Blog di Krugman

Il grande taglio del tasso della Fed non è stato politico. Dal punto di vista economico era un’ovvietà. Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 19 settembre 2024)

 

Sept. 19, 2024

The Fed’s Big Rate Cut Wasn’t Political. It Was an Economic No-Brainer.

By Paul Krugman

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In one sense, you could say that Wednesday’s decision by the Federal Reserve to cut rates was of minimal importance. The interest rate the Fed more or less directly controls — the federal funds rate — is the rate at which banks lend one another money overnight. And it’s hard to think of any businesses or consumers who will change their plans because the annualized interest rate on one-day borrowing has fallen a half a percentage point, from around 5.5 percent to around 5 percent — which means that if you borrow $1,000, your repayment the next day falls by 1.4 cents.

Yet it was a momentous move all the same. For one thing, Fed rate changes tend to percolate into longer-term interest rates that really do matter for the economy. For example, the series of rate hikes the Fed undertook in 2022 and 2023 drove 30-year fixed mortgage interest rates up to almost 8 percent from about 3 percent.

Even more important, by beginning to cut rates, the Fed — which began raising rates in 2022 in an attempt to control surging inflation — in effect declared its belief that the war on inflation has been won.

Why should we care what the Fed thinks? Let me tell you a secret: Jerome Powell, the Fed chair, and his colleagues don’t have any inside information about the state of the economy. (OK, they might have advance warning if, say, a major bank is about to fail.) Most of their decisions are based on the same data about unemployment, inflation and so on available to anyone with an internet connection.

It’s true that the Fed has some very smart economists on its staff. But there are plenty of smart economists outside the Fed, too. The implicit declaration that inflation has been defeated won’t come as news to anyone who has, for example, been following Mark Zandi at Moody’s or Jan Hatzius at Goldman Sachs, who have been telling us for months that inflation is under control.

Yet the Fed gains some perceived gravitas from its policy role, which means that its opinion carries special weight with investors and, perhaps more important, the general public.

So it matters that the Fed is now sounding the all-clear on inflation. But this good news raises two questions.

First, if inflation is, as Powell said in his news conference, close to the Fed’s target of 2 percent, why didn’t he and his colleagues cut rates even more?

The Fed committee that sets interest rates, which meets eight times a year, normally moves those rates gradually — a quarter point at a time. The big debate before this meeting was whether this would be a standard quarter-point cut or, what we actually got, a “jumbo” half-point cut.

But instead of thinking in terms of increments, suppose we just ask what interest-rate level makes sense at this point. Inflation appears to be under control; labor markets appear to be weakening, with unemployment still fairly low but up significantly from its low point last year and hiring falling off. Overall, as Powell said in his news conference, the labor market looks a bit cooler than it was on the eve of the pandemic.

Yet the overnight rate was 1.75 percent at the end of 2019. There are some iffy arguments to the effect that we can maintain full employment at a somewhat higher interest rate now; participants in Wednesday’s committee meeting projected on average that the interest rate will settle at 2.9 percent. But I haven’t seen any plausible case for a “neutral” rate higher than 4 percent at the most. Yet despite the jumbo cut, rates are still at 5 percent. Shouldn’t the Fed be moving more quickly to normalize rates (and minimize the risk of a recession)?

Second, will the Fed’s all-clear do anything to persuade more Americans to re-evaluate President Biden’s economic record? We did experience a temporary burst of inflation in the aftermath of the Covid-19 pandemic, but so did almost every other major economy, while we have generally had much stronger growth than our peers have. And as White House economists have pointed out, our success in getting inflation back down has defied the expectations of commentators who insisted that disinflation would require a big rise in unemployment.

I know that some people aren’t satisfied with returning to low inflation; they want to see us get the level of consumer prices back to what it was before the pandemic. But we can’t, and even trying would be a really bad idea. Over the past century, only one president has presided over a significant decline in consumer prices; his name was Herbert Hoover.

Wednesday’s Fed move is, of course, good for Kamala Harris. It will give consumers some direct relief on interest costs, and it will signal that high inflation is in the rear view mirror. And having Powell say, as he did in his news conference, that the economy is in “good shape” has to be helpful for a candidate who is part of the administration presiding over that economy.

And almost too predictably, Donald Trump jumped in to suggest that the Fed might be “playing politics.”

But while the Fed’s action will surely have political consequences, it wasn’t a political decision. The straight economic case for a rate cut was overwhelming; the case for a big cut was very strong. Not cutting would have been political. And the Fed didn’t let itself be bullied into inaction.

 

Il grande taglio del tasso della Fed non è stato politico. Dal punto di vista economico era un’ovvietà.

Di Paul Krugman

 

In un senso, si potrebbe affermare che la decisione di mercoledì della Fed di tagliare i tassi sia stata di importanza minima. Il tasso di interesse che la Fed controlla più o meno direttamente – il tasso sui finanziamenti federali – è il tasso al quale le banche prestano denaro l’una all’altra da un giorno all’altro. Ed è difficile pensare che una qualsiasi impresa o consumatore cambi i propri piani perché il tasso di interesse annualizzato sull’indebitamento di un giorno è calato di mezzo punto percentuale, da circa il 5,5 per cento a circa il  5 per cento – il che comporta che se prendete in prestito 1.000 dollari, la vostra restituzione il giorno successivo cala di 1,4 centesimi.

Tuttavia, essa è stata comunque una mossa fondamentale. Da una parte, i cambiamenti della Fed tendono a scaricarsi nei tassi di interesse a più lungo termine che sono realmente importanti per l’economia. Ad esempio: le serie di rialzi dei tassi che la Fed ha intrapreso nel 2022 e nel 2023 hanno spinto i tassi di interesse fissi sui mutui trentennali a quasi l’8 per cento, da circa il 3 per cento.

Ancora più importante, cominciando a tagliare i tassi, la Fed – che iniziò ad elevare i tassi nel 2022 nel tentativo di controllare l’inflazione in crescita – in sostanza ha dichiarato il suo convincimento che la guerra sull’inflazione è stata vinta.

Perché dovremmo curarci di quello che pensa la Fed? Permettetemi di rivelarvi un segreto: Jerome Powell, il Presidente della Fed, ed i suoi colleghi non hanno alcuna informazione riservata sullo stato dell’economia (è solo vero che essi potrebbero essere avvertiti in anticipo se, ad esempio, una banca importante è prossima a fallire). La maggior parte delle loro decisioni sono basate sui dati sulla disoccupazione, sull’inflazione e via dicendo disponibili per ciascuno con una connessione internet.

È vero che la Fed ha nel suo staff alcuni economisti molto intelligenti. Ma c’è una gran quantità di economisti intelligenti anche fuori dalla Fed. L’implicita affermazione che l’inflazione è stata sconfitta non rappresenterà una novità per nessuno che, ad esempio, sia venuto seguendo Mark Zandi di Moody’s o Jan Hatzius di Goldman Sachs, che ci stavano dicendo da mesi che l’inflazione era sotto controllo.

Tuttavia la Fed detiene una dignità percepita per il suo ruolo politico, il che comporta che la sua opinione comporta un peso particolare presso gli investitori e, forse più importante ancora, presso l’opinione pubblica generale.

Dunque, è importante che adesso la Fed dia il cessato allarme sull’inflazione. Ma questa buona notizia solleva due domande.

La prima domanda, se l’inflazione, come Powell ha detto nella sua conferenza stampa, è vicina all’obbiettivo della Fed del 2%, perché lui ed i suoi colleghi non hanno tagliato i tassi anche di più?

Il comitato della Fed che stabilisce i tassi di interesse, che si riunisce otto volte all’anno, normalmente sposta quei tassi gradualmente – un quarto di punto alla volta. Il grande dibattito prima di questo incontro era se questa volta sarebbe stato un consueto taglio di un quarto di punto, oppure quello che effettivamente abbiamo avuto, una taglio “jumbo” di mezzo punto.

Ma anziché pensare in termini di incrementi, supponiamo di chiederci semplicemente quale livello del tasso di interesse abbia senso a questo punto. L’inflazione sembra essere sotto controllo; i mercati del lavoro sembra stiano indebolendosi, con la disoccupazione ancora abbastanza bassa ma significativamente in rialzo dal suo punto basso dell’anno passato e le assunzioni che si riducono. Complessivamente, come ha detto Powell nella sua conferenza stampa, il mercato del lavoro sembra un po’ più freddo di quello che era alla vigilia della pandemia.

Tuttavia il tasso di interesse overnight [1] alla fine del 2019 era l’1,75 per cento. Ci sono alcuni argomenti dubbi secondo i quali adesso possiamo mantenere la piena occupazione ad un tasso di interesse un po’ più alto; i partecipanti all’incontro del comitato di mercoledì hanno previsto che il tasso di interesse in media si collocherà sul 2,9 per cento. Ma io non ho sentito alcun plausibile argomento per un tasso di interesse “neutrale” più elevato del 4 per cento al massimo. Tuttavia, nonostante il taglio jumbo, i tassi sono ancora al 5 per cento. La Fed non dovrebbe muoversi più rapidamente per normalizzare i tassi (e minimizzare il rischio di una recessione)?

La seconda domanda: il cessato allarme della Fed avrà un qualche effetto nel persuadere più americani a rivalutare la prestazione economica del Presidente Biden? Abbiamo avuto l’esperienza di uno scoppio temporaneo di inflazione a seguito della pandemia del Covid-19, ma ciò è accaduto a quasi tutte le altre importanti economie, mentre noi in generale abbiamo avuto una crescita molto più forte delle economie simili. E come gli economisti della Casa Bianca hanno messo in evidenza, il nostro successo nel riportare in basso l’inflazione ha sfidato le aspettative dei commentatori che insistevano che la disinflazione avrebbe richiesto una grande crescita della disoccupazione.

Io so che alcune persone non sono soddisfatte per il ritorno ad una bassa inflazione; vorrebbero vedere il livello dei prezzi al consumo tornare a quello che era prima della pandemia. Ma non possiamo, e persino provarci sarebbe una pessima idea. Nel secolo passato, soltanto un Presidente governò nel corso di un significativo declino dei prezzi al consumo; il suo nome era Herbert Hoover.

La mossa della Fed di mercoledì è, ovviamente, positiva per Kamala Harris. Essa darà ai consumatori un qualche sollievo diretto sui costi degli interessi, e segnalerà che l’alta inflazione è alle nostre spalle. Inoltre, avere Powell che dice, come ha detto nella conferenza stampa, che l’economia è in una “buona forma” non può non aiutare un candidato che è parte della amministrazione che ha governato su quella economia.

Ed anche troppo prevedibilmente, Donald Trump è saltato a suggerire che la Fed potrebbe stare “facendo politica”.

Ma mentre l’iniziativa della Fed avrà sicuramente conseguenze politiche, essa non è stata una decisione politica. La diretta argomentazione economica per un taglio dei tassi era schiacciante; l’argomento per un grande taglio era molto forte. Non fare tagli sarebbe stato politico. E la Fed non ha consentito di farsi intimidire sino all’inazione.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Ovvero a ‘brevissimo termine’ – o ‘nottetempo’, la durata degli scambi monetari con finalità fondamentalmente di mera sistemazione contabile, tra le banche.

 

 

 

 

 

Gli immigrati sono il segreto del successo economico dell’America? Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 19 marzo 2024)

marzo 27, 2024

 

March 19, 2024

Are Immigrants the Secret to America’s Economic Success?

By Paul Krugman

krugi

When we accuse a politician of dehumanizing some ethnic group, we’re usually being metaphorical. The other day, however, Donald Trump said it straight out: Some migrants are “not people, in my opinion.”

Well, in my opinion, they are people. I’d still say that even if the migrant crime wave Trump and his allies harp on were real, and not a figment of their imagination (violent crime has in fact been plummeting in many cities). And I’d say it even if there weren’t growing evidence that immigration is helping the U.S. economy — indeed, that it may be a major reason for our surprising economic success.

But as it happens, there is a lot of evidence to that effect.

Some background here: When Covid struck, there were widespread concerns that it might lead to long-term economic “scarring.” Millions of workers were laid off; how many of them would either depart the labor force permanently or lose valuable skills? Investment and new business formation fell. It seemed plausible that even after the worst of the pandemic was behind us, America would have a smaller, less productive work force than previously expected.

None of that happened. If we compare the current state of the U.S. economy with Congressional Budget Office projections made just before the pandemic, we find that real G.D.P. has risen by about a percentage point more than expected, while employment exceeds its projected level by 2.9 million workers.

How did we do that? American workers and businesses turned out to be more resilient and adaptable than they were given credit for. Also, our policymakers didn’t make the mistakes that followed the 2008 financial crisis, when an underpowered fiscal stimulus was followed by a premature turn to austerity that delayed a full recovery for many years. Instead, the Biden administration went big on spending, probably contributing to a temporary burst of inflation but also helping to ensure rapid recovery — and at this point the inflation has largely faded away while the recovery remains.

Beyond that, the very surge in immigration that has nativists so upset has played a big role in increasing the economy’s potential.

The budget office recently upgraded its medium-term economic projections, largely because it believes that increased immigration will add to the work force. It estimates that the immigration surge will add about 2 percent to real G.D.P. by 2034.

But are immigrants taking jobs away from native-born Americans? No. A recent analysis by Goldman Sachs contains this really interesting chart:

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Credit…Goldman Sachs

In case you’re wondering, “SA by GS” refers to the fact that official data aren’t adjusted for seasonal fluctuations, so Goldman Sachs has done its own seasonal adjustment.

This chart shows no rise in native-born unemployment during the immigration surge. It does show a rise in foreign-born unemployment, which I’ll come back to. But for now let’s just note that there is no good evidence that immigrants are taking away jobs from workers born in America.

Still, doesn’t immigration put downward pressure on wages? That sounds as if it could be true — in particular, you might think that immigrants with relatively little formal education compete with less educated native-born workers. I used to believe this myself.

But many (although not all) academic studies find that immigration has little effect on the wages of native-born workers, even when those workers have similar education levels. Instead of being substitutes for native-born workers, immigrants often seem to complement them, bringing different skills and concentrating in different occupations.

In some ways the current immigration surge, probably consisting mainly of less educated workers (especially among the undocumented), is a test case. Have wages for lower-wage workers declined? On the contrary, what we’ve seen recently is a surprising move toward wage equality, with big gains at the bottom:

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Credit…Arindrajit Dube

Overall, then, immigration appears to have been a big plus for U.S. economic growth, among other things expanding our productive capacity in a way that reduced the inflationary impact of Biden’s spending programs.

 

It’s also important to realize that immigration, if it continues (and if a future Trump administration doesn’t round up millions of people for deportation), will help pay for Social Security and Medicare. C.B.O. expects 91 percent of adult immigrants between 2022 and 2034 to be under 55, compared with 62 percent for the overall population. That means a substantial number of additional workers paying into the system without collecting retirement benefits for many years.

Finally, let me return to that Goldman Sachs chart on unemployment rates, which shows no rise in unemployment among the native-born but a significant rise among the foreign-born. Believe it or not, that’s probably good news.

Goldman argues that the rise in foreign-born unemployment reflects a longstanding tendency for recent immigrants to have relatively high unemployment, presumably because it takes some time for many of them to get settled into sustained employment; unemployment is much lower among immigrants who have been here three years or more.

Why is this probably good news? The overall U.S. unemployment rate has crept up recently — not enough to trigger the Sahm rule, which links rising unemployment to recessions, but enough to make me and others a bit nervous.

Goldman argues, however, that this time is different. All of the rise in unemployment is among foreign-born workers — and this, they suggest, means that we aren’t seeing the kind of weakening in demand for labor that presages recessions. What we’re seeing instead, they argue, is an increase in labor supply, with many of the new workers taking some time to find their feet. If so, the Sahm rule, which has been spectacularly successful in the past, may currently be misleading.

I hope they’re right.

The bottom line is that while America’s immigration system is dysfunctional and really needs more resources — resources it would be getting if Republicans, pushed by Trump, hadn’t turned their backs on a bill they helped devise — the recent surge in immigration has actually been good for the economy so far, and gives us reason to be more optimistic about the future.

 

Gli immigrati sono il segreto del successo economico dell’America?

Di Paul Krugman

 

Quando accusiamo un politico di disumanizzare qualche gruppo etnico, di solito intendiamo dirlo in senso metaforico. L’altro giorno, tuttavia, Donald Trump ha detto esplicitamente: alcuni emigranti “secondo me, non sono persone”.

Ebbene, secondo me, sono persone. Lo direi comunque anche se fosse vera l’ondata di crimini degli emigranti su cui Trump ed i suoi soci sproloquiano, anziché essere una prodotto della loro immaginazione (i crimini violenti stanno di fatto precipitando in molte città). E lo direi se non ci fossero prove crescenti che l’immigrazione sta aiutando l’economia statunitense – al punto che essa può essere una importante ragione del nostro sorprendente successo economico.

Ma si dà il caso che ci siano un sacco di prove a tale proposito.

Ecco un po’ di contesto: quando colpì il Covid, ci furono diffuse preoccupazioni che esso avrebbe lasciato una “cicatrice” economica a lungo termine. Milioni di lavoratori venivano licenziati; quanti di loro sarebbero usciti permanentemente dalla forza lavoro o avrebbero perso apprezzabili competenze? Gli investimenti e la formazione di nuove imprese erano in caduta. Pareva plausibile che anche dopo che il peggio della pandemia fosse alle nostre spalle, l’America avrebbe avuto minore forza lavoro produttiva di quanto ci si aspettava in precedenza.

Non è accaduto niente del genere. Se confrontiamo l’attuale condizione dell’economia statunitense con le previsioni dell’Ufficio Congressuale del Bilancio pubblicate proprio prima della pandemia, scopriamo che il PIL reale è cresciuto più di un punto percentuale di quanto ci si aspettava, mentre l’occupazione supera il suo livello previsto di 2,9 milioni di lavoratori.

Come abbiamo realizzato tutto ciò? Si è scoperto che i lavoratori e le imprese americani sono più resilienti e adattabili di quanto venivano considerati. Anche se le nostre autorità non avessero fatto gli errori che seguirono alla crisi finanziaria del 2008, quando uno stimolo inadeguato della finanza pubblica venne seguito da un prematuro spostamento all’austerità che rinviò una completa ripresa per moti anni. Invece, l’Amministrazione Biden ha messo molto impegno sulla spesa, contribuendo probabilmente ad una temporanea fiammata di inflazione ma anche contribuendo a garantire una rapida ripresa – e a questo punto l’inflazione è in larga parte svanita mentre la ripresa rimane.

Oltre a ciò, proprio l’impennata nell’immigrazione che ha talmente fatto infuriare gli xenofobi ha giocato un grande ruolo nell’accrescere il potenziale dell’economia.

L’Ufficio del bilancio ha recentemente aggiornato le sue previsioni economiche di medio termine,  in gran parte perché ritiene che quella accresciuta immigrazione aumenterà la forza lavoro. Esso stima che la crescita dell’immigrazione aumenterà del 2 per cento il PIL reale entro il 2034.

Ma gli immigrati non stanno togliendo posti di lavoro ai  nativi americani? No. Una recente analisi a cura di Goldman Sachs contiene questo interessante diagramma:

krug immigrati 1

Fonte: Goldman Sachs [1]

Nel caso ve lo stiate chiedendo, “SA by GS” (“correzione stagionale a cura di Goldman Sachs”) si riferisce al fatto che i dati ufficiali non sono corretti per le fluttuazioni stagionali, dunque Goldman Sachs lo ha fatto per conto proprio.

