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Trump, il multilateralista riluttante, di Barry Eichengreen (da Project Syndicate, 15 febbraio 2017)

 

FEB 15, 2017

Trump the Reluctant Multilateralist

BARRY EICHENGREEN

 

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FLORENCE – Donald Trump did not assume the US presidency as a committed multilateralist. On that, partisans of all political persuasions can agree. Among his most controversial campaign statements were some suggesting that NATO was obsolete, a position that bodes ill for his attitude to other multilateral organizations and alliances.

Last week, however, Trump stepped back, reassuring an audience at US Central Command in Tampa, Florida (the headquarters for US forces that operate in the Middle East). “We strongly support NATO,” he declared, explaining that his “issue” with the Alliance was one of full and proper financial contributions from all members, not fundamental security arrangements.

This more nuanced view presumably reflects a new appreciation, whether born of security briefings or the sobering fact of actually occupying the Oval Office, that the world is a dangerous place. Even a president committed to putting “America first” now seems to recognize that a framework through which countries can pursue shared goals is not a bad thing.

The question now is whether what is true for NATO is also true for the International Monetary Fund, the World Bank, the World Trade Organization, and the Basel Committee on Banking Supervision. Trump’s record on the campaign trail and Twitter is not heartening. Back in 2012, he tweeted criticism of the World Bank for “tying poverty to ‘climate change’” (his quotation marks). “And we wonder why international organizations are ineffective,” he complained.

Likewise, last July, he mooted the possibility that the United States might withdraw from the WTO if it constrained his ability to impose tariffs. And he vowed repeatedly during the presidential campaign to withdraw from the Paris climate agreement. But the evolution of Trump’s position on NATO suggests that he may yet see merit to working through these organizations as he comes to recognize that the world economy, too, is a dangerous place.

Following the election, Trump acknowledged having an open mind on the Paris climate agreement. His position seemed less to deny the existence of global warming than to insist that policies mitigating climate change not impose an unreasonable burden on American companies.

The way to limit the competitive burden on US producers is, of course, by ensuring that other countries also require their companies to take steps to mitigate climate change, thereby keeping the playing field level. And this is precisely what the Paris agreement is about.

The same can be said of the Basel Committee’s standards for capital adequacy. Holding more capital is not costless for US banks, as advisers like Gary Cohn, formerly of Goldman Sachs and now the head of Trump’s National Economic Council, presumably tell the president morning, noon, and night. Leveling the playing field in this area means requiring foreign banks also to hold more capital, which is precisely the point of the Basel process.

Trump may similarly come to appreciate the advantages of working through the IMF when a crisis erupts in Venezuela, or in Mexico as a result of his own policies. In 1995, the US Treasury extended financial assistance to Mexico through the Exchange Stabilization Fund. In 2008, the Federal Reserve provided Brazil with a $30 billion swap line to help it navigate the global financial crisis. But imagine the outrage with which Trump’s supporters would greet a “taxpayer bailout” of a foreign country or Mexican officials’ anger over having to secure assistance from the same Trump administration responsible for their country’s ills. Both sides would surely prefer working through the IMF.

Trump can’t be pleased that the Obama administration rushed to push through the reappointment of its chosen World Bank president, Jim Yong Kim. But he clearly recognizes the benefits of development aid. While he has said that the US should “stop sending foreign aid to countries that hate us,” he has also observed that failure to help poor countries can foment instability.

This would appear to be an area where Trump will favor bilateral action, which would enable him to assuage his conservative critics by insisting that no US funds go toward family planning, while taking credit for any and all assistance. At the same time, minimizing the role of the US in the World Bank would create a vacuum to be filled by China, Trump’s bête noire, both in that institution and through the activities of the Chinese-led Asian Infrastructure Investment Bank.

The real test of Trump’s stance on multilateralism will be how he approaches the WTO. Persuading the US Congress to agree on corporate and personal income-tax reform, a $1 trillion infrastructure initiative, and a replacement for Obama’s signature health-care reform won’t be easy, to say the least. Doing so will require patience, which is not Trump’s strong suit. This suggests that he will feel pressured to do what he can unilaterally.

