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Il trionfo segreto della politica economica, di Paul Krugman (New York Times, 13 gennaio 2022)

 

Jan. 13, 2022

The Secret Triumph of Economic Policy

By Paul Krugman

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All the reporting these days is about rising prices. And I get that: A 7 percent surge in the Consumer Price Index over the past year comes as a shock, especially because so many people, myself included, didn’t see it coming.

But there’s another story that should be getting more attention: America’s extraordinary success in limiting the damage from a horrifying pandemic. In fact, there’s a good chance that in retrospect we’ll view economic management over the past two years as a policy triumph, despite the inflation spike.

I wrote about some of this in my newsletter last week, but I think more needs to be said.

As I pointed out in that newsletter, unemployment has lately been falling as fast as it did during the Reagan-era “morning in America” recovery. What I want to do now is put the recovery in some broader historical context.

Early in the pandemic many observers feared that we were about to experience a replay of the 2008 financial crisis, only worse. There were, in fact, a couple of weeks in March 2020 when the financial system teetered on the edge of collapse. But the Federal Reserve pulled us back from the brink.

Even as the financial crisis receded, however, there were widespread fears that recovery from the pandemic recession, like recovery from the Great Recession, would be sluggish. Economic forecasters surveyed in the spring of 2020 expected the average unemployment rate in 2022 to be above 6 percent. In fact, it’s already down to 3.9 percent, only slightly higher than before the coronavirus struck.

Jason Furman, a former top Obama economist, has suggested a useful way to compare recessions: Look at the cumulative unemployment they produce. If the unemployment rate exceeds its prerecession level by one percentage point for one year, that’s a “point-year” of excess unemployment. So how many point-years of unemployment did the pandemic inflict, and how does that compare with the past?

For trivial technical reasons, my estimates differ a bit from Furman’s, but the message is the same: The Covid-19 recession did remarkably little damage, considering. The costs of the Great Recession were huge — more than 20 point-years — not just because unemployment soared but also because it lingered. Thanks to rapid recovery, the costs of the coronavirus slump were far smaller — around seven point-years. Even though the initial shock to the economy was devastating, the eventual hit to unemployment from a deadly, disruptive disease was comparable to (by my numbers, somewhat smaller than) the hit we suffered after the technology bubble of the 1990s burst.

That is, Covid-19 may have cost fewer jobs than the dot-com bust.

Some of this success story reflected underlying economic fundamentals; for the record, I argued early on that we would have a rapid recovery because the slump wasn’t preceded by private-sector excesses. But large-scale public spending, especially the bipartisan CARES Act in 2020 and the American Rescue Plan in 2021, also surely helped.

But what about inflation? There’s no question that we could have had lower inflation right now if we’d accepted a slower employment recovery. But would that have been a trade-off worth making?

The clear answer is that restoring full employment was more important than avoiding inflation if — a big if — inflation eventually subsides.

Here’s why: Although it’s true that inflation erodes real incomes, there’s overwhelming evidence that maintaining full employment is extremely important for reasons that go beyond money. Jobs bring in income; but they also, for many workers, bring dignity, so that being unemployed damages happiness far more than you can explain simply by the lost dollars.

And full employment is especially crucial for the young: Graduating into a bad labor market can cast a shadow over your career for many years, possibly your whole life.

So getting America back to full employment as quickly as possible was urgent, and well worth it even if the price was putting us through, say, two years of elevated inflation.

The counterargument is the fear that inflation will be hard to get rid of, that it will become entrenched in economywide expectations and that getting it back down will require another nasty recession down the line. And I can’t offer a 100 percent guarantee that this won’t happen.

At this point, however, there is little evidence that inflation is getting entrenched. The bond market is implicitly forecasting high inflation this year but not beyond; the point isn’t that the market is necessarily right, but rather that one important measure of inflation expectations shows no sign that people are betting on a return to the 1970s. Consumer surveys tell a similar story: High expected inflation over the next year, but much less over the next five years, which is implicitly a forecast of returning normalcy.

So far, then, we seem to be looking at an extraordinarily quick economic recovery from a devastating economic shock, coming at the cost of an unpleasant but probably temporary surge in inflation. And given what could have happened, that amounts to a policy triumph.

 

Il trionfo segreto della politica economica,

di Paul Krugman

 

In questi giorni, tutti i resoconti sono sull’aumento dei prezzi. E lo capisco: una crescita del 7 per cento dell’Indice dei Prezzi al Consumo nel corso dell’anno passato è come uno shock, particolarmente perché tante persone, incluso il sottoscritto, non l’avevano vista arrivare.

Ma c’è un’altra storia che dovrebbe provocare più attenzione: lo straordinario successo dell’America nel limitare il danno di una terribile pandemia. Di fatto, c’è una buona possibilità che retrospettivamente considereremo  la gestione dell’economia nei due anni passati come un trionfo della politica, nonostante il picco di inflazione.

Ho scritto su alcuni aspetti di questo nella mia newsletter della scorsa settimana [1], ma penso che si debba dire altro.

Come ho messo in evidenza in quella nota, la disoccupazione nell’ultimo periodo è venuta diminuendo altrettanto velocemente che durante l’epoca reaganiana della ripresa che fu chiamata: “E’ giorno in America”. Quello che voglio fare adesso è inserire quella ripresa in qualche contesto storico più ampio.