Questo diagramma non mostra alcuna crescita della disoccupazione tra i nativi americani durante l’impennata dell’immigrazione. Esso in effetti mostra una crescita della disoccupazione tra i nati all’estero,  sulla quale tornerò. Ma per adesso ci sia permesso solo di osservare che non c’è alcuna buona prova che gli immigrati stiano togliendo posti di lavoro ai lavoratori nati in America.

Ma l’immigrazione non esercita una spinta verso il basso sui salari? Questo sembra poter esser vero – in particolare, si potrebbe pensare che gli immigrati con una istruzione formale relativamente piccola competano con i lavoratori nati in America meno istruiti. Anch’io ero solito crederlo.

Ma molti studi accademici (sebbene non tutti) scoprono che l’immigrazione ha poco effetto su salari dei nativi americani, anche quando quelli hanno livelli di istruzione simili. Anziché essere sostitutivi  dei lavoratori nativi, gli immigrati sembrano spesso complementari, portando diverse competenze e concentrandosi in diverse occupazioni.

In alcuni sensi l’attuale impennata dell’immigrazione, consistendo probabilmente soprattutto di lavoratori meno istruiti (particolarmente tra quelli sprovvisti di documenti), è un banco di prova. Sono diminuiti i salari tra i lavoratori con paghe più basse? Al contrario, quello che abbiamo osservato di recente è un sorprendente spostamento verso l’eguaglianza salariale, con grandi miglioramenti nei settori più poveri:

krug immigrati 2

Fonte: Arindrajit Dube [2]

Nel complesso, inoltre, l’immigrazione sembra essere stata un gran vantaggio per la crescita economica statunitense, ampliando tra le altre cose la nostra capacità produttiva in un modo che ha ridotto l’impatto inflazionistico dei programmi di spesa di Biden.

È anche importante comprendere che l’immigrazione, se continua (e se una futura Amministrazione Trump non raccoglierà milioni di persone per la deportazione), contribuirà a finanziare la Previdenza Sociale e Medicare. L’Ufficio Congressuale del Bilancio si aspetta che il 91 per cento degli immigrati adulti tra il 2022 ed il 2034 siano sotto i 55 anni, a confronto con il 62 per cento nella popolazione complessiva. Questo comporta un numero sostanziale di lavoratori aggiuntivi che versano contributi nel sistema senza ricevere sussidi pensionistici per molti anni.

Infine, fatemi tornare a quel diagramma di Goldman Sachs sui tassi di disoccupazione, che non mostra alcuna crescita della disoccupazione tra i nativi ma una significativa crescita tra i nati all’estero. Lo si creda o meno, questa è probabilmente una buona notizia.

Goldman sostiene che la crescita della disoccupazione tra i nati all’estero riflette una tendenza di lungo periodo per gli immigrati recenti ad avere una disoccupazione relativamente elevata, presumibilmente perché ci vuole un po’ di tempo perché molti di loro vengano sistemati in una occupazione duratura; la disoccupazione è molto più bassa tra gli immigrati che sono nel paesi da tre anni o più.

Perché questa è probabilmente una buona notizia? Il tasso di disoccupazione complessivo statunitense è cresciuto recentemente – non abbastanza da innescare la regola di Sahm [3], che stabilisce un collegamento tra disoccupazione in crescita e recessioni, ma sufficiente a rendere nervosi il sottoscritto ed altri.

Goldman sostiene, tuttavia, che questa volte le cose sono diverse. Tutta la crescita della disoccupazione si osserva tra i lavoratori nati all’estero – e questo, loro suggeriscono, comporta che non stiamo assistendo a quel genere di indebolimento della domanda per il lavoro che fa presagire recessioni. Stiamo assistendo invece ad un aumento dell’offerta di lavoro, con molti dei nuovi lavoratori ai quali occorre un po’ di tempo per riuscire ad integrarsi. Se così fosse, la regola di Sahm, che nel passato ha funzionato in modo spettacolare, attualmente potrebbe essere fuorviante.

Mi auguro che abbiano ragione.

La morale della favola è che mentre il sistema americano dell’immigrazione è disfunzionale ed ha realmente bisogno di maggiori risorse – risorse che si sarebbero ottenute se i repubblicani, spinti da Trump, non avessero voltato le spalle ad una proposta di legge che essi stessi avevano contribuito a concepire – la recente impennata dell’immigrazione è stata sinora effettivamente positiva per l’economia, e ci dà ragioni per essere più ottimisti sul futuro.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Il diagramma indica con la linea blu scura il tasso di disoccupazione tra i lavoratori americani di nascita, e in linea celeste quello tra i lavoratori nati all’estero. Nell’ultimo anno la percentuale di disoccupati tra questi ultimi è aumentata di circa un punto e mezzo, mentre tra i primi è leggermente calata.

[2] La tabella distingue cinque comparti dei salariati americani, dai più poveri alla sinistra sino ai più ricchi all’estrema destra e mostra i cambiamenti nei salari reali nel periodo tra il dicembre 2019 ed il dicembre 2023. Come si vede i compensi dei più poveri sono aumentati del 9 per cento – il dato è al netto dell’inflazione e probabilmente è stato determinato dai contributi finanziari del Governo durante la pandemia – mentre per i ricchissimi sono diminuiti.

Si tenga conto che i salariati molto ricchi effettivamente esistono, per varie ragioni che sono spiegate dal fenomeno della cosiddetta “omoplutia” – analizzato in particolare da Branko Milanovic nel libro “Capitalismo contro capitalismo”. Per omoplutia (da homós «uguale», e ploûtos «ricchezza») si intende il fatto che, in particolare negli Stati Uniti, le persone più ricche non si distinguono solo per i maggiori possessi di capitale, ma anche dei compensi salariali.

Gli aiuti finanziari nella pandemia, essendosi espressi con “assegni” governativi diretti ed eguali ai beneficiari di salari, evidentemente hanno comportato in termini percentuali un maggiore aiuto al quintile più povero che non al quintile più ricco.

[3] Il principio fondamentale della regola di Sahm è che un aumento di almeno 0,5 punti percentuali nel tasso di disoccupazione rispetto al minimo degli ultimi 12 mesi indica la probabilità di una recessione imminente.

La cosiddetta ‘regola’ è una teoria economica formulata da Claudia Sahm, una economista statunitense, che ha cercato di identificare un indicatore semplice e efficace per prevedere l’arrivo di recessioni economiche negli Stati Uniti. Secondo questa regola, il tasso di disoccupazione è un indicatore chiave per anticipare l’inizio di un periodo recessivo.

 

 

 

 

 

Credere è come vedere, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 20 febbraio 2024)

febbraio 24, 2024

 

Feb. 20, 2024

Believing Is Seeing

By Paul Krugman

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What was most startling about Tucker Carlson’s recent trip to Russia wasn’t his obsequious interview with Vladimir Putin but his gushing days afterward over how wonderful a place Moscow is. But then again, he was a special guest of the country that invented Potemkin villages (even if the original story is dubious), and making sure he saw only good stuff must have been easy.

Imagine, for example, that you brought people to New York and made sure that all they saw was the Upper East Side near the Metropolitan Museum of Art. They’d come away with the impression that New York is a very clean, spiffy-looking city.

The truth is that while parts of Moscow offer a small elite an opulent lifestyle, Russia as a whole is more than a bit ramshackle. Around a fifth of homes don’t even have indoor toilets. For many Russians, life is poor, nasty, brutish and short: Life expectancy is substantially lower than in the United States, even though America’s life expectancy has fallen and lags that of other advanced countries.

Anyway, while praising Moscow, Carlson trashed American cities, especially New York, where, he said, “you can’t use your subway” because “it’s too dangerous.” No doubt, there are some New Yorkers afraid to take the subway. Somehow, however, there were around 1.7 billion riders each year before the pandemic — yes, I take the subway all the time — and ridership, though still depressed by the rise of working from home, has been recovering rapidly.

It’s possible, of course, that Carlson has never ridden the New York subway, or at least not since the days when New York had about six times as many homicides each year as it does nowadays. In this he might be like Donald Trump, who probably hasn’t flown commercial in decades, declaring the other day that America’s airports — which have annoyingly long lines at security but have far more amenities than they used to — make us look like a “third world nation.”

Oh, and while New York’s subway stations don’t have chandeliers like Moscow’s and sometimes do have rats, the system does its job and, as I’ve written, plays a hugely positive role in the life of the city.

But right-wingers seem immovable in their conviction that New York is an urban hellscape — only 22 percent of Republicans consider it a safe place to live in or visit — despite the fact that it’s one of the safest cities in America.

More generally, there’s a striking disconnect between Americans’ perceptions about crime where they live — relatively few, from either party, consider it a serious problem — and their much more pessimistic assessment of the nation as a whole. This disconnect exists for both parties but is much wider for Republicans:

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Credit…Gallup

 

This is part of a broader phenomenon. America has become a country in which, for many people, especially but not only on the political right, believing is seeing. Perceptions on issues from immigration to crime to the state of the economy are driven by political positions rather than the other way around.

To take a subject I’ve obviously spent a lot of time on: During the Biden years, most measures of consumer sentiment have been much lower than you might have expected, given standard measures of the economy’s performance. This is still true, even though sentiment has risen substantially over the past few months. There’s practically a whole genre of analysis devoted to arguing that people are actually right to feel bad about the economy because of something or other.

So here’s a pro tip: Ignore anyone who says that Americans are down on the economy without noting that the reality is that Republicans are down on the economy.

I wrote about this last week, but let me make the point again using slightly different data and graphics. The widely cited Michigan survey of consumers provides data on sentiment broken down by partisan affiliation, although it has been a regular monthly feature only since 2017. I prefer to focus on the current economic conditions index, since people might legitimately have different expectations, depending on who’s in charge. So here’s what this index looks like, using three-month moving averages to cancel some of the statistical noise:

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Credit…University of Michigan

Democrats appear to feel that the economy now is about as good as it was in late 2019, which is what you might expect, given that the unemployment rate is about the same and inflation only slightly higher. Republicans, however, have gone from euphoria about the economy under Donald Trump to a very jaundiced view under President Biden.

What about independents? Never mind: For the most part, they lean toward one party or the other and behave like partisans.

Now, this comparison doesn’t prove that negative perceptions of the economy are all about partisanship — maybe things really are somewhat bad and Democratic partisanship is holding the numbers up — although Democrats don’t seem to experience the kind of mood swings when the White House changes hands that Republicans do. But at the very least, any discussion of economic sentiment that doesn’t take partisanship into account is missing a key part of the story.

As I wrote last week, the believing-is-seeing nature of public opinion may mean that perceptions of the economy, and perhaps crime, won’t matter very much for this year’s election: Americans who believe that things are terrible probably wouldn’t have voted Democratic, no matter what. But to take a longer view: How are we going to function as a country when large numbers of people just see a different reality from the rest of us?

 

Credere è come vedere,

di Paul Krugman

 

Quello che è stato più stupefacente nel recente viaggio di Tucker Carlson in Russia non è stata la sua ossequiosa intervista con Vladimir Putin ma le sue giornate successive inondate di complimenti su quanto Mosca sia un luogo meraviglioso. D’altra parte, egli era un ospite speciale di un paese che inventò i ‘villaggi Potemkin’ (anche se la storia originale è dubbia), e fare in modo che egli vedesse solo cose belle doveva esser facile.

Si immagini, ad esempio, di aver portato delle persone a New York e fatto in modo che tutto quello che vedevano fosse l’Upper East Side vicino al Museo dell’Arte Metropolitana. Esse se ne andrebbero con l’impressione che New York sia una città pulitissima e favolosa.

La verità è che mentre parti di Mosca offrono ad una piccola elite un opulento stile di vita, la Russia nel suo complesso è peggio che un po’ sgangherata. Circa un quinto delle abitazioni non hanno neanche i servizi igienici all’interno. Per molti russi, la vita è povera, sgradevole, rozza e breve: l’aspettativa di vita è sostanzialmente più bassa [1] che negli Stati Uniti, anche se l’aspettativa di vita dell’America è caduta e non tiene il passo con gli altri paesi avanzati.

In ogni modo, mentre elogia Mosca, Carlson riduce a spazzatura le città americane, particolarmente New York, per la quale egli dice: “non potete usare la vostra metropolitana” perché “è troppo pericolosa” Non c’è dubbio che ci sono alcuni newyorchesi che hanno paura di prendere la metropolitana. In un modo o nell’altro, tuttavia, ogni anno prima della pandemia circolavano circa 1,7 miliardi di viaggiatori – sì, io prendo sempre la metropolitana –  e l’utenza, sebbene tuttora depressa dalla crescita del lavoro da casa, si sta riprendendo rapidamente.

È possibile, naturalmente, che Carlson non abbia mai viaggiato nella metropolitana di New York, almeno non dai giorni nel quali New York aveva ogni anno sei volte gli omicidi che ha oggi. In questo somiglierebbe a Donald Trump, che probabilmente non ha usato voli di linea da decenni, che l’altro giorno ha dichiarato che gli aeroporti americani – che hanno file fastidiosamente lunghe alla sicurezza ma hanno un comfort assai maggiore di quello che avevano un tempo – ci fanno assomigliare ad “una nazione del terzo mondo”.

Inoltre, mentre le stazioni della metropolitana di New York non hanno lampadari come quelle di Mosca e talvolta abbiano i topi, il sistema assolve al suo compito e, come ho scritto, gioca un ruolo altamente positivo nella vita della città.

Ma i personaggi della destra paiono inamovibili nella loro convinzione che New York sia un inferno urbano – solo il 22 per cento dei repubblicani lo considera un posto sicuro da vivere o da visitare – nonostante il fatto che essa sia una delle città più sicure in America.

Più in generale, c’è una impressionante disconnessione tra le percezioni degli americani sui crimini dove essi vivono – relativamente in pochi, in ambedue i partiti, lo considerano un problema grave – e il loro giudizio molto più pessimistico sulla nazione nel suo complesso. Questa disconnessione esiste per entrambi i partiti, ma è molto più ampia per i repubblicani:

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Fonte: Gallup

Questo è un aspetto di un fenomeno più generale. L’America è diventata un paese nel quale, per molte persone, particolarmente ma non soltanto della destra politica, credere è come vedere. Le percezioni sui temi dall’immigrazione al crimine allo stato dell’economia sono guidate dalle posizioni politiche piuttosto che a partire da quello che si osserva.

Per prendere un tema sul quale come è noto ho passato un bel po’ di tempo: durante gli anni di Biden la maggior parte delle misurazioni sulle impressioni dei consumatori sono state molto più basse di quanto ci si poteva aspettare, considerate le misurazioni più comuni delle prestazioni dell’economia. Questo è ancora vero, anche se le impressioni sono sostanzialmente migliorate negli ultimi mesi. C’è praticamente un intero genere di analisi rivolte a sostenere che le persone hanno in effetti ragione ad avere impressioni negative sull’economia, per una ragione o per l’altra.

Ecco dunque un suggerimento: ignorate chiunque affermi che gli americani sono depressi sull’economia senza osservare che in realtà sono i repubblicani ad essere depressi sull’economia.

Ho scritto su questo la settimana scorsa, ma consentitemi di avanzare ancora l’argomento usando dati e grafici leggermente differenti. L’ampiamente citato Sondaggio Michigan sui consumatori fornisce dati sulle impressioni scomposti per la appartenenza partitica, per quanto questa sia stata una regolare caratteristica mensile soltanto a partire dal 2017. Io preferisco concentrarmi sull’indice delle condizioni economiche attuali, dato che le persone potrebbero legittimamente avere diverse aspettative, a secondo di chi è in carica. Dunque, ecco cosa mostra questo indice, utilizzando le serie medie trimestrali per cancellare alcune delle anomalie statistiche:

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[2] Fonte: Università del Michigan

I democratici sembrano percepire che l’economia sia adesso all’incirca altrettanto positiva di quello che era alla fine del 2019, che è quanto vi aspettereste, considerato che il tasso di disoccupazione è quasi lo stesso e l’inflazione è solo leggermente superiore. Tuttavia, i repubblicani sono passati dall’euforia sull’economia sotto Donald Trump ad un punto di vista molto incattivito sotto il Presidente Biden.

Che dire degli indipendenti? Non contano: per la maggior parte essi inclinano verso un partito o l’altro e si comportano come gli appartenenti ai partiti.

Ora, questo confronto non prova che le percezioni negative sull’economia riguardino tutte la preferenza verso un partito – le cose potrebbero essere realmente in qualche modo negative e la faziosità dei democratici terrebbe i dati in alto – per quanto i democratici non sembrano conoscere quel genere di oscillazione dell’umore quando la Casa Bianca cambia il titolare che hanno i repubblicani. Ma alla fin fine, ogni discussione sulle percezioni economiche che non metta nel conto la faziosità si perde una parte fondamentale della storia.

Come ho scritto la settimana scorsa, la natura del “credere è come vedere” dell’opinione pubblica può comportare che le percezioni sull’economia, e forse sul crimine, non siano molto importanti per le elezioni di quest’anno: gli americani che credono che le cose siano terribili probabilmente non avrebbero votato per i repubblicani, a prescindere. Ma per assumere una prospettiva a più lungo termine: come siamo destinati a funzionare come nazione se un gran numero di persone precisamente vede una realtà diversa dal resto di noi?

 

 

 

 

 

 

 

[1] Per chi ne avesse maggiore curiosità, un mio Fact-checking:

Da “Lancet” si apprende che: “il quadro della salute della popolazione russa è molto preoccupante: la speranza di vita alla nascita è di 64 anni per gli uomini – il dato più basso tra tutti i paesi europei, 11 anni in meno rispetto alla media dei paesi UE – e 75 per le donne. [Ma …] nel 1988 la speranza di vita degli uomini russi era di 65 anni: a seguito del collasso dell’Unione Sovietica in pochi anni la longevità di questa popolazione si ridusse di ben 7 anni”. Ovvero, il colpo peggiore alla aspettativa di vita venne dalla grande crisi economica successiva al crollo del comunismo.

Inoltre: “in Russia anche le malattie infettive rivestono un ruolo importante nella mortalità, specialmente la TBC, il cui tasso d’incidenza è aumentato moltissimo dopo la caduta dell’Unione Sovietica (da 33 casi su 100.000 abitanti degli anni ’80 agli oltre 90 casi su 100.000 del 2012”.

Nel frattempo, il calo impressionante dell’aspettativa di vita negli Stati Uniti negli ultimi anni si legge nel seguente tabella (con i maschi in verde, le femmine in blu e i dati totali in celeste).

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Quindi: in Russia l’aspettativa di vita per i maschi è oggi, dopo quel tracollo, 64 anni; per le femmine è 75 anni. Negli Stati Uniti è scesa a 78 anni per le donne e a 73 anni per gli uomini. In Europa, nel 2021, l’aspettativa di vita era 80,1 anni; 82,9 per le donne, 77,2 per gli uomini. Interessante che la differenza tra uomini e donne – il tasso di mortalità maggiore per i primi che non per le seconde – sia di cinque anni negli Stati Uniti ed in Europa, e di circa dieci anni in Russia.

