Articoli sul NYT

Malinconie del mercato al rialzo, di Paul Krugman (New York Times 15 luglio 2016)

 

Bull Market Blues

Paul Krugman JULY 15, 2016

zz 170

 

Like most economists, I don’t usually have much to say about stocks. Stocks are even more susceptible than other markets to popular delusions and the madness of crowds, and stock prices generally have a lot less to do with the state of the economy or its future prospects than many people believe. As the economist Paul Samuelson put it, “Wall Street indexes predicted nine out of the last five recessions.”

Still, we shouldn’t completely ignore stock prices. The fact that the major averages have lately been hitting new highs — the Dow has risen 177 percent from its low point in March 2009 — is newsworthy and noteworthy. What are those Wall Street indexes telling us?

The answer, I’d suggest, isn’t entirely positive. In fact, in some ways the stock market’s gains reflect economic weaknesses, not strengths. And understanding how that works may help us make sense of the troubling state our economy is in.

O.K., let’s start with the myth Samuelson was debunking, the claim that stock prices are the measure of the economy as a whole. That myth used to be popular on the political right, with prominent conservative economists publishing articles with titles like “Obama’s Radicalism Is Killing the Dow.”

Strange to say, however, we began hearing that line a lot less once stock prices turned around and began their huge surge — which started just six weeks after President Obama was inaugurated. (But polling suggests that a majority of self-identified Republicans still haven’t noticed that surge, and believe that stocks have gone down in the Obama era.)

The truth, in any case, is that there are three big points of slippage between stock prices and the success of the economy in general. First, stock prices reflect profits, not overall incomes. Second, they also reflect the availability of other investment opportunities — or the lack thereof. Finally, the relationship between stock prices and real investment that expands the economy’s capacity has gotten very tenuous.

On the first point: We measure the economy’s success by the extent to which it generates rising incomes for the population. But stocks don’t reflect incomes in general; they only reflect the part of income that shows up as profits.

This wouldn’t matter if the share of profits in overall income were stable; but it isn’t. The share of profits in national income fluctuates, but it has been a lot higher in recent years than it was during the great stock surge of the late 1990s — that is, we’ve had a profits boom without a comparably large economic boom, making the relationship between profits and prosperity weak at best. We are not, in fact, partying like it’s 1999.

On the second point: When investors buy stocks, they’re buying a share of future profits. What that’s worth to them depends on what other options they have for converting money today into income tomorrow. And these days those options are pretty poor, with interest rates on long-term government bonds not only very low by historical standards but zero or negative once you adjust for inflation. So investors are willing to pay a lot for future income, hence high stock prices for any given level of profits.

But why are long-term interest rates so low? As I argued in my last column, the answer is basically weakness in investment spending, despite low short-term interest rates, which suggests that those rates will have to stay low for a long time.

This may seem, however, to present a paradox. If the private sector doesn’t see itself as having a lot of good investment opportunities, how can profits be so high? The answer, I’d suggest, is that these days profits often seem to bear little relationship to investment in new capacity. Instead, profits come from some kind of market power — brand position, the advantages of an established network, or good old-fashioned monopoly. And companies making profits from such power can simultaneously have high stock prices and little reason to spend.

Consider the fact that the three most valuable companies in America are Apple, Google and Microsoft. None of the three spends large sums on bricks and mortar. In fact, all three are sitting on huge reserves of cash. When interest rates go down, they don’t have much incentive to spend more on expanding their businesses; they just keep raking in earnings, and the public becomes willing to pay more for a piece of those earnings.

In other words, while record stock prices do put the lie to claims that the Obama administration has been anti-business, they’re not evidence of a healthy economy. If anything, they’re a sign of an economy with too few opportunities for productive investment and too much monopoly power.

So when you read headlines about stock prices, remember: What’s good for the Dow isn’t necessarily good for America, or vice versa.

 

Malinconie del mercato al rialzo, di Paul Krugman

New York Times 15 luglio 2016

Come la maggioranza degli economisti, di solito non ho molto da dire sui mercati azionari. Quei mercati sono anche più suscettibili degli altri alle illusioni popolari ed alla follia delle masse, ed i prezzi delle azioni in generale hanno molto meno a che fare con lo stato dell’economia e con le prospettive future di quello che credono molte persone. Come si espresse l’economista Paul Samuelson: “Gli indici di Wall Street avevano previsto nove delle ultime cinque recessioni”.

Eppure, non dovremmo ignorare completamente i prezzi azionari. Il fatto che le principali medie abbiano di recente toccato nuove vette – il Dow [1] è salito del 177 per cento dal suo punto basso nel marzo del 2009 – è una notizia importante e degna di nota. Cosa ci stanno dicendo quegli indici di Wall Street?

