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I salari della paura salariale, di Bill Emmott (da Project Syndicate, 10 maggio 2017)

 

MAY 10, 2017 14

The Wages of Wage Fear

By Bill Emmot 

 

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LONDON – If all else fails, try the previously unthinkable. It is not a bad principle for economic policy in the best of times. Today, it may be just what is needed: many Western countries – certainly the United States, Japan, and Germany, probably the United Kingdom, and soon much of the rest of the eurozone – should pursue direct government intervention in wage bargaining, especially for the lowest earners.

Japan has spent the last 15 years struggling with slow growth, anemic household demand (especially among poorer families), and rising inequality and poverty. Similar conditions now prevail in the US as well; indeed, they helped Donald Trump to be elected president, by creating a sufficiently large group of what he quite reasonably called “forgotten Americans.” And before Trump’s victory, such conditions spurred the UK’s so-called “left behind” to vote for Brexit.

Without a sharp increase in wages – mainly statutory minimum wages – populism will continue to thrive, and most Western economies will remain saddled with slow growth. Inequality not just of income and wealth, but also of perceived political voice and influence, will continue to grow. And the temptation to pursue shortsighted solutions – such as closing borders and implementing protectionism – will become irresistible.

Yet the suggestion that governments should act directly to raise the price of lower-skilled labor is likely to be met with sharp intakes of breath and sotto voce comments that I must be mad. Don’t I know that higher minimum wages risk causing unemployment? Haven’t I heard of the “rise of the robots” and the growing power of automation, more generally, to destroy jobs? Don’t I believe in market solutions?

The answer to all three questions is “yes.” But policies need to be tailored to conditions, and they need to reflect choices between the competing interests of different groups. (Indeed, that is the whole point of politics.) And current conditions, together with the interests of the “left behind,” indicate that the once-unthinkable has become essential, if not inevitable.

The main reason why governments are leery of intervening in wage setting is the memory of the failed wage and price controls during the period of high inflation in the 1970s – controls that gave rise to large and troublesome distortions. But a second, more current reason relates to lobbying from businesses, which argue that corporate competitiveness depends on cheap labor. Governments also have their own self-interest to consider: the public sector often employs a lot of minimum-wage earners.

But it is time to take courage. Fiscal policy – cutting taxes or raising public spending – is too constrained by high government debt to be much use in stimulating demand, and attempts to use it to redistribute resources from rich to poor have created their own problems. Monetary policy – in particular, the vast money-printing “quantitative easing” programs pursued by central banks in recent years – has run out of space, too, with price inflation ticking up and central-bank balance sheets a record size. Wage intervention is virtually the only option left.

Moreover, the risks of raising the minimum wage are probably not as great as they have been made out to be – at least not now. To be sure, there are times when such wage increases can risk killing employment. But today is not one of those times: countries like the US, Japan, Germany, and the UK are at virtually full employment.

The risk in these countries is not the risk of rising unemployment, but stagnating wages, which has caused household demand to remain depressed or grow only sluggishly, thereby deterring businesses from investing. In the US, low wages at the bottom end of the labor market have discouraged millions of working-age individuals from even seeking employment. That certainly can help to reduce the official unemployment rate, but it does little for the economy.

The US federal minimum wage of $7.25 per hour is one-third lower in real (inflation-adjusted) terms than it was at its peak in 1968. Japan’s average statutory minimum wage of ¥823 ($7.40) per hour is barely higher. Even where the authorities have taken steps to raise minimum wages – the UK since last year, as well as US states like California and New York, which are targeting a $15 hourly minimum wage by 2020 – they are not moving fast or far enough. Japan is raising its minimum wage only slightly faster than inflation.

Inequality remains the scourge of our era, with the bargaining power of the lowest-skilled workers severely undermined by automation and developing-country competition. If “forgotten” groups are not to be permanently left behind and alienated, governments must take bolder action.

In the 1960s, Japan’s “income doubling” plan helped it to develop a consumer economy. Perhaps the time has come to introduce a “minimum-wage doubling” plan, implemented over a few years, thus giving business the chance to adjust. For leaders who have received the financial support of the very rich and the electoral support of those left behind, such a plan would seem to be a political winner. Any interest, President Trump?

 

I salari della paura salariale,

di Bill Emmott

LONDRA – Se tutto il resto non funziona, prova con quello che sinora era impensabile. Il più delle volte, non è un cattivo principio per la politica economica. Oggi, potrebbe essere quello che serve: molti paesi occidentali – sicuramente gli Stati Uniti, il Giappone e la Germania, probabilmente il Regno Unito, e presto gran parte della restante eurozona – dovrebbero proporsi l’intervento diretto dei Governi nella contrattazione salariale, in particolare per i percettori dei redditi più bassi.

Il Giappone ha passato gli ultimi 15 anni combattendo con la crescita lenta, una domanda anemica delle famiglie (specialmente le più povere) ed una crescente ineguaglianza e povertà. Condizioni simili ora prevalgono anche negli Stati Uniti; in effetti, hanno contribuito alla elezione di Donald Trump come Presidente, creando un gruppo sufficientemente ampio di quelli che vengono abbastanza ragionevolmente chiamati “gli americani dimenticati”. E, prima della vittoria di Trump, tali condizioni hanno spinto i cosiddetti “abbandonati” del Regno Unito a votare per la Brexit.

