Note alla Traduzione

Alcuni avvertimenti sulla traduzione

 

Si segnala qualche soluzione relativa alla traduzione che  il lettore interessato ad un confronto col testo in inglese potrebbe trovare utile ed anche qualche spiegazione per espressioni frequenti – e talora in apparenza un po’ singolari – del ‘gergo’ di Paul Krugman. Si riportano anche alcune spiegazioni di concetti economici più complessi, talvolta scritte arditamente dal sottoscritto e talvolta desunte da testi o da Wikipedia. Questa non è una forma di apprendimento seria, ma una specie di piccola valigia di ‘pronto soccorso’ che si può aprire ogni qualvolta si sia trovato un bell’articolo che si è compreso quasi interamente, non fosse per una definizione misteriosa, della quale ci si accontenterebbe di intuire il senso. Un metodo, dunque, sconsigliabile, se non fosse anche più sconsigliabile non avere affatto curiosità di questo genere.

 

 

“Assets”.

In lingua italiana “assets” si tradurrebbe con “cespiti”.

Una buona spiegazione da Wikipedia in inglese: “Ogni cosa materiale o immateriale che è suscettibile di essere posseduta o controllata per produrre un valore e che si ritiene detenga una significato economico positivo è considerata un asset”. In riferimento ad una attività economica, gli assets rappresentano il valore di una proprietà che può essere trasformato in contante (anche se pure il contante è considerato un ‘asset’, dato che anche il contante può essere trasformato in più conveniente contante).

Il punto è che nel linguaggio economico corrente il termine asset è frequentemente utilizzato soprattutto ad indicare quella sua ‘suscettibilità’ di produrre un valore ulteriore rispetto al suo valore statico o originario. E questo in una certa misura è dipeso dagli sviluppi dei processi di finanziarizzazione, a seguito dei quali assets di vario genere sono diventati i protagonisti nella creazione di nuovi titoli finanziari. In tal modo, molti ‘beni materiali o immateriali’ – financo i mutui sulla casa garantiti da ipoteche – sono entrati come protagonisti anche troppo dinamici della finanza odierna. I cespiti intesi come i beni strumentali di una impresa (macchinari, impianti, automezzi, computers, immobili) – che per definizione rappresentano ‘immobilizzazioni’  sotto il profilo della destinazione economica – si prestavano peggio degli “assets” a restituire questo significato di utilizzabilità nel processo finanziario. Per questo, suppongo, spesso si lascia anche in italiano il termine inglese.

La soluzione migliore sarebbe tradurre “assets” con  “attivi”, come fa Gallino nel suo recente “Il colpo di Stato di banche e di Governi” (2013), distinguendo tra “attivi reali” (quelli che oltre al loro valore di scambio hanno un valore d’uso, come le abitazioni, gli impianti, i gioielli etc.) ed “attivi finanziari” (monete, baconote, titoli, azioni, derivati).

 “Austerians” e Austrians.

I primi sono un neologismo krugmaniano che sta per I ‘patiti’ dell’austerità. I secondi sono uno dei modi nei quali si definisce la scuola economica cosiddetta ‘marginalista’, che ebbe tra i suoi principali economisti effettivamente molti austriaci, nell’ultima parte del XIX secolo e successivamente. Tra i principali: Carl Menger nato in Galizia nel 1840 e morto a Vienna il 2921), Eugene Böhm-Bawerk (Brno 1851 – Kramsach 1914), Friedrich von Wieser (Vienna 1851 – Sankt Gilgen, Salisburgo, 1926).

“Ayn Rand”

Ayn Rand, è lo pseudonimo di  Alisa Zinov’yevna Rosenbaum O’Connor (San Pietroburgo, 2 febbraio 1905New York, 6 marzo 1982);  scrittrice, filosofa e sceneggiatrice statunitense di origine russa. La sua filosofia e la sua narrativa insistono sui concetti di individualismo, egoismo razionale (“interesse razionale”) e ed etica del capitalismo, nonché sulla sua opposizione al comunismo ed a ogni forma di collettivismo socialista e fascista. Il pensiero cosiddetto “oggettivista” della Rand ha – come anche tutto il “libertarianism” – molteplici origini liberali, anarchiche, antitotalitarie ed anche, più singolarmente, capitalistiche; spesso con esiti irreligiosi. Ma il mito dell’industriale creativo soffocato dalla burocrazia e costretto ad una resistenza addirittura “militante” – che è il tema del suo romanzo “Atlas Shrugged” –  è certamente una passione americana, nel senso almeno che sarebbe arduo immaginarlo come tema di un romanzo, altrove. Più recentemente, il libro della Rand è stato indicato come riferimento favorito da parte di molti repubblicani americani.

 

C.B.O. (Congressional Budget Office)

Il Congressional Budget Office è una Agenzia (“nonpartisan”, è scritto nella sua ‘homepage’) del Congresso degli Stati Uniti, che fornisce studi, ricerche e, in particolare, simulazioni sugli effetti delle proposte legislative e programmatiche dei congressisti americani. Non è “amata” nello stesso modo da tutti, ma è abbastanza rispettata  da tutti. L’agenzia è stata istituita nel 1974.

 “Beltway”.

Significa “circonvallazione, anulare, tangenziale”, ma nel linguaggio politico statunitense il termine si riferisce all’anello di Washington e, più precisamente, a quello che ci sta dentro: i palazzi del potere, le sedi della burocrazia statale, dei gruppi lobbistici ed anche dei principali media. Dunque, il termine indica la “Capitale” dell’America, e più spesso le consuetudini, i vizi e la cultura politica della Capitale.

  “Confidence Fairy” – “Bonds vigilantes” – “Vodoo economics”

Nel corso degli anni recenti, si incontrano frequentemente negli editoriali e nei posts di Krugman alcune espressioni ironiche, che vale la pena di spiegare in anticipo.

“Confidence fairy” – che traduciamo “fata turchina della fiducia” – è una espressione che si riferisce alla pretesa con la quale in questi anni si sono giustificate le politiche di austerità. Esse, a prescindere da qualsiasi descrizione del meccanismo economico che viene supposto, avrebbero il potere quasi magico di creare condizioni di maggiore fiducia nel consumatori e negli investitori, come se intervenisse una ‘fata’, un potere magico. Traduciamo “fairy” con “fata turchina” per nostalgia collodiana.

“Bonds vigilantes” – che traduciamo con i “guardiani dei bonds” – indica una seconda pretesa o aspettativa delle politiche conservatrici: l’idea che gli investitori sui mercati obbligazionari provvedano a “castigare” le politiche della spesa pubblica in deficit, operando in modo da punire gli Stati con elevati tassi di interesse. Si consideri che questa espressione, almeno negli anni recenti, venne usata in precedenza dal Wall Street Journal e dagli ambienti della destra americana, che prevedevano forti rialzi dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico, a seguito delle politiche dello “stimulus” (vedi più oltre). In realtà i tassi di interesse sono rimasti assolutamente bassi, almeno per quanto riguarda la situazione degli Stati Uniti, del Giappone, della Germania e dell’Inghilterra, confermando le previsioni che provenivano dagli economisti neokeynesiani americani e, in particolare, da Krugman.

“Vodoo Economics”. Questa è una espressione ironica di più vecchia data, ma si riferisce anch’essa al ricorso, frequente nelle posizioni di politica economica dei conservatori e repubblicani, a categorie “magiche”. L’espressione venne inizialmente utilizzata nei confronti della cosiddetta politica economica “dal lato dell’offerta” di Ronald Reagan, e si riferisce alla pretesa che politiche di sgravi fiscali nei confronti dei più ricchi e delle imprese, di per sé implichino necessariamente maggiori investimenti e dunque effetti allargati sull’economia. Krugman frequentemente mostra,  con abbondanza di dati, l’infondatezza della pretesa della destra, peraltro tuttora abbastanza incontrastata, che gli anni di Reagan siano stati anni di particolare crescita. Naturalmente, ad una economia “vodoo” corrispondono idee “zombies”, ovvero concetti che si perpetuano anche dopo che dovrebbero essere stati certificati nella loro inconsistenza. Di recente è stato edito negli Stati Uniti un libro di successo dell’economista australiano John Quiggin, che raccoglie una disamina di tali idee (“Zombie Economics . How dead ideas still walk among us”). 

  “Current account”, “capital account”, bilancia commerciale.

In economia il “conto corrente” è una delle due componenti primarie della bilancia dei pagamenti, essendo l’altra il “conto capitale”.  Il “conto corrente” è la somma della bilancia commerciale (esportazioni meno importazioni di beni e servizi), del reddito netto di fattori della produzione (come gli interessi ed i dividendi) e dei trasferimenti (come gli aiuti all’estero). Il “conto corrente” è una delle due più importanti misure delle caratteristiche del commercio estero di un paese (l’altra essendo il flusso netto di capitali investiti all’estero). Surplus nel conto corrente aumentano gli assets netti all’estero, mentre deficit di conto corrente producono l’effetto contrario. Sono inclusi nel calcolo sia i pagamenti dello Stato che dei privati. E’ chiamato “conto corrente” perché in generale i beni ed i servizi sono consumati nel periodo “corrente”.

Mentre il conto corrente riflette il reddito netto di una nazione, il conto capitale (“capital account”)  riflette il cambiamento netto nella proprietà degli assets nazionali. Un surplus nel conto capitale significa denaro che è entrato nel paese, ma diversamente dal conto corrente i flussi in entrata rappresentano  effettivamente denaro dato in credito o acquisti di assets, e non pagamento per prestazioni lavorative. Al contrario, un deficit del conto capitale significa denaro che esce dal paese. Il che può significare che il paese sta incrementando la sua proprietà di assets stranieri, o anche che i flussi di capitali stranieri si sono improvvisamente interrotti, mettendo a nudo le condizioni strutturali di quel paese.

 

La bilancia commerciale è la differenza tra le esportazioni di beni e servizi di un paese e le sue importazioni. Si dice che una nazione ha un deficit commerciale se importa più di quanto esporta. Vendite netta positiva con l’estero in generale contribuiscono ad un surplus del “conto corrente”; vendite nette negative con l’estero in generale contribuiscono al deficit del “conto corrente”. Poiché le esportazioni generano vendite nette positive, e poiché la bilancia commerciale è la componente tipicamente più larga del “conto corrente”, un surplus del “conto corrente” è solitamente associato con esportazioni nette positive. 

