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I costi della crisi in capitale umano, di Barry Eichengreen (da Project Syndicate, 10 aprile 2020)

 

Apr 10, 2020

The Human-Capital Costs of the Crisis

BARRY EICHENGREEN

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BERKELEY – US President Donald Trump tells us that once COVID-19 is contained and it is safe to go back to work, the economy will be “great again.” Is he right?

There is at least one reason to think he is. After all, unlike a hurricane or earthquake, the pandemic has caused no damage to the physical capital stock. It follows, Trump and his advisers argue, that we can pick up where we left off. The economy took a time-out, but now output will rebound swiftly to pre-crisis levels and growth will proceed as before.

We are even told that the economy will be stronger than ever. People who put off buying a car because it was unsafe to visit the dealership will do so now. Firms that have put expansion plans on hold will double down on investment. Baseball teams unable to play in the spring will schedule double-headers in the fall.

Unfortunately, reality will not oblige Trump’s rosy scenario. Households newly aware that they lack the financial reserves to deal with unforeseen circumstances will increase their precautionary saving and continue to put off buying that new car. Firms won’t invest in expanding capacity until they are confident that the virus won’t return. With the developing world entering and exiting the crisis later than the United States, exports will be weak.

The good news is that public spending can replace the private spending that is lost. With interest rates at rock-bottom levels, the US still has fiscal space, despite its staggeringly large deficit. It’s important to recognize that fiscal stimulus will be needed for an extended period, given that higher precautionary saving and weak investment will persist. The temptation to turn off the fiscal tap too early, as the US (and Europe) did in 2010, must be resisted.

But the supply-side damage from the crisis is not so easily repaired. Inevitably, supply chains will have to be restructured in ways that make production costlier. Even if they have to pay more, firms will produce closer to home, whether because of their heightened recognition of the risks of relying on far-flung operations, or in response to political arguments for achieving national self-sufficiency in the provision of essential goods. For firms, enhanced security and certainty will mean higher costs and lower productivity, which will translate into higher prices for consumers.

But this is a small problem compared to the impact on labor. Workers experiencing unemployment in a downturn can be permanently scarred. They are less able to form durable attachments with employers and more likely to experience additional episodes of joblessness. Their wages tend to be lower, not just in the immediate aftermath of the event, but for decades, even over their entire working lifetimes. Lower wages are a sign that these workers’ productivity has been impaired.

In other words, while there has been no destruction of physical capital in the pandemic, the risk of damage to human capital is significant. At a time when unemployment in the US is on course to reach 25% and higher, this is a serious concern.

Historical evidence of the negative effects of unemployment on human capital is extensive. My Berkeley colleague Jesse Rothstein has documented their prevalence following the Great Recession. My teacher Nick Crafts, now at the University of Warwick, analyzed their ubiquity during the Great Depression.

In part, these effects reflect the frictions that arise when a worker’s attachment to a firm is broken. Firm-specific skills have no value when the firm that uses them goes out of business. Even when a worker’s skill set is more widely applicable, finding a suitable match with another employer may take time. This suggests that the US is more at risk of squandering human capital than European countries, where governments are pursuing ambitious policies to preserve employer-employee relationships.

Unemployment and hardship can also lead to demoralization, depression, and other psychological traumas, lowering affected individuals’ productivity and attractiveness to employers. We saw this in the 1930s, not just in declining rates of labor force participation but also in rising rates of suicide and falling rates of marriage. Here, too, one worries especially about the US, given its relatively limited safety net, its opioid crisis, and its “deaths of despair.”

Many of these negative consequences are most prevalent when unemployment is recurrent or extended. If this downturn turns out to be as short as it is sharp, one can hope that the loss of human capital, the resulting damage to the economy’s productive capacity, and the pain and suffering that come with them will be limited.

The length of the downturn will depend above all on our success at containing the coronavirus and mitigating its effects. And that success will hinge, in turn, on our cohesiveness as a society and on the quality of our leadership. For Americans, that is not a very hopeful note to end on.

 

I costi della crisi in capitale umano,

di Barry Eichengreen

 

BERKELEY – Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ci dice che una volta che il Covid-19 sarà contenuto e sarà sicuro tornare a lavorare, l’economia sarà “ancora grande”. Ha ragione?

C’è almeno una ragione per pensare che la abbia. Dopo tutto, diversamente da un uragano o da un terremoto, la pandemia non ha provocato alcun danno al capitale fisico umano. Ne consegue, sostengono Trump e i suoi consiglieri, che possiamo raccogliere quello che abbiamo piantato. L’economia si è presa una pausa, ma a quel momento la produzione tornerà rapidamente ai livelli precedenti e la crescita riprenderà come prima.

Ci viene persino detto che l’economia sarà più forte che mai. Le persone che hanno rimandato l’acquisto di una macchina perché era insicuro andare dal concessionario, lo faranno a quel punto. Le imprese che hanno sospeso i programmi di espansione raddoppieranno gli investimenti. Le squadre di baseball impossibilitate a giocare in primavera metteranno in programma doppi incontri in autunno.

