (New York Times 20 giugno 2016)

 

A Tale of Two Parties

Paul Krugman JUNE 20, 2016

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Do you remember what happened when the Berlin Wall fell? Until that moment, nobody realized just how decadent Communism had become. It had tanks, guns, and nukes, but nobody really believed in its ideology anymore; its officials and enforcers were mere careerists, who folded at the first shock.

It seems to me that you need to think about what happened to the G.O.P. this election cycle the same way.

The Republican establishment was easily overthrown because it was already hollow at the core. Donald Trump’s taunts about “low-energy” Jeb Bush and “little Marco” Rubio worked because they contained a large element of truth. When Mr. Bush and Mr. Rubio dutifully repeated the usual conservative clichés, you could see that there was no sense of conviction behind their recitations. All it took was the huffing and puffing of a loud-mouthed showman to blow their houses down.

But as Mr. Trump is finding out, the Democratic establishment is different.

As some political scientists are now acknowledging, America’s two major parties are not at all symmetric. The G.O.P. is, or was until Mr. Trump arrived, a top-down hierarchical structure enforcing a strict, ideologically pure party line. The Democrats, by contrast, are a “coalition of social groups,” from teachers’ unions to Planned Parenthood, seeking specific benefits from government action.

This diversity of interests sometimes reduces Democrats’ effectiveness: the old Will Rogers joke, “I am not a member of any organized political party — I’m a Democrat” still rings true. But it also means that the Democratic establishment, such as it is, is resilient against Trump-style coups.

But wait: Didn’t Hillary Clinton face her own insurgency in the person of Bernie Sanders, which she barely turned back? Actually, no.

For one thing, it wasn’t all that close. Mrs. Clinton won pledged delegates by almost four times Barack Obama’s margin in 2008; she won the popular vote by double digits.

Nor did she win by burying her rival in cash. In fact, Mr. Sanders outspent her all the way, spending twice on much as she did on ads in New York, which she won by 16 percentage points.

Also, Mrs. Clinton faced immense, bizarre hostility from the news media. Last week Harvard’s Shorenstein Center released a report on media treatment of the candidates during 2015, showing that Mrs. Clinton received by far the most unfavorable coverage. Even when reports focused on issues rather than alleged scandals, 84 percent of her coverage was negative — twice as high as for Mr. Trump. As the report notes, “Clinton’s negative coverage can be equated to millions of dollars in attack ads, with her on the receiving end.”

And yet she won, fairly easily, because she had the solid support of key elements of the Democratic coalition, especially nonwhite voters.

But will this resilience persist in the general election? Early indications are that it will. Mr. Trump briefly pulled close in the polls after he clinched the Republican nomination, but he has been plunging ever since. And that’s despite the refusal of Mr. Sanders to concede or endorse the presumptive nominee, with at least some Bernie or Busters still telling pollsters that they won’t back her.

Meanwhile, Mr. Trump is flailing. He’s tried all the tactics that worked for him in the Republican contest — insults, derisive nicknames, boasts — but none of it is sticking. Conventional wisdom said that he would be helped by a terrorist attack, but the atrocity in Orlando seems to have hurt him instead: Mrs. Clinton’s response looked presidential, his didn’t.

Worse yet from his point of view, there’s a concerted effort by Democrats — Mrs. Clinton herself, Elizabeth Warren, President Obama, and more — to make the great ridiculer look ridiculous (which he is). And it seems to be working.

Why is Mrs. Clinton holding up so well against Mr. Trump, when establishment Republicans were so hapless? Partly it’s because America as a whole, unlike the Republican base, isn’t dominated by angry white men; partly it’s because, as anyone watching the Benghazi hearing realized, Mrs. Clinton herself is a lot tougher than anyone on the other side.

But a big factor, I’d argue, is that the Democratic establishment in general is fairly robust. I’m not saying that its members are angels, which they aren’t. Some, no doubt, are personally corrupt. But the various groups making up the party’s coalition really care about and believe in their positions — they’re not just saying what the Koch brothers pay them to say.