  Curva di Phillips, cenni di storia, deflazione, Nairu e attualità. (interamente da Wikipedia)

”L’economista neozelandese Alban William Phillips (19141975), nel suo contributo del 1958  ‘The relationship between unemployment and the rate of change of money wages in the UK 1861-1957′  (La relazione tra disoccupazione e il tasso di variazione dei salari monetari nel Regno Unito 1861-1957), pubblicato su Economica, rivista edita dalla London School of Economics, osservò una relazione inversa tra le variazioni dei salari monetari e il livello di disoccupazione nell’economia britannica nel periodo preso in esame. Analoghe relazioni vennero presto osservate in altri paesi e, nel 1960, Paul Samuelson e Robert Solow, a partire dal lavoro di Phillips, proposero un’esplicita relazione tra inflazione e disoccupazione: allorché l’inflazione era elevata, la disoccupazione era modesta, e viceversa. ” La società può permettersi un saggio di inflazione meno elevato o addirittura nullo, purché sia disposta a pagarne il prezzo in termini di disoccupazione “.(Robert Solow)

L’economista statunitense Irving Fisher, già negli anni venti aveva proposto una relazione simile a quella descritta dalla Curva. Tuttavia, la versione originariamente proposta da Phillips descriveva il comportamento dei salari monetari, comunque strettamente connessi all’inflazione. A motivo di ciò, secondo alcuni, la curva di Phillips dovrebbe essere più propriamente chiamata curva di Fisher.

Negli anni immediatamente successivi al contributo del 1958 di Phillips, diversi economisti nei Paesi maggiormente industrializzati furono convinti del fatto che i risultati di Phillips indicassero una relazione stabile, permanente, tra inflazione e disoccupazione. Un’implicazione di questa conclusione per la politica economica sarebbe stata che i governi avrebbero potuto controllare inflazione e disoccupazione, tramite una politica keynesiana, dovendo semplicemente risolvere un problema di trade-off tra i due obiettivi della politica economica, scegliendo un punto sulla curva di Phillips dove posizionare il sistema economico.

Tuttavia nel 1970, molti Paesi sperimentarono elevati livelli di inflazione e disoccupazione, fenomeni noti con il termine di stagflazione. Le teorie basate sulla curva di Phillips non erano quindi in grado di giustificare tale osservazione, e la curva di Phillips divenne oggetto di attacchi da parte di un gruppo di economisti, capeggiato da Milton Friedman, secondo i quali l’evidente fallimento delle politiche basate sulla curva richiedeva il ritorno a politiche economiche non interventiste, di libero mercato. Di conseguenza, l’idea che sussistesse una relazione semplice, prevedibile e persistente tra inflazione e disoccupazione fu abbandonata da gran parte dei macroeconomisti.

Alcuni studiosi credono che la ragione principale che ha causato il fallimento della curva di Phillips sia la sua origine statistica basata su dati solo britannici e tedeschi. Altri, invece, dimostrano come il fallimento della curva di Phillips valga sempre e comunque, proprio secondo l’indagine empirica e generale base della scienza economica.

Nuove teorie quali quella sulle aspettative razionali (NAIRU) (non-accelerating inflation rate of unemployment) sono nate per cercare di spiegare la stagflazione. In particolare la NAIRU, detta anche teoria del livello naturale di disoccupazione, distingue tra curve di Phillips di breve o di lungo periodo.

La curva PC (Philips curve) nel breve termine sembra come una normale curva PC, ma traslata in quanto nel lungo periodo le aspettative cambiano (come nel diagramma). Nel lungo periodo, solo un costante tasso di disoccupazione (il Nairu, tasso naturale di disoccupazione) è collegato ad un tasso di inflazione stabile. La curva di Phillips nel lungo periodo è così verticale, così non c’è alcun trade-off (costo-opportunità) tra inflazione e disoccupazione.

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Nel diagramma, la Curva di Phillips di lungo periodo è la linea rossa verticale. La teoria del NAIRU dice che il tasso di disoccupazione è situato al di sotto di questa linea, in quanto dopo il cambiamento A, le aspettative di inflazione aumenteranno. Questo sposterà la Curva di Phillips del breve periodo in alto, come indicato dalla freccia indicata con B. Questo creerà un peggiore trade-off tra disoccupazione ed inflazione. In questo modo ci sarà una maggiore inflazione ad ogni livello del tasso di disoccupazione rispetto a prima. Così, spostandoci al problema delle “accelerazioni di inflazione” endogene, la teoria spiega la stagflazione.

Il nome “NAIRU” (tasso naturale di disoccupazione) nasce dal fatto che con una disoccupazione effettiva al di sotto di esso, l’inflazione accelera, con una disoccupazione al di sopra di esso decelera. Con il tasso attuale di disoccupazione pari al NAIRU l’inflazione è stabile, non accelera e non decelera.

La teoria delle aspettative razionali dice che le aspettative dell’inflazione sono uguali a ciò che effettivamente succede, con alcuni minori errori temporali. Ciò suggerisce che il breve periodo è così breve da essere inesistente: ogni sforzo di ridurre la disoccupazione al di sotto del NAIRU, ad esempio, causerebbe immediatamente un aumento dell’inflazione attesa ed implicherebbe un fallimento della politica. La disoccupazione non devierebbe mai dal NAIRU salvo errori casuali e transitori nella formazione delle aspettative sul tasso di inflazione futuro. In questa prospettiva, ogni deviazione dall’attuale tasso di disoccupazione dal NAIRU era una illusione.

In ogni caso nel 1990 negli USA divenne sempre più chiaro che il NAIRU non ha un unico equilibrio e che può cambiare in differenti modi. Nei tardi anni ’90 il tasso naturale di disoccupazione scese al disotto del 4% della forza lavoro, molto al di sotto di ogni stima del NAIRU. Ma l’inflazione rimase moderata invece che accelerare. Così come la curva di Phillips, anche il NAIRU divenne argomento di dibattito.

Successivamente, il concetto di aspettative razionali divenne un argomento di cui dubitare quando fu chiaro che la più importante assunzione su cui si basava il modello era che ci fosse un singolo (unico) equilibro nell’economia, oltre il tempo ed indipendente da condizioni della domanda. L’esperienza degli anni ’90 suggerisce che questa assunzione non può essere suffragata.

Gli economisti più pragmatici continuano ad utilizzare la curva di Phillips. Tuttavia, al contrario della curva di Phillips statica che fu popolare negli anni ’60, la nuova curva può sopportare alcuni cambiamenti, così che seguire una certa politica può avere differenti risultati in differenti periodi temporali; il “trade-off” può peggiorare (come negli anni ’70) o migliorare (come negli anni ’90)

Questo può essere visto in una analisi dell’inflazione e dei dati della disoccupazione nel 1952-1953 negli Stati Uniti. Non c’è una singola curva che sia adeguata ai dati, ma ci sono tre sufficienti approssimazioni aggregate: 1955-71, 1974-84 e 1985-92, ognuna delle quali mostra un generale e decrescente andamento, ma traslate a tre livelli differenti. I dati del 1953-54 e 1972-73 non si possono raggruppare facilmente ed una più formale analisi porterebbe a cinque gruppi/curve sul periodo considerato.

Nel 1993 Paul Ormerod usò i dati del 1953-92 per adattare statisticamente la curva di Phillips alle relazioni tra inflazione e disoccupazione, non ai tassi, ma alla “variazione dei tassi”; mostrando una valida relazione per l’intero periodo.”

 

 “Death panels”.

L’espressione . che traduciamo con “tribunali/giurie della morte” è stata frequentemente e demagogicamente usata negli anni passati dai conservatori (in particolare dal movimento del Tea Party) in occasione del dibattito sulla riforma della assistenza sanitaria. Era riferita, per l’appunto, a quelle disposizioni che puntavano ad un maggior controllo dei costi della sanità e, in particolare, ai casi di esagerato ‘accanimento terapeutico’ (in realtà non veniva escluso alcun “accanimento terapeutico”, si cercava di evitare che fosse caricato sui costi pubblici).

Il timore che venne diffuso era relativo al fatto che “tribunali/giurie” di burocrati avrebbero potuto, come si disse, prendere la decisione di “staccare la spina alla nonna”. Come è noto si trattò di una impostazione demagogica di una certa efficacia,  che contribuì alle fortune iniziali del movimento populistico denominato Tea Party.

 

 Debt ceiling.

Il “tetto del debito” è una espressione che si riferisce ad un provvedimento di autorizzazione al superamento dell’ammontare del debito dell’anno finanziario precedente, che in modo piuttosto illogico ogni anno deve essere approvato dalla Camera dei Rappresentanti.  Nonostante che il superamento del debito storico sia già stato formalmente implicito nelle leggi finanziarie o nelle legislazioni settoriali, il fatto che esso debba essere formalmente votato al termine di ogni anno teoricamente determina le condizioni – qualora la maggioranza alla Camera sia diversa da quella che ha eletto il Presidente – come minimo per una drammatizzazione dello scontro politico, come massimo per una crisi economica drammatica. Poiché, infatti, il Governo federale non può non agire nel corso dell’anno sulla base della legislazione vigente, non decidere alla fine dell’anno finanziario di aumentare il tetto del debito equivale a non avere i mezzi per proseguire la normale amministrazione. E, nella normale amministrazione, è compreso anche il pagamento degli interessi sul debito pubblico; cosicché il non incremento del tetto del debito in pratica costringerebbe ad una situazione di ‘default’.

E’ solo il caso di notare che avere ogni anno un debito in cifre assolute superiore all’anno precedente è semplicemente una ovvietà, non fosse altro per gli effetti dell’inflazione e dell’incremento della popolazione che accede ai servizi federali. Il tetto del debito, infatti, non si riferisce alla percentuale del debito sul PIL, ma al debito in cifre assolute.

In realtà non era quasi mai accaduto che questo passaggio fosse sfruttato dall’opposizione in modo spregiudicato. Accadde una prima volta sotto la Presidenza Clinton, quando il leader Repubblicano era Newt Gingrich. E’ poi accaduto in modi altrettanto clamorosi nel 2011 e, indirettamente, provocherà ulteriori effetti alla fine del 2012, giacché l’accordo che si trovò per superare la crisi dell’anno passato fu, per molti aspetti, niente di più che un “armistizio”. Dopodiché ci sarà l’appuntamento del tetto del debito del 2013, che si preannuncia altrettanto spettacolare (questa nota, ovviamente, è stata scritta prima del 2012-2013, ma le cose sono andate esattamente come previsto).