Sia in Russia che negli Stati Uniti un peso abnorme delle morti deriva dalle malattie cardiovascolari (soprattutto fumo in un caso e obesità nell’altro), da dipendenze (soprattutto da alcool nel primo caso, anche da farmaci e droghe nel secondo), da morti violente (da suicidi, da omicidi e da incidenti stradali).

[2] I dati nella linea blu indicano le risposte degli intervistati democratici, quelli nella linea rossa le risposte dei repubblicani. Le misurazioni sull’asse verticale non è spiegato a cosa si riferiscano, ma indicano chiaramente dal livello 0 a quello 140 i limiti estremi del pessimismo e dell’ottimismo nei giudizi.

 

 

 

 

Cosa riguardò la Guerra Civile, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 2 gennaio 2024)

gennaio 8, 2024

 

Jan. 2, 2024

What the Civil War Was About

By Paul Krugman

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Of course the Civil War was about slavery, and everyone knew it at the time. No, Nikki Haley, it wasn’t about states’ rights, except to the extent that Southern states were trying to force Northern states to help maintain slavery — something that, as I’ll explain in a bit, has echoes in the current fight over abortion rights.

So Haley deserves all the condemnation she received for initially refusing to acknowledge the obvious in a campaign stop last week.

But it may be worth delving a bit deeper into the background here. Why did slavery exist in the first place? Why was it confined to only part of the United States? And why were slaveholders willing to start a war to defend the institution, even though abolitionism was still a fairly small movement and they faced no imminent risk of losing their chattels?

Let me start with an assertion that may be controversial: The American system of chattel slavery wasn’t motivated primarily by racism, but by greed. Slaveholders were racists, and they used racism both to justify their behavior and to make the enslavement of millions more sustainable, but it was the money and the inhumane greed that drove the racist system.

Back in 1970, the M.I.T. economist Evsey Domar published a classic paper titled “The Causes of Slavery or Serfdom: A Hypothesis,” which started with a historical observation that probably surprised most of his readers. Everybody knew that czarist Russia was a nation where serfs were tied to the land, but Russian serfdom, it turned out, wasn’t an ancient institution dating back to the depths of medieval history. It was, instead, introduced in the 16th and 17th centuries — after gunpowder finally gave peasant infantry the military upper hand over nomadic horse-archers, allowing the Russian Empire to expand into vast, fertile new territories.

As Domar pointed out, there’s little reason to enserf or enslave a worker (not quite the same thing, but let’s leave that aside) if labor is abundant and land is scarce, so that the amount that worker could earn if he ran away barely exceeds the cost of subsistence. But if land becomes abundant and labor scarce, the ruling class will want to pin workers in place so they can forcibly extract the difference between the value of what workers can produce — strictly speaking, their marginal product — and the cost of keeping them alive.

Hence the rise of serfdom as Russia expanded east and the rise of slavery as Europe colonized the New World.

In fact, the real historical puzzle is why high wages didn’t always lead to widespread slavery or serfdom. As Domar pointed out, serfdom in the West had more or less withered away by around 1300, because Western Europe was overpopulated, given the technologies of the time, which in turn meant that landowners didn’t need to worry that their tenants and workers would leave in search of lower rents or higher wages. But the Black Death caused populations to crash and wages to soar. In fact, for a while, real wages in Britain reached a level they wouldn’t regain until around 1870:

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Credit…FRED

Yet serfdom wasn’t reimposed, for reasons that aren’t entirely clear. One thought, however, is that holding people captive in order to steal the fruits of their labor isn’t easy. (Escaped serfs were a significant issue in Russia, as were escaping and rebelling slaves in America — the Second Amendment was largely about making it easier to hold slaves down. A slave rebellion led in 1848 to emancipation on St. Croix, where President Biden spent his most recent vacation.) Which brings us to the story of the U.S. Civil War.

Labor was scarce in pre-Civil War America, so free workers earned high wages by European standards. Here are some estimates of real wages in several countries as a percentage of U.S. levels on the eve of the Civil War:

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Credit…Williamson 1995

Notice that Australia — another land-abundant, labor-scarce nation — more or less matched America; elsewhere, workers earned much less.

Landowners, of course, didn’t want to pay high wages. In the early days of colonial settlement, many Europeans came as indentured servants — in effect, temporary serfs. But landowners quickly turned to African slaves, who offered two advantages to their exploiters: Because they looked different from white settlers, they found it hard to escape, and they received less sympathy from poor white workers who might otherwise have realized that they had many interests in common. Of course, white Southerners also saw slaves as property, not people, and so the value of slaves factored into the balance sheet of this greed-driven system.

So, again, the dynamic was one in which greedy slaveholders used and perpetuated racism to sustain their reign of exploitation and terror.

Because U.S. slavery was race-based, however, there was a limited supply of slaves, and it turned out that slaves made more for their masters in Southern agriculture than in other occupations or places. Black people in the North were sold down the river to Southern planters who were willing to pay more for them, so slavery became an institution peculiar to one part of the country.

As such, slaves became a hugely important financial asset to their owners. Estimates of the market value of slaves before the Civil War vary widely, but they were clearly worth much more than the land they cultivated and may well have accounted for a majority of Southern wealth. Inevitably, slaveholders became staunch defenders of the system underlying their wealth — ferocious and often violent defenders (remember bleeding Kansas), because nothing makes a man angrier than his own, probably unacknowledged suspicion that he’s actually in the wrong.

Indeed, slaveholders and their defenders lashed out at anyone who even suggested that slavery was a bad thing. As Abraham Lincoln said in his Cooper Union address, the slave interest in effect demanded that Northerners “cease to call slavery wrong, and join them in calling it right.”

But Northerners wouldn’t do that. There were relatively few Americans pushing for national abolition, but Northern states, one by one, abolished slavery in their own territories. This wasn’t as noble an act as it might have been if they had been confiscating slaveholders’ property, rather than in effect waiting until the slaves had been sold. Still, it’s to voters’ credit that they did find slavery repugnant.

And this posed a problem for the South. Anyone who believes or pretends to believe that the Civil War was about states’ rights should read Ulysses S. Grant’s memoirs, which point out that the truth was almost the opposite. In his conclusion, Grant noted that maintaining slavery was difficult when much of the nation consisted of free states, so the slave states in effect demanded control over free-state policies. “Northern marshals became slave catchers, and Northern courts had to contribute to the support and protection of the institution,” he wrote.

This should sound familiar. Since the Supreme Court overturned Roe v. Wade, states that have banned abortion have grown increasingly frantic over the ability of women to travel to states where abortion rights remain; it’s obvious that the right will eventually impose a national abortion ban if it can.

For a long time, the South did manage to exercise that kind of national control. But industrialization gradually shifted the balance of power within the United States away from the South to the North:

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Credit…Statista

So did immigration, with very few immigrants moving to slave states.

And the war happened because the increasingly empowered people of the North, as Grant wrote, “were not willing to play the role of police for the South” in protecting slavery.

So yes, the Civil War was about slavery — an institution that existed solely to enrich some men by depriving others of their freedom. And there’s no excuse for anyone who pretends that there was anything noble or even defensible about the South’s cause: The Civil War was fought to defend an utterly vile institution.

 

Cosa riguardò la Guerra Civile,

di Paul Krugman

 

Ovviamente, la Guerra Civile riguardò la schiavitù. E tutti lo sapevano a quel tempo. Dunque no, Nikki Haley [1], essa non riguardò i diritti degli Stati, se non nella misura nella quale gli Stati del Sud stavano cercando di costringere quelli del Nord ad contribuire a conservare la schiavitù – qualcosa che, come spiegherò tra un momento, ha somiglianze con la attuale battaglia sui diritti all’aborto.

Dunque, la Haley merita tutte le condanne che ha ricevuto per avere, la scorsa settimana, in una interruzione della campagna elettorale [2], rifiutato di riconoscere ciò che è ovvio.

Ma, in questo caso, può valer la pena scavare un po’ più nel profondo del contesto. Anzitutto: perché esisteva la schiavitù? Perché era confinata soltanto in una parte degli Stati Uniti? E perché i possessori d schiavi furono disponibili ad avviare una guerra per difendere tale istituto, anche se l’abolizionismo era ancora un movimento abbastanza modesto ed essi non erano di fronte ad alcun rischio imminente di perdere i loro schiavi [3]?

Permettetemi di partire da un giudizio che potrebbe essere controverso: il sistema americano dello schiavismo non era motivato principalmente dal razzismo, ma dalla avidità. I possessori di schiavi erano razzisti, e utilizzavano il razzismo sia per giustificare il loro comportamento che per rendere la schiavizzazione milioni di persone più sostenibile, ma fu il denaro e l’avidità disumana a guidare il sistema razzista.

Nel passato 1970, l’economista del MIT Evsey Domar pubblicò un classico saggio dal titolo “Le cause della schiavitù e della servitù: una ipotesi”, che prendeva le mosse da una osservazione storica che probabilmente sorprese la maggior parte dei suoi lettori. Tutti sapevano che la Russia zarista era una nazione nella quale i servi erano legati alla terra, ma la servitù russa, si scopriva, non era una istituzione antica che risaliva alle profondità della storia medievale. Era stata piuttosto introdotta nel 16° e 17° secolo – quando la polvere da sparo diede alla fanteria dei contadini la carta vincente sugli arcieri a cavallo nomadi, permettendo all’Impero Russo di espandersi in vasti nuovi territori fertili.

Come Domar metteva in evidenza, ci sono poche ragioni per asservire o schiavizzare un lavoratore (non è proprio la stessa cosa, ma lasciamola da parte) se il lavoro è abbondante e la terra è scarsa, cosicché la somma che il lavoratore potrebbe guadagnare se fuggisse eccederebbe appena il costo della sussistenza. Ma se la terra diventa abbondante e il lavoro scarso, la classe dominante vorrà bloccare i lavoratori sul loro posto, in modo tale da poter forzatamente sfruttare la differenza tra il valore di quello che i lavoratori possono produrre – strettamente parlando, il loro valore marginale – e il costo di mantenerli in vita.

Da qua la crescita della servitù quando la Russia si espanse ad Oriente e la crescita della schiavitù quando l’Europa colonizzò il Nuovo Mondo.

Di fatto, il vero enigma storico è perché alti salari non hanno sempre portato ad una generalizzata schiavitù o servitù. Come Domar metteva in evidenza, la servitù in Occidente si era più o meno attenuata attorno al 1300, giacché l’Europa Occidentale era sovrapopolata, date le tecnologie del tempo, il che a sua volta comportava che i proprietari terrieri non avevano bisogno di preoccuparsi se i loro affittuari o braccianti se ne fossero andati in cerca di affitti più bassi o di salari più alti. Ma la Morte Nera spinse le popolazioni al crollo ed i salari ad impennarsi. Di fatto, per un certo periodo, i salari reali in Inghilterra raggiunsero un livello che non avrebbero riacquistato sino a circa il 1870:

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Fonte: FRED [4]

Tuttavia, la servitù non venne di nuovo imposta, per ragioni che non sono interamente chiare. Una tesi, tuttavia, è che mentenere le persone in cattività allo scopo derubarle dei frutti del loro lavoro non è facile (i servi che fuggivano furono un tema significativo in Russia, come lo furono le fughe e le ribellioni degi schiavi in America – il Secondo Emendamento riguardava in gran parte il rendere più facile il tener fermi gli schiavi. Una ribellione degli schiavi portò nel 1848 alla loro emancipazione a St. Croix, dove il Presidente Biden ha trascorso le sue recenti vacanze). Il che ci riporta alla storia della Guerra Civile statunitense.

Il lavoro era scarso in America prima della Guerra Civile, cosicché i lavoratori liberi guadagnavano salari elevati per gli standard europei. Esistono alcune stime dei salari reali in vari paesi come percentuale dei livelli statunitensi alla viglia della Guerra Civile:

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Fonte: Williamson 1995 [5]

Su noti che l’Australia – un’altra nazione abbondante di territorio e scarsa di lavoro – più o meno eguagliava l’America; altrove, i lavoratori guadagnavano molto meno.

Ovviamente, i proprietari terrieri non intendevano pagare alti salari. Nei primi giorni dell’insediamento coloniale, molti europei arrivavano come servitori a contratto – il sostanza, servi temporanei. Ma i proprietari terrieri presto si indirizzarono verso gli schiavi africani, che ai loro sfruttatori offrivano due vantaggi: dato che avevano sembianze diverse dai coloni bianchi, per loro era difficile fuggire e ricevevano scarsa simpatia dei lavoratori bianchi poveri, che altrimenti avrebbero potuto comprendere di avere molti interessi in comune. Naturalmente, i sudisti bianchi consideravano anche gli schiavi come proprietà, non come persone, e così il valore degli schiavi giocò una parte nel bilancio patrimoniale di questo sistema fondato sull’avidità.

Dunque, ancora un volta, la dinamica fu quella di avidi proprietari di schiavi che usavano e perpetuavano il razzismo per sorreggere il loro regno di sfruttamento e di terrore.

Poiché la schiavitù era basata sulla razza, tuttavia, ci fu un’offerta limitata di schiavi e si scoprì che gli schiavi rendevano di più per i loro padroni nell’agricoltura del Sud che in altre occupazioni o località. Le persone di colore del Nord venivano vendute lungo il fiume ai proprietari delle piantagioni del Sud che per loro erano diposte a pagare di più, cosicché la schiavitù divenne un’istituzione peculiare di una parte del paese.

Come tali, gli schiavi divennero un asset finanziario grandemente importante per i loro proprietari. Le stime sul valore di mercato degli schiavi variavano grandemente, ma avevano chiaramente molto più valore delle terra che coltivavano e potevano ben essere considerati come la parte prevalente della ricchezza del Sud. Inevitabilmente, i proprietari di schiavi divennero convinti difensori del sistema su quale si basava la ricchezza del Sud – difensori feroci e spesso violenti (si ricordi il sanguinario Kansas), poiché niente rende un uomo più infuriato del suo stesso sospetto, il più delle volte non ammesso, di essere effettivamente nel torto.

In effetti, i proprietari di schiavi e i loro sostenitori aggredivano chiunque persino suggerisse che la schiavitù era una cosa negativa. Come disse Abramo Lincoln nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione all’Istituto Cooper, l’interesse per gli schiavi in sostanza chiedeva ai nordisti “di smettere di chiamare la schiavitù come una cosa sbagliata, e di unirsi a loro nel definirla giusta”.

Ma i nordisti non l’avrebbero fatto. Ci furono relativamente pochi americani a spingere per la sua aboliziona nazionale, ma gli Stati nordisti, uno dopo l’altro, abolirono la schiavitù nei loro territori. Questo non fu un atto altrettanto nobile di quello che avrebbe potuto essere la confisca delle proprietà dei proprietari di schiavi, anziché in sostanza l’attendere finché gli schiavi non fossero stati venduti. Eppure, è un titolo di merito verso gli elettori che essi avessero trovato la schiavitù ripugnante.

E questo cosituiva un problema per il Sud. Chiunque creda o finga di credere che la Guerra Civile riguardò  diritti degli Stati dovrebbe leggersi le memorie di Ulysses S. Grant, che evidenziano come la verità fosse quasi quella opposta. Nella sua conclusione, Grant osservava che mantenere la schiavitù era difficile quando la maggior parte della nazione consisteva di Stati liberi, cosicché gli Stati schiavisti in effetti chiedevano il controllo sulle politiche degli Stati liberi. Egli scriveva: “Gli sceriffi del Nord divennero cacciatori di schiavi fuggiaschi, e i tribunali del Nord dovettero contribuire al sostegno ed alla protezione dell’istituzione”.

Questo dovrebbe ricordarci qualcosa di familiare. Dal momento in cui la Corte Suprema ha rovesciato la sentenza Roe contro Wade [6], gli Stati che hanno messo al bando l’aborto sono diventati sempre più frenetici sulla possibilità che le donne viaggino verso Stati nei quali il diritto all’aborto permane; è evidente che alla fine, se potesse, la destra imporrebbe una messa al bando nazionale dell’aborto.

Per un lungo tempo il Sud cercò di esercitare quella sorta di controllo nazionale. Ma gradualmente l’industrializzazione spostò l’equilibrio del potere all’interno degl Stati Uniti dal Sud al Nord:

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Fonte: Statista  [7]

Lo stesso accadde per l’immigrazione, con molti pochi immigrati che si spostarono negli Stati schiavisti.

E la guerra avvenne perché la popolazione sempre più potente del Nord, come scriveva Grant: “non era disponibile a giocare il ruolo della polizia a favore del Sud” nella protezione della schiavitù.

Dunque è un fatto che la Guerra Civile riguardò la schiavitù – un istituzione che esisteva unicamente per arricchire alcuni uomino privando gli altri della loro libertà. E non c’è alcuna scusante per chiunque pretenda che ci fosse qualcosa di nobile o anche di difendibile nella causa del Sud: la Guerra Civile venne combattuta [dal Sud] per difendere un’istituzione del tutto abietta.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Nimrata Randhawa, detta Nikki e coniugata Haley (Bamberg20 gennaio 1972), è una politica statunitense, membro del Partito Repubblicano e rappresentante permanente alle Nazioni Unite dal 27 gennaio 2017 al dicembre 2018; è stata governatrice della Carolina del Sud dal 2011 al 2017 e membro della Camera dei rappresentanti della Carolina del Sud dal 2005 al 2011.

Nel febbraio 2023 Haley ha annunciato la propria candidatura alle primarie del Partito Repubblicano del 2024 per la presidenza degli Stati Uniti nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2024.

Wikipedia.

[2] Il riferimento è alla parte iniziale della campagna elettorale, che attualmente impegna i repubblicani nelle primarie per la scelta di un loro candidato (primarie alle quali Trump in sostanza non partecipa, pur essendo considerato quasi

da tutti come il designato quasi certo).

[3] È interessante che la parola inglese  “chattel” significhi sia “bene mobile “ – ovvero gioielli, automobili, mobili etc., ma non case o fabbriche – che anche “schiavo”. L’etimo di “chattel” è lo stesso di quello di “cattle” (“bestiame”) ed ha origine nel latino medioevale e nel francese antico. Peraltro ha la stessa radice di “capitale”; il termine “chattel slavery”, che designa il sistema schiavistico, non è semplicemente una ripetizione dello stesso concetto. Essa significa in sostanza che la schiavitù comporta il completo possesso di una persona su un’altra, alla stregua di un ‘capitale mobile’ . Una analogia, viene da pensare, marxista, che peraltro legittima ampiamente il termine “proletariato”, ad indicare la classe che poteva esercitare una forma di ‘possesso’ solo sulla propria prole.

[4] Il diagramma mostra l’evoluzione dei salari reali procapite in rapporto all’Indice dei Prezzi al Consumo, che crebbero dal 1300 e toccarono il livello più alto nel secolo tra il 1400 ed il 1500, livello che avrebbero raggiunto solo verso la fine del diciannovesimo secolo.

[5] Quindi, nel 1860, i salari reali erano attorno al 40-50% dei livelli americani in Francia e in Inghilterra, mentre erano un po’ superiori al 100% in Australia.

[6] Lo scorso venerdì 24 giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade, che stabiliva il diritto costituzionale all’aborto negli Stati Uniti dal 1973, riportando il paese indietro di oltre 50 anni.