Senza un netto aumento dei salari – principalmente dei minimi salariali previsti dalle leggi – il populismo continuerà a prosperare, e la maggioranza delle economie occidentali resterà alle prese con la crescita lenta. L’ineguaglianza non solo dei redditi e della ricchezza, ma anche della voce e dell’influenza politica come vengono percepite, continueranno a crescere. E la tentazione di perseguire soluzioni miopi – quali la chiusura delle frontiere e la messa in atto del protezionismo – diventerà irresistibile.

Tuttavia, l’indicazione che i Governi dovrebbero assumere direttamente l’iniziativa di elevare il prezzo del lavoro con le competenze più basse è probabile sia accolta con netti respiri profondi e commenti sussurrati sulla mia probabile follia. Non sono al corrente che minimi salariali più elevati rischiano di provocare disoccupazione? Non ho sentito parlare, più in generale, della “ascesa dei robot” e del potere crescente dell’automazione nel distruggere posti di lavoro? Non credo nelle soluzioni del mercato?

La risposta a tutte e tre queste domande è “sì”. Ma le politiche devono essere fatte su misura delle condizioni, e devono riflettere le scelte tra gli interessi in competizione dei vari gruppi (in effetti, questa è la sostanza della politica). E le attuali condizioni, assieme agli interessi di coloro che sono stati lasciati indietro, indicano che quello che un tempo era impensabile è diventato essenziale, se non inevitabile.

La principale ragione per la quale i Governi sono così restii ad intervenire nella definizione dei salari è la memoria dei falliti controlli sui salari e sui prezzi durante il periodo di alta inflazione negli anni ’70 – controlli che portarono ad ampie e difficili distorsioni. Ma una seconda, più attuale ragione si riferisce all’attività lobbistica delle imprese, che sostiene che la competitività delle società dipende dal lavoro a basso prezzo. Anche i Governi hanno il loro proprio interesse nel tenerne conto: il settore pubblico spesso impiega grandi quantità di percettori di redditi minimi.

Ma è tempo di prendere coraggio. La politica della finanza pubblica – tagliare le tasse o accrescere la spesa pubblica – è troppo condizionata dagli alti debiti pubblici per essere molto usata nello stimolare la domanda, e i tentativi di usarla per redistribuire le risorse dai ricchi ai poveri hanno creato i loro problemi. Anche la politica monetaria – in particolare l’ampia creazione di moneta dei programmi di “facilitazione quantitativa” perseguita dalle banche centrali negli anni recenti – ha esaurito i suoi margini, con variazioni minime nell’inflazione dei prezzi e gli equilibri patrimoniali delle banche centrali a livelli record. L’intervento sui salari è praticamente l’unica opzione rimasta.

Inoltre, i rischi dell’elevare i minimi salariali non sono probabilmente così grandi come si è fatto credere – almeno non adesso. Di sicuro, ci sono epoche nelle quali tali incrementi salariali possono rischiare di distruggere occupazione. Ma questo non è uno di quei periodi: paesi come gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania e il Regno Unito sono praticamente in condizioni di piena occupazione.

Il rischio in questi paesi non è quello di aumentare la disoccupazione, è quello di far ristagnare i salari, che ha costretto la domanda delle famiglie a restare depressa o a crescere solo in modo fiacco, e di conseguenza di distrarre le imprese dagli investimenti. Negli Stati Uniti, i bassi salari nell’estremità più sfavorita del mercato del lavoro ha scoraggiato milioni di persone in età di lavoro persino dal cercarlo. Certamente questo può contribuire a ridurre il tasso ufficiale di disoccupazione, ma è poco utile per l’economia.

Il salario minimo federale degli Stati Uniti di 7,25 dollari all’ora è di un terzo più basso in termini reali (corretto per l’inflazione) di quello che era al suo punto più alto nel 1968. La media giapponese del salario minimo di legge di 823 yen all’ora (7,40 dollari) è appena più alta. Anche dove le autorità hanno compiuto passi per elevare i minimi salariali – nel Regno Unito dall’anno passato, come in Stati quali la California e New York negli Stati Uniti, che si danno un obbiettivo di 15 dollari all’ora di minimo salariale per il 2020 – essi non si stanno muovendo rapidamente o abbastanza rapidamente. Il Giappone sta aumentando il suo minimo salariale solo in modo leggermente più veloce dell’inflazione.

L’ineguaglianza resta il flagello della nostra epoca, con il potere contrattuale dei lavoratori con le competenze più basse gravemente messo a repentaglio dall’automazione e dalla competizione dei paesi in via di sviluppo. Se i gruppi sociali “dimenticati” non devono essere lasciati indietro ed estraniati in permanenza, i Governi debbono intraprendere iniziative più coraggiose.

Negli anni ’60, il programma del Giappone di “raddoppiare il reddito” contribuì a sviluppare un’economia di consumatori. Forse è venuto il tempo di far proprio un programma di “raddoppio dei minimi salariali”, da realizzare nel corso di pochi anni, dando quindi alle imprese la possibilità di adeguarsi. Per i leader che hanno ricevuto il sostegno finanziario dei più ricchi e il sostegno elettorale di coloro che sono stati lasciati indietro, un pieno simile sembrerebbe essere politicamente vincente. Le interessa, Presidente Trump?

 

 

 

 

 

 

 

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