 

 “Double-dip recession”.

Letteralmente significa quando si ha una seconda caduta recessiva, ovvero quando il grafico dell’economia si abbassa (“dip”) per la seconda volta consecutiva. E’ la situazione di molti paesi che, dopo l’effetto bruscamente recessivo della crisi finanziaria del 2008, sono nuovamente tornati alla recessione a seguito di politiche della finanza pubblica restrittive. Si ricorderà che, attorno al 2009 – 2010, il dibattito tra molti ‘esperti’ consisteva nel profetizzare – in termini di anni ed anche di mesi – i tempi della ripresa. Allora una “double-dip recession” pareva una sorta di esagerato malaugurio. Economisti come Krugman aveva messo subito in evidenza come la crisi di domanda derivante dall’esplosione della bolla e dalla tendenza generale alla riduzione dell’indebitamento nel settore privato, faceva piuttosto pensare ad una crisi lunga, del genere di quella del cosiddetto ‘decennio perduto’ del Giappone. L’economia non si sarebbe ripresa, per effetto della situazione generale caratterizzata dal fenomeno del cosiddetto “limite inferiore dello zero” (vedi la nota relativa). Non dappertutto, però, quella situazione ha prodotto il fenomeno di una seconda vera e propria caduta recessiva. Questo è accaduta in particolare dove si è prodotta una ulteriore accentuazione della crisi di domanda derivante dalle politiche restrittive pubbliche – come in Inghilterra – o dalla combinazione della crisi dell’euro e delle politiche di austerità.

 

“Exchanges” (nella riforma della assistenza sanitaria di Obama)

Le “borse” sono dei nuovi istituti della riforma sanitaria americana, fondamentalmente finalizzati a favorire l’incontro tra la domanda del nuovi acquirenti i trattamenti assicurativi e le assicurazioni stesse, in competizione l’una con l’altra, Esse dunque sono servite, in una prima fase, a rendere note le condizioni di ogni assicurazione e successivamente a favorire le procedure, anche on line, di acquisto della copertura assicurativa e l’ottenimento dei sussidi pubblici. Esiste una “borsa” unica federale – che è quella nella quale è andato subito in tilt il sistema informativo – ed esistono altresì, dove si sono scelte, “borse” al livello dei singoli Stati. Queste ultime in genere hanno funzionato bene, consentendo di sperimentare i primi passi della riforma.

 “Financial Repression”

“Financial repression” (“Repressione, inibizione finanziaria”) è una delle misure che un Governo adotta per incanalare verso se stesso finanziamenti che, in un mercato senza regole, potrebbero andare in tutte le direzioni. Il termine fu introdotto per la prima volta nel 1937 dagli economisti della Stanford University della California Edward S. Shaw e Ronald I. McKinnon.

Nel 2010 gli economisti Carmen Reinhart e Belen Sbrancia elencarono queste cinque forme principali di “inibizione finanziaria”: a) esplicita oppure indiretta fissazione di un tetto sui tassi di interesse (ad esempio sui tassi sui titoli del debito o sui depositi bancari); b) proprietà statale o controllo pubblico sulle banche nazionali e sugli istituti finanziari, con la simultanea fissazione i barriere affinché altri istituti non cerchino di entrare sul mercato; c) definizione di requisiti per riserve degli istituti di credito relativamente elevate; d) creazione o mantenimento di un mercato interno controllato per il debito statale, attraverso la richiesta alla banche nazionali di detenere obbligazioni sul debito, proibendo i disincentivando altri utilizzi dei capitali che sarebbero altrimenti preferiti; e) restrizioni governative sui trasferimenti di assets all’estero, attraverso forme di controllo sui capitali

 Fiscal

Il termine inglese “fiscal”, diversamente dall’analogo italiano “fiscale”, non indica soltanto qualcosa che attiene alle tasse (regole, aliquote, sgravi, esazione, evasione etc.), ma più in generale qualcosa che attiene alla finanza pubblica, ovvero anche all’utilizzo del denaro proveniente dalle tasse. Normalmente, quando si intende riferirsi alle tasse in senso stretto, si usa semplicemente il sostantivo “tax”, magari in funzione aggettivale (“tax policy”, ad esempio). La “fiscal policy”, invece, non è solo la politica fiscale, ma più in generale la politica degli equilibri di bilancio e della spesa pubblica. E, se la “fiscal policy” è in senso lato la “politica finanziaria”, essa non include però gli aspetti che propriamente attengono alla politica monetaria. Ad esempio, gli acquisti di obbligazioni da parte di una Banca Centrale, o la svalutazione di una moneta, appartengono alla “monetary policy” e non alla “fiscal policy”.

E’ evidente che, anche in questo caso, la terminologia anglosassone sta entrando nel nostro linguaggio ordinario. Si può anzi dire che stiamo assistendo in questi anni al fenomeno: i giornali hanno cominciato a scrivere  di una futura politica “fiscale” unica europea, evidentemente riferendosi in generale ad una politica della finanza pubblica. La soluzione è abbastanza illogica,  giacché in lingua italiana il termine – come chiarisce il Devoto-Olli – sta a significare “Relativo al fisco; inerente all’attività finanziaria dello Stato, specialmente all’imposizione e riscossione di tributi”.

In realtà, la mia impressione è che in questo caso la ‘anglicizzazione’ della nostra lingua non sarà così semplice. Anzi, direi che il fenomeno al quale stiamo assistendo – per il quale si comincia a tradurre “politica di bilancio o politica della finanza pubblica” con “politica fiscale” – dipende fondamentalmente dalla vacuità del dibattito economico italiano, nelle sue versioni più popolari e giornalistiche. Se, infatti, si può grosso modo intendere che si definisca “Patto fiscale” il “Fiscal Pact” europeo, perchè si ha qualche nozione che quello è il termine usato in lingua inglese per quel Patto e si tende a non porsi domande più complicate, tradurre “fiscal” con “fiscale” in modo generalizzato produce notevolissimi inconvenienti. In una frase nella quale compaiano contemporaneamente i concetti della politica di bilancio o della finanza pubblica e della politica delle tasse, si rischia di non capire più di cosa si sta parlando. Oppure, in una frase nella quale si vuole esprimere il concetto di una “restrizione” delle politiche di bilancio, tradurlo con “restrizione fiscale” può finire con significare quasi la cosa opposta (in genere, una restrizione delle politiche di bilancio non è affatto escluso che si accompagni a maggiori tasse).

E, in effetti, ho cominciato a notare che persino traduzioni autorevoli sulla stampa nazionale, cominciano ad andare a sbattere con tali inconvenienti. Per cui penso sia giusto ostinarsi a tradurre “fiscal” come qualcosa che attiene alla “finanza pubblica” o ai “bilanci pubblici”. Ripeto, non si tratta di ostinazione o di purismo linguistico preconcetto; si tratta semplicemente del fatto che in inglese l’aggettivo “fiscale” nel senso delle tasse si traduce normalmente con “tax”, e dunque usare un termine unico in italiano comporta inevitabilmente una gran confusione.

Fiscal cliff

“Fiscal cliff” è il termine usato per descrivere il rompicapo che il governo statunitense dovrà affrontare alla fine del 2012, quando I termini delle legge di Bilancio del 2011 andranno a scadenza (naturalmente, questa nota è stata scritta in precedenza). Tra le leggi che debbono essere cambiate per quella data, c’è la fine degli sgravi temporanei delle tasse sugli stipendi (che comporterebbero un incremento  del 2% delle tasse sui lavoratori), la fine di certi sgravi fiscali per le imprese, modifiche alla alternativa della ‘minimum tax’, la fine degli sgravi fiscali provenienti dagli anni  2001-2003 e l’inizio delle tasse connesse con la legge di riforma della assistenza sanitaria di Obama. Nello stesso tempo i tagli alla spesa che furono concordati come parte dell’accordo sul ‘tetto del debito’ del 2011 comincerebbero ad andare in vigore. In sostanza maturerebbero tutte assieme le varie conseguenze di una sorta di bizzarro ‘armistizio’ legislativo che in questi anni ha caratterizzato la situazione nel Congresso americano, in bilico tra le proposta della amministrazione Obama e la preponderanza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti. Tale situazione si è caratterizzata per vari compromessi di rinvio di questioni rilevanti che, senza una legislazione di modifiche positive, andrebbero tutte assieme a produrre i loro effetti.

 “Freshwater and saltwater economists”

Letteralmente: “economisti dell’acqua dolce ed economisti dell’acqua salata”. Questo è il modo, un po’ stupefacente, con il quale sono state chiamate le due principali scuole del pensiero economico americano dell’ultimo mezzo secolo: quella in qualche modo riferibile all’influenza di Milton Friedman e della “scuola di Chicago” e quella di impronta neo-keynesiana. In realtà, questo modo sintetico di riferire le due tendenze è ovviamente superficiale e non dà conto di varie articolazioni tutt’altro che secondarie.  Ad esempio: nella riflessione di Krugman sulle ‘disavventure’ della disciplina macroeconomica alla luce della crisi del 2008 e seguenti (vedi  “How did economists get it so wrong”, Times Magazine 2 settembre 2009 nonché vari posts successivi), egli ha teso a stabilire un diversa linea di frattura, tra quella parte di pensiero economico che ha riconosciuto l’importanza delle politiche almeno monetarie anticicliche e quella che l’ha negata. In quel modo Friedman starebbe con i primi, sia pure in dissenso totale con i keynesiani a proposito dell’efficacia anche delle politiche della spesa pubblica. Nel campo opposto, si potrebbe notare che tra i vari generi di neo-keynesismo – come ancora ha riconosciuto Krugman molto di recente(“Things that never happened in the history of macroeconomics”, 5 dicembre 2011) – un economista del tutto ingiustamente ‘emarginato’ sarebbe Hyman Minsky, abbastanza trascurato in particolare negli Stati Uniti, al momento della sua scomparsa negli anni ’70.

