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L’età della politica finta, di Paul Krugman (New York Times 6 gennaio 2017)

 

The Age of Fake Policy

Paul Krugman JAN. 6, 2017

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On Thursday, at a rough estimate, 75,000 Americans were laid off or fired by their employers. Some of those workers will find good new jobs, but many will end up earning less, and some will remain unemployed for months or years.

If that sounds terrible to you, and you’re asking what economic catastrophe just happened, the answer is, none. In fact, I’m just assuming that Thursday was a normal day in the job market.

The U.S. economy is, after all, huge, employing 145 million people. It’s also ever-changing: Industries and companies rise and fall, and there are always losers as well as winners. The result is constant “churn,” with many jobs disappearing even as still more new jobs are created. In an average month, there are 1.5 million “involuntary” job separations (as opposed to voluntary quits), or 75,000 per working day. Hence my number.

But why am I telling you this? To highlight the difference between real economic policy and the fake policy that has lately been taking up far too much attention in the news media.

Real policy, in a nation as big and rich as America, involves large sums of money and affects broad swathes of the economy. Repealing the Affordable Care Act, which would snatch away hundreds of billions in insurance subsidies to low- and middle-income families and cause around 30 million people to lose coverage, would certainly qualify.

Consider, by contrast, the story that dominated several news cycles a few weeks ago: Donald Trump’s intervention to stop Carrier from moving jobs to Mexico. Some reports say that 800 U.S. jobs were saved; others suggest that the company will simply replace workers with machines. But even accepting the most positive spin, for every worker whose job was saved in that deal, around a hundred others lost their jobs the same day.

In other words, it may have sounded as if Mr. Trump was doing something substantive by intervening with Carrier, but he wasn’t. This was fake policy — a show intended to impress the rubes, not to achieve real results.

The same goes for the hyping of Ford’s decision to add 700 jobs in Michigan — or for that matter, Mr. Trump’s fact-challenged denunciation of General Motors for manufacturing the Chevy Cruze in Mexico (that factory mainly serves foreign markets, not the U.S.).

Did the incoming administration have anything to do with Ford’s decision? Can political pressure change G.M.’s strategy? It hardly matters: Case-by-case intervention from the top is never going to have a significant impact on a $19 trillion economy.

So why are such stories occupying so much of the media’s attention?

The incoming administration’s incentive to engage in fake policy is obvious: It’s the natural counterpart to fake populism. Mr. Trump won overwhelming support from white working-class voters, who believed that he was on their side. Yet his real policy agenda, aside from the looming trade war, is standard-issue modern Republicanism: huge tax cuts for billionaires and savage cuts to public programs, including those essential to many Trump voters.

So what can Mr. Trump do to keep the scam going? The answer is, showy but trivial interventions that can be spun as saving a few jobs here or there. Substantively, this will never amount to more than a rounding error in a giant nation. But it may well work as a P.R. strategy, at least for a while.

Bear in mind that corporations have every incentive to go along with the spin. Suppose that you’re a C.E.O. who wants to curry favor with the new administration. One thing you can do, of course, is steer business to Trump hotels and other businesses. But another thing you can do is help generate Trump-friendly headlines.

Keeping a few hundred jobs in America for a couple of years is a pretty cheap form of campaign contribution; pretending that the administration persuaded you to add some jobs you actually would have added anyway is even cheaper.

Still, none of this would work without the complicity of the news media. And I’m not talking about “fake news,” as big a problem as that is becoming; I’m talking about respectable, mainstream news coverage.

Sorry, folks, but headlines that repeat Trump claims about jobs saved, without conveying the essential fakeness of those claims, are a betrayal of journalism. This is true even if, as often happens, the articles eventually, quite a few paragraphs in, get around to debunking the hype: many if not most readers will take the headline as validation of the claim.

And it’s even worse if headlines inspired by fake policy crowd out coverage of real policy.

It is, I suppose, possible that fake policy will eventually produce a media backlash — that news organizations will begin treating stunts like the Carrier episode with the ridicule they deserve. But nothing we’ve seen so far inspires optimism.

 

L’età della politica finta, di Paul Krugman

New York Times 6 gennaio 2017

Giovedì, ad una stima approssimativa, 75.000 americani sono stati messi in mobilità o licenziati dai loro datori di lavoro. Alcuni di quei lavoratori troveranno nuovi buoni posti di lavoro, ma molti finiranno col guadagnare di meno, e alcuni resteranno disoccupati per mesi o anni.

Se vi sembra una notizia terribile e vi state chiedendo quale catastrofe economica sia successa, la risposta è, nessuna. Di fatto, sto solo considerando che giovedì è stato un giorno normale nel mercato del lavoro.

Dopo tutto, l’economia degli Stati Uniti è vasta, occupa 145 milioni di persone. È anche in continuo mutamento: i settori industriali e le società sono in ascesa e vanno in crisi, e ci sono persone che ci rimettono come persone che ci guadagnano. Il risultato è una “turbolenza” costante, con molti posti di lavoro che scompaiono, anche se ne viene creato un numero ancora maggiore. In una media mensile, ci sono un milione e 500 mila posti di lavoro dai quali si viene dimessi “involontariamente” (che sono una cosa diversa dalle dimissioni volontarie), ovvero 75.000 per giorno lavorativo. Da qua il numero che ho fornito.