One thing he can do unilaterally is slap duties on imports, potentially in violation of WTO rules. We’ll soon find out whether those rules will deter him.

 

Trump, il multilateralista riluttante,

di Barry Eichengreen

FIRENZE – Donald Trump non ha assunto la Presidenza degli Stati Uniti come un convinto multilateralista. Su questo, possono convenire i sostenitori di tutte le opinioni politiche. Tra le sue affermazioni elettorali più controverse ce se sono state alcune che indicavano la NATO come qualcosa di sorpassato, una posizione che non ha fatto ben presagire sulla sua attitudine verso le altre organizzazioni e alleanze multilaterali.

La scorsa settimana, tuttavia, Trump ha fatto un passo indietro, rassicurando un pubblico presso il Comando Centrale degli Stati Uniti a Tampa, in Florida (il quartier generale delle forze armate statunitensi che operano nel Medio Oriente). “Noi sosteniamo fortemente la NATO”, ha dichiarato, spiegando che il suo “argomento” sull’alleanza era stato quello di un pieno e appropriato contributo da parte di tutti i membri, e non riguardava soluzioni strategiche sulla sicurezza.

Questo punto di vista più sfumato presumibilmente riflette un diverso apprezzamento sulla circostanza che il mondo è un luogo pieno di pericoli, affermatosi a seguito dei colloqui sulla sicurezza oppure del semplice fatto, che di per sé comporta riflessione, di essersi effettivamente insediato nello Studio Ovale. Persino un Presidente impegnato a collocare l’America “al primo posto”, ora sembra riconoscere che un modello attraverso il quale i paesi possano perseguire obbiettivi condivisi non è una cosa negativa.

La domanda ora è se quello che è vero per la NATO è anche vero per il Fondo Monetario Internazionale, per la Banca Mondiale, per l’Organizzazione Mondiale per il Commercio e per il Comitato di Supervisione Bancaria di Basilea. Le prestazioni di Trump durante il percorso elettorale e su Twitter non sono entusiasmanti. Nel 2012 aveva twittato le sue critiche sulla Banca Mondiale per “tener collegata la povertà al ‘cambiamento climatico’” (le virgolette sono sue). “E ci chiediamo perché le organizzazioni internazionali sono inefficaci”, aveva protestato.

Nello stesso modo, nel luglio scorso, aveva discusso la possibilità che gli Stati Uniti potessero ritirarsi dalla Organizzazione Mondiale del Commercio, se essa avesse posto limiti alla loro capacità di imporre tariffe. E durante la campagna presidenziale aveva ripetutamente promesso di venir fuori dall’accordo di Parigi sul clima. Ma l’evoluzione della posizione di Trump sulla NATO indica che egli può ancora riconoscere il valore di lavorare attraverso queste organizzazioni nel momento in cui giunge a considerare che anche l’economia del mondo è un luogo pericoloso.

Dopo l’elezione, Trump ha riconosciuto di avere un atteggiamento aperto sull’accordo sul clima di Parigi. La sua posizione è sembrata non tanto negare l’esistenza del riscaldamento globale, quanto insistere che le politiche di attenuazione del cambiamento climatico non impongano un peso irragionevole sulle società americane.

Il modo per limitare un gravame sulla competitività dei produttori americani è, ovviamente, garantire che anche gli altri paesi richiedano alle loro imprese di fare passi per mitigare il cambiamento del clima, di conseguenza agendo per regole di gioco eque. E questo è precisamente ciò di cui l’accordo di Parigi si occupa.

Lo stesso può dirsi a proposito dei criteri di adeguamento dei capitali del Comitato di Basilea. Detenere maggiori capitali non è senza costi per le banche degli Stati Uniti, come presumibilmente consiglieri come Gary Cohn, in passato alla Goldman Sachs e oggi a capo del Consiglio Economico Nazionale di Trump, ricordano al Presidente al mattino, a mezzodì e di notte. Avere regole eque di gioco in questo settore significa richiedere che anche le banche straniere detengano maggiori capitali, il che è precisamente il tema delle procedure di Basilea.