[7] La tabella mostra la situazione nell’anno 1861 – ovvero agli inizi della Guerra Civile, che ebbe inizio il 12 aprile 1861 e terminò il 23 giugno del 1865 – in termini di migliaia di unità di fabbriche (in blu)  e di lavoratori occupati nelle fabbriche (in nero). La grande maggioranza si collocava nel territori che continuarono a chiamarsi Stati Uniti (a sinistra del diagramma); gli Stati secessionisti, che presero il nome di Stati della Confederazione, e gli Stati di confine tra i due raggruppamenti (nel centro e a destra del diagramma) rappresentavano già nel 1861 una modesta minoranza.

 

 

 

Chi mette l’embargo a chi? Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 2 agosto 2022)

agosto 17, 2022

 

Aug. 2, 2022

Who’s Embargoing Whom?

By Paul Krugman

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The other day, my CUNY and Stone Center colleague Branko Milanovic suggested that it would be interesting to “compare Napoleon’s continental blockade against Great Britain to the current sanctions against Russia.” As it happened, I was already on the topic. I had just read Andrew Roberts’s “Napoleon: A Life” and was thinking about the parallels.

The parallels are not, in fact, very good. But laying out the differences is itself, I believe, a useful exercise, and there are other historical examples of trade embargoes in times of war that come closer to what’s happening now.

So, for those not familiar with the history, a potted summary: At the beginning of the 19th century, Britain and France were locked in a peculiar stalemate — the British unbeatable at sea, France very nearly unbeatable on land. Napoleon tried to break this stalemate with economic warfare, closing the ports of Europe to British commerce. But his blockade was leaky, and his attempts to plug the leaks led him into disastrous military ventures — first a bloody quagmire in Spain, then a catastrophic invasion of Russia.

What does this have to do with the current situation? Not much. Let’s fast-forward to 2022.

The conventional wisdom on Feb. 24, I think, was that Russia would win a quick military victory in Ukraine, but then face a cash shortage as the West embargoed its exports. This has not come to pass.

On the military side, Russia’s attempt at a quick seizure of Ukraine’s major cities ended with huge losses and a humiliating retreat. Russia then shifted to a grinding, artillery-driven battle of attrition in the Donbas but gained only a few square miles of ground, again at the cost of heavy losses. That attack more or less stalled out in mid-June, and more recently Western weapons seem to have tipped the balance of power in Ukraine’s favor, although the front lines remain static, at least for now.

On the other hand, Western attempts to restrict Russian exports have been a bust. Russian oil is still finding its way to world markets, and if anything, the country appears to be flush with cash.

But while Russia is having no problem selling stuff, it’s having a lot of trouble buying stuff. Sanctions on Russia’s exports have, as I said, been a bust, but sanctions on its imports — refusal to sell Russia essential goods — have been more successful than, as far as I know, anyone expected. Even nations that aren’t part of the coalition imposing sanctions, including China, have sharply cut their exports to Russia:

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The world won’t sell to Russia.Credit…Peterson Institute for International Economics

And this cutoff of imports appears to be hammering the Russian economy:

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Russian industry is hurting.Credit…Sonnenfeld et al.

None of this would have made sense in the Napoleonic era, because international trade was much simpler then. Sanctions appear to be restricting Russian industry because so much modern trade consists not of consumer goods but of industrial inputs. That wasn’t true in, say, 1810, with the main exception being cotton — which didn’t come from areas Napoleon controlled.

Also, in 1810, there weren’t many multinational businesses. Today, a company that manufactures goods in China — even if it’s Chinese-owned — is probably reluctant to sell potentially strategic goods to Russia out of fear that it may find itself sanctioned in other, more important markets, like the United States and the European Union.

So economic sanctions against Russia appear to have been surprisingly effective, just not in the way everyone expected. That said, there are no indications I’m aware of that the economic cost of the sanctions is leading to any moderation in Russian policy. What they’re doing instead is crimping Russia’s military production, which is a real problem for Putin, given the continuing inflow of Western weapons into Ukraine.

But wait, that’s not the end of the story, because there’s another de facto embargo underway. Early in the war, supporters of Ukraine pleaded with European nations — Germany in particular — to stop buying Russian natural gas; they didn’t. But now Russia is, in effect, sanctioning its own gas exports. It’s not an explicitly announced policy, but Russia has been reducing deliveries to European markets, pretty clearly in an attempt to damage the European economy and increase political pressure for Europe to stop supporting Ukraine.

I find this chart, which shows the price of natural gas in the Netherlands — the European benchmark — fascinating:

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Military frustration leads to a gas squeeze? Credit…ICE

Gas prices spiked in February with the Russian invasion, but quickly subsided to more or less the pre-invasion level. They didn’t begin a sustained rise until mid-June. I don’t think it’s a coincidence that this upward break corresponds with the point when even the Russians realized that their Donbas offensive wasn’t going to produce a decisive breakthrough.

Everything suggests that this was when Russia began limiting gas deliveries. In effect, Russia, not the West, is now the player trying to use economic warfare as a substitute for its inability to prevail on the battlefield.

The closest historical parallel I can find is the embargo on cotton exports imposed by the Confederacy early in the Civil War, in an attempt to force Britain to intervene on the side of the South. This embargo didn’t last long, but by the time it was repealed, it was moot: The Union navy was blockading Southern ports anyway. Needless to say, the embargo didn’t work.

Will Russia’s ploy work better? I wish I could be more sure than I am about European resolve, especially given high inflation and the high risk of recession (which is higher there than it is in the United States). On the other hand, the nations that seem most likely to waver, especially Germany and Italy, have been lagging in their arms deliveries anyway; Russia’s stealth gas embargo is unlikely to deter crucial shipments from the United States, Britain and Poland, among others.

The truth is that it is hard to find historical examples of successful economic warfare unless you count blockades that were themselves a form of military action — like the U.S. submarine campaign that devastated Japan’s economy during World War II. In the end, the war in Ukraine will probably be decided on the battlefield.

 

Chi mette l’embargo a chi?

Di Paul Krugman

 

L’altro giorno, il mio collega al CUNY ed allo Stone Center Branko Milanovic ha suggerito che sarebbe interessante “confrontare il blocco continentale contro la Gran Bretagna di Napoleone alle attuali sanzioni contro la Russia”. Si dà il caso, che mi occupassi già dell’argomento. Ho appena letto “Napoleone: una vita” di Andrew Roberts e stavo pensando a quel confronto.

Di fatto, le affinità non sono particolarmente rilevanti. Ma credo che esporre le differenze sia di per sé un esercizio utile, e ci sono altri esempi storici di embarghi in tempi di guerra che si avvicinano a quanto sta accadendo oggi.

Dunque, per coloro che non hanno familiarità con la storia, una riassunto sommario: agli inizi del diciannovesimo secolo l’Inghilterra e la Francia erano bloccate in un singolare punto morto – gli inglesi imbattibili sul mare, la Francia quasi imbattibile sulla terra. Napoleone cercò di forzare questo punto morto con una guerra economica, chiudendo i porti dell’Europa al commercio inglese. Ma questo blocco aveva delle perdite, e i suoi tentativi di tappare le perdite lo portarono a disastrose avventure militari – dapprima un sanguinoso pantano in Spagna, poi una invasione catastrofica della Russia.

Cosa ha a che fare tutto questo con la situazione attuale? Non molto. Arriviamo al 2022.

Penso che, il 24 febbraio, il senso comune dicesse che la Russia avrebbe ottenuto una rapida vittoria militare in Ucraina, ma poi si sarebbe misurata con una scarsità di contante quando l’Occidente avesse messo l’embargo sulle sue esportazioni. Non è quello che è accaduto.

Sul versante militare, il tentativo della Russia di una rapida conquista di importanti città dell’Ucraina si è conclusa con vaste perdite e con una umiliante ritirata. Allora la Russia si è spostata su una estenuante battaglia di logoramento, guidata dall’artiglieria, nel Donbass, ma ha guadagnato soltanto poche miglia quadrate di terreno, ancora al costo di pesanti perdite. Alla metà di giugno quell’attacco è più o meno ristagnato, e più di recente le armi occidentali sembrano aver leggermente spostato l’equilibrio delle forze a favore dell’Ucraina, sebbene le linee del fronte restino statiche, almeno per adesso.

D’altra parte, i tentativi occidentali di restringere le esportazioni russe sono stati un fallimento. Il petrolio russo ha ancora la strada aperta sui mercati mondiali, e il paese appare semmai inondato di contante.

Ma mentre la Russia non sta avendo alcun problema a vendere i suoi prodotti, sta avendo un mare di guai nel comprarli. Le sanzioni sulle esportazioni della Russia, come ho detto, sono state un fallimento, ma le sanzioni sulle sue importazioni – il rifiuto di vendere alla Russia beni essenziali – hanno avuto maggiore successo, per quanto ne so, di quanto tutti si aspettavano. Persino le nazioni che non fanno parte della coalizione che impone sanzioni, compresa la Cina, hanno bruscamente tagliato le proprie esportazioni alla Russia:

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Il mondo non vuole vendere alla Russia. Fonte: Peterson Institute for International Economics

E questo taglio delle importazioni sembra stia colpendo l’economia russa:

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L’industria russa sta soffrendo. Fonte: Sonnenfeld e altri. [1]

Niente di questo avrebbe avuto senso nell’epoca napoleonica, perché allora il commercio internazionale era molto più semplice. Le sanzioni sembra che stiano restringendo l’industria russa perché buona parte del commercio moderno consiste non di ben di consumo, ma di materiali industriali. Questo non era vero, ad esempio, nel 1810, con la principale eccezione del cotone – che non proveniva da aree sotto il controllo di Napoleone.

Inoltre, nel 1810 non c’erano molte imprese multinazionali. Oggi, una società che produce beni in Cina – persino se è di proprietà dello Stato cinese – è probabilmente riluttante a vendere beni strategici alla Russia nel timore di ritrovarsi sanzionata in altri, più importanti, mercati come gli Stati Uniti e l’Unione Europea.

Dunque, le sanzioni economiche contro la Russia sembra siano state sorprendentemente efficaci, solo non nel senso che tutti si aspettavano. Ciò detto, non c’è alcuna indicazione di cui sia a conoscenza che il costo economico delle sanzioni stia portando a qualche moderazione nella politica russa. Quello che invece stanno provocando è mettere in difficoltà la produzione militare russa, il che costituisce un problema reale per Putin, dato il flusso continuo di armi occidentali all’Ucraina.

Ma aspettate, la storia non è tutta qua, perché c’è un altro embargo di fatto in corso. Agli inizi della guerra, i sostenitori dell’Ucraina imploravano le nazioni europee – la Germania in particolare – di cessare di acquistare il gas naturale russo; esse non l’hanno fatto. Ma adesso la Russia sta, in effetti, sanzionando le sue stesse esportazioni di gas. Non si tratta di una politica esplicitamente dichiarata, ma la Russia sta riducendo le forniture ai mercati europei, nel tentativo abbastanza chiaro di danneggiare l’economia europea e di accrescere la pressione politica sull’Europa perché cessi di sostenere l’Ucraina.

Trovo interessante questa tabella, che mostra il prezzo del gas naturale in Olanda – il punto di riferimento europeo:

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La frustrazione militare porta ad una stretta sul gas? Fonte: ICE

I prezzi del gas si sono impennati a febbraio con l’invasione russa, ma rapidamente sono calati più o meno ai livelli precedenti l’invasione. Fino alla metà di giugno, non hanno iniziato una crescita sostenuta. Non penso sia una coincidenza che la svolta verso l’alto corrisponda al momento in cui persino i russi hanno compreso che la loro offensiva nel Donbass non era destinata a produrre una svolta decisiva.

Tutto indica che questo è accaduto quando la Russia ha iniziato a ridurre le forniture di gas. In effetti, adesso è la Russia, non l’Occidente, il soggetto che cerca di utilizzare la guerra economica come un sostituto della sua incapacità a prevalere sul campo di battaglia.

Il parallelo storico più vicino che posso trovare è l’embargo sulle esportazioni di cotone imposta dalla Confederazione agli inizi della Guerra Civile, nel tentativo di costringere l’Inghilterra a intervenire dalla parte del Sud. Questo embargo non durò a lungo, ma quanto al momento in cui venne ritirato, esso è opinabile: la marina dell’Unione bloccava in ogni caso i porti sudisti. Non è il caso di dire che l’embargo non funzionò.

La manovra della Russia funzionerà meglio? Vorrei essere più sicuro di quanto lo sono sulla determinazione europea, in particolare considerata l’elevata inflazione e l’alto rischio di recessione (più alto in Europa di quanto non lo sia negli Stati Uniti). D’altra parte le nazioni che sembra siano più probabilmente esitanti, in particolare la Germania e l’Italia, sono in ritardo in ogni caso nella consegna di armi; l’embargo nascosto di gas della Russia è improbabile scoraggi spedizioni cruciali, tra gli altri, dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra e dalla Polonia.

La verità è che è difficile trovare esempi storici di guerre economiche di successo se non si considerano i blocchi che erano essi stessi una forma di azione militare – come la campagna statunitense dei sottomarini che devastò l’economia giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale. Alla fine, la guerra in Ucraina sarà probabilmente decisa sul campo di battaglia.

 

 

 

 

 

 

[1] La tabella mostra i dati dettagliati della produzione industriale russa in vari sotto settori. I decrementi indicano cali della produzione che vanno da meno del 10% in settori come le materie plastiche, il carbone e l’antracite, il ferro, la frutta ed i vegetali sino al 30-50% nei prodotti tessili, dell’acciaio, della porcellana e della ceramica, delle tinte, delle locomotive ferroviarie, degli elettrodomestici.

 

 

 

Qual è il problema dell’Italia? Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 22 luglio 2022)

luglio 24, 2022

 

July 22, 2022

What’s the Matter With Italy?

By Paul Krugman

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As president of the European Central Bank, Mario Draghi saved the euro. In my estimation, this makes him history’s greatest central banker, outranking even the former Fed chairs Paul Volcker, who brought inflation under control, and Ben Bernanke, who helped avert a second Great Depression.

In a way, then, it wasn’t surprising that last year Draghi was brought in to lead Italy’s new coalition government — often labeled “technocratic,” but actually more a government of national unity created to deal with the aftermath of the Covid-19 pandemic. In a properly functioning democracy, nobody should be indispensable, but Draghi arguably was, as the only person with the prestige to hold things together.

But even he couldn’t pull it off. Facing what amounted to sabotage by his coalition partners, Draghi simply resigned, creating fears that the coming election will put antidemocratic right-wing populists in power.

I have no idea what will happen. Italy, like any nation, is unique in many ways, but not in some of the ways many people imagine. No, it isn’t fiscally irresponsible. No, it’s not incapable of running its internal affairs. And the threat of a takeover by the authoritarian right is hardly special to Italy; if you aren’t terrified by that prospect here in America, you haven’t been paying attention.

True, Italy does have a problem with economic stagnation. Even before the pandemic struck, Italy was noteworthy in having experienced two decades without growth in real gross domestic product per capita:

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Italy’s long stagnation.Credit…Our World in Data

That stagnation is important, and also a major economic puzzle. But it doesn’t seem central to current events.

In other ways, Italy seems surprisingly functional given its reputation. Notably, it did a far better job than the United States in getting its population vaccinated:

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Italians have taken their shots.Credit…Our World in Data

And while Americans on average have higher incomes than Italians, we’re also far more likely to die younger:

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They may not be prospering, but they’re living longer.Credit…O.E.C.D.

What about Italy’s reputation for fiscal irresponsibility? There was a time when that notoriety was justified, and past imprudence left Italy with relatively high debt (although not relative to some other European nations, Japan, or Britain for much of the 20th century.) But in recent years, Italy has been quite disciplined in its spending. Consider the primary fiscal balance — tax receipts minus government outlays other than interest payments:

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Fiscally disciplined Italy? Credit…International Monetary Fund

Until the pandemic struck, Italy actually ran consistent primary surpluses, a bit bigger than the rest of Europe as a share of G.D.P., and in sharp contrast to U.S. deficits.

In 2010-2012 Italy, along with other southern European nations, experienced a debt crisis, with “lo spread” — the difference between Italian and German interest rates — exploding. But as a handful of analysts, above all Belgium’s Paul De Grauwe, pointed out, this crisis seemed driven less by fundamental insolvency than by self-fulfilling panic. In effect, investors engaged in a run on the debts of southern European nations, creating a cash shortage that these countries, which didn’t have their own currencies and hence couldn’t print more money, were unable to resolve.

That’s where Draghi came in. In July 2012, as E.C.B. chair, he said three words — “whatever it takes” — that were taken as a promise that the bank would supply cash as needed to countries in crisis. And the mere promise was enough. Spreads plunged, and the crisis went away:

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Can Europe pull off another Draghi? Credit…FRED 

Now, however, the spread is back. Not at 2012 levels so far: as of this morning 10-year Italian bonds were yielding “only” 2.3 percentage points more than German. But this time Italy’s crisis may well prove more intractable than the euro crisis of the early 2010s.

Why? It’s true that the E.C.B. is, in effect, trying once again to pull a Draghi: It has introduced a new bond purchase scheme that is supposed to prevent the kind of market fragmentation that almost killed the euro a decade ago. But while Christine Lagarde, the current E.C.B. president, is smart and impressive, it’s unclear whether one can pull a Draghi without Draghi himself.

More important, what’s happening now seems more specifically Italian and less a matter of self-fulfilling panic than the last crisis. Spreads on Spanish and Portuguese debt, which generally tracked Italy last time, are up to some extent, but much less than Italy’s. That may be because the driving factor now isn’t so much simple financial risk as political anxiety.

As you can see from the chart above, this is actually the second time since the great Draghi rescue that Italian bond yields took off. It also happened in the late 2010s when a right-wing populist coalition took power. And this seems all too likely to happen again, except that this time the right-wing coalition will likely be even uglier.

In any case, yield spreads aren’t the important story here, although they’re not irrelevant either. The bigger picture is that at a time when Europe is already under severe stress — trying to respond to Russian aggression in Ukraine, trying to cope with a huge surge in inflation brought on in part by the foolish decision to rely heavily on Russian natural gas — one of the continent’s major nations seems about to go off the deep end. This is not what we need.

On the other hand, how different is Italy from the rest of us? The Italian crisis has very little to do with fiscal profligacy or general incompetence; as I said, it’s all about the rise of antidemocratic forces, which is happening all across the West.

Italy’s political fragmentation — and the apparent inability of the center-left to get its act together despite the clear and present danger from the right — may bring authoritarian parties to power sooner than elsewhere. But maybe not all that much sooner: It’s not at all that hard to see how American democracy could effectively collapse by 2025.

I agree with David Broder: Italy may well represent the West’s future. And it’s bleak.

 

Qual è il problema dell’Italia?

Di Paul Krugman

 

Come Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi salvò l’euro. Nel mio giudizio, questo lo rende il più grande banchiere centrale della storia, collocandosi persino prima dei passati Presidenti della Fed Paul Volcker, che rimise sotto controllo l’inflazione, e Ben Bernanke, che contribuì ad evitare una seconda Grande Depressione.

In un certo senso, dunque, non fu sorprendente che l’anno passato Draghi sia stato portato alla guida della nuova coalizione di governo dell’Italia – spesso etichettata come “tecnocratica”, ma in effetti più un Governo di unità nazionale creato per misurarsi con le conseguenze della pandemia del Covid-19. In una democrazia che funziona in modo appropriato, nessuno dovrebbe essere indispensabile, ma Draghi probabilmente lo era, in quanto unica persona con il prestigio per tenere le cose insieme.