Ma perché ve ne sto parlando?  Per mettere in evidenza la differenza tra la reale politica economica e la politica finta che di recente sta catturando sin troppa attenzione nei media dell’informazione.

La politica reale, in un’economia così grande e ricca come l’America, riguarda grandi quantità di denaro e influenza fasce diffuse dell’apparato economico. Di sicuro avrebbe tali requisiti l’abrogazione della Legge sulla Assistenza Sostenibile, che porterebbe via centinaia di miliardi di sussidi assistenziali alle famiglie con redditi bassi e medi e farebbe perdere a 30 milioni di persone la copertura assicurativa.

Si consideri, all’opposto, il racconto che ha pervaso varie puntate nell’informazione delle settimane scorse: l’intervento di Donald Trump per bloccare il trasferimento di posti di lavoro della Carrier in Messico. Secondo alcuni resoconti sono stati salvati 800 posti di lavoro; secondo altri la società semplicemente sostituirà lavoratori con macchine. Ma anche accettando l’interpretazione più benevola, per ogni lavoratore il cui posti di lavoro fosse salvato in quell’accordo, ce ne sarebbero altri centinaia che perderebbero il loro lavoro nello stesso giorno.

In altre parole, può essere sembrato che Trump abbia fatto qualcosa di sostanziale intervenendo sulla Carrier, ma non è stato così. È stata una politica finta – un colpo di teatro destinato a impressionare i sempliciotti, non a realizzare risultati effettivi.

Lo stesso dicasi per il battage pubblicitario sulla decisione della Ford di aumentare 700 posti di lavoro in Michigan –  ma anche, del resto, la denuncia priva di fondamento di Trump alla General Motors di costruire la Chevy Cruze in Messico (quello stabilimento è principalmente al servizio dei mercati esteri, non degli Stati Uniti [1]).

Ha avuto qualcosa a che fare con la decisione della Ford, l’intervento della prossima Amministrazione? Le pressioni politiche possono cambiare la strategia della General Motors? È difficile che queste cose abbiano un peso: gli interventi caso per caso del vertice non sono mai destinati ad avere un impatto significativo su un’economia da 19 mila miliardi.

Perché, dunque, queste storie attirano tanto l’attenzione dei media?

Il vantaggio per l’Amministrazione in arrivo nell’impegnarsi in una politica finta è evidente: si tratta della naturale controparte del populismo finto. Trump si è aggiudicato il sostegno schiacciante degli elettori della classe operaia bianca, che hanno creduto stesse dalla loro parte. Tuttavia, la sua reale agenda, ad eccezione dell’incombente guerra commerciale, è la tematica ordinaria del moderno repubblicanismo: grandi sgravi fiscali per i miliardari e tagli selvaggi ai programmi pubblici, inclusi quelli essenziali per molti elettori di Trump.

Dunque, cosa può fare Trump per mantenere in vita l’imbroglio? La risposta è: interventi spettacolari ma minuscoli che possono essere interpretati come il salvataggio, dove capita, di pochi posti di lavoro. In termini sostanziali, questo non sarà mai più di un infinitesimo in una nazione gigantesca. Eppure, almeno per un po’, può ben funzionare come la strategia del Partito Repubblicano.

Si rammenti che le grandi corporazioni hanno tutto l’interesse a consentire alla manipolazione. Supponete di essere un amministratore delegato che voglia ingraziarsi la nuova Amministrazione. Una cosa che naturalmente potete fare è girare qualche affaruccio verso gli hotel e le imprese di Trump. Ma un’altra cosa è contribuire a fabbricare titoli di giornale favorevoli a Trump.

Mantenere poche centinaia di posti di lavoro in America per un paio d’anni è una forma piuttosto conveniente di contributo elettorale; fingere che la nuova Amministrazione vi abbia persuaso ad aumentare qualche posto di lavoro che in verità avreste aumentato in ogni caso, è più conveniente ancora.

Eppure, niente di tutto questo funzionerebbe senza la complicità dei media dell’informazione. E non sto parlando di “notizie false” delle dimensioni del problema che si sta annunciando; sto parlando della dignitosa, tradizionale copertura delle notizie.

Sono spiacente, signori, ma i titoli che ripetono le pretese di Trump sui posti di lavoro salvati, senza dar conto della sostanziale falsità di quelle pretese, sono un tradimento del giornalismo. È così anche se, come spesso avviene, gli articoli, di parecchi paragrafi, alla fine trovano il modo di demistificare il messaggio pubblicitario: molti lettori, se non la maggioranza, considereranno il titolo come una conferma della pretesa.

Ed è anche peggio se i titoli ispirati dalla politica finta tolgono spazio all’informazione sulla politica vera.

È possibile, suppongo, che alla fine la politica finta produca un contraccolpo sui media – che le organizzazioni dell’informazione comincino a trattare espedienti come l’episodio della Carrier con il ridicolo che meritano. Ma niente di quello che abbiamo visto sinora induce all’ottimismo.

 

 

[1]   Alle accuse di Trump, la General Motors ha risposto con questo comunicato: “La General Motors realizza la berlina Chevrolet Cruze a Lordstown, in Ohio. Tutte le Chevrolet Cruze vendute negli Stati Uniti sono costruite nell’impianto di assemblaggio di Lordstown, in Ohio. La General Motors costruisce la Chevrolet Cruze col portellone posteriore per i mercati globali in Messico, solo un piccolo numero delle quali vengono vendute negli Stati Uniti”.

 

 

 

 

 

 

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