Ciononostante quella definizione è quella che è servita per decenni ad indicare le due tendenze principali del pensiero economico americano contemporaneo. Questa distinzione tra “saltwater economists” e “freshwater economists” venne effettivamente coniata da Robert H. Hall nel 1976. Le Università che prevalentemente aderivano all’impostazione keynesiana, collocate sulla costa orientale ed occidentale degli Stati Uniti, erano Berkeley, Harvard, MIT, University of Pennsylvania, Princeton, UCLA, Stanford e Yale. Le Università aderenti al gruppo dell’ “acqua dolce” erano la University of Chicago, la Carnegie Mellon University, la University of Rochester, la University of Minnesota.

Furono, dunque, chiamate dell’ “Acqua salata” quelle sulle due coste oceaniche, e dell’ “Acqua dolce” quelle della area geografica del grandi Laghi.

 

Goldbuggism

“Goldbuggism” è intraducibile, deriva da “gold bug” che significa “scarabeo d’oro”, ed era effettivamente una immagine coniata su una moneta aurea (all’origine del termine, e probabilmente del conio, era un omonimo racconto di Allan Edgar Poe, nel quale uno scarabeo di coloro oro conservava il misterioso segreto nientemeno del tesoro di “Capitan Kidd”) . “Goldbugs” vennero chiamati quei Democratici che uscirono dal Partito Democratico nel 1896, nel mezzo di un gran dibattito sulla politica monetaria, in polemica con il leader democratico William Jennings Bryan. Bryan e la maggioranza del Partito Democratico sostenevano una politica economica basata sul conio illimitato dell’argento, su bassi tassi di interesse, sulla proprietà statale delle grandi infrastrutture di trasporto, sulle riforme del lavoro ed su un inizio di tassazione progressiva. In sostanza, una piattaforma di espansione monetaria e di riforme sociali, nell’interesse di un blocco sociale ‘popolare’, di lavoratori e di coltivatori del Sud, in opposizione alla egemonia capitalistica e finanziaria dell’Est. Questa posizione di Bryan gli valse il sostegno del Partito Populista (“National People’s Party”), che su quei temi sociali e monetaristi era nato, e che fu per una ventina d’anni l’unico effettivo esempio di “terzo Partito” nella storia politica americana. Di contro, i “goldbugs” erano i sostenitori della parità aurea, accusavano gli avversari di radicalismo spregiudicato  e, dopo la separazione, fondarono un loro Partito, il “National Democratic Party”, che non ebbe lunga storia. Come si nota, questo contrasto tra una piattaforma populista e in termini economici “sperimentale” ed una piattaforma ispirata alla “ortodossia capitalista”, prefigurava aspetti della storia politica americana che tornarono ad essere rilevanti negli anni Trenta, col New Deal. Rimase famosa una frase di Bryan, nel corso della Convenzione democratica, quando in polemica con i “goldbugs” disse che non si poteva “crocifiggere il genere umano ad una croce aurea”.

 

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“Headline inflation” e “core inflation”.

Normalmente in italiano si traduce la prima espressione con “inflazione complessiva o totale”, mentre la seconda si traduce con “inflazione sottostante o sostanziale”. Normalmente in Italia ed in Europa si adopera solo la prima, e dunque la si chiama semplicemente “inflazione”. La differenza tra le due consiste nella inclusione nella prima, e nella esclusione nella seconda, degli andamenti dei prezzi di alcune materie prime alimentari e del petrolio. Questi prezzi sono frequentemente soggetti a mutamenti del tutto temporanei, e questa è la ragione per la quale la Federal Reserve – diversamente dalla Banca Centrale Europea – si riferisce normalmente al dato della “core inflation”, considerandolo più attendibile.

Nel corso degli anni 2010-2011 Krugman ha ripetutamente polemizzato con l’utilizzo della “headline inflation” da parte di vari soggetti che, su quella base, prevedevano una forte tendenza al rialzo dei prezzi. In realtà quel rialzo non c’è stato, perché, per l’appunto, le variazioni di alcune materie prime e dei prezzi del petrolio sono state, come previsto, piuttosto effimere e sono regredite. Su questo tema, tra l’altro, ci fu una polemica piuttosto aspra con Lorenzo Bini Smaghi, allora membro del consiglio della BCE.

In quale senso si adopera il termine “headline”? Come è noto è il termine con il quale si  indicano i “titoli” dei giornali o i “sommari delle principali notizie” dei telegiornali; probabilmente, dunque, il senso etimologico è quello di una misurazione che è “comprensiva” di tutti gli elementi singoli; mentre “core” include solo gli elementi più stabili e perciò sostanziali.

 

 “Labor force participation”

Nel nostro linguaggio statistico corrisponde a “tasso di attività”, benché il senso sia più generico (“partecipazione alle forze di lavoro”) perché l’effettivo tasso di attività si esprime con “labor force participation rate”. In ogni caso di tratta del rapporto tra occupati e popolazione delle classi di età corrispondenti.  Per occupati, nel linguaggio statistico americano, si intendono coloro che sono in attività, ma anche coloro che sono in attiva ricerca di una attività. Si deve considerare che nei decenni, con l’eccezione di gravi recessioni, rispetto a noi  la mobilità inter lavorativa è stata più diffusa ed i tempi di reinserimento più brevi. 

La stima sul tasso di attività spesso si ottiene considerando il rapporto con la popolazione delle generazioni dai 25 ai 54 anni. E’ un calcolo che viene considerato più oggettivo, perché l’inserimento delle fasce di popolazione più giovani o più anziane introduce elementi meno costanti nelle serie storiche, quali la scolarità ed i trattamenti assicurativi di anzianità.

 La “Regola di Taylor” (“Taylor Rule”)

Per “regola di Taylor” si intende una regola di politica monetaria che definisce quanto la banca centrale può modificare i tassi di interesse nominali in risposta ai mutamenti nell’inflazione, nella produzione, o in altri parametri economici principali.  Essa venne proposta dall’economista statunitense John B. Taylor nel 1993, ed era intesa a promuovere la stabilità dei prezzi e la piena occupazione, riducendo sistematicamente l’incertezza ed incrementando la credibilità verso le azioni future della banca centrale.

 “Lesser Depression”.

Significa Depressione Minore, ed è il termine – mi pare coniato da Krugman e non utilizzato da altri – per riferirsi talvolta alla crisi economica di questi anni, in quel modo distinguendola dalla Great Depression degli anni ’30. In genere, Krugman definisce “Depressione Minore” la prima fase della crisi di questi anni, quella immediatamente connessa con la crisi finanziaria statunitense del 2008. Ovvero, quella fase nella quale si sono avuti i veri e propri fenomeni di collasso dei circuiti finanziari che sono apparsi come una effettiva riedizione dell’ “assalto agli sportelli” degli anni Trenta.

“Liberal, liberals” e “neoliberal”.

Quando il termine si riferisce, come di solito, ad una parte dello schieramento politico – interna ma anche esterna al Partito Democratico, eppure non coincidente con l’intero Partito Democratico  – traduciamo di solito con “progressista, progressisti”. E’ infatti noto che tale espressione non è fondamentalmente attinente ai capisaldi del pensiero politico o economico “liberale”, che in generale sono considerati aspetti che accomunano i due Partiti principali (negli Stati Uniti l’unanimità liberale è, in un certo senso, simmetrica alla ‘diabolicità’ socialista). Essa invece riguarda soprattutto altri aspetti, relativi alle politiche di protezione sociale, di minore diseguaglianza sociale, di minore sperequazione dei trattamenti fiscali,  o dei diritti civili e delle tutele ambientali, che nel nostro linguaggio politico sono esprimibili con la parola, forse più generica, “progressista”.

Naturalmente, “liberal” è anche il connotato di un pensiero che considera il mercato ed il capitalismo come il migliore orizzonte sociale, ovvero un pensiero economico che in generale esclude che il ruolo dello Stato possa complessivamente sostituirsi ai meccanismi regolatori della competizione privata. Questa ‘radice’ anche economica del termine “liberal” appare chiaramente in una espressione diversa ma derivata, quella di “neoliberal”.  In questo caso, l’enfasi cade sulla supposta assoluta superiorità della economia di mercato in quanto opposta ai tentativi di regolamentazione statale e democratica; grosso modo nel senso in cui noi parleremmo di “liberismo”. “Neoliberal” fu anche la politica economica con la quale Pinochet – non a caso con la consulenza di Milton Friedman – liquidò in Cile l’esperienza di Allende; “neoliberal” più in generale è stato nei decenni passati anche sinonimo di una ideologia basata sulla globalizzazione. Ma non mi pare una espressione molto frequente (forse perché i “liberals” effettivi sono restii a concedere il prefisso di “neo” ai conservatori, ed i conservatori non sono granché interessati ad impossessarsene).

“Liquidity trap”.

E’ il termine tecnico con il quale le scuole economiche keynesiane si riferiscono ad una particolare condizione dell’economia caratterizzata da una crisi della domanda di consumi e di investimenti, da tassi di interesse molto bassi e da inflazione assai contenuta. Naturalmente essa si riferisce ai concetti generali della “Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (1936) di John Maynard Keynes, relativi alla analisi delle condizioni economiche di crisi della domanda, anche se quella espressione specifica non mi pare sia stata effettivamente inventata da Keynes. Ad essa rimanda anche il contributo teorico di John Richard Hicks nel suo  “Valore e Capitale” (1937) ed al ‘modello’ di funzionamento generale degli scambi economici denominato “Modello IS-LM”. Il modello IS-LM, in particolare,  mostra con relativa  semplicità come, tassi di interesse molto bassi successivi a shocks di varia natura – ad esempio la crisi finanziaria del 2008, nella misura in cui ha alimentato una corsa alla riduzione dell’indebitamento del settore privato – oltre ad essere la manifestazione di una forte flessione di consumi e di investimenti, siano anche il sintomo di una difficoltà ad innescare un processo opposto, indichino cioè una tendenza al prolungamento nel tempo di una situazione recessiva. Il risparmio prende in quel caso la strada analizzata da Keynes di una “preferenza per la liquidità”.

Come detto, secondo Krugman e altri studiosi, un fattore scatenante può essere quello della improvvisa e troppo rapida necessità o tendenza ad azioni di riduzione del rapporto di indebitamento (“deleveraging”), ovvero della misura nella quale si era abituati a finanziare investimenti con il ricorso al credito. La crisi del debito privato, peraltro, può accompagnarsi – in questo caso per scelte politiche – ad una percezione di crisi anche del debito pubblico, ovvero a politiche di “austerità” che completano l’effetto di una crisi generale della “domanda allargata”. A quel punto, la “trappola della liquidità” può dirsi pienamente in funzione.