Ma anche lui non è riuscito a farcela. Di fronte a quello che ha corrisposto ad un sabotaggio dei partner della sua coalizione, semplicemente Draghi si è dimesso, alimentando i timori che le prossime elezioni portino al potere i populisti della destra antidemocratica.

Io non ho idea di cosa accadrà. L’Italia, come ogni nazione, è unica in molti sensi, ma non in alcuni di quelli che immaginano molti. No, non è irresponsabile nella spesa pubblica. No, non è incapace di gestire i suoi affari interni. E la minaccia di una presa del potere da parte della destra autoritaria non è certo particolare nel caso dell’Italia; se non siete terrorizzati da quella prospettiva qua in America, vuol dire che siete disattenti.

È vero, l’Italia ha un problema con la stagnazione economica. Anche prima che colpisse la pandemia, l’Italia era sotto attenzione per aver conosciuto due decenni senza crescita nel prodotto lordo interno procapite:

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La lunga stagnazione dell’Italia. Fonte: Il nostro mondo in dati

Quella stagnazione è importante, ed è anche un rilevante mistero economico. Ma negli eventi attuali non sembra fondamentale.

Sotto altri punti di vista, considerata la sua reputazione, l’Italia sembra sorprendentemente efficiente. In particolare, essa ha fatto un lavoro migliore degli Stati Uniti nel vaccinare la sua popolazione:

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Gli italiani hanno avuto le loro iniezioni. Fonte: Il nostro mondo in dati

E se gli americani hanno in media redditi più alti degli italiani, da noi è anche assai più probabile morire più giovani:

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Può darsi che non siano prosperi, ma vivono più a lungo. Fonte: OCSE

Che dire della reputazione dell’Italia di irresponsabilità nella finanza pubblica? Un tempo quella notorietà era giustificata, e l’imprudenza passata ha lasciato l’Italia con un debito relativamente elevato (sebbene non in rapporto ad altre nazioni europee, al Giappone o all’Inghilterra per buona parte del ventesimo secolo). Ma negli anni recenti, l’Italia è stata abbastanza disciplinata nella sua spesa. Si consideri l’equilibrio fiscale primario – le entrate fiscali meno le spese del Governo escluso il pagamento degli interessi:

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Italia disciplinata nella finanza pubblica? Fonte: Fondo Monetario Internazionale 

Fino al colpo della pandemia, in effetti l’Italia ha gestito stabili avanzi primari, come quota del PIL un po’ superiori al resto dell’Europa e in netto contrasto con i deficit statunitensi.

Nel 2010-2012 l’Italia, assieme ad altre nazioni meridionali dell’Europa, conobbe una crisi del debito, con lo spread – la differenza tra i tassi di interesse italiani e tedeschi – che esplose. Ma come una manciata di economisti, soprattutto il belga Paul De Grauwe, misero in evidenza, questa crisi sembrava guidata meno da una insolvenza di fondo che da un panico che si auto avverava. In effetti, gli investitori si impegnarono in un assalto ai debiti delle nazioni del sud dell’Europa, creando una scarsità di cassa che questi paesi, che non avevano valute proprie e di conseguenza non potevano stampare moneta, erano incapaci di risolvere.

È lì che intervenne Draghi. Nel luglio del 2012, come Presidente della BCE, egli disse tre parole – “whatever it takes” – che furono prese come una promessa che la Banca avrebbe offerto il contante necessario ai paesi in crisi. E fu sufficiente la semplice promessa. Gli spread crollarono, e la crisi se ne andò:

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Può l’Europa tirar fuori un altro Draghi? Fonte: FRED

Adesso, tuttavia, lo spread è tornato. Sinora non ai livelli del 2012: questa mattina i rendimenti dei bond decennali italiani erano “soltanto” 2,3 punti percentuali più dei tedeschi. Ma può darsi che questa volta la crisi dell’Italia si dimostri più intrattabile della crisi dell’euro degli inizi del primo decennio del 2000.

Perché? È vero che, in sostanza, la BCE sta ancora una volta tentando di tirar fuori un Draghi: essa ha introdotto un nuovo programma di acquisti di bond che si suppone impedisca il tipo di frammentazione che quasi liquidò l’euro una decennio orsono. Ma se Christine Lagarde, l’attuale Presidente della BCE, è intelligente e ammirevole, non è chiaro se essa possa realizzare quello che fece Draghi senza Draghi stesso.

Ancora più importante, ciò che sta accadendo adesso appare più specificamente italiano, nonché meno una faccenda di panico che si autoavvera come la crisi passata. Gli spread sul debito spagnolo e portoghese, che in generale seguirono l’Italia l’ultima volta, in qualche misura sono cresciuti, ma molto meno dell’Italia. Questo può dipendere dal fatto che il fattore scatenante adesso non è tanto un semplice rischio finanziario, ma un fattore di ansietà politica.

Come potete notare dalla tabella sopra, questa è effettivamente la seconda volta dal grande salvataggio di Draghi che i rendimenti delle obbligazioni italiane  prendono il volo. Accadde anche sulla fine del primo decennio del 2000, quando andò al potere una coalizione populista di destra. E questo sembra anche troppo probabile che accada nuovamente, sennonché questa volta la coalizione di destra sarà probabilmente anche più sgradevole.

In ogni caso, in questo momento gli spread dei rendimenti non sono il punto decisivo, sebbene non siano neppure irrilevanti. Il quadro più generale è che in un epoca nella quale l’Europa è già in grave tensione – cercando di rispondere alla aggressione russa in Ucraina, cercando di misurarsi con un’ampia impennata dell’inflazione provocata in parte dalla insensata decisione di affidarsi pesantemente al gas naturale russo – una delle nazioni principali del continente sembra in procinto di cadere in basso. Non è quello di cui c’è bisogno.

D’altra parte, quanto è diversa l’Italia dal resto di noi? La crisi italiana ha molto poco a che fare con lo sperpero della finanza pubblica o con una complessiva incompetenza; come ho detto, riguarda per intero la crescita di forze antidemocratiche, che sta avvenendo in tutto l’Occidente.

La frammentazione politica dell’Italia – e l’apparente incapacità del centrosinistra di agire unitariamente nonostante il pericolo della destra chiaro e attuale – può portare i partiti autoritari al potere prima che altrove. Ma forse non poi tanto prima: non è così difficile constatare che le democrazia americana potrebbe effettivamente collassare nel 2025.

Sono d’accordo con David Broder: l’Italia potrebbe ben rappresentare il futuro dell’Occidente. Che è cupo.

 

 

 

 

 

 

L’economia dell’imbroglio, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 12 luglio 2022)

luglio 20, 2022

 

July 12, 2022

The Humbug Economy

By Paul Krugman

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There’s an old story about Charles Darwin, which may or may not be true but seems appropriate to our current economic moment. According to the tale, two boys glued together pieces of various insects — a centipede’s body, a butterfly’s wings, a beetle’s head and so on — then, as a gag, presented their creation to the great naturalist for identification. “Did it hum when you caught it?” he asked. When they said yes, he declared that it was a humbug.

That’s kind of where we are in the economy right now. I’m not suggesting anyone is faking the data, but the different pieces of information we have don’t seem to line up — they almost seem to come from different countries. Some data suggest a weakening economy, maybe even on the verge of recession. Some suggest an economy still going strong. Some data suggest very tight labor markets; others, not so much.

Let’s talk about the numbers, and how they don’t add up.

The number we usually use to assess where the economy is going is real gross domestic product — and according to the official estimate, real G.D.P. shrank in this year’s first quarter. We won’t have an official (advance) estimate of second-quarter G.D.P. until later this month, but “nowcasts” that try to estimate G.D.P. based on partial information — like the Atlanta Fed’s widely cited GDPNow — suggest slow growth or even an additional period of shrinkage.

In case you’re wondering, no, two quarters of declining G.D.P. won’t mean we’re officially in a recession; that determination is made by an independent committee that takes a wide variety of information into account. And given the confusing picture right now, it’s unlikely to declare a recession, at least yet.

Among other things, another widely used number — job creation — is telling quite a different story. The official estimate of growth in nonfarm employment in June came in quite strong — 372,000 jobs added — which doesn’t look at all like what you’d expect in a recession.

So do we have a conflict between data on output and data on employment? If only it were that simple. We also have alternative measures of both output and employment — and in each case these are telling different stories than the more widely cited numbers.

We usually track economic growth using gross domestic product — the total value of stuff produced. But the government creates a separate estimate of gross domestic income, the money people get from selling stuff, including additions to inventory. The basic accounting says these numbers must be the same. But they’re estimated using different data, so the estimates never agree exactly. And right now the estimates are diverging a lot: G.D.P. shows a shrinking economy, but G.D.I., well, doesn’t:

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A shrinking economy — or maybe not.Credit…FRED 

What about employment? The Bureau of Labor Statistics carries out two surveys, one of employers — which is where the payroll numbers come from — and one of households, which produces an alternate estimate of the number of Americans working. The payroll number is usually considered more reliable — household data are famously noisy — but for technical reasons (the birth-death model; aren’t you sorry you asked?) the payroll data often seem to miss turning points, when employment growth either surges or plunges.

And right now the two surveys are telling different stories. I use quarterly rather than monthly data to smooth out some of the noise; the household data points to a much bigger slowdown than the payroll data:

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A robust job market — or maybe not.Credit…FRED 

But wait, there’s one more puzzle. Everyone says we have an extremely tight labor market, and when you combine that with high rates of consumer price inflation, there are widespread fears that we’re on the verge of entering the dreaded wage-price spiral. But wage growth isn’t accelerating. In fact, it’s falling fast, and at this point may not be much above the level consistent with the Federal Reserve’s long-run target of 2 percent inflation:

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Where’s my wage-price spiral?Credit…Goldman Sachs

Are you confused? You should be. I’ve been in this business a long time, and I can’t remember any period when economic numbers were telling such different stories. On the other hand, we’ve never before faced the kind of shocks we’ve gone through in the past few years: Both the pandemic-induced recession and the recovery from that recession were, to use the technical term, weird, and maybe we shouldn’t be surprised the measures we normally use to track the economy aren’t working too well.

My guess about what’s really happening is that the economy is indeed slowing, but probably not into a recession, at least so far. And a moderate slowdown is actually what we want to see.

At the beginning of 2022, the U.S. economy was almost surely overheated, and this overheating was contributing to (although not the only source of) inflation. We wanted to see the economy cool down before inflation got entrenched in expectations, and that’s an area where all the available data — slowing wage growth, inflation expectations in the financial markets, surveys that ask consumers what inflation rate they expect over the next few years — are telling the same story: Inflation is not, in fact, getting entrenched.

Overall, the picture appears consistent with a “soft landing” — a slowdown that falls short of a full-on recession, or involves a mild recession at worst, together with stabilizing inflation.

But, of course, we don’t know that. In fact, given the wide discrepancies in economic data, economic pundits (including me) have unusual freedom to believe whatever they want to believe. Just pick and choose the numbers that tell you what you want to hear and glue them together.

 

L’economia dell’imbroglio,

di Paul Krugman

 

C’è una vecchia storiella su Charles Darwin, che vera o no sembra appropriata al nostro attuale momento economico. Secondo tale storiella, due ragazzi incollavano insieme pezzi di vari insetti – un corpo di centipede, ali di farfalla, una testa di scarabeo e così via – poi, per scherzo, presentarono la loro creazione al grande naturalista per l’identificazione. “Ronzava quando l’avete presa?”, chiese lui. Quando loro risposero di sì, egli dichiarò che era un imbroglio [1].

È il genere di cose che accadono in questo momento nell’economia. Non sto suggerendo che qualcuno stia manipolando i dati, ma i diversi pezzi di informazione che riceviamo non sembrano allinearsi – sembrano quasi provenire da paesi diversi. Alcuni dati suggeriscono un’economia che si indebolisce, forse persino sull’orlo di una recessione. Alcuni suggeriscono un’economia che sta ancora andando forte. Alcuni dati suggeriscono mercati del lavoro molto rigidi; altri, non tanto.

Parliamo dei dati, e su come essi non combinino.

Il dato che normalmente usiamo per definire dove stia andando l’economia è il prodotto interno lordo reale – e secondo la stima ufficiale, il PIL reale nel primo trimestre di quest’anno si è ridotto. Non avremo una stima ufficiale (anticipata) del PIL del secondo trimestre prima della fine di questo mese, ma le “previsioni istantanee” che cercano di stimare il PIL basandosi su informazioni parziali – come il generalmente citato GDPNow della Fed di Atlanta – indicano una crescita lenta o persino un ulteriore periodo di restrizione.

Nel caso ve lo stiate chiedendo, no, due trimestri di PIL in calo non comporteranno che siamo ufficialmente in recessione;  quella determinazione è fatta da una commissione indipendente che mette nel conto un’ampia gamma di informazioni. E dato in questo momento il quadro confuso, è improbabile, almeno sinora, che essa dichiari una recessione.

Tra le altre cose, un altro dato ampiamente utilizzato – la creazione di posti di lavoro – sta raccontando una storia abbastanza diversa. La stima ufficiale della crescita dell’occupazione non agricola a giugno è apparsa abbastanza forte – più 372.000 posti di lavoro – il che non sembra affatto quello che ci si aspetterebbe in una recessione.

Abbiamo dunque un conflitto tra i dati sulla produzione e i dati sull’occupazione? Se fosse solo questo sarebbe semplice. Abbiamo anche misure alternative sia della produzione che dell’occupazione – e in ciascun caso queste stanno raccontando storie diverse rispetto ai dati più ampiamente citati.

Normalmente monitoriamo la crescita economica utilizzando il prodotto interno lordo (PIL) – il valore totale delle cose prodotte. Ma il Governo determina una stima distinta del reddito interno lordo (RIL), il denaro che le persone ricevono dalla vendita di oggetti, comprese le aggiunte alle scorte di magazzino. La contabilità di base dice che questi numeri dovrebbero essere gli stessi. Ma essi sono stimati utilizzando dati diversi, cosicché le stime non coincidono mai esattamente. E in questo momento, le stime stanno divergendo assai: il PIL mostra una economia che si riduce, ma il RIL, di fatto, non la mostra:

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Una economia che si riduce – o forse no. Fonte: FRED [2]

Che dire dell’occupazione? L’Ufficio delle Statistiche del Lavoro diffonde due sondaggi, uno sui datori di lavoro – che è quello dal quale provengono i dati sulle buste paga – ed uno sulle famiglie, che fornisce una stima alternativa del numero degli americani che lavorano. Il dato sulle buste paga è di solito considerato più affidabile – i dati sulle famiglie sono notoriamente confusi – ma per ragioni tecniche (il modello nascite-scomparse [3]; sarete dispiaciuti di non conoscerlo) i dati sulle buste paga spesso sembrano non registrare punti di svolta, quando la crescita dell’occupazione cresce oppure crolla.

E in questo momento i due sondaggi stanno raccontando storie diverse. Io utilizzo i dati trimestrali anziché quelli mensili per distribuire alcune delle dissonanze; i dati delle famiglie mettono in eividenza un rallentamento assai maggiore dei dati sulle buste paga:

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Un mercato del lavoro solido – o forse no. Fonte: FRED

Ma aspettate, c’è un altro mistero. Tutti dicono che abbiamo un mercato del lavoro estremamente rigido, e quando si mette assieme questo con alti tassi di inflazione dei prezzi al consumo, ci sono timori generalizzati dello star per entrare nella paventata spirale salari-prezzi. Ma la crescita dei salari non sta accelerando. Di fatto, essa sta calando velocemente, e a questo punto potrebbe non essere molto superiore al livello coerente con l’obbiettivo a lungo termine del 2 per cento di inflazione della Federal Reserve:

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Dov’è finita la spirale salari-prezzi? Fonte: Goldman Sachs

Siete confusi? Ebbene, dovreste esserlo. Da molto tempo sono in questa attività, e non riesco a ricordarmi un qualche periodo nel quale i dati economici raccontavano storie talmente diverse. D’altra parte, non abbiamo mai affrontato in precedenza il genere di shock che abbiamo attraversato negli ultimi anni: sia la recessione indotta dalla pandemia che la ripresa da quella recessione sono state, uso un termine non propriamente tecnico, bizzarre, e non dovremmo essere sorpresi che le misure che normalmente usiamo per monitorare l’economia non funzionino granché bene.

La mia impressione è che quello cui stiamo realmente assistendo è che l’economia sta in effetti rallentando, ma non sino ad una recessione, almeno sino ad ora. E un moderato rallentamento è effettivamente quello che vogliamo vedere.

Agli inizi del 2022, l’economia statunitense era quasi certamente surriscaldata, e questo surriscaldamento stava contribuendo (sebbene non fosse l’unica fonte) all’inflazione. Avevamo bisogno che l’economia si raffreddasse prima che l’inflazione mettesse radici nelle aspettative, e questa  un’area nella quale tutti i dati disponibili – il rallentamento delle crescita dei salari, le aspettative di inflazione nei mercati finanziari, i sondaggi che chiedono ai consumatori quali tassi di inflazione si aspettano per i prossimi anni – stanno raccontando la stessa storia: di fatto, l’inflazione non sta mettendo radici.

Nel complesso, il quadro appare coerente con un “atterraggio morbido” – un rallentamento che resta lontano da una recessione conclamata, o comporta nel peggiore dei casi una recessione leggera, assieme ad una stabilizzazione dell’inflazione.

Ma, ovviamente, questo è qualcosa che non conosciamo. Di fatto, considerata l’ampia discrepanza nei dati economici, i commentatori di economia (compreso il sottoscritto) hanno l’inconsueta libertà di credere quello che vogliono credere. Basta estrarre e  scegliere i dati che dicono quello che si vuole sentirsi dire e incollarli insieme.

 

 

 

 

 

[1] Dunque: “hum” significa mormorare, canticchiare, ronzare; “bug” significa insetto; “humbug” significa stupidaggine, imbroglio (ovvero, letteralmente, “insetto che ronza”). Parrebbe che l’ironia di Darwin sia consistita nell’accostare implicitamente “imbroglio” e “insetto che ronza”.

[2] La linea rossa è quella relativa al PIL, quella blu è relativa al reddito interno lordo.

[3] Il modello, come è spiegato nell’allegato dell’Ufficio delle Statistiche sul Lavoro, è relativo alla nascita ed alla scomparsa di imprese. Pare che in esso sia stato necessario introdurre alcune modifiche rilevanti, a seguito della pandemia.

 

 

 

Missili, piume e prezzi ai distributori, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 8 luglio 2022)

luglio 14, 2022

 

July 8, 2022

Rockets, Feathers and Prices at the Pump

By Paul Krugman

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One of the sad paradoxes of politics is that few economic indicators matter more for public opinion — for voters’ evaluation of the government in power — than energy prices, especially the price of gasoline. This isn’t just a U.S. phenomenon: Inflation driven by soaring energy prices has undermined the popularity of leaders across the Western world.

Why do I call this a sad paradox? Because while policy can have a big effect on overall inflation, it doesn’t have much effect on energy prices. The rates for oil, in particular, are set on world markets; even the U.S. president (let alone the leaders of smaller nations) has very little influence on that global price.

Still, given the political salience of prices at the pump, leaders have an incentive to do what they can to bring them down a bit or at least be seen making the effort. So a few days ago, President Biden tweeted an appeal to “the companies running gas stations” to “bring down the price at the pump to reflect the cost you’re paying for the product.” Indeed, wholesale gasoline prices have fallen about 80 cents a gallon since early June, while the decline in retail prices has been less sharp.

