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Che fare con la Cina? Di J. Bradford DeLong (da Project Syndicate, 5 giugno 2019)

 

Jun 5, 2019

What to Do About China?

J. BRADFORD DELONG

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BERKELEY – In a recent issue of The New York Review of Books, the historian Adam Tooze notes that, “across the American political spectrum, if there is agreement on anything, it is on the need for a firmer line against China.” He’s right: On this singular issue, the war hawks, liberal internationalists, and blame-somebody-else crowd all tend to agree. They have concluded that because the United States needs to protect its relative position on the world stage, China’s standing must be diminished.

But that is the wrong way to approach the challenge. In the near term (1-4 years), the US certainly could inflict a lot of damage on China through tariffs, bans on technology purchases, and other trade-war policies. But it would also inflict a lot of damage on itself; and in the end, the Chinese would suffer less. Whereas the Chinese government can buy up Chinese-made products that previously would have been sold to the US, thereby preventing mass unemployment and social turmoil, the US government could scarcely do the same for American workers displaced by the loss of the Chinese market.

In the medium run (5-10 years), the US would face even larger problems, because China would have begun to replace US customers and suppliers with those of Europe and Japan. At the same time, an America that has just blown up its relationship with China will have a hard time convincing anybody else to fill China’s shoes as a trade partner and source of investment. Becoming the world’s irrational doofus comes with costs, after all.

That is why it is entirely foreseeable that America’s attempt to “get tough” with China could accelerate its own relative decline, effectively handing China the semi-hegemony it is already approaching. As for America’s geopolitical or even military options, there are few left. After more than two years of chaotic unilateral behavior, the Trump administration has squandered any chance it might have had to work with other countries to contain China.

Following Trump’s unlikely election victory in 2016, congressional Republicans who claimed to support free trade and American soft power could have sought to impose limits on the new administration. Instead, they joined the cult, and have served as Trump’s sycophants ever since. After two years, America’s alliances have been gravely weakened, even more so than after former President George W. Bush’s disastrous wars. The US will never reclaim the standing it had in 2000, and it probably cannot even recover the tenuous but still solid geopolitical position it enjoyed in 2016.

As for the military option, the Trump administration may well be envisioning a new cold war, with occasional hot-war proxy conflicts. And yet, nobody really has any idea what a twenty-first-century cold war would look like. We can be somewhat confident that it would not involve a nuclear confrontation, mass deployments of standing armies, the fomenting of armed insurgencies in colonial territories, or any of the other forms of imperial adventurism that defined the original Cold War. Mutually assured destruction still (one hopes) rules out a nuclear exchange or mobilization of conventional forces, and there aren’t really any colonial powers left.

When one considers all of the “unknown unknowns” associated with cyber warfare, one is left with no viable model to follow. Presumably, a great-power conflict would take the form of what the Prussian general Carl von Clausewitz called “politics by other means”; we just don’t know what that would look like. In the face of such uncertainties, it is folly to pursue politics by any means other than politics itself.

So, what should the US do to shore up its position vis-à-vis China?

For starters, it could show that it has a more competent and less corrupt government than China does – that it is still a healthy democracy that adheres to the rule of law. It could also work to improve its high-tech sector, by welcoming workers and ideas from all over the world and rewarding them handsomely. It could demonstrate that it is capable of overcoming political gridlock, fixing its broken health-care system, bringing its infrastructure into this century, and investing in new energy sources. It could finally start to limit the undue political influence of the superrich. It could once again become a society in which all citizens enjoy better standards of living than their predecessors, because the fruits of economic growth are equitably distributed.

In short, the US could start to become what it would have been if Al Gore had won the 2000 presidential election, if Hillary Clinton had defeated Trump, and if the Republican party had not abandoned its patriotism. Such an America would have the world’s respect and more than enough diplomatic power to forge a constructive and strategically sound compact with a rising China. To address the defining geopolitical challenge of this century, America must look inward, not abroad.

 

Che fare con la Cina?

Di J. Bradford DeLong

 

BERKELEY – In una recente pubblicazione su The New York Review of Books, lo storico Adam Tooze osserva che “nell’intero schieramento politico americano, se c’è un accordo su qualcosa, è sul bisogno di una politica più ferma nei confronti della Cina”. Ha ragione: su questo unico tema, i falchi della guerra, gli internazionalisti progressisti e la folla del ‘diamo-la-colpa-a-qualcun altro” tendono tutti a concordare. Sono arrivati alla conclusione che, poiché gli Stati Uniti hanno bisogno di proteggere la loro posizione relativa sulla scena mondiale, la reputazione della Cina deve essere ridotta.

Ma quello è il modo sbagliato per affrontare la sfida. Nel breve termine (da uno a quattro anni), gli Stati Uniti infliggerebbero sicuramente un gran danno alla Cina attraverso le tariffe, il divieto degli acquisti delle tecnologie ed altre politiche da guerra commerciale. Ma infliggerebbero anche un gran danno a sé stessi; e, alla fine, i cinesi soffrirebbero di meno. Mentre il Governo cinese può acquistare prodotti realizzati in Cina che in precedenza sarebbero stati venduti negli Stati Uniti, evitando di conseguenza una disoccupazione di massa e disordini sociali, il Governo degli Stati Uniti potrebbe difficilmente fare lo stesso con i lavoratori americani rimossi dalla perdita del mercato cinese.

