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No, Donald Trump, l’America non è una bolgia infernale, di Paul Krugman (New York Times 26 agosto 2016)

 

No, Donald Trump, America Isn’t a Hellhole

Paul Krugman AUG. 26, 2016

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Donald Trump has taken a strange turn lately. O.K., he has taken a lot of strange turns — that’s what happens when you nominate a short-attention-span candidate who knows nothing about policy and refuses to sit still for more than three minutes. But never mind what passes for Trumpian policy ideas. What’s odd is the shift in what the problem is supposed to be.

When the Trump campaign started, it was, at least nominally, about economics. Foreigners are stealing your jobs, the candidate declared, both through unfair trade and by coming here as immigrants. And he would make America great again with punitive tariffs and mass deportations.

But the story changed at the Republican convention. There was remarkably little economic discussion on display; there wasn’t even much economic demagogy. Instead, the focus was all on law and order, on saving the nation from what the candidate described as a terrifying crime wave.

That theme has continued in recent weeks, with Mr. Trump’s “outreach” to minority voters. His notion of a pitch to these voters is to tell them how horrible their lives are, that they are facing “crime at levels that nobody has seen.” Even “war zones,” he says, are “safer than living in some of our inner cities.”

All of this is really strange — because nothing like this is actually happening.

Back when the Trump campaign was ostensibly about the loss of middle-class jobs, it was at least pretending to be about a real issue: Employment in manufacturing really is way down; real wages of blue-collar workers have fallen. You could say that Trumpism isn’t the answer (it isn’t), but not that the issue was a figment of the candidate’s imagination.

But when Mr. Trump portrays America’s cities as hellholes of runaway crime and social collapse, what on earth is he talking about? Urban life is one of the things that has gone right with America. In fact, it has gone so right that those of us who remember the bad old days still find it hard to believe.

Let’s talk specifically about violent crime. Consider, in particular, the murder rate, arguably the most solid indicator for long-run comparisons because there’s no ambiguity about definitions. Homicides did shoot up between the early 1960s and the 1980s, and images of a future dystopia — think “Escape From New York” (1981) or Blade Runner (1982) — became a staple of popular culture. Conservative writers assured us that soaring crime was the inevitable result of a collapse in traditional values and that things would get even worse unless those values were restored.

But then a funny thing happened: The murder rate began falling, and falling, and falling. By 2014 it was all the way back down to where it was half a century earlier. There was some rise in 2015, but so far, at least, it’s barely a blip in the long-run picture.

Basically, American cities are as safe as they’ve ever been. Nobody is completely sure why crime has plunged, but the point is that the nightmare landscape of the Republican candidate’s rhetoric — call it Trump’s hellhole? — bears no resemblance to reality.

And we’re not just talking about statistics here; we’re also talking about lived experience. Fear of crime hasn’t disappeared from American life — today’s New York is incredibly safe by historical standards, yet I still wouldn’t walk around some areas at 3 a.m. But fear clearly plays a much diminished role now in daily life.

So what is all of this about? The same thing everything in the Trump campaign is about: race.

I used scare quotes when talking about Mr. Trump’s racial “outreach” because it’s clear that the real purpose of his vaguely conciliatory rhetoric is not so much to attract nonwhite voters as it is to reassure squeamish whites that he isn’t as racist as he seems. But here’s the thing: Even when he is trying to sound racially inclusive, his imagery is permeated by an “alt-right” sensibility that fundamentally sees nonwhites as subhuman.

Thus when he asks African-Americans, “What do you have to lose by trying something new, like Trump?” he betrays ignorance of the reality that most African-Americans work hard for a living and that there is a large black middle class. Oh, and 86 percent of nonelderly black adults have health insurance, up from 73 percent in 2010 thanks to Obamacare. Maybe they do have something to lose?

But how was he supposed to know? In the mental world he and those he listens to inhabit, blacks and other nonwhites are by definition shiftless burdens on society.

Which brings us back to the notion of America as a nightmarish dystopia. Taken literally, that’s nonsense. But today’s increasingly multiracial, multicultural society is a nightmare for people who want a white, Christian nation in which lesser breeds know their place. And those are the people Mr. Trump has brought out into the open.

 

No, Donald Trump, l’America non è una bolgia infernale, di Paul Krugman

New York Times 26 agosto 2016

Di recente, Donald Trump ha fatto una strana svolta. È vero, ne ha fatte tante di strane svolte – è quello che accade quando si sceglie senza alcuna cautela un candidato che non sa niente di politica e rifiuta di star fermo per più di tre minuti. Ma non sono importanti quelle che passano come le idee politiche di Trump. Quello che è strano è lo spostamento verso quella che si suppone sia la questione centrale.

Quando è partita la campagna elettorale di Trump, essa, almeno a parole, riguardava l’economia. Gli stranieri rubavano i nostri posti di lavoro, affermava il candidato, sia attraverso pratiche commerciali scorrette, sia trasferendosi qua come immigrati. Ed egli avrebbe reso nuovamente grande l’America con tariffe punitive a deportazioni di massa.

Ma il racconto è cambiato alla Convenzione repubblicana. È andato in scena un dibattito economico modesto; non c’è neppure stata molta demagogia sulle cose dell’economia. Invece, ci si è concentrati interamente sulla legge e l’ordine, sul salvare la nazione da quella che il candidato descriveva come una terribile ondata di crimine.

