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Putin ammazzerà l’economia globale? Di Paul Krugman (New York Times, 31 marzo 2022)

 

March 31, 2022

Will Putin Kill the Global Economy?

By Paul Krugman

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Economic commentators always reach for historical analogies, and with good reason. For example, those who had studied past banking crises had a much better grasp of what was happening in 2008 than those who hadn’t. But there’s always the question of which analogy to choose.

Right now, many people are harking back to the stagflation of the 1970s. I’ve argued at some length that this is a bad parallel; our current inflation looks very different from what we saw in 1979-80, and probably much easier to end.

There are, however, good reasons to worry that we’re seeing an economic replay of 1914 — the year that ended what some economists call the first wave of globalization, a vast expansion of world trade made possible by railroads, steamships and telegraph cables.

In his 1919 book “The Economic Consequences of the Peace,” John Maynard Keynes — who would later teach us how to understand depressions — lamented what he saw, correctly, as the end of an era, “an extraordinary episode in the economic progress of man.” On the eve of World War I, he wrote, an inhabitant of London could easily order “the various products of the whole earth, in such quantity as he might see fit, and reasonably expect their early delivery upon his doorstep.”

But it was not to last, thanks to “the projects and politics of militarism and imperialism, of racial and cultural rivalries.” Sound familiar?

Keynes was right to see World War I as the end of an era for the global economy. To take one clearly relevant example, in 1913 the Russian empire was a huge wheat exporter; it would be three generations before some of the former republics of the Soviet Union resumed that role. And the second wave of globalization, with its world-spanning supply chains made possible by containerization and telecommunications, didn’t really get going until around 1990.

So are we about to see a second deglobalization? The answer, probably, is yes. And while there were important downsides to globalization as we knew it, there will be even starker consequences if, as I and many others fear, we see a significant rollback in world trade.

Why is world trade taking a hit? Vladimir Putin’s botched war of conquest has, of course, meant an end to wheat exports from Ukraine, and it probably cut off much of Russia’s sales, too. It’s not entirely clear how sharply Russia’s exports of oil and natural gas have already been reduced — Europe has been reluctant to impose sanctions on imports of products on which, fecklessly, it allowed itself to become dependent; but the European Union is moving to end that dependence.

Wait, there’s more. You mightn’t have expected Putin’s war to have much of an effect on auto production. But modern cars include a lot of wiring, held in place by a specialized part called a wire harness — and many of Europe’s wire harnesses, it turns out, are made in Ukraine. (In case you’re wondering, most U.S. wire harnesses are made in Mexico.)

Still, Russia’s decision to turn itself into an international pariah probably wouldn’t by itself be enough to drastically reduce world trade — as China, which plays a key role in many supply chains, could if it decided to turn inward.

But while China hasn’t invaded anyone (yet?), there are troubles on that front, too.

Most immediately, China’s Covid response, which was highly successful in the pandemic’s initial stages, is becoming an increasing source of economic disruption. The Chinese government still insists on using homegrown vaccines that don’t work very well, and it’s still responding to outbreaks with draconian lockdowns, which are causing problems not just for China but also for the rest of the world.

Beyond that, what Putin has taught us is that countries run by strongmen who surround themselves with yes-men aren’t reliable business partners. A Chinese confrontation with the West, economic or military, would be wildly irrational — but so was Russia’s invasion of Ukraine. Tellingly, the Ukraine war appears to have led to large-scale capital flight from … China.

So if you’re a business leader right now, surely you’re wondering whether it’s smart to stake your company’s future on the assumption that you’ll keep being able to buy what you need from authoritarian regimes. Bringing production back to nations that believe in the rule of law may raise your costs by a few percent, but the price may be worth it for the stability it buys.

If we are about to see a partial retreat from globalization, will that be a bad thing? Wealthy, advanced economies will end up only slightly poorer than they would have been otherwise; Britain managed to keep growing despite the decline in world trade after 1913. But I’m worried about the impact on nations that have made progress in recent decades but would be desperately poor without access to world markets — nations like Bangladesh, whose economic achievements have depended crucially on its garment exports.

Unfortunately, we’re relearning the lessons of World War I: The benefits of globalization are always at risk from the threat of war and the whims of dictators. To make the world durably richer, we need to make it safer.

 

Putin ammazzerà l’economia globale?

Di Paul Krugman

 

I commentatori economici ricorrono sempre ad analogie storiche, e con buona ragione. Ad esempio, coloro che avevano studiato le crisi bancarie del passato ebbero una comprensione migliore di quello che accadde nel 2008 rispetto a quelli che non l’avevano fatto. Ma c’è sempre il problema di quale analogia scegliere.

In questo momento, molti fanno riferimento alla stagflazione degli anni ’70. Sto sostenendo da tempo che questo è un parallelo negativo; la attuale inflazione sembra molto diversa da quella che conoscemmo nel 1979-80, e probabilmente molto più facile da interrompere.

Ci sono, tuttavia, buone ragioni per preoccuparsi che si stia assistendo ad una riedizione economica del 1914 – l’anno che interruppe quella che alcuni economisti definiscono la prima ondata della globalizzazione, un’ampia espansione del commercio mondiale resa possibile dalle ferrovie, dalle navi a vapore e dai cavi del telegrafo.

Nel suo libro del 1919 “Le conseguenze economiche della pace”, John Maynard Keynes – che in seguito ci avrebbe insegnato le depressioni – lamentava che avevamo assistito, precisamente, alla fine di un’epoca, “un episodio straordinario nel progresso economico dell’uomo”. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, scrisse, un abitante di Londra poteva facilmente ordinare “i vari prodotti dell’intero pianeta nelle quantità che avesse ritenuto opportune e aspettandosi ragionevolmente che sarebbero state in breve tempo consegnate alla sua porta”.

