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I leader europei dovrebbero lasciar perdere il Fiscal Compact, di Francesco Saraceno e Gustavo Piga (da Social Europe, 3 febbraio 2017)

 

3 February 2017

European Leaders Should Ditch The Fiscal Compact

by Francesco Saraceno and Gustavo Piga 

 

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The consensus that dominated macroeconomics from the 1980s, and framed the European institutions’ thinking in terms of macroeconomic governance, relegated fiscal policy to the dustbin of history. If anything, standard macroeconomic thinking relied on monetary policy to react to economic shocks. The 2008 crisis challenged this consensus, as monetary policy alone proved ineffective in counteracting the spectacular drop in economic activity. Indeed, deleveraging and private sector pessimism about the recovery led to stagnation in consumer spending that only public intervention via direct spending could compensate, as it had done in the 1930s.

Olivier Blanchard recently stated that “fiscal policy has to become a macro tool again in a major way and what amazes me is how little work there has been on fiscal policy as a macroeconomic tool since 2008”. Some things though we have learned: among others, that the size of multipliers is large during recessions, and that fiscal consolidation may have permanent negative effects. The debate on secular stagnation, revived by Larry Summers, is particularly instructive: if advanced economies face a long period of chronic demand shortage, excess savings and low interest rates, then fiscal policy activism, via public investment, should not be limited to standard Keynesian short-term stabilization, but sustained on a semi-permanent basis until full employment is restored.

This reassessment of fiscal policy is now affecting Europe: austerity is perceived (albeit discreetly) as ill-timed and counterproductive even within EU institutions, and a political debate has been taken up even among government coalition forces in Germany, as a recent interview of Sigmar Gabriel shows. The link between pro-cyclical policies, the persisting weakness of the economy, and the parallel rise of populist movements, increasingly appears as the main problem that EU policymakers face today.

Nevertheless, this still timid change of tone does not entail, as it should, a serious discussion on a coherent reform of European institutions, which still reflect the pre-crisis consensus. The Stability and Growth Pact (1997) required government budgets to be in equilibrium over the cycle, thus limiting fiscal policy to automatic stabilization and banning any active discretionary intervention on the part of governments. Paradoxically, given this straitjacket, European institutional rigidity was increased from 2011 by the gradual adoption of the Fiscal Compact. It is not surprising then that what started in 2008 as a US-generated crisis rapidly became a European-only quagmire of unemployment, deflation, stagnation and political discontent; with the result that disintegration forces are increasingly strong across the continent. The adoption of a rule like the Fiscal Compact – which no other country in the world has ever considered, and with good reason – has been untimely, unfortunate and unequivocally wrong. Its uniquely negative effects, as the experience of Italy clearly shows, lie in the perverse features whereby, even if a government is allowed to renege year after year on the promised path toward a balanced budget, it is still required, every year, to recommit to a medium term (3-4 years) adjustment toward that balance. In so doing, business expectations are negatively affected, private investment plans are postponed, and stagnation becomes a permanent feature of the economy.

Can something be done, quickly and pragmatically, to stop this abysmal state of affairs? The answer is yes. 2017 is not only the year of crucially important elections, above all in France and Germany. At the end of the year, EU governments will have to prepare for a formal decision on the fate of the Fiscal Compact. Indeed, after a five-year experience of what has been so far only an intergovernmental agreement, signed-up EU members will have to decide, by unanimous consent, whether to definitively insert the Fiscal Compact into the EU Treaty or not. If a number of important countries were to veto that move, this could set in motion a profound rethink of the appropriate fiscal policy infrastructure supporting the euro zone in future, one consistent with recent developments in macroeconomics.

2017 could therefore be the year in which EU policy-makers finally acknowledge that macroeconomic management requires a drastic shift and start reshaping institutions accordingly, adapting them to the high-level goals enshrined in article 3 of its Treaty: to aim “at full employment and social progress … while combat[ing] social exclusion and discrimination”. One can only hope that this occasion is not wasted by our leaders. There may not be many others.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I leader europei dovrebbero lasciar perdere il Fiscal Compact [1],

di Francesco Saraceno e Gustavo Piga

Il consenso che ha dominato la macroeconomia dagli anni ’80, e fatto da cornice al pensiero delle istituzioni europee in termini di modalità di governo dell’economia, ha relegato la politica della finanza pubblica nel cestino della storia. Nella reazione agli shock economici, il pensiero macroeconomico prevalente si è piuttosto basato sulla politica monetaria. La crisi del 2008 ha messo alla prova questo consenso, dato che la politica monetaria da sola si è mostrata inefficace nel contrastare la spettacolare caduta dell’attività economica. Infatti, la riduzione del rapporto di indebitamento e il pessimismo del settore privato sulla ripresa hanno portato stagnazione nella spesa dei consumatori, che solo l’intervento pubblico attraverso la spesa diretta potrebbe compensare, come fece negli anni ’30.