Direi che la risposta non è interamente positiva. Di fatto, in qualche modo i guadagni dei mercati azionari riflettono le debolezze dell’economia, non i punti di forza. E comprendere in che modo ciò accada può aiutarci a dare un senso alla preoccupante condizione nella quale si trova l’economia. Prendiamo dunque le mosse dal mito sul quale Samuelson ironizzava, la pretesa secondo la quale i prezzi azionari sarebbero la misura dell’economia nel suo complesso. Quel mito di solito era popolare a destra, quando eminenti economisti conservatori pubblicavano articoli con titoli come “Il radicalismo di Obama sta ammazzando il Dow”.

Strano a dirsi, tuttavia, cominciammo a sentir dire cose del genere allorché i prezzi delle azioni ebbero una svolta e cominciarono la loro grande ascesa – il che avvenne soltanto sei settimane dopo che la Presidenza Obama ebbe inizio (ma i sondaggi indicano che una maggioranza di persone che si definiscono repubblicane non hanno ancora notato quella ascesa, e credono che i mercati azionari siano andati in basso nell’epoca di Obama).

In ogni caso, la verità è che ci sono tre grandi punti di slittamento tra i prezzi azionari e il successo dell’economia in generale. Anzitutto, i prezzi delle azioni riflettono i profitti, non i redditi complessivi. In secondo luogo, essi riflettono anche la disponibilità di altre opportunità di investimento – o la loro carenza. Infine, la relazione tra prezzi azionari e investimenti reali che ampliano la capacità produttive dell’economia è diventata molto tenue.

Sul primo punto: noi misuriamo il successo dell’economia nella misura in cui essa genera redditi crescenti per la popolazione. Ma le azioni non riflettono in generale i redditi; riflettono solo la parte di reddito che si presenta nella forma di profitti.

Questo non sarebbe importante se la quota di profitti sui redditi complessivi fosse stabile: ma non è così. La quota dei profitti sul reddito nazionale fluttua, ma è stata molto più ampia negli anni recenti di quanto non fosse durante la grande crescita dei valori azionari degli ultimi anni ’90 – ovvero, abbiamo avuto un boom dei profitti senza una paragonabile grande espansione economica, il che nella migliore delle ipotesi ha indebolito la relazione tra profitti e prosperità. In sostanza, non stiamo festeggiando, come facevamo nel 1999.

Sul secondo punto: quando gli investitori comprano azioni, stanno comprando una quota di profitti futuri. Quello che a loro conviene dipende dal fatto che esistano altre possibilità per scambiare denaro di oggi con il reddito di domani. E di questi tempi quelle possibilità sono abbastanza modeste, con i tassi di interesse sui bond statali a lungo termine non solo molto bassi per le serie storiche, ma, una volta che si correggono per l’inflazione, al livello zero quando non negativi. Dunque, gli investitori sono disponibili a pagare un bel po’ per il loro reddito futuro, dal che derivano gli alti prezzi delle azioni in rapporto ad ogni livello considerato di profitti.

Ma perché i tassi di interesse a lungo termine sono così bassi? Come ho sostenuto nel mio articolo precedente, fondamentalmente la risposta sta nella debolezza della spesa per investimenti, che indica che quei tassi resteranno bassi per un lungo periodo. Tuttavia, questo può sembrare che presenti un paradosso. Se il settore privato non considera di avere molte opportunità di buoni investimenti, come possono essere così elevati i profitti? Suggerirei che, al giorno d’oggi, la risposta sta nel fatto che i profitti sembrano avere poca relazione con l’investimento in nuova capacità produttiva. I profitti derivano piuttosto dal potere sui mercati – la collocazione del marchio, i vantaggi di una rete consolidata, oppure i buoni vecchi monopoli. E le imprese che fanno profitti per effetto di tale potere possono nello stesso tempo avere elevati prezzi azionari e pochi motivi per spendere.

Si consideri il fatto che le tre grandi società di maggior valore in America sono Apple, Google e Microsoft. Nessuna delle tre spende grandi somme in cemento e mattoni.  Di fatto, stanno tutte e tre sedute su vaste riserve di contanti. Quando i tassi di interesse scendono, esse non hanno molto incentivi a spendere maggiormente su una espansione dei loro affari; continuano semplicemente a rastrellare profitti, e l’opinione pubblica è invogliata a pagare di più per un pezzo dei loro guadagni.

In altre parole, mentre i prezzi delle azioni sbugiardano le pretese secondo le quali la Amministrazione Obama sia stata contro le imprese, non c’è alcuna prova di una economia in salute. Semmai, c’è il segno di un’economia con troppe poche opportunità di investimenti produttivi e con troppo potere dei monopoli. Dunque, quando leggete titoloni sui prezzi delle azioni, ricordate: quello che è buono per il Dow non è necessariamente buono per l’America, o viceversa.

 

 

 

 

[1] Il Dow Jones (nome completo Dow Jones Industrial Average) è il più noto indice azionario della borsa di New York (il NYSE, New York Stock Exchange), creato da Charles Dow, padre dell’analisi tecnica e fondatore del Wall Street Journal e da Edward Jones, statistico finanziario americano (Wikipedia)

Questo è l’indice Dow relativo agli ultimi due secoli:

 

zz 175

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

By


Commenti dei Lettori (0)


E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"