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Qual’è il problema in Trumplandia? Di Paul Krugman (New York Times 2 aprile 2018)

 

April 2, 2018

What’s the Matter With Trumpland?

By Paul Krugman

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These days almost everyone has the (justified) sense that America is coming apart at the seams. But this isn’t a new story, or just about politics. Things have been falling apart on multiple fronts since the 1970s: Political polarization has marched side by side with economic polarization, as income inequality has soared.

And both political and economic polarization have a strong geographic dimension. On the economic side, some parts of America, mainly big coastal cities, have been getting much richer, but other parts have been left behind. On the political side, the thriving regions by and large voted for Hillary Clinton, while the lagging regions voted for Donald Trump.

I’m not saying that everything is great in coastal cities: Many people remain economically stranded even within metropolitan areas that look successful in the aggregate. And soaring housing costs, thanks in large part to Nimbyism, are a real and growing problem. Still, regional economic divergence is real and correlates closely, though not perfectly, with political divergence.

But what’s behind this divergence? What’s the matter with Trumpland?

Regional disparities aren’t a new phenomenon in America. Indeed, before World War II the world’s richest, most productive nation was also a nation with millions of dirt-poor farmers, many of whom didn’t even have electricity or indoor plumbing. But until the 1970s those disparities were rapidly narrowing.

Take, for example, the case of Mississippi, America’s poorest state. In the 1930s, per-capita income in Mississippi was only 30 percent as high as per-capita income in Massachusetts. By the late 1970s, however, that figure was almost 70 percent — and most people probably expected this process of convergence to continue.

But the process went into reverse instead: These days, Mississippi is back down to only about 55 percent of Massachusetts income. To put this in international perspective, Mississippi now is about as poor relative to the coastal states as Sicily is relative to northern Italy.

Mississippi isn’t an isolated case. As a new paper by Austin, Glaeser and Summers documents, regional convergence in per-capita incomes has stopped dead. And the relative economic decline of lagging regions has been accompanied by growing social problems: a rising share of prime-aged men not working, rising mortality, high levels of opioid consumption.

An aside: One implication of these developments is that William Julius Wilson was right. Wilson famously argued that the social ills of the nonwhite inner-city poor had their origin not in some mysterious flaws of African-American culture but in economic factors — specifically, the disappearance of good blue-collar jobs. Sure enough, when rural whites faced a similar loss of economic opportunity, they experienced a similar social unraveling.

So what is the matter with Trumpland?

For the most part I’m in agreement with Berkeley’s Enrico Moretti, whose 2012 book, “The New Geography of Jobs,” is must reading for anyone trying to understand the state of America. Moretti argues that structural changes in the economy have favored industries that employ highly educated workers — and that these industries do best in locations where there are already a lot of these workers. As a result, these regions are experiencing a virtuous circle of growth: Their knowledge-intensive industries prosper, drawing in even more educated workers, which reinforces their advantage.

And at the same time, regions that started with a poorly educated work force are in a downward spiral, both because they’re stuck with the wrong industries and because they’re experiencing what amounts to a brain drain.

While these structural factors are surely the main story, however, I think we have to acknowledge the role of self-destructive politics.

That new Austin et al. paper makes the case for a national policy of aiding lagging regions. But we already have programs that would aid these regions — but which they won’t accept. Many of the states that have refused to expand Medicaid, even though the federal government would foot the great bulk of the bill — and would create jobs in the process — are also among America’s poorest.

Or consider how some states, like Kansas and Oklahoma — both of which were relatively affluent in the 1970s, but have now fallen far behind — have gone in for radical tax cuts, and ended up savaging their education systems. External forces have put them in a hole, but they’re digging it deeper.

And when it comes to national politics, let’s face it: Trumpland is in effect voting for its own impoverishment. New Deal programs and public investment played a significant role in the great postwar convergence; conservative efforts to downsize government will hurt people all across America, but it will disproportionately hurt the very regions that put the G.O.P. in power.

The truth is that doing something about America’s growing regional divide would be hard even with smart policies. The divide will only get worse under the policies we’re actually likely to get.

