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Presentazione del blog, di Marco Marcucci (Luglio 2013)

Il lavoro intellettuale di Paul Krugman e il suo successo, ormai nell’opinione pubblica mondiale, sono un fenomeno non semplice da definire. Intanto una attività abbastanza stupefacente: un Premio Nobel per l’economia che sceglie di essere “columnist” del New York Times e, un anno  dietro l’altro, pubblica due articoli alla settimana, probabilmente i più letti e influenti negli Stati Uniti, che spaziano dalla analisi economica e sociale, ai temi del lavoro, della sanità e della previdenza, delle grandi emergenze ambientali, dello scontro politico quotidiano e della evoluzione del sistema politico americano, dei guai e dei destini dell’Europa; un economista prestigioso, che un giorno legge a Cambridge la stupenda prolusione al convegno mondiale per il 75° anniversario della pubblicazione del capolavoro di Keynes, e un altro giorno scende in campo a mani nude contro le bugie dei repubblicani americani nella campagna presidenziale;   un ricercatore economico e sociale che ci offre i suoi tre o quattro interventi quotidiani sul blog, direi utilizzando come nessun altro  un nuovo genere di comunicazione intellettuale, in pratica immettendoci nel suo laboratorio e al tempo stesso inondandoci di materiale di conoscenza del mondo reale, di dati, tabelle e diagrammi,  abituandoci ad un racconto politico fatto di misure, di verifica continua delle idee. Dopodiché la collaborazione, la sintonia e quasi il “gioco di squadra” con un certo numero di altri importanti economisti ed opinionisti, negli Stati Uniti e nel mondo; i suoi libri; i suoi saggi su Times Magazine, al tempo stesso sintesi di ricerca e strumenti di divulgazione. E, infine, la interlocuzione,  nel sostegno aperto e nella polemica aspra, con i massimi protagonisti della politica (un importante esperto degli Stati Uniti come Zucconi ha scritto tempo fa  che le sue opinioni sono semplicemente le cose più “ascoltate”).

Ora, tutto questo è inconsueto e in questo lavoro, nella scelta dei suoi strumenti, c’è una idea di fondo: si può ripensare la politica, la si può rendere maggiormente verificabile, spogliarla di retorica logora ma anche rivestirla di idee e di sfide, non essere costretti ad accettare  i luoghi dove la politica si incancrenisce e perde il requisito di essere verificabile, avere il coraggio di rifondarla non attraverso scorciatoie letterarie, ma anzitutto attraverso il confronto con i fatti ordinati con metodo scientifico. E in questa ambizione si può fare molta strada sul semplice terreno della “battaglia delle idee”, anche perché la rivoluzione dell’informazione apre uno spazio senza precedenti al potere delle idee. Questo è quello che io capisco del suo tragitto dalla teoria economica “pura” alla politica: la sua intuizione dello spazio che si è aperto nella trasmissione di idee da un versante all’altro, sino a costituire una vera e propria ipotesi di riforma della politica. Un tema grande ed anche, ammettiamolo, inatteso.

E’ chiaro che quel progetto è possibile se si mette al centro, se si rilegge e si fa propria, quella critica dell’economia che si produsse con John Maynard Keynes. Ma in questa condizione c’è qualcosa che è niente affatto, diciamo così, ‘scolastico’; non dovremmo avere il timore di doverci nuovamente iscrivere ad una ‘lettura del mondo’; dobbiamo solo avere la curiosità di leggere quello che accade alla luce di pensieri già espressi. Pensieri, però, che non è mai stato facile assimilare in modo organico. Perché Keynes non fu semplicemente un teorico dei ‘rimedi’ alle crisi economiche, come in genere ritengono tutti coloro che non lo hanno letto. Keynes fornì una lettura dei difetti iscritti geneticamente nelle società economiche moderne, indicandoli nelle loro manifestazioni più elementari (le società fondate sulla costruzione gregaria delle aspettative, come nei concorsi di bellezza sui giornali di un secolo fa; le economie-casinò esposte ai rischi degli eccessi finanziari ed immobiliari, ed anche agli eccessi delle ineguaglianze; più in generale una economia nella quale la domanda non è mera conseguenza dell’offerta, la decisione di investire e di consumare non dipende in modo semplicistico dalla capacità di produrre) e in quel modo ci suggerì il tema del possibile ritorno delle grandi crisi. I decenni dei trionfi del liberismo, sono stati anche l’epoca di grandi squilibri, all’interno dei quali la lunga recessione giapponese aveva caratteri che dovevano far riflettere, come se si fosse nuovamente prodotto un guasto nei meccanismi che presiedono alla volontà di crescita (al “magnete”, ovvero al sistema elettrico, disse Keynes). Di quei decenni, occorreva capire quello che si preferì non vedere; ovvero che  la storia del mondo, almeno per alcuni aspetti fondamentali,  era ancora quella che aveva prodotto la grande crisi degli anni Trenta. Non solo nel senso che le economie avanzate erano ancora esposte allo scoppio delle bolle finanziarie ed immobiliari, ed alle conseguenti  crisi di panico; soprattutto nel senso che, dopo il panico, dopo le enormi dilapidazioni di risorse nei salvataggi della finanza, si sarebbe riprodotto un guasto nei meccanismi della volontà di crescita. Saremmo nuovamente stati messi alla prova di una ‘trappola di liquidità’, ovvero di una situazione nella quale qualcosa si blocca nelle aspettative ordinarie e dunque negli investimenti delle imprese e nella spesa delle famiglie; nella quale i deficit si accompagnano a tassi di interesse vicini allo zero, la crescita della base monetaria si accompagna ad una bassa inflazione e lo stesso strumento della politica monetaria non può bastare, se non è accompagnato da un forte stimolo della spesa pubblica. L’austerità non porta fiducia ma depressione. L’incertezza nel sostegno pubblico all’economia porta a nuove cadute recessive, come nell’America del 1937.  Occorre disinnescare il guasto per far ripartire il meccanismo, fare le riforme che avrebbero potuto  evitare  la crisi globale, assumere in via (più) definitiva un metodo di giustizia sociale e di eguaglianza delle opportunità senza il quale non si coesiste col capitalismo.