Questa condizione venne in modo particolare studiata  da Krugman nel corso degli anni ’80 in riferimento all’economia giapponese. In quel caso la “trappola di liquidità” originò una lunga fase di depressione dell’economia, anche nota come il “lost dacade” (“decennio perso”) del Giappone. In realtà, ormai il periodo di quella  condizione ha abbondantemente superato il decennio. Dinanzi alla crisi finanziaria degli anni 2008-2009 Krugman ed altri esponenti dei gruppi neokeynesiani americani parlarono per primi di una condizione di “trappola di liquidità” simile a quella del Giappone.

In effetti, le due condizioni tipiche di tale “trappola” – tassi di interesse bassi ed inflazione bassa – sono state ampiamente confermate dagli andamenti successivi.

E’ interessante notare come l’espressione “trappola di liquidità” abbia sostanzialmente subito una censura proprio in questi anni recenti. Krugman (vedi anche il post del 13 maggio 2013) ha talvolta fatto notare come – secondo alcune ricerche con metodologie informatiche – il termine “trappola di liquidità”, ad eccezione del suo utilizzo medesimo, sarà comparso nell’intero dibattito economico mondiale si e no una decina di volte, almeno sino al 2012. Probabilmente, nessuna volta in italiano, aggiungiamo noi.

 

“Loanable funds” e preferenza per la liquidità: due teorie per i tasso di interesse.

 

La teoria del tasso di interesse basata sui “fondi mutuabili” (così normalmente si traduce alla lettera “loanable funds”, intendendo dire che quella teoria si basa sull’idea che i fondi risparmiati siano di per sé ‘concedibili’ per gli investimenti) appartiene alla teoria economica classica, ed è oggetto della critica di Keynes nel Capitolo tredicesimo della “Teoria Generale” (il tema in realtà prosegue anche nel capitolo quattordicesimo e quindicesimo). Scrive Keynes che in termini generali, nella teoria economica tradizionale, il tasso di interesse “è il fattore equilibratore che rende uguale la domanda di risparmio, sotto la forma di investimento nuovo realizzato a un tasso di interesse dato, all’offerta di risparmio risultante a quel tasso di interesse dalla propensione psicologica a risparmiare della collettività”. Ovvero: l’utilizzo di capitali per investimenti che si rivolge al risparmio, costituisce la domanda; la disponibilità a cedere quei capitali costituisce l’offerta. Dall’incontro tra quella domanda e quell’offerta, scaturisce un determinato tasso di interesse, che è il modo nel quale vengono soddisfatti gli investitori – che utilizzeranno quei capitali in ragione della maggiore convenienza degli investimenti che hanno i mente – ed i risparmiatori – che in virtù di quel tasso di interesse avranno un vantaggio rispetto a trattenere presso di sé i propri risparmi.

L’obiezione di Keynes è però che una volta che ci siano note sia la domanda che l’offerta, non per questo possiamo dedurne un tasso di interesse particolare, e dobbiamo constatare che quella definizione non può essere soddisfacente.

Una volta che un individuo, sulla base della sua propensione al consumo, abbia deciso quanto intende consumare e quanto accantonare per il suo consumo futuro, lo attende una seconda scelta. Egli ha deciso quanto intende consumare, ma deve ancora decidere in quale formaintende accantonare il resto, per consumi futuri. Vorrà tenersi la moneta nella forma di una disponibilità liquida immediata? “Oppure è disposto ad abbandonare la disponibilità immediata per un periodo determinato o indefinito, lasciando alle condizioni future del mercato di determinare a quali condizioni egli potrà convertire, ove necessario, la disponibilità differita di beni specifici in potere d’acquisto immediato su beni in generale?” Ovvero: terrà i propri soldi da parte, disponibili per ogni utilizzazione immediata, oppure li porterà ad una banca ed acquisterà titoli finanziari, che non gli consentiranno, per un periodo determinato o anche indefinito, un immediato riutilizzo per qualche consumo?

L’errore, dice K., delle teorie comunemente accettate sul tasso di interesse, consiste nel considerarlo come una “ricompensa per il risparmio o l’astinenza in quanto tali”, ovvero di considerare solo la prima scelta, trascurando il fatto che la preferenza psicologica si esprime anche con la seconda scelta. Con quest’ultima, l’individuo decide se rinunciare per un certo tempo alla possibilità di consumare, oppure se mantenersi in ogni momento la possibilità di consumare: e anche questo costituisce un aspetto della sua generale propensione a consumare.

In questo modo egli apre la strada ad una diversa teoria, nella quale la “preferenza per la liquidità” acquista il ruolo fondamentale. La trappola di liquidità è, in fondo, un lungo periodo nel quale quella preferenza per la liquidità domina nelle aspettative di coloro che risparmiano.

 

  “Medicare” e “Medicaid”

Medicare è il nome dato ad un programma di assicurazione medica amministrato dal Governo Federale degli Stati Uniti, riguardante le persone dai 65 anni in su (esteso anche a soggetti più giovani con gravi malattie renali) .  I principali benefici della legge sono l’assicurazione ospedaliera, ambulatoriale, medica e farmaceutica  gratuite. La Parte A di Medicare garantisce a tutti i soggetti interessati la assistenza ospedaliera, mentre la Parte B garantisce i servizi medici ambulatoriali. Più di recente – nell’anno 2003, poi entrate effettivamente in vigore nel 2006 –  sono state introdotte alcuni programmi specifici, che contengono variazioni all’impianto di Medicare (i cosiddetti Medicare Part C oppure Medicare Part; quest’ultimo prevede una copertura esclusivamente sul costo dei farmaci). Ciononostante, il 76 % degli assistiti partecipa ai programmi principali (Parti A e B). I costi di Medicare nel 2010 erano il 3,6 per cento del PIL americano, ed è previsto che saliranno – senza interventi correttivi – al 5,6 % nel 2035 ed al 6,2 % nel 2080.

L’altro  principale programma federale in materia di assistenza sanitaria, Medicaid, è principalmente riferito alla assistenza a coloro che hanno condizioni di reddito minime. Il programma federale è finanziato anche dagli Stati, che partecipano volontariamente (ma ormai senza alcuna eccezione, perché l’ultimo Stato ad aderire al programma fu l’Arizona nel 1982).

In genere si considerano Medicare e Medicaid come gli esempi della sanità pubblica americana, ed in effetti i programmi  hanno sostanzialmente una struttura ‘universalistica’, ovvero garantiscono il sostegno pubblico alla generalità degli individui che sono ricompresi nel programmi stessi (bisognosi ed anziani), senza altre forme di limitazione o di esclusione o di individuale partecipazione ai costi. I benefici di tali programmi pubblici sono coperti, per l’appunto, da un sistema di entrate in parte significativa derivanti dalla tassazione generale dei cittadini o da forme specifiche di tassazione alle imprese che includono tale benefit nei loro contratti. Le imprese che optano per tale soluzione godono di alcuni vantaggi fiscali, ma la loro percentuale sta visibilmente diminuendo nel corso degli ultimi anni. Ciononostante, una parte delle entrate deriva anche da contributi provenienti dai sistemi fiscali al livello dei singoli Stati.

Nei confronti di questi due programmi federali (ma maggiormente per il primo, giacché il secondo riguarda sostanzialmente i più poveri ed ha un minore appeal per le classi medio alte) esiste un chiaro  gradimento da parte degli elettori, gradimento che costituisce una notevole difficoltà per tutte le ipotesi di ridimensionamento, privatizzazione e voucherizzazione, a getto continuo avanzate dai Repubblicani. 

In particolare la proposta di modifica di Medicare con un sistema di pagamento delle prestazioni da parte dei singoli attraverso vouchers a carico dello Statoavanzata nell’ultima campagna elettorale dal Partito Repubblicano – avrebbe un evidente significato di limitazione del suddetto carattere universale dell’assistenza. In quel caso lo Stato continuerebbe ad accollarsi una parte dei costi della assistenza sanitaria, ma poiché tali costi coprirebbero, soprattutto con il passare degli anni, soltanto una parte del costo complessivo delle prestazioni, in pratica i singoli dovrebbero partecipare al pagamento/e o rinunciare  alle prestazioni. Essi diverrebbero sostanzialmente “amministratori” del loro capitale di vouchers sanitari, decidendo – data la loro insufficienza –  come e dove utilizzarli principalmente; con il che la responsabilità pubblica dello Stato nei confronti della salute dei cittadini sarebbe radicalmente attenuata.

La legge su Medicare e Medicaid, sottoscritta dal Presidente Lindon Johnson,  andò in vigore nell’anno 1965. In entrambi i casi, si trattò di emendamenti al Social Security Act degli anni ’30, la legge di Roosevelt che agli inizi principalmente si occupava dei trattamenti previdenziali. 

 Il Modello IS – LM.

 Il “modello IS-LM” è quello che Krugman considera il punto cruciale del contributo di John Richard Hicks alla teoria economica. Questa elaborazione risale al 1937, anno della pubblicazione di “Valore e Moneta”, un anno dopo la pubblicazione della “Teoria Generale” di Keynes (1936).

Immaginiamo un diagramma (come quello sotto rappresentato) e consideriamo che sulla linea verticale delle ordinate sia posto il tasso di interesse (r) mentre su quella orizzontale delle ascisse sia posto il reddito  (Y). Questo significa che l’oggetto del nostro interesse sarà il rapporto che si instaura tra  l’economia reale (il reddito) e quella monetaria (il tasso di interesse), a seguito della variazione di alcuni fattori, espressi di norma attraverso alcune “curve”, che operano all’interno del diagramma. Le due curve che definiscono il modello sono, appunto, la curva IS (“Investment-Savings”), ovvero degli investimenti e dei risparmi,  e la curva LM (“Liquidity-Money”), ovvero della liquidità e del denaro).

L’andamento di queste due curve segue normalmente un certo percorso, che possiamo identificare in questo semplice diagramma:

 

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Partiamo dunque dalla comprensione di questa situazione più semplice. La curva LM di solito inizia con un tratto quasi orizzontale, perché è improbabile che il tasso di interesse scenda sotto un certo livello minimo; ma quando procede sensibilmente verso destra (ovvero verso livelli di reddito sempre più elevati), è inevitabile che a un certo punto essa prenda a salire ripidamente verso l’alto (ovvero verso tassi di interesse più elevati). Questo accade perché, con una data quantità di moneta, il reddito non può continuare a salire indefinitamente; a quel punto il tasso di interesse sale verticalmente e l’aumento del reddito si interrompe.  