The reaction to his remark was, however, savage. Most notably, Jeff Bezos in a tweet assailed Biden for “a deep misunderstanding of market dynamics.”

Hmmm. Did Bezos check out what we know about the market dynamics of gasoline prices (or order an underling to do it)? Because if he had, he would have learned that there are some peculiar things about those dynamics — things that suggest at least some justification for Biden’s appeal. Serious research offers a lot more support for the idea that market power has played a role in recent inflation than you’d imagine from the ridicule heaped on that notion, including from Democratic-leaning economists.

Monopoly power isn’t the principal cause of inflation, which has been driven by an overheated economy plus external shocks like Russia’s invasion of Ukraine. But there’s a reasonable case that monopoly power is a cause of inflation — and blanket attacks on the mere possibility reflect, well, a deep misunderstanding of market dynamics.

So, about those gas prices. As economists at the St. Louis Fed recently pointed out, there’s a longstanding phenomenon in the fuel market known as asymmetric pass-through or, more colorfully, rockets and feathers. When oil prices shoot up, prices at the pump shoot up right along with them (the rocket). And when oil prices plunge, prices at the pump eventually fall, but much more gradually (the feather).

Why this asymmetry? There have been a number of economic papers trying to understand it, pretty much all of which stress the market power of companies that face limited competition (something Bezos surely knows a lot about). The clearest explanation I’ve seen is in a relatively old paper by Severin Borenstein, Richard Gilbert and A. Colin Campbell. I’d summarize their argument as follows: When oil prices shoot up, owners of gas stations feel empowered not just to pass on the cost but also to raise their markups, because consumers can’t easily tell whether they’re being gouged when prices are going up everywhere. And gas stations may hang on to these extra markups for a while even when oil prices fall.

Is there evidence for this story? Yes. Notably, the rockets and feathers phenomenon seems to be strongest in areas where individual gas stations face relatively little competition.

In such a situation, badgering gas stations to get their prices down may actually make some sense. We can argue about its effectiveness, but it’s not stupid, given what we know about the relevant market dynamics.

What at least a few readers may notice is that the market power explanation of rockets and feathers — an explanation with an impeccable academic pedigree, developed by economists who had no obvious political ax to grind — is pretty much the same argument politicians like Elizabeth Warren have made about how monopoly power may have contributed to recent overall inflation. That is, some politicians argue that corporations have taken advantage of a generally inflationary environment to jack up their markups, in the belief that they will face less public backlash than they would in normal times. And this exploitation of market power has pushed inflation even higher.

Such arguments have been greeted with ridicule and horror, even from some Democratic-leaning pundits and economists. But they make sense, as illustrated by the economic literature on gasoline prices. And what appears to be true for gasoline prices could be true more generally. New research by Mike Konczal and Niko Lusiani of the Roosevelt Institute, a progressive think tank, finds that recent price increases have been largest in industries that had limited competition — as indicated by high markups — even before the pandemic. That’s the same kind of evidence that supports the view that asymmetric adjustment of gasoline prices reflects market power.

The mystery to me is why so many of my colleagues, in both the economics profession and the economics punditocracy, have had such an extremely negative reaction to any suggestion that market power might be playing a role in inflation and that presidential jawboning might make some contribution to anti-inflation strategy.

Are they afraid that Biden is about to turn into Turkey’s Recep Tayyip Erdogan, who has rejected conventional macroeconomics and sent inflation soaring, officially to 79 percent and probably much higher in reality? Look, that’s not going to happen. Biden isn’t even going to do a Richard Nixon and try to use price controls to suppress inflation while urging the Fed to keep interest rates low. Unlike Donald Trump, who yelled at the Fed a lot, the current administration has been scrupulously hands-off as the Fed tightens policy to bring inflation down — a policy, by the way, that I support, even though there’s a real risk of recession.

The only thing I can conclude is that even supposedly center-left members of the economics commentariat are viscerally appalled by anything that even hints at populism. And this, I’m afraid, says more about the profession than it does about the economy.

 

Missili, piume e prezzi ai distributori,

di Paul Krugman

 

Uno dei tristi paradossi della politica è che pochi indicatori sono più importanti per l’opinione pubblica – per la valutazione degli elettori sui governi in carica – dei prezzi dell’energia, specialmente dei prezzi della benzina. Questo non è solo un fenomeno statunitense: l’inflazione guidata dai prezzi in crescita dell’energia ha minato la popolarità dei leader in tutto i mondo occidentale.

Perché lo definisco un triste paradosso? Perché mentre le politica può avere un grande effetto sull’inflazione complessiva, essa non ha molto effetto sui prezzi dell’energia. Le tariffe del petrolio, in particolare, sono fissate sui mercati mondiali; persino il Presidente degli Stati Uniti (per non dire i leader di nazioni più piccole) ha un’influenza molto piccola su quel prezzo globale.

Eppure, data la rilevanza politica dei prezzi ai distributori, i leader hanno un incentivo a fare quello che possono per spingerli un po’ in basso o almeno per far vedere che si sforzano. Dunque, pochi giorni fa il Presidente Biden ha twittato un appello a “le imprese che gestiscono le stazioni di benzina” per “abbassare il prezzo ai distributori in modo da riflettere il costo che state pagando per il prodotto”. In effetti, i prezzi complessivi della benzina sono caduti a partire dai primi di giugno di circa 80 centesimi al gallone, mentre il calo dei prezzi al dettaglio è stato meno netto.

Tuttavia, la reazione a questo richiamo è stata furiosa. Soprattutto, Jeff Bezos in un tweet ha attaccato Biden per “una profonda incomprensione delle dinamiche del mercato”.

Hmm. Ha controllato Bezos cosa sappiamo delle dinamiche di mercato del prezzo della benzina (o ha ordinato ad un sottoposto di farlo)? Perché se lo avesse fatto, avrebbe appreso che in quelle dinamiche ci sono alcune cose peculiari – cose che suggeriscono almeno qualche giustificazione per l’appello di Biden. Una seria ricerca offre molto più sostegno all’idea che il potere di mercato abbia giocato un ruolo nell’inflazione recente di quello che si immaginerebbe dalla derisione riservata a quell’idea, compresa quella degli economisti di tendenze democratiche.

Il potere di monopolio non è la causa principale dell’inflazione, che è stata guidata da un’economia surriscaldata alla quale si sono aggiunti shock esterni come l’invasione russa dell’Ucraina. Ma c’è un argomento ragionevole secondo il quale il potere di monopolio è una causa di inflazione – e gli attacchi che escludono quella semplice possibilità riflettono, essi sì, una profonda incomprensione delle dinamiche di mercato.

Dunque, a proposito dei prezzi della benzina. Come hanno di recente messo in evidenza gli economisti della Fed di St Louis, c’è un fenomeno di lunga data nel mercato dei combustibili noto come ‘attraversamento asimmetrico’ o, in modo più colorito, come il fenomeno ‘dei missili e delle piume’. Quando i prezzi del petrolio salgono, i prezzi al distributore salgono assieme ad essi (i missili). E quando i prezzi del petrolio calano, i prezzi al distributore alla fine scendono, ma molto più gradualmente (le piume) [1].

Perché questa asimmetria? Ci sono stati un certo numero di studi economici che cercano di comprenderlo e praticamente tutti mettono in risalto il potere di mercato delle società caratterizzate da limitata competizione (tema su cui Jeff Bezos ha certamente grande conoscenza). La spiegazione più chiara che ho trovato è in uno studio relativamente vecchio a cura di Severin Borenstein, Richard Gilbert e A. Colin Campbell. Sintetizzerei la loro tesi nel modo seguente: quando i prezzi del petrolio si impennano, i proprietari dei distributori della benzina si sentono autorizzati non solo a trasmettere il costo ma anche ad accrescere il loro ricarico, perché i consumatori non possono con facilità stabilire di essere stati ingannati quando i prezzi stanno salendo dappertutto. E i distributori della benzina possono trattenere questi ricarichi aggiuntivi anche quando i prezzi del petrolio scendono.

Ci sono prove per questo racconto? Sì. In particolare, il fenomeno dei ‘missili e delle piume’ sembra essere più forte in aree nelle quali i distributori singoli della benzina hanno una competizione relativamente modesta.

In una tale situazione, assillare i distributori della benzina perché abbassino i loro prezzi può effettivamente avere un senso. Si può discutere sulla sua efficacia, ma non è stupido, considerato quello che conosciamo delle rilevanti dinamiche di mercato.

Quello che almeno alcuni lettori possono notare è che la spiegazione del potere di mercato dei missili e delle piume – una spiegazione con un impeccabile pedigree accademico, sviluppata da economisti che non avevano alcun evidente secondo fine politico – è in pratica lo stesso argomento che politici come Elizabeth Warren hanno avanzato su come il potere di monopolio può aver contribuito alla recente complessiva inflazione. Ovvero, alcuni politici sostengono che le imprese hanno tratto vantaggio da un contesto generalmente inflazionistico per aumentare i loro ricarichi, nella convinzione che avrebbero affrontato un contraccolpo minore dall’opinione pubblica, che non i tempi normali. E questo sfruttamento del potere di mercato ha spinto l’inflazione ancora più in alto.

Tali argomenti sono stati accolti con derisione ed orrore, persino da alcuni commentatori ed economisti di tendenze democratiche. Ma essi hanno senso, come dimostrato dalla letteratura economica sui prezzi dei carburanti. E quello che sembra essere vero per i prezzi dei carburanti, potrebbe esserlo più in generale. Una nuova ricerca di Mike Konczal e Niko Lusiani del Roosevelt Institute, una associazione di ricerca progressista, scopre che i recenti aumenti dei prezzi sono stati più ampi in industrie che avevano limitata competizione – come indicato dagli elevati ricarichi – anche prima della pandemia. Si tratta dello stesso genere di prove che sostengono il punto di vista secondo il quale la correzione asimmetrica dei prezzi della benzina riflette il potere di mercato.

Per me è un mistero perché così tanti miei colleghi, sia nella disciplina economica che nella categoria dei commentatori, abbiano avuto una tale reazione negativa ad ogni suggerimento che il potere di mercato possa star giocando un ruolo nell’inflazione e che le pressioni presidenziali possano dare un qualche contributo alla strategia contro l’inflazione.

Sono preoccupati che Biden sia prossimo a trasformarsi nel turco Recep Tayyv Erdogan, che ha liquidato la macroeconomia convenzionale e spedito l’inflazione alle stelle, ufficialmente al 79 per cento e in realtà probabilmente molto più in alto? Si noti che non è questo che sta accadendo. Biden non è neppure prossimo a comportarsi come Richard Nixon ed a cercare di usare i controlli dei prezzi per reprimere l’inflazione, facendo al tempo pressioni sulla Fed per mantenere i tassi di interesse bassi. Diversamente da Donald Trump, che strepitava molto verso la Fed, l’attuale Amministrazione scrupolosamente non ha messo il becco quando la Fed ha ristretto la sua politica per abbassare l’inflazione – una politica che, per inciso, io sostengo, anche se c’è un rischio reale di recessione.

La sola cosa che posso concludere è che persino i componenti ritenuti di centro sinistra tra i commentatori di economia sono visceralmente inorriditi da qualunque cosa che persino accenni al populismo. E questa, sono dispiaciuto, è una faccenda che riguarda più la nostra disciplina che non l’economia.

 

 

 

 

 

[1] Con un po’ di ricerca si può trovare un lungo e complesso studio di un esperto del The Oxford Institute for Energy Studies (il nome è nientedimeno che Roger Bacon!) sul fenomeno della asimmetria nella correzione dei prezzi dei combustibili, quando il prezzo della materia prima sale e quando cala.

 

 

 

Togliere la “flazione” dalla stagflazione, di Paul Krugman /dal blog di Krugman, 1 luglio 2022)

luglio 5, 2022

 

July 1, 2022

Taking the ‘Flation’ Out of Stagflation

By Paul Krugman

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A funny thing happened on the way to the Federal Reserve’s latest rate hike. The Fed went big on June 15, raising the interest rates it controls by 75 basis points, or 0.75 percentage points — a sharp rise for an institution that usually tries to move gradually. Why the urgency? As Jerome Powell, the Fed chairman, made clear, he and his colleagues were afraid that expectations of inflation were becoming “unanchored,” which some economists argue could lead to inflation becoming “entrenched.” (The trench is losing its anchor? Time to call in the mixed-metaphor police? Never mind.)

According to Powell, one factor in the decision was a jump in the University of Michigan’s measure of long-term inflation expectations, which he described as “eye catching.” I and others warned about making too much of one month’s number, especially because other measures of expected inflation weren’t telling the same story — and to be fair, Powell acknowledged that this was a preliminary number that might be revised. Sure enough, the number was revised down; apparently, inflation expectations aren’t losing their anchor after all. Oopsies.

In fact, the big story right now seems to be a quite sharp decline in market expectations of inflation over the medium term. Here’s the five-year breakeven — the spread in interest rates between ordinary U.S. government bonds and inflation-protected bonds that are indexed to consumer prices:

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Getting our anchor back.Credit…FRED 

This spread is an implicit forecast of inflation over the next five years; it’s down about a percentage point since March. And the underlying picture is even better than this number suggests, because investors appear to believe that we’re only going to have a year or so, if that, of elevated inflation, and after that we’ll be back to roughly the Fed’s long-run target of 2 percent inflation as measured by the personal consumption expenditure deflator, which tends to run a bit lower than the Consumer Price Index. As of this morning, one market-based estimate (more or less in line with others) has inflation running at 4.4 percent over the next year, but only 2.2 percent in the following 5 years.

Why do these estimates matter? Not because either financial markets or consumer surveys are especially good at predicting inflation (after all, neither saw the inflation surge of 2021-22 coming). The point instead is that most economists believe expected inflation is an important determinant of actual inflation.

Think of prices that are set a year in advance, like many wage contracts, apartment rents, and so on. In an economy in which everyone expects everyone else to raise wages 10 percent over the next year, employers will tend to offer 10 percent raises every time salaries are renegotiated, just to keep up, even if supply and demand for workers are roughly balanced. And this means that inflation, once it has become entrenched in expectations, can become self-perpetuating; the only way to bring it down is to engineer an extended period in which demand falls short of supply — that is, a recession.

This isn’t a hypothetical scenario: It’s more or less where we really were at the beginning of the 1980s, when everyone expected persistent high inflation, and it took years of high unemployment to get things under control:

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It’s not 1980.Credit…Michigan Surveys of Consumers

The Fed, understandably, doesn’t want to find itself in that situation again, so it’s hypersensitive to any indication that expected inflation might be getting out of control. At the moment, however, there appear to be no such indications. In fact, various straws in the wind suggest that the Fed may be about to experience the flip side of its errors last year. Back then it got behind the curve, failing to see the ongoing inflation surge. Is it now behind the curve in the opposite direction, failing to see the impending inflation slump?

To be fair, official price numbers don’t yet show inflation slowing. Measures that exclude volatile food and energy prices or, alternatively, exclude extreme price movements suggest underlying inflation that’s more or less stable at around 4 percent, which the Fed finds unacceptably high. But unofficial numbers, some of them more recent than the official data, suggest that many of the forces that drove recent inflation have gone into reverse. For example, remember freight rates? They’re plunging:

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Shipping ahoy.Credit…Drewry

And more generally, the supply chain problems that helped drive prices up have gone into reverse: Major retailers are reporting that they’re sitting on piles of excess inventory and are set to slash prices in an attempt to get stuff off shelves and out of their warehouses.

Why might inflation come down fast? Special factors like Vladimir Putin aside, many analysts — myself included — believe that U.S. inflation took off in part because government spending and easy money caused the economy to become overheated. Even given that overheating, however, it was surprising just how much inflation increased.

Historical evidence suggested that the Phillips curve was quite flat — or to put that in English, the rate of inflation wasn’t all that sensitive to how hot or cold the economy was running. But that’s not how things looked in 2021-22, leading many economists to conclude that the relationship between employment and inflation gets much stronger when the economy is running close to capacity. Schematically, the picture may look like this:

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Inflation: Easy come, easy go?Credit…Author’s imagination

But if inflation was highly sensitive to demand on the upside (the red arrow in the picture) it seems likely it will also be highly sensitive on the downside (the blue arrow).

And with growing evidence that the economy is weakening quite fast — it’s now looking altogether possible that the economy actually shrank in the second quarter — it seems reasonable to suggest that inflation will also fall fast. That, at any rate, is what the markets seem to be anticipating.

Now, this progress against inflation, if it happens, will come at a cost. The U.S. economy’s growth is clearly slowing, and the downturn could easily be sharp enough to be considered a recession, albeit probably a mild one. And because it will take a while for inflation to fully reverse its rise, there’s a good chance that we’ll see a brief period of economic stagnation combined with continuing inflation — stagflation.

But if I’m right, and the markets are right, the “flation” part of that story won’t last very long. And sooner than many people believe, the Fed may find itself reversing course, trying to undo the “stag.”

 

Togliere la “flazione” dalla stagflazione,

di Paul Krugman

 

E’ successa una cosa curiosa nel modo in cui la Federal Reserve ha rialzato ultimamente il tasso. Il 15 giugno la Fed è intervenuta pesantemente, elevando i tassi di interesse che essa controlla di 75 punti base, ovvero di 7,5 punti percentuali – una crescita brusca per una istituzione che normalmente cerca di muoversi con gradualità. Perché tale urgenza? Come Jerome Powell, il Presidente della Fed, ha chiarito, lui e i suoi colleghi avevano il timore che le aspettative di inflazione stessero diventando “disancorate”, il che secondo alcuni economisti potrebbe portare l’inflazione a divenire “trincerata” (la trincea sta perdendo il suo ancoraggio [1]? Sarà il momento di ricorrere ad un po’ di vigilanza su queste confuse metafore? Lasciamo perdere).

Secondo Powell, un fattore della decisione era stato un balzo nella misurazione delle aspettative di inflazione da parte dell’Università del Michigan, che lui ha descritto come qualcosa “che catturava l’attenzione”. Io ed altri avevamo messo in guardia dal dare troppa importanza al dato di un singolo mese, specialmente perché altre misurazioni delle aspettative di inflazione non raccontavano la stessa storia – e ad essere giusti Powell aveva riconosciuto che questo era un dato preliminare che poteva essere rivisto. Come previsto, quel dato è stato corretto al ribasso; a quanto pare, le aspettative di inflazione in fin dei conti non stanno perdendo il loro ancoraggio. Un po’ imbarazzante.

Di fatto, in questo momento la storia vera sembra essere un declino abbastanza brusco nelle aspettative di inflazione del mercato a medio termine. Ecco il ‘pareggio’ sui cinque anni – il divario nei tassi di interesse tra le obbligazioni ordinarie del Tesoro statunitense e le obbligazioni protette dall’inflazione che sono indicizzate ai prezzi al consumo:

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Ritrovato il nostro ancoraggio. Fonte: FRED

Questo divario è una previsione implicita di inflazione per i prossimi cinque anni; da marzo è scesa di un punto percentuale. E il quadro intrinseco è anche migliore di quanto questo dato indichi, perché gli investitori sembrano credere che siamo destinati ad avere soltanto un anno di elevata inflazione, ammesso che sia così, e che poi torneremo all’obbiettivo del 2% di inflazione da tempo fissato dalla Fed, come rappresentato dal deflatore delle spese per i consumi personali, che tende ad essere un po’ più basso dell’Indice dei Prezzi al Consumo. Stamane, una stima basata sul mercato (più o meno in linea con altre) presenta un inflazione che corre al 4,4 per cento nel prossimo anno, ma solo al 2,2 per cento nei seguenti cinque anni.

