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L’imbroglio agli agricoltori americani, di Paul Krugman (New York Times, 29 agosto 2019)

 

Aug. 29, 2019

The Frauding of America’s Farmers

By Paul Krugman

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Donald Trump is unpopular, but he retains the loyalty of some important groups. Among the most loyal are America’s farmers, who are a tiny minority of the population but exert disproportionate political influence because of our electoral system, which gives 3.2 million Iowans as many senators as almost 40 million Californians. According to one recent poll, 71 percent of farmers approve of Trump’s performance — which is down somewhat from previous polling, but remains far above the national average.

Yet farmers are hurting financially. Investors are worried about a possible recession for the economy as a whole, but the farm recession is already here, with falling incomes, rising delinquency rates and surging bankruptcies. And the farm economy’s troubles stem directly from Trump’s policies.

This apparent contradiction — Trump is inflicting the greatest harm on the people who supported him most — isn’t an accident. Farmers’ past support for Trump was predictable: The demography and culture of (white) rural America make it fertile ground for politicians promising to restore traditional society, and especially traditional racial hierarchy. But farmers’ financial distress should also have been predictable: While rural America may dislike and distrust cosmopolitan elites, the U.S. farm economy is hugely dependent on global markets, and it has inevitably been a major victim of the Trumpian trade war.

The questions, looking forward, are whether farmers understood what they were getting themselves into, whether they understand even now that their distress isn’t likely to end anytime soon, and whether economic pain will shake their support for the man who’s causing it.

At one level, it’s not hard to see why farmers supported Trump. Hostility to nonwhite immigrants was central to his campaign, and such hostility tends to be highest in places where there aren’t actually many immigrants. So rural America, with its still tiny immigrant population, was a receptive audience for his fear-mongering. More generally, Making America Great Again — which was basically about setting back the clock racially and culturally — was a message that played well in places that still tend to think of themselves (and are told by politicians to think of themselves) as the Real America, as opposed to the big metropolitan areas where most Americans actually live.

On the other hand, while farm country may be notably lacking in ethnic diversity and feels generally distrustful of globalists, the farm economy is in fact deeply integrated with and dependent on world markets. On the eve of Trump’s trade war, America exported76 percent of its cotton production, 55 percent of its sorghum, half its soybeans, and 46 percent of its wheat.

Overall, U.S. agricultural exports are almost 40 percent of the value of farm production, up from just 15 percent circa 1970. Globalization hurt some parts of U.S. manufacturing, with particularly harsh effects on some small industrial cities. But the rise of China and the growth of world trade have been nothing but good news for farmers.

And here’s the thing: It shouldn’t have been hard to predict that Trumponomics would be bad for farmers. Trump’s desire for a trade war was out in the open from the beginning; protectionism is right up there with racism and anti-environmentalism as one of his core values. And a trade war was bound to hurt farm exports. Did anyone really imagine that China, an economic superpower with its own fierce nationalism, wouldn’t retaliate against U.S. tariffs?

So what were farmers thinking? My guess is that they let the will to believe override their judgment. Trump seemed like their kind of guy. He certainly seemed to share their dislike for urban elites who, they imagined, looked down on people like them. So they convinced themselves that he knew what he was doing, that he would win his trade war and that they would be among the victors sharing the spoils.

Even now many farmers seem to believe that the pain will end any day now, that Trump will soon announce a deal that restores all the old markets and more.

In short, farmers’ support for Trump should be seen as a form of affinity fraud, in which people fall for a con man whom they imagine to be someone like them.

And as is often the case in such frauds, the con man and his associates actually have contempt for their marks.

Recently Sonny Perdue, the agriculture secretary, let the mask slip during a meeting with farmers complaining about their plight. “What do you call two farmers in a basement?” he snarked. “A whine cellar.”

Trump’s own remarks about trade with Japan were even more telling. According to a White House transcript, Trump complained that while Japan sends us millions of cars, “We send them wheat. Wheat. (Laughter.)” Do farmers realize that their president considers their livelihood a joke?

So what will happen as the trade war drags on? Don’t expect farmers to suddenly exclaim en masse, “Hey, we’ve been had!” Real life doesn’t work that way. But they have, in fact, been had, and they may finally be starting to realize it.

 

 

L’imbroglio agli agricoltori americani,

di Paul Krugman

 

Donald Trump è impopolare, ma conserva la fedeltà di alcuni importanti gruppi. Tra i più fedeli ci sono gli agricoltori americani, che sono una minuscola minoranza della popolazione ma esercitano una influenza politica sproporzionata a causa del nostro sistema elettorale, che dà a 3,2 milioni di elettori dello Iowa altrettanti senatori che a 40 milioni di californiani. Secondo un recente sondaggio, il 71 per cento degli agricoltori approva le prestazioni di Trump –  una percentuale un po’ inferiore al precedente sondaggio, ma ancora assai superiore alla media nazionale.

Tuttavia gli agricoltori finanziariamente sono in sofferenza. Gli investitori sono preoccupati per una possibile recessione dell’economia nel suo complesso, ma la recessione rurale è già in atto, con il calo dei redditi, la crescita dei tassi di criminalità e l’impennata dei fallimenti. E i guai dell’economia rurale derivano direttamente dalle politiche di Trump.