Nei primi tempi della pandemia molti osservatori temevano che fossimo prossimi a fare i conti con una ripetizione della crisi finanziaria del 2008, probabilmente peggiore. Di fatto, ci furono una paio di settimane nel marzo 2020 quando il sistema finanziario traballò sull’orlo di un collasso. Ma la Federal Reserve ci tirò indietro da quel ciglio.

Anche se la crisi finanziaria arretrò, tuttavia, ci furono timori generalizzati che la ripresa dalla recessione sarebbe stata fiacca. Gli analisti economici intervistati in un sondaggio nella primavera del 2020 si aspettavano che nel 2022 il tasso medio di disoccupazione sarebbe stato sopra il 6 per cento. Di fatto, esso è già sceso al 3,9 per cento, più alto solo leggermente di quanto era prima che il coronavirus colpisse.

Jason Furman, un passato capo economista di Obama, ha suggerito un modo utile per confrontare le recessioni: si osservi la disoccupazione cumulativa che esse producono. Se il tasso di disoccupazione eccede il suo livello precedente alle recessioni  per un punto percentuale all’anno, quello è un “punto anno” di disoccupazione in eccesso. Dunque, quanti punti-anno ha inflitto la pandemia, e come si comparano con il passato?

Per banali ragioni tecniche, le mie stime differiscono un po’ da quelle di Furman, ma il senso è lo stesso: la recessione del Covid-19 ha provocato un danno considerevolmente modesto, viste le circostanze. I costi della Grande Recessione [2] furono enormi – più di 20 punti-anno – non solo perché la disoccupazione salì alle stelle ma anche perché persistette. Grazie alla ripresa rapida, i costi della recessione del coronavirus sono stati assai minori – circa sette punti-anno. Anche se il trauma iniziale per l’economia è stato devastante, il colpo finale in termini di disoccupazione da una malattia dirompente e letale è stato paragonabile (talvolta anche minore, secondo i miei dati) del colpo che patimmo per la bolla della tecnologia quando scoppiò negli anni ’90.

Ovvero, il Covid-19 può essere costato minori posti di lavoro dello scoppio della bolla nel settore del commercio elettronico.

In parte questa storia di successo ha riflettuto sottostanti aspetti economici fondamentali; per la cronaca, io avevo sostenuto che avremmo avuto una ripresa rapida perché la crisi non era stata preceduta da eccessi del settore privato. Ma la spesa pubblica su larga scala, particolarmente la legge denominata CARES votata all’unanimità nel 2020 e il Programma Americano del Salvataggio del 2021, hanno sicuramente contribuito.

Che dire dell’inflazione? Non c’è dubbio che avremmo potuto avere una inflazione più bassa in questo momento se avessimo accettato una ripresa dell’occupazione più lenta. Ma avrebbe meritato fare uno scambio del genere?

La risposta indubbia è che ripristinare la piena occupazione era più importante di evitare l’inflazione se – ed è un ‘se’ grande – alla fine l’inflazione recederà.

La ragione è questa: sebbene sia vero che l’inflazione erode i redditi reali, ci sono prove schiaccianti che mantenere la piena occupazione è estremamente importante per ragioni che vanno oltre i soldi. I posti di lavoro portano reddito; ma portano, per molti lavoratori, anche dignità, in modo tale che essere disoccupati danneggia la serenità molto di più di quanto si possa spiegare semplicemente per il denaro perso.

E la piena occupazione è particolarmente cruciale per i giovani: laurearsi nel contesto di un mercato del lavoro negativo può gettare un ombra sulle loro carriere per molti anni, forse per la vita intera.

Dunque, riportare l’America alla piena occupazione più rapidamente possibile era urgente, e davvero era il caso di farlo se il prezzo fosse stato, ad esempio, di farci patire due anni di inflazione elevata.

L’argomento contrario è il timore che sarà difficile liberarci dell’inflazione, che essa si radicherà nelle aspettative generali dell’economa è che riportarla indietro richiederà un’altra brutta recessione più avanti. E io non posso offrire una garanzia completa che questo non accadrà.

A questo punto, tuttavia, ci sono poche prove che l’inflazione si stia radicando. Il mercato obbligazionario sta implicitamente prevedendo una inflazione elevata quest’anno, ma non oltre; il punto non è che il mercato abbia necessariamente ragione, ma piuttosto che una importante misura delle aspettative di inflazione non mostra alcun segno che le persone stiano scommettendo su un ritorno agli anni ’70. I sondaggi sui consumatori raccontano una storia simile; una aspettativa elevata di inflazione per il prossimo anno, ma molto minore nei prossimi cinque anni, che è implicitamente una previsione di ritorno alla normalità.

Sinora, dunque, sembra che stiamo osservando una ripresa economica straordinariamente rapida da un trauma economico devastante, che arriva al costo di una spiacevole ma probabilmente temporanea impennata nell’inflazione. Dato quello che sarebbe potuto accadere, questo corrisponde ad un trionfo della politica.

 

 

 

 

[1] Qua dal blog di Krugman del 4 gennaio: “Non ditelo a nessuno, ma il 2021 è stato piuttosto sorprendente”.

[2] Ovvero della recessione successiva alla crisi finanziaria del 2008.

 

 

 

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