So pay no attention to anyone claiming that Trumpism reflects either the magical powers of the candidate or some broad, bipartisan upsurge of rage against the establishment. What worked in the primary won’t work in the general election, because only one party’s establishment was already dead inside.

 

Un racconto di due Partiti, di Paul Krugman

New York Times 20 giugno 2016

Ricordate cosa accadde quando cadde il muro di Berlino? Sino a quel momento nessuno si rendeva conto quanto fosse diventato decadente il Comunismo. Aveva carri armati, fucili e bombe, ma in realtà nessuno credeva più nella sua ideologia; i suoi dirigenti ed i suoi gendarmi erano dei semplici carrieristi, che crollarono al primo colpo.

A me sembra che si debba ragionare in modo simile su quello che è accaduto in questo ciclo elettorale al Partito Repubblicano.

Il gruppo dirigente repubblicano è stato facilmente rovesciato perché era già vuoto sino al midollo. Gli scherni di Donald Trump sulla “scarsa energia” di Jeb Bush e su Rubio, “il piccolo Marco”, sono stati efficaci perché contenevano una buona dose di verità. Quando Bush e Rubio ripetevano coscienziosamente i soliti cliché conservatori, si poteva constatare che dietro le loro recite non c’era alcun convincimento. Tutto quello che serviva per abbattere le loro costruzioni era il soffio di uno sguaiato uomo di spettacolo.

Ma come Trump si sta accorgendo, il gruppo dirigente democratico è un’altra cosa.

Come alcuni politologi stanno adesso riconoscendo, i due principali Partiti americani non sono affatto simmetrici. Il Partito Repubblicano è, o era prima che arrivasse Trump, una struttura gerarchica dall’alto verso il basso, che faceva rispettare una linea di partito rigida ed ideologicamente pura. I democratici, all’opposto, sono una “coalizione di gruppi sociali”, dai sindacati degli insegnanti a Planned Parenthood [1], interessata ad ottenere specifici vantaggi dall’iniziativa del Governo.

La diversità degli interessi talora riduce l’efficacia dei democratici: la vecchia battuta di Will Rogers [2], “io non sono membro di un partito politico organizzato, sono un democratico”, è ancora oggi vera. Ma questo significa anche che il gruppo dirigente democratico, per la sua natura, è capace di resistere ai sovvertimenti sullo stile di Trump.

Ma, un momento: non ha dovuto fare i conti, Hillary Clinton, con una sua propria ribellione nella persona di Bernie Sanders, che è appena riuscita a respingere? Per la verità, no.

Anzitutto, non è affatto accaduto niente del genere. La signora Clinton ha conquistato l’impegno a sostenerla da parte dei delegati [3] con un margine pari a quasi quattro volte quello di Obama nel 2008; ha vinto nel voto popolare con uno scarto percentuale a due cifre [4].

E neanche ha vinto seppellendo il suo rivale con i mezzi finanziari. Di fatto, Sanders ha speso molto di più: due volte tanto la spesa in propaganda a New York della Clinton, dove ella ha vinto con 16 punti percentuali di scarto.

La Clinton ha inoltre fronteggiato una immensa e inesplicabile ostilità da parte dei media. La scorsa settimana il Shorenstein Center di Harvard ha pubblicato un rapporto sul trattamento dei candidati da parte dei media durante il 2015, che dimostra che la Clinton ha ricevuto di gran lunga la copertura più sfavorevole. Persino quando i resoconti si concentravano su temi concreti anziché sui pretesi scandali, l’84 per cento della sua copertura era negativo – una percentuale doppia di quella di Trump. Come osserva il rapporto “la copertura negativa della Clinton può essere paragonata a milioni di dollari di pubblicità ostile, con lei nella parte di chi subisce”.