Ma non durò, grazie ai “progetti ed alla politica del militarismo e dell’imperialismo, alle rivalità razziali e culturali”. Vi suona familiare?

Keynes aveva ragione di considerare la Prima Guerra Mondiale come la fine di un’epoca per l’economia globale. Per prendere un esempio chiaramente rilevante, nel 1913 l’Impero Russo era un grande esportatore di grano; ci sarebbero volute tre generazioni prima che alcune repubbliche dell’Unione Sovietica riassumessero quel ruolo. E la seconda ondata di globalizzazione, con le sue catene dell’offerta che abbracciano il mondo rese possibili dalla containerizzazione e dalle telecomunicazioni,  davvero non ebbe inizio sino a circa il 1990.

Siamo dunque vicini a vedere una seconda deglobalizzazione? La risposta, probabilmente, è positiva. E mentre ci sono stati importanti aspetti negativi della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta, ci potranno essere persino conseguenze più gravi se, come il sottoscritto e molti altri temono, assisteremo ad una importante riduzione del commercio mondiale.

Perché il commercio mondiale sta prendendo un colpo? La abborracciata guerra di conquista di Vladimir Putin, ovviamente, ha comportato una fine delle esportazioni di grano dall’Ucraina, e probabilmente ha anche tagliato molte vendite della Russia. Non è del tutto chiaro quanto bruscamente le esportazioni di petrolio e di gas naturale della Russia siano già state ridotte. l’Europa è stata riluttante a imporre sanzioni su prodotti sui quali, in modo inetto, si è resa dipendente; ma l’Unione Europea si sta muovendo per porre fine a tale dipendenza.

E poi c’è di più. Non ci si sarebbe aspettati che la guerra di Putin avesse un effetto rilevante sulla produzione di automobili. Ma le auto moderne includono una gran quantità di circuiti elettrici, collocati in componenti specializzate chiamate cablaggi – e si scopre che molti cablaggi in Europa sono costruiti in Ucraina (nel caso ve lo stiate chiedendo, la maggioranza dei cablaggi statunitensi sono costruiti in Messico).

Eppure, la decisione della Russia di trasformarsi in un paria internazionale probabilmente non sarebbe stata di per sé sufficiente a ridurre drasticamente il commercio mondiale – come invece potrebbe la Cina, che gioca un ruolo fondamentale in molte catene dell’offerta, se decidesse di ripiegarsi su sè stessa.

Ma mentre la Cina non ha invaso nessuno (ancora?), ci sono guai anche su quel fronte.

In questo momento, la risposta della Cina al Covid, che aveva avuto un grande successo nelle fasi iniziali della pandemia, sta diventando sempre più una fonte di turbative economiche. Il Governo cinese insiste ancora nell’usare vaccini nazionali che non funzionano granché bene, e sta ancora rispondendo alle ondate della pandemia con blocchi draconiani, che stanno provocando problemi non solo alla Cina ma al resto del mondo [1].

Oltre a ciò, quello che Putin ci ha insegnato è che i paesi governati da uomini forti che si circondano di persone che dicono sempre sì, non sono partner affidabili negli affari. Uno scontro cinese con l’Occidente, economico o militare, sarebbe del tutto irrazionale – ma era tale anche l’invasione russa dell’Ucraina. È indicativo che la guerra in Ucraina sembra aver portato ad una fuga di capitali su larga scala … dalla Cina.

Dunque, se in questo momento siete un dirigente di impresa, certamente vi state chiedendo se è intelligente fissare il futuro della vostra società sull’assunto che continuerete a comprare quello di cui avete bisogno da regimi autoritari. Riportare la produzione verso nazioni che credono nello stato di diritto può elevare i vostri costi di qualche punto percentuale, ma il prezzo può valer la pena per la stabilità di quello che si acquista.

Se siamo prossimi a vedere una parziale ritirata dalla globalizzazione, sarebbe una cosa negativa? Le economie ricche ed avanzate finiranno solo leggermente più povere di quello che sarebbero state altrimenti; l’Inghilterra riuscì a continuare a crescere nonostante il declino del commercio mondiale dopo il 1913. Ma io sono preoccupato per l’impatto su nazioni che nei decenni recenti hanno fatto progressi ma sarebbero disperatamente povere senza l’accesso ai mercati mondiali – nazioni come il Bangladesh, le cui realizzazioni economiche sono dipese in modo fondamentale dalle esportazioni nell’abbigliamento.

Sfortunatamente, stiamo riapprendendo le lezioni della Prima Guerra Mondiale: i benefici della globalizzazione sono sempre a rischio dalla minaccia della guerra e dai capricci dei dittatori. Per rendere il mondo durevolmente più ricco, abbiamo bisogno di renderlo più sicuro.

 

 

 

 

 

 

[1] Nel testo inglese c’è una connessione con un articolo apparso sul New York Times del 15 marzo di Keith Bradsher. L’articolo ammette che  i 5.000 recenti casi di infezione della Cina (saliti a circa 9.000 il 1 aprile) sono ancora una quantità assai modesta, ma i danni alle catene dell’offerta verrebbero provocati dai lockdown ‘draconiani’.

Sulle dimensioni del Covid questi sono comunque alcuni dati dal 19 marzo al 1 aprile:

Cina continentale = 80.711 casi, 2 morti

Hong Kong = 146.294 casi, 2.544 morti

Corea del Sud = 4.600.711 casi, 4.828 morti

Stati Uniti = 416.119 casi, 10.094 morti

Italia = 994.983 casi, 1.930 morti

e infine … Toscana = 67.772 casi, 216 morti.

 

 

 

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