In modo analogo, Trump potrebbe giungere ad apprezzare i vantaggi di operare attraverso il FMI se una crisi scoppiasse in Venezuela, o nel Messico, come conseguenza delle sue stesse politiche. Nel 1995 il Tesoro americano estese l’assistenza finanziaria al Messico attraverso il Fondo di Stabilizzazione dei Cambi. Nel 2008, la Federal Reserve fornì al Brasile 30 miliardi di dollari di linea swap [1] per aiutare quel paese a farsi strada nella crisi finanziaria globale. Ma si immagini lo scandalo con i quale i sostenitori di Trump accoglierebbero un “salvataggio a carico dei contribuenti” di un paese straniero, oppure l’ira dei dirigenti messicani per doversi assicurare assistenza da parte della Amministrazione Trump, responsabile dei guai del loro paese. Entrambi gli schieramenti sicuramente preferirebbero lavorare attraverso il FMI.

A Trump può non esser piaciuto che l’Amministrazione Obama abbia fatto approvare in fretta e furia la rinomina del Presidente a lui gradito alla Banca Mondiale, Jim Yong Kim [2]. Ma egli riconosce senza dubbio i benefici degli aiuti allo sviluppo.  Seppure ha affermato che gli Stati Uniti dovrebbero “smetterla di spedire aiuti a paesi che ci odiano”, ha anche osservato che non riuscire ad aiutare i paesi poveri può fomentare l’instabilità.

Questo sembrerebbe essere un settore nel quale Trump potrebbe favorire l’iniziativa bilaterale, che gli consentirebbe di placare i suoi critici conservatori ribadendo che nessun finanziamento degli Stati Uniti vada alla pianificazione familiare, al contempo prendendosi il merito per ogni genere di assistenza. Nello stesso tempo, minimizzare il ruolo degli Stati Uniti nella Banca Mondiale creerebbe un vuoto che sarebbe riempito alla Cina, la bestia nera di Trump, sia in quell’istituto che attraverso le attività della Banca Asiatica per gli Investimenti nelle Infrastrutture guidata dai cinesi.

Il test effettivo della posizione di Trump sul multilateralismo sarà il modo in cui si misurerà con l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Convincere il Congresso a concordare con la riforma della tassa sulle società e sui redditi individuali, con una iniziativa infrastrutturale per mille miliardi di dollari e per l’abrogazione della riforma distintiva della Presidenza Obama sulla assistenza sanitaria, non saranno cose facili, per dire il minimo. Farlo richiederà pazienza, che non è l’attitudine migliore di Trump. Questo suggerisce che si sentirà spinto a fare quello che può fare in modo unilaterale.

Una cosa che può fare unilateralmente è dare un colpo alle imposte sulle importazioni, in violazione potenziale delle regole della Organizzazione Mondiale del Commercio. Scopriremo presto se quelle regole lo scoraggeranno.

 

 

 

[1] Lo swap, nella finanza, appartiene alla categoria degli strumenti derivati, e consiste nello scambio di flussi di cassa tra due controparti. Va annoverato come uno dei più moderni strumenti di copertura dei rischi utilizzato prevalentemente dalle banche, dalle imprese e anche dagli enti pubblici. Esso si presenta come un contratto nominato (ma atipico in quanto privo di disciplina legislativa), a termine, consensuale, oneroso e aleatorio.

Per esempio, un soggetto A può acquistare un’obbligazione a tasso variabile e corrispondere gli interessi che percepisce a un soggetto BB, a sua volta, acquista un bond a tasso fisso, percepisce gli interessi variabili di A e gli gira gli interessi a tasso fisso. Questa struttura (chiamata IRS, cioè interest rate swap) può essere utile per immunizzarsi da fluttuazioni di mercato o gestire fondi comuni (con la strategia CPPI). Nell’accordo di swap vengono stabilite le date in cui i pagamenti verranno effettuati e il modo in cui saranno calcolati.

(Wikipedia)

[2] Ne luglio del 2012, Jim Yong Kim venne nominato Presidente della Banca Mondiale su proposta di Obama. È un medico originario della Corea del Sud, ma dall’età di 5 anni cittadino americano.

 

 

 

 

 

 

 

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