Questo tema è proseguito nelle settimane recenti, con il tentativo del signor Trump di “estendere la sua influenza” agli elettori delle minoranze. La sua idea su come imbonire questi elettori è raccontare loro quanto siano tremende le loro esistenze, dato che si misurano con “crimini a livelli che nessuno conosceva”. Persino le “zone di guerra”, sostiene, “sono più sicure che vivere in alcuni dei quartieri poveri delle nostre città”.

Tutto questo è effettivamente strano – giacché non sta succedendo proprio niente di simile.

Quando, in precedenza, la campagna di Trump in apparenza era sulla perdita di posti di lavoro della classe media, almeno fingeva di occuparsi di un problema reale: l’occupazione nel settore manifatturiero è effettivamente in calo; i salari reali dei colletti blu sono caduti. Si può dire che il trumpismo non sia la risposta, non che la questione sia un parto della immaginazione del candidato.

Ma quando Trump dipinge le città dell’America come luoghi infernali di crimine e di collasso sociale, di cosa mai sta parlando? La vita urbana è una delle cose che sta andando bene in America. Sta andando così bene, che chi di noi si ricorda i brutti giorni del passato ancora stenta a crederci.

Parliamo in specifico dei crimini violenti. Si consideri, in particolare, il tasso degli omicidi, probabilmente l’indicatore più solido nei confronti di lungo periodo perché non c’è alcuna ambiguità nelle definizioni. Gli omicidi fecero un balzo tra i primi anni ’60 e gli anni ’80, e le immagini di una futura distopia – si pensi a “Fuga da New York” (1981) o a “Blade Runner” (1982) – divennero un prodotto basilare della cultura popolare. Gli scrittori conservatori erano certi che l’impennata del crimine fosse il risultato inevitabile del collasso dei valori tradizionali e che le cose sarebbero diventate persino peggiori se quei valori non fossero stati ripristinati.

Ma a quel punto avvenne una cosa curiosa: il tasso degli omicidi cominciò a scendere e continuò a calare. Con il 2014 esso era interamente tornato al punto in cui era mezzo secolo prima. C’è stato una qualche crescita nel 2015, ma, almeno sinora, si tratta di una inezia nel quadro di lungo periodo.

Fondamentalmente, le città americane sono sicure come non sono mai state. Nessuno ha la certezza completa del perché il crimine sia crollato, ma il punto che il paesaggio da incubo della retorica del candidato repubblicano – definiamola la bolgia di Trump – non ha alcuna somiglianza con la realtà.

E in questo caso non stiamo solo parlando di statistiche: stiamo anche parlando di esperienza vissuta. La paura del crimine non è scomparsa dalla vita degli americani – oggi New York è incredibilmente sicura per i suoi standard storici, tuttavia alle tre di notte non andrei in giro in certe aree. Ma la paura certamente gioca adesso un ruolo minore nella vita quotidiana.

Dunque, da cosa deriva tutto questo? Nella campagna elettorale di Trump, dappertutto ci si imbatte nello stesso motivo: la razza.

Ho usato le virgolette parlando del tentativo di Trump di “estendere la sua influenza” razziale, perché è chiaro che il vero scopo della sua retorica vagamente conciliante non è tanto quello di attrarre gli elettori non bianchi, quanto quello di rassicurare i bianchi schizzinosi che egli non è così razzista come sembra. Ma il punto è lì: persino quando egli prova ad apparire razzialmente inclusivo, la sua immaginazione è permeata da un sensibilità da “destra alternativa” [1] che fondamentalmente considera i non-bianchi come subumani.

Quando egli dunque chiede agli afro-americani. “Cosa avete da perdere nel cercare qualcosa di nuovo, come Trump?”, egli tradisce l’ignoranza di un dato di fatto secondo il quale la maggioranza degli afro-americani lavora duramente per vivere, e che esiste una ampia classe media di colore. Inoltre, l’86 per cento degli adulti di colore non anziani hanno l’assicurazione sanitaria, grazie alla riforma della assistenza di Obama, rispetto al 73 per cento che l’avevano nel 2010. Forse qualcosa da perdere ce l’hanno?

Ma come si è immaginato di conoscere cose del genere? Nel mondo intellettuale in cui risiedono Trump e coloro a cui egli presta ascolto, i neri e gli altri non bianchi sono per definizione pesi morti della società

Il che ci riporta al concetto dell’America come una distopia da incubo. Preso alla lettera, si tratta di un non senso. Ma al giorno d’oggi, una società sempre più multirazziale e multiculturale è un incubo per le persone che vogliono una nazione bianca e cristiana, nella quale le etnie minori stiano al loro posto. E sono costoro gli individui che il signor Trump ha portato allo scoperto.

 

 

[1] “Alt-right” – che sta per “alternative right” – è un segmento delle ideologie della destra americana che si presenta come una alternativa al conservatorismo tradizionale. Fondamentalmente un movimento che si oppone al multiculturalismo e all’immigrazione, con uno stile di argomentazione non esageratamente ideologico e piuttosto presentato come un dato di fatto della esperienza quotidiana.

Può essere interessante notare, a proposito di questa pretesa ‘naturalità’ di argomenti razzisti, che – sull’opposto versante dei progressisti – proprio in questi giorni è apparso evidente come negli ambienti progressisti americani non ci sia stata alcuna incertezza nel reagire con un certo sbigottimento alle crociate contro i ‘burkini’ che appassionano la Francia, compreso il suo Governo di centro sinistra. Il rispetto per le differenze di cultura sembra un argomento evidente tra i progressisti americani (si vedano appunto i commenti sui dibattiti francesi apparsi sul New York Times); analogamente un razzismo anti multiculturale, a destra, tende ad essere presentato come un dato della esperienza quotidiana.

 

 

 

 

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