Di contro, la curva IS normalmente è inclinata verso il basso in quanto un abbassamento del tasso di interesse favorisce l’investimento, e perciò eleva il reddito.

Cosa accade quando la curva IS incrocia la curva LM? Per meglio dire: cosa accadrebbe se le cose andassero diversamente dal diagramma, per effetto di un aumento della base monetaria (da parte della Banca Centrale) o di un aumento della spesa pubblica da parte dello Stato? Hicks indica alcune possibilità.

 

a)      Quando la curva IS incrocia la LM in un tratto ascendente ma non ripido, come nel caso del punto “E”, una maggiore offerta di denaro  sposterebbe la curva LM verso il basso. Ovvero se la politica monetaria fosse tale da aumentare il denaro in circolazione, il tasso di interesse scenderebbe – di qua l’abbassamento della curva – ed il reddito e l’occupazione aumenterebbero – di qua un maggiore spostamento verso destra della curva.

b)     Se invece di avere una immissione di maggiore moneta, si avesse semplicemente  un aumento della spesa pubblica, chiaramente anche in questo caso si avrebbe un aumento del reddito e dell’occupazione, prodotti dalla maggiore spesa. Il tasso di interesse, in questo caso, però salirebbe, perché la maggiore spesa provocherebbe una maggiore domanda di moneta (il tasso di interesse, come ogni merce, è regolato dall’equilibrio di domanda ed offerta; se la domanda di moneta cresce il tasso di interesse sale). Di conseguenza, per effetto di una tasso di interesse più alto che ‘sposterebbe’ in parte la curva verso l’alto, l’incremento del reddito sarebbe minore che non nel caso a).

c)      Se invece la curva IS intersecasse la curva LM più in alto, ovvero se il punto E si trovasse nel tratto più ripido di LM, avverrebbe che  il reddito crescerebbe quasi per niente (il movimento avverrebbe tutto verso l’alto e non verso destra). Il che significa che il più elevato tasso di interesse, non aumentando il reddito, non provocherebbe una maggiore domanda di moneta. Detto in altri termini, ad un certo livello elevato di reddito il mercato monetario risulta in equilibrio: in quel caso una maggiore spesa pubblica provocherebbe un aumento del tasso di interesse. Ma un aumento del tasso di interesse, provocherebbe una minore spesa privata. In quel caso, la maggiore spesa pubblica “spiazzerebbe” l’investimento privato.

 

Queste che abbiamo descritto sono alcune possibili rappresentazioni della normale condizione di una economia. Ma la ragione dell’interesse di questo modello – e la conseguente relazione tra questo modello e la teoria di Keynes – sta soprattutto in una ulteriore possibilità.

Immaginiamo, a questo proposito, che la curva IS scenda a picco nel suo primo tratto (ovvero che, per varie cause, anche ad esempio dipendenti da un forte shock nell’economia, il tasso di interesse scenda rapidamente sino al livello minimo, ovvero sino a quasi un tasso di interesse 0). In termini economici, dunque, questa sarebbe una situazione di recessione. In questo modo la curva IS incontrerebbe la curva LM nel suo tratto orizzontale, come è mostrata nel seguente diagramma, dove la curva rossa  “Investimento risparmio” (IS1) si incontra nella LM nel punto E1.

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Questo significherebbe che gli operatori si renderebbero conto che nel futuro prossimo, nel breve e medio termine, il rendimento dei titoli e dei prestiti non potrebbe salire. Di conseguenza la loro tendenza sarebbe quella di mantenere liquida la loro moneta aggiuntiva. E’ questa la situazione che viene definita di “trappola di liquidità”, e questa era anche, secondo Hicks, la sostanza della teoria economica keynesiana, che dunque, nella sua interpretazione, era fondamentalmente una interpretazione della economia nelle fasi di recessione. Quando il punto di equilibrio si colloca a livelli di tassi di interesse prossimi a Zero, la normale politica monetaria, ovvero l’aggiunta di moneta, non può produrre effetti di investimento e di innalzamento dei tassi di interesse: si ha, se mi posso così esprimere, una sorta di “sciopero” del capitale, una – come diceva Keynes -“propensione alla liquidità”, che può essere superata solo mettendo in campo direttamente l’investimento pubblico con un aumento della spesa pubblica in deficit da parte degli Stati.

Ed una delle conseguenze rese più chiare dalle crisi degli ultimi 80 anni (la Grande Depressione degli anni ’30; il ‘decennio perso’ del Giappone; la crisi successiva al tracollo finanziario USA del 2008  in tutti i paesi avanzati), è che le trappole di liquidità hanno durata lunga, e che la assenza di politiche pubbliche di investimento – quando non proprio il contrario, ovvero le politiche di austerità – prolungano ulteriormente ed anche drammaticamente tali fasi recessive.

Si tratterebbe, a questo punto, di esaminare una serie di possibili domande: Keynes condivise questa “interpretazione” del suo lavoro? La condivisero i suoi collaboratori più stretti? Hicks mantenne ferma la sua posizione? Le risposte possiamo fornirle solo in estrema sintesi: no, Keynes non la condivise interamente; ancora meno la condivisero i suoi collaboratori, che polemizzarono aspramente contro Hicks; Hicks stesso, in seguito, criticò quella sua posizione, al punto di dichiarare, qualche anno dopo, di non potersi più riconoscere in essa. Tutto questo avvenne in conseguenza di alcuni limiti logici della posizione hicksiana, che qua non dà conto riassumere.

Quello che però deve essere aggiunto è che Krugman, alcuni decenni dopo, non appare particolarmente interessato da quelle dispute, e continua a ritenere cruciale la lezione di Hicks. Per questo ultimo decisivo aspetto, che in fondo riguarda il tema della strana attualità tra gli economisti neokeynesiani di una teoria all’epoca fortemente avversata dai keynesiani del circolo ristretto dei collaboratori di Cambridge, si incontrano spesso alcune giustificazioni assai semplici da parte di Krugman. I modelli, ha ripetuto varie volte, servono ad approssimare lettura della realtà, ad avvicinare alla comprensione, e devono essere trattati con la cura di interpretarli di continuo alla luce delle lezioni della storia.

Il punto è che, rifacendosi a quel modello, è stato – per lui e per altri economisti – possibile leggere alcuni elementi di fondo della situazione in corso: la tendenza dei tassi di interesse a rimanere bassi, la ‘lunghezza’ della recessione e la lentezza di ogni annunciata ripresa, il mantenimento di condizioni di bassa inflazione, la necessità di forti politiche della spesa pubblica che bilancino la crisi di domanda derivante dalla propensione alla “liquidità” del denaro, il fallimento delle politiche di austerità. E questo appare, a lui ed ad altri, incomparabilmente più importante di ogni altro dettaglio ed aspetto.

 

 “Multiplier”.

Il “moltiplicatore” è un concetto economico, scoperto o almeno approfondito negli anni ’30 da Keynes e dal suo allievo e collaboratore Richard Kahn, secondo il quale un investimento – in particolare un investimento pubblico, nelle fasi dell’economia caratterizzate da una depressione della domanda – produce effetti ulteriori di ampliamento dei consumi e degli investimenti, derivanti in primo luogo dal lavoro aggiuntivo contenuto nell’investimento iniziale. Quel lavoro comporta salari aggiuntivi, consumi aggiuntivi, investimenti e produzioni aggiuntive relative a tali consumi. Il tema venne approfondito da Keynes nella “Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (Capitolo X) del 1936, riconoscendo che esso era stato “introdotto per la prima  volta nella teoria economica da R. F. Kahn” in un saggio apparso nell’ “Economic Journal” del 1931.

Da notare come, nello stesso modo in cui si può parlare di un moltiplicatore cha amplia gli effetti originari di una spesa sulla domanda globale, si può anche parlare al contrario di un effetto inverso, ovvero di una riduzione della spesa che produce effetto di riduzione della domanda globale maggiori della riduzione stessa. Questo è un tema che negli anni recenti ha fatto molto discutere, quando gli economisti del Fondo Monetario Internazionale, sotto la direzione di Olivier Blanchard, si sono accorti che la riduzione della spesa pubblica derivante dalle politiche di austerità aveva prodotto danni supplementari rispetto alla riduzione medesima. Si è riconosciuto onestamente che il ‘moltiplicatore’ (negativo) era stato assai più alto di quanto non si fosse previsto.

“Op-ed”

Gli “op-eds” sono gli articoli che normalmente sono – od erano, nelle abitudini di composizione dei giornali del passato – nella pagina accanto a quella degli editoriali. Il termine deriva appunto da “opposite editorials”. Corrispondono un po’ ai nostri “commenti”. Ma la cosa non è così semplice, perché nel nostro giornalismo in genere per commenti si intende i contributi che vengono dall’esterno della redazione – intellettuali, uomini politici, esperti etc. In effetti, ad esempio sul New York Times, la pagina dei commenti si trova al lato, nella collocazione opposta di quella di alcuni contributi ‘fissi’ che in un certo senso si potrebbero definire ‘redazionali’. Sennonché gli articoli sul NYT di Paul Krugman vengono definiti “op-eds”, pur essendo collocati stabilmente nella pagina per così dire ‘redazionale’. E, in effetti, quelli di Krugman – pur essendo egli un premio Nobel dell’economia e non un semplice giornalista –  sono articoli fissi, per tutto l’anno pubblicati due volte alla settimana. Dunque: essi stanno nella pagina opposta a quella dei commenti e sono un contributo fisso della Redazione del giornale. Epperò si definiscono “op-eds”. Per semplificare una faccenda che mi pare un po’ ingarbugliata, traduco “op-eds” con “commenti”.

 “Quantitative easing”.

