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Trump comincia ad aver fifa sul commercio, di Paul Krugman (New York Times 3 aprile 2017)

 

Trump Is Wimping Out on Trade

Paul Krugman APRIL 3, 2017

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During the campaign, Donald Trump talked loudly and often about how he was going to renegotiate America’s “horrible trade deals,” bringing back millions of good jobs. So far, however, nothing has happened. Not only is Trumpist trade policy — Trumptrade? — nowhere to be seen in practice; there isn’t even any indication of what it will involve.

So on Friday the White House scheduled a ceremony in which Mr. Trump would sign two new executive orders on trade. The goal, presumably, was to counteract the growing impression that his bombast on trade was sound and fury signifying nothing.

Unfortunately, the executive orders in question were, to use the technical term, nothingburgers. One called for a report on the causes of the trade deficit; wait, they’re just starting to study the issue? The other addressed some minor issues of tariff collection, and its content apparently duplicated an act President Obama already signed last year.

Not surprisingly, reporters at the event questioned the president, not about trade, but about Michael Flynn and the Russia connection. Mr. Trump then walked out of the room — without signing the orders. (Vice President Mike Pence gathered them up, and the White House claims that they were signed later.)

The fiasco perfectly encapsulated what’s looking more and more like a failed agenda.

Business seems to have decided that Mr. Trump is a paper tiger on trade: The flow of corporate relocations to Mexico, which slowed briefly while C.E.O.s tried to curry favor with the new president, has resumed. Trade policy by tweet, it appears, has run its course.

Investors seem to have reached the same conclusion: The Mexican peso plunged 16 percent after the election, but since Inauguration Day it has recovered almost all the lost ground.

Oh, and last week a draft proposal for revising the North American Free Trade Agreement circulated around Congress; instead of sweeping changes in what candidate Trump called the “worst trade deal” ever signed, the administration appears to be seeking only modest tweaks.

This surely isn’t what working-class Trump supporters thought they were voting for. So why can Trumpist trade policy be summarized — to quote The Times’s Binyamin Appelbaum — as “talk loudly and carry a small stick”? Let me give two reasons.

First, back when Mr. Trump was railing against trade deals, he had no idea what he was talking about. (I know, you’re shocked to hear that.)

For example, listening to the Tweeter-in-chief, you’d think that Nafta was a big giveaway by the United States, which got nothing in return. In fact, Mexico drastically cut its tariffs on goods imported from the U.S., in return for much smaller cuts on the U.S. side.

Or take Mr. Trump’s repeated claims that China gains a competitive advantage by manipulating its currency. That was true six years ago, but it’s not true now. These days China is actually intervening to keep its currency up, not down.

Talking nonsense about trade didn’t hurt Mr. Trump during the campaign. But now he’s finding out that those grossly unfair trade deals he promised to renegotiate aren’t all that unfair, after all, leaving him with no idea what to do next.

Which brings me to Trumptrade’s second big obstacle: Whatever you think of past trade agreements, trade is now deeply embedded in the economy.

Consider the case of automobiles. At this point it makes little sense to talk about a U.S. auto industry, a Canadian auto industry or a Mexican auto industry. What we have instead is a tightly integrated North American industry, in which vehicles and components crisscross the continent, with almost every finished car containing components from all three nations.

Does it have to be this way? No. Slap on 30 percent tariffs, and after a few years those national industries would separate again. But the transition would be chaotic and painful.

Economists talk, with considerable justification, about the “China shock”: the disruptive effect on jobs and communities of the rapid growth of Chinese exports from the 1990s through 2007. But reversing globalization now would produce an equally painful “Trump shock,” disrupting jobs and communities all over again — and would also be painful for some of the big corporate interests that, strange to say, have a lot of influence in this supposedly populist regime.

The point is that at a deep level Trumptrade is running into the same wall that caused Trumpcare to crash and burn. Mr. Trump came into office talking big, sure that his predecessors had messed everything up and he — he alone — could do far better. And millions of voters believed him.

But governing America isn’t like reality TV. A few weeks ago Mr. Trump whined, “Nobody knew that health care could be so complicated.” Now, one suspects, he’s saying the same thing about trade policy.

 

Trump comincia ad aver fifa sul commercio, di Paul Krugman

New York Times 3 aprile 2017

Durante la campagna elettorale, Donald Trump aveva parlato con veemenza e frequentemente di come avesse intenzione di rinegoziare i “terribili accordi commerciali” dell’America, riportando in patria milioni di buoni posti di lavoro. Sinora, tuttavia, non è successo niente. Non si tratta soltanto del fatto che la politica del commercio di Trump – la vogliamo chiamare Trumptrade? – in pratica non si vede da nessuna parte; non c’è neppure alcuna indicazione di che cosa dovrebbe riguardare.

Cosicché venerdì la Casa Bianca aveva messo in programma una cerimonia nella quale Trump avrebbe firmato due nuovi ordini esecutivi sul commercio. Probabilmente, l’obbiettivo era contrastar la crescente impressione che la sua magniloquenza su commercio fossero spacconate senza significato.