Perché queste stime sono importanti? Non perché né i mercati finanziari né i sondaggi sui consumatori siano particolarmente precisi nel prevedere l’inflazione (dopo tutto, né gli uni né gli altri avevano visto arrivare la crescita dell’inflazione del 2021-22). Il punto è invece che la maggioranza degli economisti credono che la aspettative di inflazione sia un importante fattore determinante dell’inflazione effettiva.

Si pensi ai prezzi che sono fissati un anno in anticipo, come molti contratti salariali, affitti di appartamenti, e via dicendo. In un’economia nella quale ciascuno si aspetta che tutti gli altri aumentino del 10 per cento i salari nell’anno successivo, i datori di lavoro tenderanno ad offrire aumenti del 10 per cento in ogni occasione nella quale i salari vengono rinegoziati, solo per stare al passo, anche se l’offerta e la domanda di lavoratori sono grosso modo in equilibrio. E questo comporta che l’inflazione, una volta che si è radicata nelle aspettative, può auto perpetuarsi; il solo modo per abbassarla è dar vita ad un prolungato periodo nel quale la domanda è inferiore all’offerta – cioè, una recessione.

Questo non è uno scenario ipotetico: è più o meno la condizione nella quale eravamo realmente agli inizi degli anni ’80, quando tutti si aspettavano una inflazione persistentemente elevata, e ci vollero anni di alta disoccupazione per rimettere le cose sotto controllo:

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Non siamo agli anni ’80. Fonte: Sondaggi dei consumatori Michigan [2]

Comprensibilmente la Fed non vuole ritrovarsi ancora una volta in quella situazione, così è ipersensibile ad ogni indicazione secondo la quale l’inflazione attesa potrebbe finire fuori controllo. Sul momento, tuttavia, non sembrano esserci tali indicazioni. Di fatto, vari indizi rivelatori [3] suggeriscono che la Fed potrebbe essere prossima a sperimentare il rovescio della medaglia dei suoi errori dell’anno passato. Allora essa era in ritardo, non riuscendo a vedere la crescita dell’inflazione in corso. Sarebbe adesso in ritardo nella direzione opposta, non riuscendo a vedere l’imminente calo dell’inflazione?

Ad esser giusti, i dati ufficiali sui prezzi non mostrano ancora una inflazione che rallenta. Misurazioni che escludono i prezzi volatili degli alimentari e dell’energia o, in alternativa, che escludono i movimenti estremi dei prezzi suggeriscono che l’inflazione sostanziale sia ancora più o meno stabile attorno al 4 per cento, che la Fed trova inaccettabilmente elevata. Ma i dati non ufficiali, alcuni dei quali più recenti di quelli ufficiali, indicano che i fattori che hanno spinto l’inflazione recente si sono invertiti. Ad esempio, vi ricordate i tassi sul trasporto delle merci? Adesso stanno calando:

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Ehi, della nave! Fonte: Drewry [4]

E più in generale, i problemi delle catene dell’offerta che hanno guidato la salita dei prezzi si sono rovesciati: i principali venditori al dettaglio resocontano di essere seduti su mucchi di generi da magazzino in eccesso e decisi a tagliare i prezzi nel tentativo di togliere le merci dagli scaffali e di liberare i loro depositi.

Perché l’inflazione potrebbe scendere presto? A parte fattori particolari come Vladimir Putin, molti analisti – incluso il sottoscritto – credono che l’inflazione sia in parte decollata perché la spesa pubblica e il denaro facile hanno spinto l’economia al surriscaldamento. Anche considerato quel surriscaldamento, tuttavia, era sorprendente quanto l’inflazione fosse cresciuta.

Le prove storiche suggerivano che la curva di Phillips [5] fosse abbastanza piatta – o per dirla in linguaggio comprensibile, che il tasso di inflazione non fosse così sensibile a quanto calda o fredda l’economia stessa girando. Ma non è quello il modo in cui le cose sono apparse nel 2021-22, portando molti economisti a concludere che la relazione ra occupazione e inflazione diventa molto più forte quando l’economia sta girando vicina alla sua capacità. Schematicamente, il quadro porebbe somigliare a questo diagramma:

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L’inflazione: facile a venire e facile ad andarsene? Fonte: immaginazione dell’Autore

Ma se l’inflazione è stata altamente sensibile alla domanda nella salita (la freccia rossa nel diagramma), sembra probabile che essa sarà anche altamente sensibile nella discesa (freccia blu).

E con prove crescenti che l’economia si sta indebolendo abbastanza rapidamente – adesso sembra del tutto possibile che l’economia effettivamente si sia ristretta nel secondo trimestre – pare ragionevole suggerire che anche l’inflazione calerà presto. Ciò, in ogni caso, è quello che i mercati sembra stiano anticipando.

Ora, questo progresso contro l’inflazione, se accadesse, avrebbe un costo. La crescita dell’economia statunitense sta chiaramente rallentando, e il declino potrebbe facilmente essere abbastanza brusco da essere considerato una recessione, seppure leggera. E poiché ci vorrà un po’ perché l’inflazione rovesci la sua crescita, c’è una buona possibilità che assisteremo ad un breve periodo di stagnazione economica combinata con una perdurante inflazione – la stagflazione.

Ma se ho ragione, e se hanno ragione i mercati, la parte della “flazione” [6]  di quella storia non durerà molto a lungo.  E prima di quanto molti ritengono, la Fed può ritrovarsi a invertire il suo indirizzo, cercando di cancellare la parte della “stag”.

 

 

 

 

 

[1] Quando l’inflazione comincia  corre per conto suo, ovvero perde il suo “ancoraggio”, gli economisti dicono che le aspettative di inflazione divengano “radicate”; in inglese “entrenched”, ovvero letteralmente “trincerate”. L’ironia di Krugman è rivolta a questo esuberante linguaggio metaforico, alla fine del quale non si capisce bene come una “trincea” possa perdere il suo ancoraggio.

[2] La tabella mostra l’andamento della aspettative di inflazione nei cinque anni successivi al rilevamento. Quindi, se ben capisco, ogni punto della linea indica quanta inflazione era stata prevista/attesa cinque anni prima. Nel periodo 1978-1982 si ebbero le maggiori ‘aspettative’, ed anche la maggiore inflazione effettiva. Soltanto con gli anni ’90 le aspettative si ridussero stabilmente.

[3] È una possibile traduzione di “straws in the wind”, che letteralmente significa “fuscelli al vento”.

[4] La tabella mostra l’indice dei prezzi dei trasporti con i container, secondo il WCI (l’indice mondiale dei container dell’istituto Drewry), che misura i movimenti dei costi del trasporto merci per container di 40 piedi su sette principali rotte marittime. L’espressione “ship ahoy” è un termine marinaresco, quando si incrocia una qualche imbarcazione.

[5] La curva di Phillips è un indicatore dei rapporti tra gli andamenti dell’occupazione e dell’inflazione. Ma per una resoconto più approfondito, si possono leggere su Fataturchina le note sulla traduzione.

[6] Come è evidente, il termine “stagflazione” si compone di due concetti: “stag” che sta per stagnazione, e “flation” che sta per inflazione. Ovvero, assieme un andamento recessivo e un aumento dei prezzi.

 

 

 

L’epoca del denaro conveniente è finita? Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 21 giugno 2022)

giugno 30, 2022

 

June 21, 2022

Is the Era of Cheap Money Over?

By Paul Krugman

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Interest rates are up. Stocks, especially glamour stocks, like Tesla, are down. And the crypto crash has been truly epic. What’s going on?

Well, many people I read have been offering an overarching narrative that runs something like this: For the past 10 or maybe even 20 years, the Fed has kept interest rates artificially low. These low rates inflated bubbles everywhere, as investors desperately looked for something that would yield a decent rate of return. And now the era of cheap money is over, and nothing will be the same.

You can see this narrative’s appeal; it ties everything up into a single story. Yet to paraphrase H.L. Mencken, there is always a well-known explanation for every economic problem — neat, plausible and wrong. No, interest rates weren’t artificially low; no, they didn’t cause the bubbles; no, the era of cheap money probably isn’t over.

Let’s start with those interest rates. Here’s a chart of the real interest rate — the interest rate minus the expected rate of inflation — on 10-year United States government bonds since the 1960s. (I used the average rate of inflation, excluding food and energy prices, over the previous three years as a proxy for expected inflation; good enough for current purposes.) There was indeed a huge decline in real rates after 2000:

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Check out our low, low rates.Credit…FRED and author’s calculations

But was this decline “artificial”? What would that even mean? Short-term interest rates are set by the Federal Reserve, and long-term rates reflect expected future short-term rates. There’s no such thing as an interest rate unaffected by policy. There is, however, something economists have long called the natural rate of interest: the interest rate consistent with price stability, neither high enough to cause depression nor low enough to cause excessive inflation.

So is the claim that the Fed was consistently setting interest below this natural rate? If so, where was the runaway inflation? In fact, until 2021, inflation consistently came in more or less at the Fed’s target of 2 percent a year.

But why was the natural rate so low? The immediate answer is the Fed learned from experience that it had to keep rates low to keep the economy from slipping into recession. I’ll get to the deeper answers in a minute. But if you think the Fed was setting rates too low all through that period, you’re in effect saying that the Fed should have deliberately kept the economy depressed in order to avoid … something.

The usual explanation runs along these lines: “Maybe prices of goods and services didn’t shoot up, but look at all those asset bubbles!” And there have indeed been some big bubbles in the era of low interest rates. There was the great housing bubble of the mid-2000s, which set the stage for the global financial crisis. We then went on to have what was pretty clearly a crypto-meme stock-Elon Musk-Bored Apes-etc. bubble.

If you want to claim that low interest rates were responsible for those bubbles, however, you need to come to terms with the fact that there were some other impressive bubbles before rates got low.

I suspect — I hope! — that some of my readers are too young to remember just how intense the hype about tech stocks was in the late 1990s. (You kids, get off my lawn!) The video in the following section was an especially memorable ad from the telecom company Qwest, heralding the coming wonders of high-speed internet — which, in contrast to what I expected from the promised wonders of crypto, actually materialized. These days you can indeed watch almost every movie ever made, from “Gold Diggers of 1933” to “Plan 9 From Outer Space,” from your grubby motel room.

Incidentally, that ad was unintentionally accurate in another way: A grubby motel room with unlimited streaming is still a grubby motel room. Information technology is amazing, but it has done far less than many expected to improve our material quality of life.

More to my current point, while the I.T. revolution was real, it didn’t justify the prices people were paying for technology stocks. Here’s what happened to the Nasdaq at the time:

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The ghost of bubbles past.Credit…FRED

And Qwest, which ran those clever ads, took an especially hard fall. Its market value evaporated; its C.E.O. was eventually convicted of insider trading.

But there’s the thing: If you go back to my first chart, you’ll see that the tech bubble, with all its crazy valuations and fraud, took place at a time when real interest rates were quite high by historical standards and far higher than they have been recently. In other words, bubbles, even crazy bubbles inflated in part by fraud, can happen even when the Fed hasn’t been keeping interest rates low to support a weak broader economy.

Still, interest rates have gone up a lot in the past few months. Does this mean that the cheap-money era is over? To answer this question, you have to ask why the Fed felt compelled to keep rates so low for so long.

The basic answer is that since 2000 and especially since the global financial crisis, businesses have persistently been unwilling to maintain a level of investment spending that used all the money households wanted to save, unless interest rates were very low. This condition has the unfortunate name “secular stagnation” — unfortunate because it’s widely and wrongly construed as an assertion that it means slow growth, not low interest rates. The idea of secular stagnation was introduced in the 1930s, but the postwar boom made it seem irrelevant. Then Japan began experiencing persistent weakness and very low interest rates in the 1990s, and in the aftermath of the 2008 financial crisis, the whole advanced world found itself in a similar condition.

What causes secular stagnation? The best guess is that it’s largely about demography. When the working-age population is growing slowly or even shrinking, there’s much less need for new office parks, shopping malls, even housing, hence weak demand. And as you can see in this chart, America’s prime-working-age population, which grew rapidly for many decades, began stagnating just about the time interest rates began sliding:

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America, past its prime.Credit…FRED

And these demographic forces aren’t going away. If anything, they’re likely to intensify, in part because the rate of immigration has dropped off. So there’s every reason to believe that we’ll fairly soon go back to an era of low interest rates.

In that case, however, why have rates shot up? Well, the Fed is raising rates right now to fight inflation. But this is probably temporary: Once inflation is back down to 2 to 3 percent, which will probably happen by the end of next year, the Fed will begin cutting again. In fact, real long-term interest rates, which reflect expectations of future Fed policy, are up from their pandemic lows, but still only about what they were in 2018-19. That is, the market is, in effect, betting that the era of cheap money will be coming back.

Does this mean that there will be more bubbles in our future? Yes — but there would be more bubbles even if interest rates stayed high. Hype springs eternal.

 

L’epoca del denaro conveniente è finita?

Di Paul Krugman

 

I tassi di interesse salgono. Le azioni, particolarmente quelle attraenti, come Tesla, calano. E il crollo delle criptovalute è stato davvero straordinario. Cosa sta succedendo?

Ebbene, molte persone che leggo stanno offrendo una spiegazione onnicomprensiva che procede grosso modo così: per i passati 10 anni, o forse persino 20 anni, la Fed ha mantenuto i tassi di interesse artificialmente bassi. Questi bassi tassi hanno gonfiato dappertutto bolle, mentre gli investitori cercavano disperatamente qualcosa che generasse un tasso di rendimento accettabile. E adesso l’epoca del denaro conveniente è finita, e niente sarà come prima.

È evidente la attrattività di questo racconto; esso collega ogni cosa in un’unica narrazione. Tuttavia, per parafrasare H. L. Mencken [1], per ogni problema economico esiste sempre una spiegazione troppo semplice – accurata, plausibile, ma sbagliata. No, i tassi di interesse non erano artificialmente bassi; no, non sono stati loro a provocare le bolle; no, l’epoca del denaro conveniente probabilmente non è finita.

Cominciamo con quei tassi di interesse. Ecco un diagramma del tasso di interesse reale – il tasso di interesse al netto del tasso atteso di inflazione – sui bond decennali del Governo statunitense a partire dagli anni ’60 (ho utilizzato il tasso medio di inflazione, escludendo i prezzi dei generi alimentari e dell’energia, nel corso dei tre anni precedenti come un indicatore dell’inflazione attesa; per lo scopo che mi propongo una misura abbastanza idonea).  C’è stato in effetti un grande calo nei tassi di interesse reali dopo il 2000:

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Un’occhiata ai nostri tassi molto bassi. Fonte: FRED e calcoli dell’autore

Ma questo declino è stato “artificiale”? Cosa vorrebbe dire? I tassi di interesse a breve termine sono fissati dalla Federal Reserve, e quelli a lungo termine riflettono i tassi a breve termine attesi nel futuro. Non esiste qualcosa come un tasso di interesse non influenzato dalla politica monetaria. Esiste il tasso di interesse naturale: il tasso di interesse coerente con la stabilità dei prezzi, non troppo alto da provocare depressione né troppo basso da provocare inflazione eccessiva.

È questo l’argomento secondo il quale la Fed avrebbe regolarmente stabilito un tasso di interesse al di sotto del suo tasso naturale? Se fosse così, dov’era l’inflazione fuori controllo? Di fatto, fino al 2021, l’inflazione si è stabilmente collocata più o meno all’obbiettivo della Fed del 2 per cento all’anno.

Ma perché il tasso naturale era così basso? La risposta immediata è che la Fed aveva imparato dall’esperienza a tenere bassi i tassi per impedire che l’economia scivolasse in una recessione. Ma se si pensa che la Fed abbia fissato tassi troppo bassi per tutto quel periodo, in sostanza si sta dicendo che la Fed avrebbe tenuto l’economia intenzionalmente depressa allo scopo di evitare … qualcosa.

La spiegazione consueta procede in questo modo: “Forse i prezzi dei beni e dei servizi non crescevano troppo, ma si guardi a tutte quelle bolle degli asset!” E ci sono state, in effetti, alcune grandi bolle nell’epoca dei bassi tassi di interesse. Ci fu la grande bolla immobiliare della metà degli anni 2000, che creò le premesse per la crisi finanziaria globale. Poi proseguimmo con quella che fu abbastanza chiaramente una bolla ad imitazione delle cripto-valute delle azioni di Elon Musk e delle Bored Apes [2] etc.

Tuttavia, se si vuole sostenere che i bassi tassi di interesse siano stati responsabili di queste bolle, si deve fare i conti con il fatto che c’erano state altre bolle impressionanti prima che i tassi diventassero coì bassi.

Suppongo – lo spero! – che alcuni dei miei lettori siano troppo giovani per ricordare quanto fu proprio grande il battage attorno alle azioni tecnologiche negli ultimi anni ’90 (ragazzi, uscite dal mio prato!). Il video della serie che seguì fu una pubblicità particolarmente memorabile a cura della società di telecomunicazioni Qwest, che annunziava le imminenti meraviglie di Internet ad alta velocità – che, all’opposto di ciò che mi aspettavo sulle promesse meraviglie delle criptovalute, effettivamente si materializzò. Di questi tempi si può in effetti guardare quasi tutti i video che furono realizzati da una sporca camera di motel, da “Cercatori d’oro del 1933” a “Piano 9 dallo spazio lontano”.

Quella pubblicità, tra l’altro, fu involontariamente precisa in un altro senso: una sporca camera di motel con illimitate connessioni internet è pur sempre una sporca camera di albergo. La tecnologia dell’informazione è sbalorditiva, ma ha fatto molto meno di quello che molti si aspettavano per migliorare la nostra materiale qualità derlla vita.

Ma, per tornare al mio attuale argomento, se la rivoluzione della tecnologia delle informazioni fu reale, essa non giustificava i prezzi che le persone pagavano per le azioni tecnologiche. Ecco quello che accadde a quel tempo al Nasdaq:

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Lo spettro delle bolle passate. Fonte: FRED

E Qwest, che promosse quella pubblicità intelligente, prese un colpo particolarmente duro. Il suo valore di mercato evaporò; alla fine il suo amministratore delegato venne condannato per insider trading.

Ma qua è il punto: se tornate al mio primo diagramma, vedrete che la bolla tecnologica, con tutte le sue pazzesche valutazioni e frodi, ebbe luogo in un’epoca nella quale i tassi di interesse reali erano abbastanza elevati per le serie storiche e assai più elevati di quanto sono stati di recente. In altre parole, le bolle, persino le bolle pazzesche gonfiate in parte dalle frodi, possono avvenire anche quando la Fed non sta tenendo bassi i tassi di interesse per sostenere una più generale economia debole.

Eppure, i tassi di interesse sono saliti molto nei pochi mesi passati. Questa significa che l’epoca del denaro conveniente è finita? Per rispondere a questa domanda, si deve chiedersi perché la Fed si sia sentita in dovere di tenere i tassi così bassi tanto a lungo.