In mancanza di meglio, lo si traduce letteralmente con “facilitazione quantitativa”, ed è l’espressione usata per indicare alcune azioni delle banche centrali – in particolare della Federal Reserve – per contrastare i fenomeni recessivi. Non significa altro che una iniezione di base monetaria, ottenuto attraverso l’acquisto da parte della Banca Centrale di obbligazioni sul debito pubblico. Nel corso del 2011 c’è stato un discreto dibattito a proposito della decisione della Fed di operare un “quantitative easing” straordinario, consistente nell’acquisto anche di obbligazioni a breve termine (la forma classica è quella dell’acquisto di bonds a lungo termine). In quel frangente, esponenti del Partito Repubblicano attaccarono il Presidente della Federal Reserve Ben Bernanke con inusitata asprezza.

 “Pro-cyclical” (e “Counter-cyclical”)

Nella teoria economica “Pro-cyclical”, letteralmente ‘pro-ciclico’, è un termine che si riferisce a come una grandezza economica è connessa con le fluttuazioni cicliche dell’economia in generale. Il termine è desunto dalla Teoria del ciclo economico,  entro la quale ha, per così dire, un valore di aggettivazione. Ad esempio, il PIL è prociclico, nel senso che cresce quando l’economia cresce. Al contrario la disoccupazione è “counter-cyclical” (“contro-ciclica”), nel senso che cresce quando l’economia regredisce.

Nel linguaggio della politica economica, le due espressioni (prociclico e controciclico) hanno un significato un po’ diverso, che dipende dai contesti economici ai quali si riferiscono.  Il termine prociclico indica ogni aspetto della politica economica che può provocare effetti di amplificazione della fluttuazione economica in corso. Ad esempio, la politica restrittiva che è stata attuata in questi anni nei paesi dell’Europa periferica è ‘prociclica’, perché ha prodotto un amplificazione dei fenomeni recessivi propri della fluttuazione in atto. Ma anche ipotizzare di questi tempi una politica economica maggiormente espansiva in Germania, cosa apparentemente opposta, sarebbe in realtà prociclico, perché – almeno sinora – la Germania è in una fase del ciclo economico espansiva.

In sostanza, per non confondersi, si deve evitare di attribuire ai due termini il significato di giudizi di valore. Essi indicano come una grandezza economica, o una politica economica, sono correlate con il ciclo economico, a prescindere dalla loro positività e negatività.

Naturalmente, le varie teorie economiche possono poi fondarsi su una predilezione di politiche che assecondino la fluttuazione in essere o cerchino di contrastarla con gli interventi degli Stati, a seconda dei casi. La cosiddetta Teoria del ciclo economico reale (ovvero la teoria economica della tradizione neoclassica, o della Scuola austriaca di Von Mises ed Hayek, ed anche di Schumpeter   e della Scuola economica di Chicago, semplificando, diciamo, conservatrice)  – nella misura in cui considera i cicli economici, le recessioni o i boom, come risposte efficienti e in generale autosufficienti da parte del mercato a cambiamenti esogeni nell’ambiente economico – considera anche gli interventi di politica economica ‘controciclici’ negativi per definizione. Per essa, ad esempio, la politica economica del New Deal era destinata semplicemente a complicare e ritardare una operazione di ‘pulizia’ che il mercato aveva imposta con la Grande Depressione. Al polo opposto, la teoria economica keynesiana ritiene che in determinate circostanze – ma non sempre – una politica controciclica sia l’unica soluzione possibile.

 “Public intellectual”.

Espressione abbastanza rara, che però merita di essere segnalata. Si riferisce ad intellettuali che operano in parte o prevalentemente nella sfera pubblica, o politica, pur mantenendo caratteristiche – sedi, metodi di lavoro, approfondimenti – proprie del lavoro intellettuale. Come è comprensibile, politologi, economisti e storici della contemporaneità, sono le categorie più diffuse.

Traduciamo con poca fantasia “intellettuali politici”.

 “Red States” e “Blue States”.

“Red States” e “Blue States” è il modo in cui negli anni più recenti si è preso a definire rispettivamente gli Stati a maggioranza repubblicana e quelli a maggioranza democratica. Questa terminologia è entrata in uso nelle elezioni presidenziali del 2000. Pare che I termini venissero coniati dal giornalista Tim Russert, durante I suoi notiziari sulle elezioni di quell’anno. Non era la prima volta che i giornali e le televisioni usavano colori distinti per indicare la supremazia dell’uno o dell’altro Partito; ma fu da quella volta che prese definitivamente piede quella colorazione in rosso ed in blu. I colori, dunque, non hanno alcun significato simbolico e derivano unicamente da una prassi che si è consolidata a partire da un decina di anni fa. Questa è la mappa delle elezioni del 2008: gli Stati in blu votarono a maggioranza per Obama, quelli in rosso a maggioranza per John McCain (si ricordi che il meccanismo elettorale del Presidente degli Stati Uniti dipende dal numero dei “grandi elettori” eletti dai singoli Stati. La apparente simile o minore estensione del color rosso non è in contraddizione, dunque, con la marcata vittoria di Obama in quelle elezioni, perché dalla parte di Obama votarono gli Stati del più popoloso East e, ad occidente, la California).

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“Ricardian Equivalence”.

L’equivalenza ricardiana è una teoria economica che suggerisce come i consumatori internalizzino i vincoli di bilancio e come quindi la tempistica dei cambiamenti della tassazione non influisca sul loro profilo di spesa. Di conseguenza l’equivalenza ricardiana suggerisce che la scelta di finanziare le spese governative attraverso il debito piuttosto che con un aumento delle tasse non abbia influenza sul livello della domanda. Era stata prima proposta e poi rifiutata dall’economista del diciannovesimo secolo David Ricardo. In termini semplici la teoria può venire descritta come segue: il governo può sia finanziare la spesa tassando i contribuenti oggi, oppure può prendere denaro in prestito emettendo obbligazioni. Nel secondo caso, questo debito dovrà venir alla fine ripagato aumentando in futuro le tasse al di sopra del livello che avrebbero altrimenti avuto. La scelta è dunque tra “tassare ora” o “tassare poi”.

Supponiamo che il governo finanzi parte delle spesa extra attraverso deficit, vale a dire “tassare poi”. Ricardo argomenta che i contribuenti pur avendo più denaro ora, si renderanno presto conto che in futuro saranno chiamati a pagare più tasse e pertanto cominceranno immediatamente a risparmiare quanto non pagato in tasse oggi, per poterle pagare poi. L’effetto sulla domanda sarebbe in questo caso esattamente lo stesso occorso se il governo avesse finanziato la spesa extra attraverso un aumento delle tasse.

Nel suo “Essay on the Funding System” del 1820, Ricardo studia se sortisca effetti differenti il finanziare una guerra con 20 milioni di sterline in tasse correnti rispetto ad emettere obbligazioni di stato a maturità infinita e con pagamenti di interessi di 1 milione di sterline per tutti gli anni a venire, quest’ultimi a pagarsi con tasse future. Assumendo un tasso d’interesse del 5%, Ricardo conclude che “dal punto di vista economico non c’è reale differenza tra le due modalità. 20 milioni in un unico pagamento o 1 milione l’anno per sempre hanno esattamente lo stesso valore”. Tuttavia Ricardo rimane scettico riguardo alla validità empirica di questa equivalenza. Continua “tuttavia, coloro che pagano le tasse mai le valutano in questo modo, e dunque non gestiscono i loro affari primari conseguentemente. Siamo troppo propensi a pensare che la guerra è gravosa solo in proporzione a quanto siamo chiamati a pagare al momento di pagare le tasse, senza mai riflettere riguardo a quanto queste tasse dureranno. Sarebbe difficile convincere un uomo che possegga 20’000£, o qualsiasi altra somma, che una rendita vitalizia di 50£ l’anno sia egualmente gravosa di un singolo pagamento di 1000£”. In altri termini, se le persone avessero aspettative razionali sarebbero indifferenti di fronte ai due sistemi, siccome però non le hanno, sono vittime di un illusione finanziaria che condiziona le loro decisioni.

(Wikipedia)

 “Rich, wealth, wealthy”/ “middle class”/ “poor”.

Le espressioni che indicano la condizione di “ricchezza, agiatezza” non pongono alcun problema  di traduzione, quanto piuttosto un problema politico e sociologico. Nella nostra accezione normale i “ricchi” sono probabilmente assai più numerosi che nella accezione americana: in Krugman è “rich” l’uno per cento della popolazione, e talora più precisamente lo 0,1 per cento. Quelle sono le percentuali normalmente considerate quando si vuole indicare la soglia di una condizione sociale di ricchezza, ad esempio in materia di meccanismi fiscali o di politiche dell’ “uguaglianza”. Al di sotto, normalmente, si rientra nel concetto di “middle class”. Con il che, la “middle class” si dilata enormemente, ricomprendendo tutti quelli che per noi sarebbero i ceti medi e medio-alti, ma comprendendo tendenzialmente anche gran parte dei lavoratori che non si trovino prossimi a condizioni di anormale indigenza (per il numero dei componenti delle famiglie, per la discontinuità del lavoro, per la sua particolarmente scarsa remunerazione etc.).

“Rich” dunque si traduce, per semplicità,  con “ricchi”, ma per essere più precisi si dovrebbe forse dire “magnati” o “milionari” (i redditi in questione sono, in effetti, redditi da milioni o da molti milioni di dollari all’anno). Forse è anche il caso di aggiungere che, nella lingua italiana, si è un po’ restii ad utilizzare il termine “ricco” come categoria socio-politica, forse non semplicemente per ragioni di ipocrisia. In realtà,  la ‘dimensione quantitativa’ del concetto influisce: poiché i ricchi sono assai più numerosi, si preferisce non individuarli come un settore organico della società, forse per evitare il rischio di coinvolgere troppa gente in un giudizio di ‘eccessiva fortuna’.

Nel caso della “middle class” traduciamo normalmente con “classi medie” o “ceti medi””, in questo modo indicando almeno un certo disagio nel tradurre al singolare una condizione che in Italia è sicuramente riferibile ad una vastità di situazioni sociali diverse. Va detto che tale condizione non è probabilmente così dissimile in America, ma il termine “middle class” ha lì un evidente connotato ideologico: “middle class”, prima che una definizione sociologica, è la aspirazione dell’ “American dream”. Entrano in una amplissima “middle class” quelli che ci sono, quelli che ci potrebbero essere ed anche tutti  quelli che possono trascorrere una vita con il desiderio di esserci.