Può darsi che da questo elenco di concetti traspaia come una esagerata presunzione di verità. Vien fatto di chiedersi: è dunque tutto così chiaro? In realtà, non mi pare che ci sia niente di più lontano da Krugman, quanto la pretesa di risolvere i problemi di oggi ricorrendo ad ideologie, a racconti non verificabili. La sua difesa è semplice, perché il suo metodo è quello della messa a confronto trasparente delle idee in campo. Era sufficiente lo “stimulus” di Obama? C’era un altro modo per affrontare il dramma della Grecia? L’austerità europea avrebbe prodotto espansione? L’ampliamento della base monetaria avrebbe fatto schizzare in alto l’inflazione? Avevano ragione o torto quegli economisti che vedevano grandi rischi nell’esperimento dell’euro, se non si fosse avuto il coraggio di riforme più grandi? Se si mettono insieme tutti questi capitoli ed altri ancora, è arduo sostenere che il problema sia, come è stata chiamata, la “trasgressività” di Krugman: è abbastanza evidente che il problema di questi anni non è stato il suo racconto, ma l’economia “magica” che hanno preteso di raccontare coloro che avevano la responsabilità di riparare i danni. Ed è evidente che questo è stato, in un certa misura, anche il problema delle forze progressiste. E’ difficile non vedere che in questi anni siamo stati di continuo sopravanzati da fatti che mostravano la fragilità del nostro impianto di idee. Possiamo negare che l’interesse che oggi sentiamo vivo per quegli argomenti, derivi fondamentalmente dal fatto che avrebbero dovuto essere i nostri argomenti?

Ma qua mi fermo, perché con questo spazio non si vuole fare niente di più che favorire una conoscenza più completa e diretta di quelle idee. Questa presentazione voleva essere una spiegazione di questo lavoro che faccio da un po’ di anni, al quale mi ha spinto una curiosità politica viva e non certo una competenza specialistica. Per questo ho deciso di rendere pubblica questa attività, superando la forma di “samizdat” che ha avuto sinora, con un centinaio di pazienti amici che ricevevano via via questi lavori.

Mi pare, infine, superfluo fornire delucidazioni e consigli sulle cose che vengono pubblicate su questo blog. Con poca curiosità si possono facilmente comprendere le caratteristiche dei vari settori. Le note sulla traduzione, sia quelle a fondo pagina che quelle della apposita rubrica, possono essere utili, se credete. Lo spazio per la discussione è aperto, purché sia chiaro, naturalmente, che è una discussione tra noi tutti e non con me in particolare, che ho già il mio daffare a tradurre (per la quale ultima attività sono invece apertissimo a critiche e consigli). Devo però fornire un chiarimento finale sul titolo di questo blog: perchè “La Fata Turchina”?

“Confidence fairy” – “la fata della fiducia” – è il nomignolo con il quale da anni Paul Krugman definisce le politiche economiche dell’austerità; l’idea magica secondo la quale, dinanzi alla caduta della domanda privata, tagliando la spesa pubblica e riducendo la crisi ad una sorta di racconto morale sugli sprechi presunti degli Stati assistenziali, si possa esserne compensati con la fiducia degli investitori, delle imprese e dei consumatori, dunque con la ripresa. A conti fatti, la “confidence fairy” non pare si stia materializzando. Forse per nostalgia collodiana, mi venne fatto sin dall’inizio di tradurre con “la Fata Turchina”, senza pensare che questa è tutt’altro genere di fata: non propone racconti magici, semmai è dotata di sconsolato realismo, pur nella affettività materna vede le disgrazie che si annunciano per il suo protetto. Ed ha “compassion” verso chi ha sfortuna, si sforza di aiutare i più deboli a vedere le trappole. Ad una certo punto decisi che non potevo continuare  a confondere due storie così diverse.

Dunque, oggi le dedico  il titolo di questo spazio. Non è evidente che, a modo loro, anche i progressisti hanno bisogno d’una fata? E poi, se non altro,  a titolo di modesto risarcimento per quella citazione impropria.

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Commenti dei Lettori (2)

  1. Marco Molgora says:

    buon giorno,

    Apprezzo molto l’economista Krugman per cosa scrive e come lo scrive in Inglese, da ex strudente di economia, ed attuale responabile amministrativo e del controllo di una azienda industriale.
    Io uso anche i suoi libri e scritti per “tenere fresca” la mia lettura in Inglese. Non è uno scrivere sempre facile per molti modi di dire e riferimenti alal vita america, per cui uso con piacere le vs. traduzione – da quando le ho di recente scoperte in intenet casualmente – come punto di confronto delle mia prima lettura in lingua originale.

    molte grazie
    (Marco Molgora)

     
    • mm says:

      Buona sera,
      grazie a lei per l’attenzione!
      Marco Marcucci

       

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