Nel medio periodo (cinque, dieci anni), gli Stati Uniti affronterebbero problemi più grandi, perché la Cina avrebbe cominciato a rimpiazzare i clienti e i fornitori degi Stati Uniti con quelli dell’Europa e del Giappone. Nello stesso tempo, un’America che avesse proprio fatto saltare in aria le sue relazioni con la Cina avrebbe difficoltà a convincere chiunque altro a mettersi nei panni della Cina come partner commerciale e fonte di investimenti. Dopo tutto, diventare gli irrazionali sciocchi del mondo comporta un prezzo.

Questa è la ragione per la quale è interamente prevedibile che il tentativo dell’America di “diventare dura” con la Cina accelererebbe il suo stesso declino relativo, di fatto consegnando alla Cina quella semi-egemonia che sta già raggiungendo. Del resto, sono rimaste poche opzioni geopolitiche o anche militari per l’America. Dopo più di due anni di caotico comportamente unilaterale, l’Amministrazione Trump ha sperperato ogni possibilità che poteva avere per lavorare con altri paesi per il contenimento della Cina.

A seguito dell’improbabile vittoria elettorale di Trump nel 2016, i congressisti repubblicani che sostenevano di appoggiare il libero commercio e il ‘potere di persuasione’ americano potevano cercare di mettere limiti alla nuova Amministrazione. Invece, si sono uniti al nuovo culto, ed hanno operato come cortigiani di Trump come mai in precedenza.  Dopo due anni, le alleanze dell’America si sono seriamente indebolite, anche maggiormente che a seguito delle disastrose guerre del passato Presidente George W. Bush. Gli Stati Uniti non potranno mai rivendicare la reputazione che avevano nel 2000, e probabilmente non potranno neppure recuperare la tenue ma ancora solida posizione geopolitica di cui godevano nel 2016.

Per quanto riguarda l’opzione militare, l’Amministrazione Trump può certamente concepire una nuova guerra fredda, con conflitti occasionali su procura da guerra calda. E tuttavia, nessuno ha alcuna idea di cosa sarebbe una guerra fredda del ventunesimo secolo. Possiamo aver qualche fiducia che non comporterebbe uno scontro nucleare, dispiegamenti massicci di eserciti in posizione, il fomentare ribellioni armate nei territori coloniali, o alcuna delle altre forme di avventurismo imperiale che caratterizzarono l’originaria Guerra Fredda. La reciproca certezza di una distruzione porta ancora (si spera) ad escludere uno scambio nucleare o una mobilitazione di forze convenzionali, e in realtà non è rimasto alcun potere coloniale.

Quando si considerano le “incognite ignote” connesse con una guerra cibernetica, si resta senza alcun modello utilizzabile a cui ispirarsi. Presumibilmente, un conflitto da grandi potenze prenderebbe la forma di quello che il generale prussiano Carl von Clausewitz chiamava “la politica con altri mezzi”; solo che non sappiamo a cosa somiglierebbe. A fonte di tali incertezze, è follia preseguire una politica con altri mezzi che non siano quelli della politica stessa.

Dunque, che cosa dovrebbero fare gli Stati Uniti per consolidare la propria posizione in un confronto diretto con la Cina?

Per cominciare, potrebbero dimostrare di avere un Governo più competente e meno corrotto della Cina – che una sana democrazia è ancora quella che rispetta lo Stato di diritto. Potrebbero anche lavorare per migliorare il settore delle alte tecnologie, accogliendo da tutto il mondo lavoratori e idee e ricompensandoli generosamente. Potrebbero dimostrare di essere capaci di superare lo stallo della politica, riformando il suo sistema guasto di assistenza sanitaria, portando nel nuovo secolo le proprie infrastrutture e investendo nelle nuove fonti di energia. Infine potrebbero cominciare a limitare l’ingiustificata influenza sulla politica dei super ricchi. Potrebbero ancora tornare ad essere una società nella quale i cittadini godono di migliori livelli di vita dei loro predecessori, perché i frutti della crescita economica vengono distribuiti equamente.

In poche parole, gli Stati Uniti potrebbero cominciare a diventare quello che sarebbero stati se Al Gore avesse vinto le elezioni presidenziali del 2000, se Hillary Clinton avesse sconfitto Trump, e se il Partito Repubblicano non avesse abbandonato il suo patriottismo. Una tale America avrebbe il rispetto del mondo e un potere diplomatico più che sufficiente per plasmare un patto costruttivo e strategicamente sano con una Cina in crescita. Per affrontare la sfida geopolitica che caratterizza questo secolo, l’America si deve guardare dentro, non all’estero.

 

 

 

 

 

 

 

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