 

 

 

 

 

Qual’è il problema in Trumplandia? Di Paul Krugman

New York Times 2 aprile 2018

Di questi tempi quasi tutti hanno la sensazione (giustificata) che l’America stia andando a pezzi. Ma questa non è una storia nuova, né riguarda solo la politica. È dagli anni ’70 che le cose non stanno andando per il verso giusto su vari fronti: la polarizzazione politica ha marciato a fianco della polarizzazione economica, dal momento che l’ineguaglianza dei redditi è schizzata alle stelle.

E sia la polarizzazione politica che quella economica hanno una forte dimensione geografica. Dal lato dell’economia, alcune parti dell’America, principalmente le città delle coste, sono diventate molto più ricche, ma altre parti sono state lasciate indietro. Dal lato dell’economia, le regioni che prosperano hanno votato in generale per Hillary Clinton, mentre le regioni che ristagnano hanno votato per Donald Trump.

Non sto dicendo che tutto vada bene nelle città delle coste: molte persone restano economicamente bloccate persino nelle aree metropolitane che sembrano affermarsi nel loro complesso. E i costi delle abitazioni che schizzano alle stelle, in larga parte grazie alla mentalità del Nimby [1],  sono un problema reale e sempre più serio. Eppure i divari economici regionali sono un dato di fatto e strettamente connessi, sebbene non perfettamente, con le differenze politiche.

Ma cosa c’è dietro questi divari? Qual è il problema in Trumplandia?

Le disparità regionali non sono un fenomeno nuovo in America. In effetti, prima della Seconda Guerra mondiale, la nazione più ricca e più produttiva del mondo era anche una nazione con milioni di contadini poverissimi, molti dei quali non avevano neppure l’elettricità o l’impianto idraulico in casa. Ma sino agli anni ’70, queste disparità si erano rapidamente ristrette.

Si prenda, ad esempio, il caso del Mississippi, lo Stato più povero d’America. Nel 1930, il reddito procapite del Mississippi era pari soltanto al 30 per cento del reddito procapite nel Massachusetts. Con gli ultimi anni ’70, tuttavia, questo dato era salito quasi al 70 per cento – e la maggioranza delle persone probabilmente si aspettava che questo processo di convergenza continuasse.

Al contrario, quel processo ebbe una inversione: di questi tempi il Mississippi è ritornato a circa solo il 55 per cento del reddito del Massachusetts. Per collocarlo in una prospettiva internazionale, il Mississippi, in relazione agli Stati delle coste, è oggi povero come la Sicilia in rapporto all’Italia del Nord.

Il Mississippi non è un caso isolato. Come documenta un nuovo saggio di Austin, Glaeser e Summers, la convergenza dei redditi economici regionali si è arrestata completamente. E il declino relativo delle regioni arretrate è stato accompagnato da crescenti problemi sociali: una quota crescente di uomini nella principale età lavorativa che non lavorano, la mortalità in crescita, elevati livelli di consumo di oppioidi.

Un inciso: una implicazione di questi sviluppi è che William Julius Wilson [2] aveva ragione. Come è noto, Wilson sosteneva che i mali sociali dei ghetti poveri dei non bianchi non avevano la loro origine in qualche misterioso difetto della cultura afro americana ma in fattori economici – particolarmente la scomparsa dei buoni posti di lavoro dei ‘colletti blu’. Di fatto, quando i bianchi delle aree rurali hanno dovuto affrontare una simile perdita di opportunità economiche, hanno conosciuto un simile disfacimento sociale.

Dunque, quale è il problema in Trumplandia?

Io sono in gran parte d’accordo con Enrico Moretti [3] dell’Università di Berkeley, il cui libro del 2012, “La nuova geografia del lavoro”, è una lettura obbligata per chiunque voglia cercar di capire le condizioni dell’America. Moretti sostiene che i cambiamenti strutturali nell’economia hanno favorito le industrie che occupano lavoratori con elevati livelli di istruzione – e che queste industrie operano nel migliore dei modi in località dove ci sono già molti di questi lavoratori. Di conseguenza, quelle regioni stanno conoscendo un circolo virtuoso di crescita: le loro industrie ad alta intensità di conoscenza prosperano, attraendo un numero ancora maggiore di lavoratori istruiti, il che rafforza il loro vantaggio.