Sfortunatamente, la realtà non asseconderà il roseo scenario di Trump. Le famiglie da poco consapevoli di non avere le risorse finanziarie per fare i conti con circostanze impreviste aumenteranno i loro risparmi precauzionali e continueranno a rimandare l’acquisto di quella macchina nuova. Le imprese non investiranno in capacità produttiva finché non avranno fiducia che il virus non tornerà. Con il mondo in via di sviluppo entrato e uscito dalla crisi dopo gli Stati Uniti, le esportazioni saranno deboli.

La buona notizia è che la spesa pubblica può sostituire la spesa privata che è perduta. Con i tassi di interesse a livelli che toccano il fondo, gli Stati Uniti hanno spazio di finanza pubblica, nonostante il loro sbalorditivo ampio deficit. È importante riconoscere che lo stimolo della finanza pubblica sarà necessario per un periodo prolungato, dato che persisteranno più alti risparmi cautelativi e deboli investimenti. Si deve resistere alla tentazione di chiudere troppo presto il rubinetto della finanza pubblica, come gli Stati Uniti (e l’Europa) fecero nel 2010.

Ma il danno derivante dalla crisi sul lato dell’offerta non si riparerà così facilmente. Inevitabilmente, le catena dell’offerta dovranno essere ristrutturate in un modo che renderà la produzione più costosa. Anche se dovessero pagare di più, le imprese produrranno più vicine a casa, sia a causa del loro accresciuto riconoscimenti dei rischi del basarsi su operazioni distanti, sia in risposta agli argomenti politici per realizzare l’autosufficienza nazionale nella fornitura di beni essenziali. Per le imprese, una accresciuta sicurezza e certezza comporterà costi più alti e produttività più bassa, il che si tradurrà in prezzi più elevati per i consumatori.

Ma questo sarà un problema modesto a confronto con l’impatto sul lavoro. I lavoratori che fanno esperienza della disoccupazione in una recessione possono restare permanentemente segnati. Essi sono meno capaci di dar vita a collegamenti duraturi con i datori di lavoro ed è più probabile che conoscano episodi aggiuntivi di mancanza di lavoro. I loro salari tenderanno ad essere più bassi, non solo nel periodo immediatamente successivo all’evento, ma per decenni, forse per le loro intere esistenze lavorative. I salari più bassi saranno un segno che la produttività di questi lavoratori è stata danneggiata.

In altre parole, mentre non ci sarà alcuna distruzione di capitale fisico nella pandemia, il rischio di danno al capitale umano è significativo. In un momento nel quale la disoccupazione negli Stati Uniti è in procinto di raggiungere il 25% e oltre, questa è una preoccupazione seria.

Le prove storiche degli effetti negativi della disoccupazione sul capitale umano sono ampie. Il mio collega di Berkeley Jesse Rothstein ha documentato la loro diffusione a seguito della Grande Recessione. Il mio insegnante Nick Crafts, adesso all’Università di Warwick, analizzò la loro ubiquità durante la Grande Depressione.

In parte, questi effetti riflettono le resistenze che crescono quando si rompe il collegamento di un lavoratore con una impresa. Le competenze specifiche di una impresa non hanno alcun valore quando l’impresa che le utilizza esce dal mercato. Anche quando il complesso di competenze di un lavoratore sono più generalmente applicabili, trovare un abbinamento adeguato con un altro datore di lavoro può richiedere tempo. Questo indica che gli Stati Uniti corrono un rischio maggiore di disperdere il capitale umano dei paesi europei, dove i Governi stanno perseguendo politiche ambiziose per preservare le relazioni tra datore di lavoro e lavoratore.

La disoccupazione e le difficoltà possono anche portare alla demoralizzazione, alla depressione e ad altri traumi piscologici, abbassando la produttività minata degli individui e l’attrazione verso i datori di lavoro. Lo vedemmo negli anni ’30, non soltanto nei tassi di partecipazione della forza lavoro [1], ma anche nei tassi crescenti di suicidi e di fallimenti dei matrimoni. Anche in questo caso, ci si preoccupa particolarmente degli Stati Uniti, data la loro relativamente limitata rete di sicurezza sociale, la loro crisi da oppioidi e le loro “morti per disperazione”.

Molte di queste conseguenze negative sono soprattutto frequenti quando la disoccupazione è ricorrente o prolungata. Se si scoprisse che questa recessione è così breve quanto è intensa, si può sperare che la perdita di capitale umano, il danno conseguente alla capacità produttiva dell’economia e il dolore e la sofferenza che le accompagnano saranno limitate.

La lunghezza della recessione dipenderà soprattutto dal nostro successo nel contenere il coronavirus e nel mitigare i suoi effetti. E quel successo dipenderà, a sua volta, dalla nostra coesione come società e dalla qualità della nostra leadership. Per gli americani, concludere con questa osservazione non è un grande motivo di speranza.

 

 

 

 

 

 

[1] Per “partecipazione alla forza lavoro” si intende in genere la percentuale delle persone in età lavorativa – tra i 16 ed i 64 anni – che lavorano o sono attivamente in cerca di lavoro. Più alto è il numero dei disoccupati o degli ‘scoraggiati’, minore è la partecipazione alla forza lavoro.

 

 

 

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