Olivier Blanchard ha di recente affermato che “la politica della finanza pubblica è tornata ad essere uno strumento macro in modo rilevante e quello che mi sorprende è quanto poco lavoro sia stato fatto sulla politica della finanza pubblica come strumento macroeconomico, a partire dal 2008”. Per quanto alcune cose le abbiamo apprese: tra le altre, che durante le recessioni la dimensione dei moltiplicatori è ampia, e che il consolidamento della finanza pubblica può avere permanenti effetti negativi. Il dibattito sulla stagnazione secolare, riacceso da Larry Summers, è particolarmente istruttivo: se le economie avanzate affrontano un lungo periodo di cronica insufficienza della domanda, allora l’attivismo della politica della finanza pubblica, attraverso l’investimento pubblico, non dovrebbe essere limitato alla consueta stabilizzazione keynesiana di breve periodo, ma prolungato su basi semipermanenti sinché non sia ripristinata la piena occupazione.

In questo momento, questa rivalutazione della politica della finanza pubblica sta interessando l’Europa: l’austerità è percepita (sebbene con discrezione) come inopportuna e controproducente persino all’interno delle istituzioni dell’UE, e si è sviluppato un dibattito politico persino tra le forze di coalizione del Governo tedesco, come dimostra una recente intervista di Sigmar Gabriel. Il nesso tra politiche pro-cicliche, la persistente debolezza dell’economia e la parallela ascesa di movimenti populisti, sempre di più appare come il principale problema che le autorità politiche dell’UE si trovano oggi ad affrontare.

Ciononostante, il timido cambiamento di toni non comporta, come dovrebbe, un serio dibattito su una riforma coerente delle istituzioni europee, che ancora riflettono quel consenso precedente alla crisi. Il Patto di Crescita e di Stabilità (1997) richiedeva che i bilanci dei Governi fossero in equilibrio nel corso del ciclo economico, dunque limitava la politica della finanza pubblica alla stabilizzazione automatica e metteva al bando ogni intervento attivo di natura discrezionale da parte dei Governi. Paradossalmente, data questa camicia di forza, la rigidità istituzionale europea è stata accresciuta a partire dal 2001, con la graduale adozione del Fiscal Compact. Non è sorprendente dunque che quella che era cominciata come una crisi generata dagli Stati Uniti sia diventato un pantano di disoccupazione, deflazione, stagnazione e malcontento soltanto europeo; con il risultato che forze disgregatrici si stanno sempre più rafforzando in tutto il continente. La adozione di una regola come il Fiscal Compact – che nessun altro paese al mondo ha mai preso in considerazione, a buona ragione – è stata prematura, infelice e inequivocabilmente sbagliata. I suoi effetti esclusivamente negativi, come l’esperienza dell’Italia chiaramente dimostra, si basano su caratteristiche perverse per effetto delle quali, anche se ad un Governo è consentito di sottrarsi un anno dopo l’altro all’indirizzo di un equilibrio di bilancio che viene annunciato, viene tuttavia richiesto, ogni anno, di reimpegnarsi ad una correzione di medio termine (3-4 anni) verso tale equilibrio. Così facendo, le aspettative delle imprese sono influenzate negativamente, i programmi di investimento privato sono rinviati e la stagnazione diventa una caratteristica permanente dell’economia.

Si può fare qualcosa, in modo rapido e pragmatico, per interrompere questa orrenda condizione?  È possibile. Il 2017 non è soltanto l’anno di elezioni di fondamentale importanza, soprattutto in Francia e in Germania. Alla fine dell’anno i Governi dell’UE dovranno predisporre una decisione formale sul destino del Fiscal Compact. Infatti, dopo una esperienza di cinque anni di quello che sinora è stato soltanto un accordo intergovernativo, i membri firmatari dell’Unione Europea dovranno decidere, con un consenso unanime, se inserire o meno il Fiscal Compact all’interno del Trattato dell’Unione in modo definitivo. Se un certo numero di paesi importanti dovesse porre un veto a quella scelta, questo potrebbe mettere in moto un profondo ripensamento sulla appropriata struttura di una politica di finanza pubblica che sostenga nel futuro l’eurozona, che sia coerente con i recenti sviluppi della ricerca macroeconomica.

Il 2017 potrebbe di conseguenza essere l’anno nel quale le autorità dell’Unione Europea finalmente riconoscano che la gestione macroeconomica richiede un mutamento drastico e comincino a rimodellare su tale base le istituzioni, adattandole agli elevati obbiettivi racchiusi nell’articolo 3 del suo Trattato: per puntare “alla piena occupazione e al progresso sociale … combattendo altresì l’esclusione e la discriminazione sociale”. Si può solo sperare che questa occasione non sia sciupata dai nostri leader. Potrebbero non essercene molte altre.

 

 

 

[1] Si può tradurre semplicemente con “Accordo di finanza pubblica”.

 

 

 

 

 

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