Grosso modo, invece, con il termine “poor” si indica una condizione di povertà e di indigenza abbastanza simile. In questo caso non è tanto la ‘dimensione’ del concetto ad essere diversa, quanto i meccanismi di mobilità attraverso i quali si entra e si esce dalla povertà. Da noi esser poveri è una condizione normalmente continuativa di determinati settori della popolazione piuttosto ampi, che solo recessioni gravi allargano in modo grave; negli Usa quei settori sono forse meno stabili, ma si può diventare poveri  con grande facilità per effetto della maggiore debolezza delle reti della protezione sociale.

 “Stimulus”.

E’ la semplice espressione anglo-americana che sta ad indicare le politiche pubbliche di incentivazione della economia, nella prospettiva di favorire la ripresa. Tali politiche possono – come si è chiarito al punto 3) – riguardare sia la politica monetaria che la politica della finanza pubblica, o “fiscal”. E’ raro che, in italiano, il sostantivo “stimulus” sia adoperato da solo, in sostituzione della espressione più comunemente usata di “misure di sostegno all’economia”.

 “Social Security”.

Traduciamo questo termine con “Previdenza Sociale”, poiché è l’espressione con la quale si indica lo specifico programma del Governo Federale americano nel settore pensionistico.  Assieme a “Medicaid” ed a “Medicare” – che lasciamo sempre nel testo originario – è, dunque,  uno dei tre principale pilastri della rete assicurativa assistenziale degli Stati Uniti. E’ evidente che se traducessimo letteralmente con “Sicurezza Sociale” sarebbe meno chiaro e più generico.

 

 “Spending”.

“Spending” è la spesa, ed in effetti può letteralmente significare sia la spesa del settore pubblico che di quello privato. Di solito, per corrispondere all’espressione italiana di “spesa pubblica”, si usa il termine “government spending”, mentre la spesa privata dei consumatori e degli investimenti delle imprese è “private spending”. Si deve notare che con il termine “government spending” normalmente ci si riferisce alla sola spesa pubblica del Governo federale, escludendo dunque i livelli istituzionali degli Stati e delle comunità locali; diversamente dall’italiano “spesa pubblica”, che  normalmente include la spesa del complesso della pubblica amministrazione, incluse le Regioni e gli Enti locali.

 Di solito il termine isolato “spending” si riferisce alla spesa pubblica. Ad esempio, quando si parla di “spending cuts” ci si riferisce implicitamente al “tagli della spesa pubblica”; se ci si riferisse ai tagli della spesa di una azienda, sarebbe il contesto a chiarirlo.

 Svalutazione interna (“internal devaluation”).

Nel momento in cui nell’economia di un paese si spende più di quello che si produce, si importa più che di quello che si esporta e, magari, in conseguenza di tutto ciò si è in recessione – ovvero si produce nell’anno corrente meno che nell’anno precedente (e tutto questo comporta anche altri vari inconvenienti, perché la disoccupazione aumenta e le entrate dello Stato diminuiscono …) – la carta che può essere giocata è quella di spendere di meno e di produrre di più, diventando anzitutto  più competitivi nelle merci esportate. Se si decide si ridurre il valore della propria moneta rispetto a quello delle altre monete – ad esempio, se la lira corrispondeva ieri ad un valore 100 rispetto ad un’altra moneta “x” ed ha oggi un valore 130 rispetto a quella stessa moneta – è chiaro che le merci esportate nel paese che utilizza quella moneta hanno ora prezzi più competitivi. Con una moneta “x” dell’altro paese si può ora acquistare una merce prodotta in Italia per un  valore 130, mentre ieri si poteva acquistare una merce solo corrispondente ad un valore 100. Questa è una normale “svalutazione esterna”, un rimedio alla debolezza dell’economia che in Italia è stato adoperato per decenni. Naturalmente c’è (c’era) anche un effetto esattamente opposto per i consumatori italiani:  un bene importato che ieri acquistavamo con 100 oggi lo pagheremmo 130. L’effetto è, dunque, inevitabilmente che comperiamo meno merci importate; importiamo di meno e, almeno in un primo momento (ovvero, almeno prima che l’aumento delle esportazioni non ci renda più ricchi),  spendiamo di meno.

Ma se non si ha più una valuta nazionale, come non la abbiamo più dal momento in cui partecipiamo alla moneta unica europea, la svalutazione della propria moneta non è più possibile. Se si vuole essere più competitivi occorre provocare gli effetti di una svalutazione agendo soltanto all’interno del Paese. E questa è la “svalutazione interna”. Ora: per essere più competitivi senza una svalutazione della propria moneta, si deve agire nel senso della riduzione dei fattori di costo delle proprie merci, ovvero si debbono anzitutto ridurre i salari e più in generale i prezzi. In teoria, i salari potrebbero semplicemente essere ridotti attraverso accordi o leggi. Per i prezzi di mercato il meccanismo è, sempre in teoria, più complesso, perché si debbono creare le condizioni di una riduzione della domanda delle merci, fenomeno che in genere consegue alle situazioni di depressione economica e di elevata disoccupazione.

Ma si tratta di processi piuttosto complicati e non brevi. In particolare, già Keynes, nel 1936, aveva notato come i processi di riduzione dei salari non sono affatto semplici e meccanici, perché in generale agisce un meccanismo di “rigidità” (“stickyness”) che ostacola tali processi. Essi non intervengono solitamente attraverso accordi ed eventualmente conseguono a processi sociali più complessi, derivanti dalla disoccupazione accresciuta, dalla maggiore povertà e concorrenza sul mercato del lavoro. Alcuni studi hanno mostrato come anche nella crisi americana degli anni ’30 i salari orari diminuirono molto meno di quello che normalmente si fosse ritenuto (diminuì invece  in modo più rilevante la massa salariale complessiva, ma più in conseguenza del crollo del lavoro straordinario che non dei salari orari).

E’ chiaro che la soluzione della “svalutazione interna” è quella che attualmente cercano di praticare quelle economie europee che si sono scoperte, a seguito dei fenomeni innescati dalla crisi finanziaria statunitense del 2008,  in evidenti difficoltà competitive. Per questo Krugman affronta assai frequentemente quel tema, mettendo in evidenza come quella ‘chance’ sia in effetti lenta, difficile e penosa. La pena soprattutto dipende dal fatto che le politiche di riduzione della spesa pubblica che hanno accompagnato tali tentativi di svalutazione interna diminuendo ulteriormente la domanda, accrescono la depressione. Sul lato della finanza pubblica, è il cane che si mangia la coda: la diminuzione della spesa pubblica deprime ulteriormente l’economia, ma le entrate diminuiscono maggiormente di quanto non aumentino i risparmi degli Stati. Sul lato della competitività, i meccanismi sono complessi. La riduzione dei salari relativi è, per i meccanismi di rigidità suddetti, assai lenta; nel frattempo i meccanismi dell’impoverimento generale colpiscono piuttosto coloro che sono emarginati  dal mercato del lavoro che non coloro che mantengono un posto ed un salario contrattuale nei settori interessati alla competizione internazionale. L’impoverimento è molto più rapido dell’incremento di competitività.

In realtà, si può concludere che Krugman consideri l’eventualità di non disporre più di una moneta nazionale – non avendo in cambio acquisito gli strumenti economici ed istituzionali propri di una “nazione più ampia” – più o meno come una disgrazia. Il che non significa che egli faccia il tifo per un ritorno alle monete nazionali in Europa. Vorrebbe semmai che l’Europa un po’ alla volta funzionasse come una nazione.

 

 “Very Serious People (VSP)”.

Il termine scherzoso “Persone Molto Serie” è stato coniato da Krugman all’indomani delle crisi finanziaria del 2008, quando – una volta superata la fase dei salvataggi delle banche e delle assicurazioni – cominciò a delinearsi negli USA un dibattito economico sulle politiche di austerità e dell’intervento finanziario pubblico. Le VSP sono coloro che – negli ambienti accademici, giornalistici, finanziari e politici – hanno teso a dimostrare, a partire da quegli anni, che politiche fortemente restrittive non avevano alternativa ed anzi sarebbero state l’unica condizione per creare fiducia e rialimentare un ciclo di domanda da parte di consumatori e di investitori. In genere, costoro (e il Wall Street Journal può essere considerato la loro sede fondamentale) hanno teso finché è stato possibile a presentare le letture alternative della crisi alla stregua di improvvisazioni un po’ esotiche di limitati ambienti universitari.

Si può effettivamente notare  che gli anni 2009 e parte del 2010 furono il periodo nel quale questa impostazione a senso unico ebbe il massimo impulso. Il 2009 fu anche l’anno nel quale Krugman combatté la sua battaglia contro l’inadeguatezza delle misure economiche di Obama, in condizioni di maggiore isolamento. Gli argomenti principali delle VSP erano quelli della probabile inflazione, se non iperinflazione, e del probabile forte aumento dei tassi di interesse. Ma VSP esistevano non solo a destra: anche posizioni centriste sostanzialmente condividevano quelle pretese e negavano la necessità di interventi anticiclici più cospicui da parte della Amministrazione Obama.

Si può individuare una processo di inversione di tendenza nel dibattito economico attorno ai successivi principali fenomeni: 1) La conferma che i gravi livelli di disoccupazione non si sarebbero risollevati con l’anno 2010; 2) La conferma di un andamento al ribasso dell’inflazione, nonostante l’influenza del tutto temporanea di qualche incremento dei prezzi nel settore delle materie prime; 3) La conferma di una tendenza dei tassi di interesse verso valori minimi,  in prossimità dello “zero”.

Sono questi fenomeni che, in sequenza, cominciano ad aprire crepe nello schieramento delle VSP ed a mostrare come le loro pretese fossero fondamentalmente fondate sull’ignoranza del dibattito economico storico (soprattutto degli anni ’30) e delle teorie economiche che erano state fondamentali durante e dopo la crisi della Grande Depressione (Fisher, Keynes, Hicks e, assai più marginalmente, Minsky).

 

 “Zero lower bound”.

Traduciamo con il “limite inferiore di zero”; si riferisce alla condizione descritta in precedenza; vale a dire a quella situazione nella quale i tassi di interesse sulle obbligazioni sono molto bassi, o vicini al limite dello zero.

Lo zero, ovviamente, non è un limite aritmetico, essendo anche possibili rendimenti negativi. Ma, in quel caso, non ci sarebbe alcun bisogno di acquistare bonds e si preferirebbe mantenere i soldi in forma liquida.