Sfortunatamente, per usare un termine ‘tecnico’, gli ordini esecutivi in questione erano come due fette di pane senza companatico. Uno chiedeva una relazione sulle cause del deficit commerciale; voleva forse dire che stavano solo cominciando a studiare la materia? L’altro si rivolgeva ad alcuni aspetti secondari della raccolta delle tariffe, e il suo contenuto in apparenza ricopiava un atto del Presidente Obama già firmato l’anno scorso.

Non è stato sorprendente che i giornalisti presenti all’evento abbiano rivolto domande al Presidente, non sul commercio, ma su Michael Flynn s sulla ‘connection’ russa. A quel punto Trump se ne uscito dalla stanza – senza firmare gli ordini (il Vicepresidente Mike Pence li ha raccolti e la Casa Bianca sostiene che siano stati firmati successivamente).

Il fiasco ha sintetizzato perfettamente quella che sembra sempre di più una agenda fallita.

Le imprese sembra che abbiano deciso che sul commercio Trump è una tigre di carta: il flusso dei trasferimenti delle società verso il Messico, che era rallentato per un momento nel mentre gli amministratori delegati cercavano di entrare nelle grazie del nuovo Presidente, è ripreso. A quanto sembra, la politica commerciale a colpi di tweet ha fatto il suo corso.

Gli investitori sembrano essere arrivati alla stessa conclusione: il peso messicano era caduto del 16 per cento dopo le elezioni, ma dal Giorno dell’Inaugurazione ha recuperato quasi tutto il terreno perduto.

Infine, la scorsa settimana una bozza di proposta per una revisione dell’Accordo Commerciale Nordamericano sul Libero Commercio (NAFTA) ha circolato per il Congresso; anziché cambiamenti che facevano piazza pulita di quello che il candidato Trump aveva definito il “peggior accordo commerciale” mai siglato, l’Amministrazione sembra stia cercando solo modesti aggiustamenti.

Questo sicuramente non è quello che i sostenitori di Trump tra i lavoratori pensavano di aver votato. Perché dunque la politica di Trump sul commercio può essere sintetizzata – per citare Binyamin Appelbaum su The Times – come un “parlare rumorosamente portandosi appresso un piccolo bastone”? Consentitemi di fornire due ragioni.

La prima, quando nel passato il signor Trump inveiva contro gli accordi commerciali, non aveva idea di cosa stesse parlando (capisco che sentirlo dire faccia impressione).

Ad esempio, ascoltando il ‘twittatore in capo’, potevate pensare che il NAFTA fosse un grande regalo da parte degli Stati Uniti, che in cambio non ottenevano niente. Di fatto, il Messico ha tagliato drasticamente le sue tariffe sui beni importati dagli Stati Uniti, in cambio di tagli molto minori sul versante americano.

Oppure si considerino le ripetute affermazioni di Trump sul fatto che la Cina otterrebbe un vantaggio competitivo attraverso la manipolazione della sua valuta. Questo era vero sei anni orsono, ma oggi non è più vero. Oggi per la verità la Cina sta intervenendo per tenere alta la sua valuta, non per abbassarla.

Dire cose insensate sul commercio non ha provocato danni a Trump durante la campagna elettorale. Ma oggi egli sta scoprendo che quegli accordi commerciali esageratamente ingiusti non erano poi, dopo tutto, così ingiusti, lasciandolo senza alcuna idea su cosa fare successivamente.

Il che mi porta al secondo grande ostacolo della politica commerciale di Trump: qualsiasi cosa si pensi degli accordi commerciali passati, il commercio è adesso profondamente integrato nell’economia.

Si consideri il caso delle automobili. A questo punto ha poco senso parlare di un’industria automobilistica degli Stati Uniti, del Canada o del Messico. Siamo piuttosto strettamente integrati in un’industria nordamericana dell’automobile, nella quale i veicoli e le componenti vanno e vengono per il continente, con quasi tutte le macchine finite che contengono componenti delle tre nazioni.

Non ci sono alternative? Ci sono. Date una botta del 30 per cento alle tariffe e dopo pochi anni quelle industrie nazionali tornerebbero ad essere separate. Ma la transizione sarebbe caotica e dolorosa.

Gli economisti parlano, con rilevante fondamento, dello “shock cinese”: l’effetto dirompente sui posti di lavoro e sulle comunità locali della rapida crescita delle esportazioni cinesi dagli anni ’90 al 2007. Ma invertire la globalizzazione adesso produrrebbe uno “shock di Trump” egualmente doloroso, disarticolando completamente un’altra volta posti di lavoro e comunità locali – il che sarebbe anche doloroso per alcuni interessi delle grandi società che, strano a dirsi, hanno molta influenza in questo sedicente regime populista.

Il punto è che la politica del commercio di Trump sta andando a sbattere sullo stesso muro che ha provocato il disastro della sua politica della assistenza sanitaria. Trump è divenuto Presidente facendo la voce grossa, nella certezza che i suoi predecessori avessero messo tutto a soqquadro e che lui – lui da solo – avrebbe potuto far meglio. E milioni di elettori gli hanno creduto.

Ma governare l’America non è uno spettacolo televisivo. Poche settimane fa Trump si è lamentato affermando che “nessuno sapeva che l’assistenza sanitaria potesse essere così complicata”. Si può supporre che adesso stia dicendo lo stesso per la politica commerciale.

 

 

 

 

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