E, nello stesso tempo, le regioni che erano partite con una forza lavoro scarsamente istruita sono in una spirale che si avvita verso il basso, sia perché sono bloccate con le industrie sbagliate, sia perché stanno facendo esperienza degli effetti della fuga dei cervelli.

Tuttavia, se questi fattori strutturali sono certamente la spiegazione principale, penso che siamo nelle condizioni di comprendere gli effetti di una politica autodistruttiva.

Quello stesso saggio di Austin ed altri avanza l’ipotesi di una politica nazionale di aiuti alle regioni svantaggiate. Ma abbiamo già programmi che aiuterebbero queste regioni – sennonché loro non li accetteranno. Molti degli Stati che hanno rifiutato di ampliare Medicaid, anche se il Governo Federale avrebbe pagato il grosso delle spese e si sarebbero creati, nel processo, posti di lavoro, sono essi stessi tra i più poveri dell’America.

Ora, si consideri come alcuni Stati, come il Kansas e l’Oklahoma – che erano entrambi relativamente benestanti negli anni ’70, ma che adesso sono finiti assai indietro – abbiano aderito ad una politica di radicali tagli alle tasse, ed abbiano finito per saccheggiare i loro sistemi educativi. Forse esterne li hanno spinti in una buca, ma essi la stanno scavando ancora più nel profondo.

E quando si passa alla politica nazionale, guardiamola per quello che è: Trumplandia sta in effetti votando per il suo stesso degrado. I programmi del New Deal e gli investimenti pubblici giocarono un ruolo significativo nella convergenza post bellica; gli sforzi dei conservatori per ridimensionare i Governi danneggeranno la gente in tutta l’America, ma danneggeranno in modo sproporzionato proprio quelle regioni che hanno portato il Partito Repubblicano al potere.

La verità è che fare qualcosa per il crescente divario regionale dell’America sarebbe difficile anche con politiche intelligenti. Il divario diventerà solo peggiore con le politiche che è effettivamente probabile avere.

 

 

 

 

 

[1] Nimbismo, da nimby (not in my back yard = non nel mio giardino, non vicino a casa mia), è l’atteggiamento collettivo per il quale si contrastano infrastrutture, edificazioni, impianti per lo smaltimento dei rifiuti ed altro, se non sono progettati abbastanza lontano dalle proprie abitazioni.

[2] William Julius Wilson è un sociologo statunitense nato nel 1935, che ha insegnato all’Università di Chicago, dal 1972 al 1996, e poi a quella di Harvard. I suoi studi sulla povertà, particolarmente sulle condizioni degli afroamericani, hanno contribuito in particolare a mettere in evidenza la complessa interazione di fenomeni politici e culturali – la cultura dei ghetti e l’intera storia dei diritti civili – e di fenomeni socioeconomici, quali quelli della evoluzione di molte metropoli americane, che hanno conosciuto grandi fenomeni di decentramento dell’occupazione. Tra l’altro mostrò come il fenomeno delle donne afroamericane sole e con figli spesso derivasse semplicemente dalla resistenza delle donne di colore a riconoscere i padri dei loro figli attraverso regolari matrimoni, sinché i padri non potevano mantenere una famiglia con redditi almeno paragonabili agli aiuti delle famiglie di origine.

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[3] Docente di economia all’Università della California a Berkeley, ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui, nel 2006, lo Young Labor Economist Award dall’istituto di ricerca tedesco Iza e, nel 2008, la medaglia Carlo Alberto, premio assegnato ogni anno a un economista italiano under 40 per i risultati ottenuti nell’attività di ricerca. I suoi interventi sono spesso ospitati sulle pagine di importanti giornali americani, come il “New York Times” e il “Wall Street Journal”. Mondadori nel 2013 ha pubblicato il saggio “La nuova geografia del lavoro”.

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