E tuttavia ha vinto, abbastanza agevolmente, perché ha il solido sostegno degli elementi chiave della coalizione democratica, specialmente gli elettori non bianchi.

Ma questa resistenza persisterà nelle elezioni generali? Le prime indicazioni dicono di sì. Il signor Trump si è per un po’ spinto vicino nei sondaggi, dopo che si era assicurato la nomina repubblicana, ma da allora sta precipitando. E questo nonostante il rifiuto di Sanders di riconoscere o di dare il suo appoggio alla presunta nominata, con almeno alcuni irriducibili sostenitori [5] di Bernie che continuano ad affermare che non la appoggeranno.

Nel frattempo, Trump sta annaspando. Ha provato tutte le tattiche che gli avevano funzionato nel contesto repubblicano – insulti, nomignoli derisivi, sbruffonate – ma nessuna sta facendo effetto. La saggezza convenzionale diceva che sarebbe stato aiutato da un attacco terrorista, ma l’atrocità di Orlando sembra piuttosto che l’abbia danneggiato: la reazione della Clinton è apparsa presidenziale, diversamente dalla sua.

Dal suo punto di vista c’è qualcosa di ancora peggiore, lo sforzo concertato dei democratici – la stessa Clinton, Elizabeth Warren, il Presidente Obama ed altri – di far apparire ridicolo (quale è) il grande schernitore. E pare stia funzionando.

Perché la Clinton sta cavandosela così bene contro Trump, mentre il gruppo dirigente repubblicano è stato così deludente? In parte dipende dall’America nel suo complesso che, diversamente dalla base repubblicana, non è dominata da uomini bianchi arrabbiati; in parte dal fatto che la Clinton, come ha compreso chi abbia visto la audizione su Bengasi, è molto più tosta di chiunque, nell’altro schieramento.

Ma io direi che un fattore importante è che il gruppo dirigente democratico è abbastanza solido. Non sto dicendo che i suoi componenti siano degli angeli, che non lo sono. Alcuni, senza dubbio, sul piano personale sono corrotti. Ma i vari gruppi che costituiscono la coalizione hanno interessi veri e credono nelle loro posizioni – non stanno solo dicendo quello che i fratelli Koch li hanno pagati per dire.

Non prestate dunque alcuna attenzione a chi sostiene che il ‘trumpismo’ riflette le magiche attitudini del candidato, e neppure una qualche generale rivolta bipartisan contro i gruppi dirigenti. Quello che ha funzionato nelle primarie non funzionerà nelle elezioni generali, perché solo il gruppo dirigente di un partito era già intimamente spento.

 

[1] Una associazione – traducibile con “genitorialità consapevole” –  che opera sui temi della procreazione consapevole e dell’aborto.

[2] Will Rogersnato William Penn Adair Rogers (Oklahoma4 novembre1879 – Barrow15 agosto 1935), è stato un attorecomico e giornalista statunitense di origini cherokee.

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[3] “Pledged delegates” significa letteralmente “i delegati promessi”, ovvero ‘impegnati’ a votare a suo favore nella Convenzione finale nazionale. Il termine serve probabilmente a differenziare quei delegati dai cosiddetti ‘superdelegati’, che sono in pratica delegati di diritto, che non sono tenuti a dichiarare il loro voto finale nella Convenzione.

[4] Penso che il significato sia questo, ovvero che la ‘doppia cifra’ (“double digits”) si riferisca alla differenza percentuale nei voti popolari ottenuti dalla Clinton e da Sanders. In effetti, su un totale di circa 28 milioni di voti, la Clinton ne ha ottenuti 3.775.437 in più di Sanders, ovvero una percentuale superiore al 10 per cento.

[5] “Bernie or bust” – ovvero “o Bernie o il crollo” – è il concetto che nei mesi passati è stato espresso da una parte dei sostenitori del Senatore. Quindi, i “Bernie or busters” sono quegli irriducibili.

 

 

 

 

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