Questa apparente contraddizione – Trump sta provocando il danno maggiore alle persone che l’hanno sostenuto maggiormente – non avviene per caso. Il passato sostegno a Trump degli agricoltori era prevedibile: la demografia e la cultura dell’America rurale (bianca) la rendono un terreno fertile per i politici che promettono di restaurare la società tradizionale, e specialmente le gerarchie razziali tradizionali. Ma anche la crisi finanziaria degli agricoltori avrebbe dovuto essere prevedibile: se l’America rurale può non gradire e avere sfiducia delle elite cosmopolite, l’economia rurale statunitense è enormemente dipendente dai mercati globali, ed è stata inevitabilmente una vittima principale della guerra commerciale trumpiana.

Guardando in avanti, le domande sono se gli agricoltori hanno compreso dove si sono andati a ficcare, se capiscono persino adesso che le loro sofferenze non è probabile abbiano termine in tempi brevi, e se la sofferenza economica smuoverà qualcosa nel loro sostegno all’individuo che la sta provocando.

Da una parte, non è difficile capire perché gli agricoltori hanno appoggiato Trump. L’ostilità verso gli immigrati non bianchi è stata centrale nella sua campagna elettorale, e tale ostilità tende ad essere massima nelle aree nella quali in realtà non ci sono molti immigrati. Dunque l’America rurale, con la sua ancora minuscola popolazione di immigrati, è stata un pubblico recettivo per la sua politica di diffusione della paura. Più in generale, Rendere l’America di Nuovo Grande – che fondamentalmente ha riguardato il riportare indietro l’orologio, da un punto di vista razziale e culturale – era un messaggio che funzionava bene in luoghi nei quali si tende ancora a raffigurarsi come l’America Vera, piuttosto che le grandi aree metropolitane nelle quali effettivamente vive la maggioranza degli americani (considerato anche che raffigurarsi in quel modo gli viene suggerito dagli uomini della politica).

D’altra parte, mentre è noto che il paese rurale può mancare di diversità etnica e in generale non avere fiducia dei globalisti, di fatto l’economia rurale è profondamente integrata e dipendente dai mercati del mondo. Nell’epoca della guerra commerciale di Trump, l’America ha esportato il 76 per cento della sua produzione di cotone, il 55 per cento del suo sorgo, metà della sua soia, e il 46 per cento del suo grano.

Nel complesso, le esportazioni agricole statunitensi sono quasi il 40 per cento del valore della produzione agricola, rispetto al solo 15 per cento attorno al 1970. La globalizzazione ha danneggiato alcune componenti delle manifatture statunitensi, con effetti particolarmente duri in alcune piccole città industriali. Ma l’ascesa della Cina e la crescita del commercio globale non è stata altro che una buona notizia per gli agricoltori.

E qua è il punto: non avrebbe dovuto essere difficile prevedere che la politica economica di Trump sarebbe stata negativa per gli agricoltori. Il desiderio di guerre commerciali di Trump era alla luce del sole sin dagli inizi; il protezionismo era fatto apposta per lui, assieme al razzismo e all’anti ambientalismo, come uno dei suoi valori fondamentali. E una guerra commerciale era destinata a danneggiare le esportazioni agricole. Qualcuno poteva davvero immaginare che la Cina, una superpotenza economica dotata di un suo impetuoso nazionalismo, non avrebbe fatto ritorsioni contro le tariffe statunitensi?

Dunque, cosa c’era nella testa degli agricoltori? La mia idea è che abbiano consentito che il loro desiderio di credere avesse la precedenza sul loro giudizio. Trump sembrava l’individuo che faceva per loro. Di sicuro egli sembrava condividere la loro repulsione per le elite urbane che si immaginavano guardassero dall’alto in basso le persone come loro. Dunque si convinsero che egli sapesse cosa stava facendo, che avrebbe vinto la sua guerra commerciale, e che dunque loro sarebbero stati tra i vincitori che si sarebbero spartiti il bottino.

Persino adesso gli agricoltori sembrano credere che prima o poi la sofferenza avrà fine, che Trump presto annuncerà un accordo che ripristini i vecchi mercati ed altro ancora.

In poche parole, il sostegno degli agricoltori a Trump dovrebbe essere considerato come una forma di un reato di affinità, quando le persone si fanno raggirare da un imbroglione che si immaginano simile a loro [1].

E come spesso avviene in tali reati, l’imbroglione e i suoi associati in realtà disprezzano chi prendono di mira.

Di recente Sonny Perdue, il Segretario all’Agricoltura, ha gettato la maschera nel corso di un incontro con agricoltori che si lamentavano delle loro traversie. “Come chiamereste due agricoltori in una cantina?”, ha ironizzato. “Una cantina di piagnoni” [2].

Le stesse osservazioni di Trump sul commercio con il Giappone erano anche più istruttive. Secondo una trascrizione della Casa Bianca, Trump si è lamentato che mentre il Giappone ci vende milioni di autovetture, “noi gli spediamo grano. Grano! (risate)” Comprendono gli agricoltori che il loro Presidente considera i loro mezzi di sostentamento alla stregua di una barzelletta?

Dunque, cosa accadrà quando la guerra commerciale andrà per le lunghe? Non aspettatevi che gli agricoltori all’improvviso esclamino tutti insieme “Ehi, ci hanno fregato!” La vita reale non procede in quel modo. Ma, di fatto, sono stati fregati e alla fine possono cominciare a comprenderlo.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Il “reato di affinità” esiste effettivamente nel codice penale americano. Ad esempio, è il reato per il quale Madoff ha ricevuto varie condanne ultrasecolari per le truffe ai danni di moltissimi individui, che aveva raggirato proprio con l’argomento dei loro comuni valori.

[2] L’ironia forse deriva dal fatto che “wine” (vino) ha una pronuncia identica a “whine” (lamentela, piagnucolio).

 

 

 

 

 

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