La risposta fondamentale è che dal 2000 e particolarmente dalla crisi finanziaria globale, le imprese sono state continuamente indisponibili a mantenere un livello di spesa per investimenti che utilizzasse tutto il denaro che le famiglie volevano risparmiare, pur essendo i tassi di interesse molto bassi. Questa condizione viene definita col nome sfortunato di “stagnazione secolare” – sfortunato perché è generalmente ed erroneamente costruito su una premessa che comporta lenta crescita, non bassi tassi di interesse. L’idea della stagnazione secolare venne introdotta negli anni ’30, ma il boom successivo alle guerra mondiale la rese irrilevante. Poi il Giappone cominciò a sperimentare una debolezza persistente e tassi di interesse molto bassi negli anni ’90, e a seguito della crisi finanziaria del 2008, l’intero mondo avanzato si ritrovò in una condizione simile.

Cosa provoca la stagnazione secolare? L’ipotesi migliore è che essa dipenda in gran parte dalla demografia. Quando la popolazione in età lavorativa sta crescendo lentamente o sta persino riducendosi, c’è molto meno bisogno di aree commerciali, di supermercati, persino di alloggi, di conseguenza la domanda è debole. E come si può osservare in questo diagramma, la popolazione nella principale età lavorativa dell’America, che era cresciuta rapidamente per molti decenni, cominciò a ristagnare proprio nel periodo nel quale i tassi di interesse cominciarono a discendere:

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L’America, superato il suo picco. Fonte: FRED

E questi fattori demografici non stanno uscendo di scena. Semmai, è probabile che si intensifichino, in parte perché il tasso di immigrazione sta calando. Ci sono dunque tutte le ragioni per credere che abbastanza presto torneremo in un’epoca di bassi tassi di interesse.

In quel caso, tuttavia, perché abbiamo alzato i tassi? Ebbene, in questo momento la Fed sta alzando i tassi per combattere l’inflazione. Ma questo è probabilmente temporaneo: una volta che l’inflazione sia tornata al 2 o 3 per cento, il che probabilmente accadrà verso la fine del prossimo anno, la Fed comincerà nuovamente a tagliarli. Di fatto, i tassi di interesse reali a lungo termine, che riflettono e aspettative della politica futura della Fed, sono saliti dai loro minimi pandemici, ma sono ancora soltanto attorno a quello che erano nel 2018-19. Ovvero, i mercato sta scommettendo he l’epoca del denaro conveniente tornerà.

Questo comporta che si saranno più bolle nel nostro futuro? Sì – ma ci sarebbero più bolle anche se i tassi di interesse restassero elevati. Il clamore della pubblicità non muore mai.

 

 

 

 

 

 

[1] Henry Louis Mencken – nato a Baltimora il 12 settembre 1880 e morto nella stessa città il 29 gennaio 1956 –  è stato un giornalista e saggista statunitense, nonché curatore editoriale, conosciuto come il “Saggio di Baltimora”, ed è noto soprattutto per la pungente satira della società. Wikipedia

[2] “Bored-Apes” – ovvero, “Scimmie annoiate” – da quello che capisco erano ‘gettoni’ costruiti  e diffusi con la tecnologia informatica della criptovaluta Ethereum (quindi, in sostanza erano criptovalute che si materializzavano in un ‘meme’). In un certo periodo uno dei quei gettoni toccò il livello massimo di circa 434 mila dollari.  La raccolta presenta immagini del profilo di scimmie dei cartoni animati generate proceduralmente da un algoritmo. La società madre di Bored Ape Yacht Club è Yuga Labs. Questa è l’immagine di una delle “scimmie annoiate”, la meno costosa:

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Perché la politica monetaria è diventata così difficile, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 10 giugno 2022)

giugno 24, 2022

 

June 10, 2022

Why Monetary Policy Has Gotten So Hard

By Paul Krugman

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Today’s newsletter isn’t about what the Federal Reserve or its counterpart the European Central Bank should be doing. I have views, of course: For what it’s worth, I think the Fed is getting it roughly right and the E.C.B. is overreacting. But that’s a debate both huge and inconclusive; in fact, it may never be resolved, since people are so good at convincing themselves that they were right.

What I want to focus on, instead, is why the job of each central bank seems so challenging right now — why each institution seems to be facing agonizing trade-offs.

The background: For a while, inflation seemed to be largely an American problem. Yes, prices were rising in Europe too, but not as much as in the United States, and the E.C.B., unlike the Fed, wasn’t talking about raising interest rates. Recently, however, European inflation has surged, to the point that it’s basically as high as U.S. inflation.

This has led to some odd twists in the inflation debate. Some economists point to European inflation as evidence that U.S. deficit spending was never the culprit, that inflation is being driven by global forces outside the Biden administration’s control. In response, those who do blame excess spending for U.S. inflation are making exactly the same arguments about Europe that Team Transitory used to make about America: Underlying inflation remains low, it’s all about temporary shocks from pandemic recovery, the Ukraine war and so on.

This is not, by the way, a gotcha. Economic models should reach different conclusions in different circumstances. But it’s still kind of funny.

I doubt, however, that either Jerome Powell, chairman of the Fed, or Christine Lagarde, president of the E.C.B., finds the situation funny. Both face agonizing choices. Neither knows, with any confidence, how serious an inflationary threat he or she faces, and therefore how much is needed to cool down the respective economies. Nor do Powell or Lagarde have reliable estimates of how much is needed to raise interest rates, the main policy tool, to achieve a given amount of cooling.

To explain it, I keep thinking of “fine motor skills” — the hand-eye coordination that lets people tie their shoelaces and button their shirts. Well, both Powell and Lagarde are, in effect, trying to tie their shoelaces in the dark — while wearing mittens.

But here’s my question: Why wasn’t it always like this? Running the Fed has never been an easy job, of course, but it never used to seem so fraught, with so much risk of doing either too little or too much.

Well, I have an answer: The job of the Fed used to seem easier because it wasn’t taking enough risks. Specifically, it was following conservative policies (in the nonpolitical sense) that kept the economy running below its potential. This slack in the economy meant that there was little risk of a major inflationary outbreak, hence little need for major policy changes. All the Fed had to do was gently tap on the brakes if the economy seemed to be getting closer to potential or give the economy a bit more gas if it was starting to slide; not much drama was involved.

But while this conservatism gave Fed officials a relatively easy life, it came at immense cost: millions of job opportunities we could have had, trillions of dollars in output we could have produced.

It’s true that the central banks’ jobs are also getting harder because there have been big shocks, with the latest being a surge in commodity prices largely caused by Russia’s ongoing war in Ukraine. But this isn’t the first time such a shock has happened. Data from the International Monetary Fund shows world commodity prices spiked three times from 2001 to 2020.

The current shock is big no doubt, but not that much bigger than shocks in 2008 and again in 2010 to 2011, neither of which gave central banks as much agita as they’re experiencing now.

So, here’s a chart that I think illustrates the Fed’s conservatism. One line shows the Fed’s estimate of the economy’s sustainable level of unemployment, as measured by the estimate of the long-run unemployment rate embedded in the Fed’s projections in March of each year. The other shows the actual unemployment rate, up to the eve of the pandemic:

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The Fed underestimated what the economy could do.Credit…Federal Reserve, Bureau of Labor Statistics

Bear in mind there were no signs of an inflationary breakout over that whole period, even though the unemployment rate eventually fell below 4 percent. This means that the Fed was consistently underestimating what the U.S. economy was capable of achieving, although its estimates gradually chased actual unemployment down. And it acted on its wrong belief: From 2016 into 2019 the Fed gradually increased interest rates, to head off imagined inflation risks.

The advantage of this conservatism for the Fed was that it insulated policymakers from embarrassment. Experience suggests that when there’s slack in the economy, the Phillips curve is very flat — or to put this in something resembling English, the inflation rate doesn’t depend much on exactly how much slack there is. So there wasn’t much risk of either deflation or painfully high inflation; to the casual observer, it always looked as if the Fed knew what it was doing.

But running the economy below its potential had huge hidden costs. Suppose that unemployment was one percentage point higher than it could have been. This meant that something like two million Americans who could have been employed — the unemployed, plus those who would have entered the labor force if the job market had been stronger — weren’t; because a point on the unemployment rate normally means about 2 points of gross domestic product, in other words, that we were forgoing about $400 billion a year of goods and services we could have been producing.

The good news is both the Fed and the E.C.B. are aware of their past sins, and they came into the pandemic determined to be less conservative and to take more risks on behalf of a strong economy. The bad news is that their timing was unfortunate: The risk of inflation did, in fact, materialize. But I’m willing to cut them a lot of, um, slack. If it never turns out that monetary policy was too loose, that means that it was consistently too tight.

And the Fed is, I’d argue, responding appropriately: In the face of evidence that the economy is overheated, it’s raising rates to cool the economy down, and despite this morning’s number, I, for one, am pretty sure we’ve reached peak inflation.

I’m less sanguine about the E.C.B. Yields on long-term bonds — which are what matter for the real economy — have risen as much in Europe as they have in the United States, indicating that markets expect the E.C.B. to tighten as much as the Fed. Yet if, as seems to be the case, European inflation reflects temporary shocks rather than an overheated economy, the E.C.B. shouldn’t be matching the Fed. So if the Fed is getting it right, the E.C.B. is overreacting.

On the other hand, Europe still has these things called unions, which have real bargaining power. So maybe Lagarde fears a wage-price spiral.

In any case, the point is that, in general, we want to see central banks facing hard decisions. The choices facing the Fed or the E.C.B. may seem easier in an economy that’s persistently a bit depressed, but making officials comfortable is not a valid policy goal.

 

Perché la politica monetaria è diventata così difficile,

di Paul Krugman

 

L’intervento di oggi non riguarda quello che dovrebbero fare la Federal Reserve o la sua omologa Banca Centrale Europea. Naturalmente, ho le mie opinioni: per quello che vale, penso che la Fed stia agendo in modo abbastanza giusto e che la BCE stia reagendo in eccesso. Ma quello è una dibattito sia ampio che inconcludente; di fatto, non può mai essere risolto, dal momento che le persone sono così brave nel convincersi di aver ragione.

Quello su cui voglio concentrarmi, invece, è la ragione per la quale in questo momento il lavoro della banca centrale sembra così impegnativo – perché ogni istituzione sembra essere di fronte ad alternative tormentose.

Il contesto: per un po’ l’inflazione è sembrata essere in gran parte un problema americano. È vero, i prezzi stavano crescendo anche in Europa, ma non così tanto come negli Stati Uniti, e la BCE, diversamente dalla Fed, non parlava di alzare i tassi di interesse. Di recente, tuttavia, l’inflazione europea è cresciuta, al punto che è fondamentalmente alta come l’inflazione statunitense.

Questo ha portato a qualche curiosa torsione nel dibattito sull’inflazione. Alcuni economisti indicano l’inflazione europea come la prova che la spesa in deficit statunitense non è mai stata la responsabile, che l’inflazione è stata guidata da fattori globali esterni al controllo della Amministrazione Biden. In risposta, coloro che danno la colpa all’eccesso di spesa per l’inflazione statunitense stanno avanzando gli stessi argomenti che il ‘gruppo della transitorietà’ usava per l’America: l’inflazione sostanziale resta bassa, tutto dipende dagli shock temporanei derivanti dalla ripresa dalla pandemia, dalla guerra in Ucraina e via dicendo.

Per inciso, questo non equivale ad aver colto in fallo i propri oppositori. I modelli economici dovrebbero portare a conclusioni diverse in diverse circostanze. Ma resta qualcosa di buffo.

Dubito, tuttavia, che sia Jerome Powell, il Presidente della Fed, che Christine Lagarde, la Presidentessa della BCE, trovino la situazione buffa. Entrambi sono di fronte a scelte tormentose. Nessuno di loro sa, con sufficiente affidabilità, quanto sia seria la minaccia inflazionistica che stanno affrontando, e di conseguenza quanto sia necessario raffreddare le rispettive economie. Powell e Lagarde non hanno neppure stime affidabili su quanto sia necessario alzare i tassi di interesse, lo strumento politico principale per realizzare una certa dose di raffreddamento.

Per spiegarlo, io continuo a pensare alle “qualità motorie eccellenti” – il coordinamento mani-occhi che consente alle persone di allacciarsi le scarpe mentre si abbottonano la camicia. Ebbene, in sostanza sia Powell che Lagarde stanno cercando di allacciarsi le scarpe al buio – nel mentre indossano manicotti.

Ma è qua la mia domanda: perché non è sempre stato così? Amministrare la Fed non è mai stato un lavoro semplice, naturalmente, ma non sembrava neppure così irto di ostacoli, con tanto rischio di fare sia troppo poco che troppo.

Ebbene, io ho una risposta: il lavoro della Fed di solito sembrava più facile perché essa non si prendeva abbastanza rischi. In particolare, essa stava seguendo politiche di conservazione (nel senso non politico) che continuavano a far andare l’economia al di sotto del suo potenziale. La fiacchezza nell’economia comportava che ci fosse poco rischio per una importante ondata inflazionistica, di conseguenza poco bisogno di importanti cambiamenti nella politica. Tutto quello che alla Fed dovevano fare era dare delicatamente un colpo ai freni se l’economia sembrava avvicinarsi al suo potenziale, oppure dare un po’ più gas se stava cominciando a scivolare; non comportava molto dramma.

Ma mentre questo conservatorismo dava ai dirigenti della Fed una vita relativamente facile, esso comportava un costo immenso: le opportunità dei milioni di posti di lavoro che avremmo potuto avere, dei miliardi di dollari di produzione che avremmo potuto aver prodotto.

È vero che il lavoro presso le banche centrali sta anche diventando più difficile perché ci sono stati grandi shock, con l’ultimo della crescita dei prezzi delle materie prime in buona parte provocata dalla perdurante guerra in Ucraina. Ma non è la prima volta che avviene uno shock simile. I dati del Fondo Monetario Internazionale mostrano che i prezzi delle materia prime hanno avuto un picco tre volte dal 2001 al 2020.

L’attuale shock è senza dubbio grande, ma non talmente maggiore degli shock nel 2008 ed ancora nel 2010 sino al 2011, nessuno dei quali provocò alle banche centrali altrettanta agitazione di quella che stanno sperimentando adesso.

Ecco dunque un diagramma che penso illustri il ‘conservatorismo’ della Fed. Una linea [rossa] mostra la stima della Fed del livello sostenibile di disoccupazione nell’economia, come misurata dalla stima del tasso di disoccupazione di lungo periodo incorporate nelle previsioni della Fed al marzo di ogni anno. L’altra [blu] mostra l’effettivo tasso di disoccupazione, sino al periodo della pandemia:

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La Fed sottostimava quello che l’economia poteva fare. Fonte: Federal Reserve e Ufficio della Statistiche del lavoro.

Si tenga a mente che nell’intero periodo non ci furono segni di epidemia inflazionistica, anche se il tasso di disoccupazione alla fine scese sotto il 4 per cento. Questo significa che la Fed stava regolarmente sottostimando quello che l’economia statunitense era capace di realizzare, sebbene le sua stime gradualmente spingevano in basso la disoccupazione effettiva. Ed essa agì sulla base del suo convincimento: dal 2016 sino al 2019 accrebbe gradualmente i tassi di interesse, per ostacolare gli immaginari rischi di inflazione.

Il vantaggio di questo conservatorismo per la Fed fu che esso protesse dall’imbarazzo le autorità. L’esperienza indica che quando c’è fiacchezza nell’economia, la curva di Phillips è molto piatta – ovvero per dirlo con un linguaggio comprensibile, il tasso di inflazione non dipende molto da quanta fiacchezza c’è. Dunque non vi fu molto rischio né di deflazione né di dolorosa alta inflazione; ad un osservatore casuale, pareva che la Fed sapesse cosa stava facendo.

Ma gestire l’economia al di sotto del suo potenziale ebbe vasti costi nascosti. Supponiamo che la disoccupazione fosse di un punto percentuale più elevata di quanto avrebbe dovuto essere. Questo comportava che qualcosa come due milioni di americani che avrebbe dovuto essere occupati – i disoccupati, in aggiunta a coloro che avrebbero dovuto entrare nella forza lavoro se il mercato del lavoro fosse stato più forte – non lo furono; in altre parole, poiché un punto nel tasso di disoccupazione normalmente comporta circa due punti di prodotto interno lordo,  che stavamo rinunciando a circa 400 miliardi all’anno di beni e servizi che avremmo potuto produrre.

La buona notizia è che sia la Fed che la BCE sono consapevoli di questi loro peccati passati, e sono entrati nella pandemia determinati ad essere meno conservatori ed a prendersi più rischi nell’interesse di un’economia forte. La cattiva notizia è che la loro tempistica è stata sfortunata: di fatto, il rischio di inflazione si è materializzato. Ma sono disposto a ridurre sul loro conto un bel po’, diciamo, di fiacchezza. Finché non si scopre che la politica monetaria è stata troppo rilassata, ciò comporta che essa è stata troppo severa.

E la Fed, per quanto posso dire, sta rispondendo appropriatamente: di fronte all’evidenza che l’economia è surriscaldata, sta tagliando i tassi per raffreddare l’economia, e nonostante i dati di questa mattina, io, per quanto mi riguarda, sono abbastanza sicuro che abbiamo raggiunto il picco dell’inflazione.

Sono meno ottimista nel caso della BCE. I rendimenti sulle obbligazioni a lungo termine – che sono ciò che conta per l’economia reale – sono cresciuti in Europa altrettanto che negli Stati Uniti, indicando che i mercati si aspettano che la BCE restringa altrettanto che la Fed. Tuttavia se, come sembra il caso, l’inflazione europea riflette shock temporanei piuttosto che un’economia surriscaldata, la BCE non dovrebbe fare lo stesso della Fed. Dunque, se la Fed sta facendo le cosa giusta, la BCE sta reagendo in eccesso.

D’altra parte, l’Europa ancora possiede queste cose chiamate sindacati, che hanno un reale potere di contrattazione. Dunque, forse Lagarde teme una spirale salari-prezzi.

In ogni caso, la questione è che, in generale, preferiamo che le banche centrali affrontino decisioni difficili. Le scelte di fronte alla Fed ed alla BCE possono sembrare più facili in un’economia che è persistentemente un po’ depressa, ma mettere a loro agio le autorità non è un valido obbiettivo politico.

 

 

 

 

 

 

Elon Musk, Marte e l’economia moderna, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 7 giugno 2022)

giugno 23, 2022

 

June 7, 2022

Elon Musk, Mars and the Modern Economy

By Paul Krugman

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Elon Musk is clearly having a moment; he’s trying to back out of his deal to buy Twitter, but he probably can’t without paying billions in damages. Perhaps that’s why he’s thinking about zooming off to Mars?

OK, I’m being unfair. (Am I about to receive a poop emoji?) While Musk’s decision to talk up a scheme to send a million colonists to Mars may reflect a desire to change the subject, his plan calls for doing so by 2050 — and he has been talking about that idea for years.

Still, the Mars talk caught my attention, largely because of the line about one million people (which I can’t help but say in my best Dr. Evil voice).

What’s your reaction to that number? Does it seem absurdly high? In terms of the logistics of actually getting people to Mars, it probably is. But my original home field in economics was international trade. And if you know anything about trade, or for that matter the realities of industry, you realize that one million is actually an absurdly low number of people — far too few to support a modern economy.

Let’s instead treat the SpaceX chief’s Mars fantasies as a teachable moment — a chance to talk about the economics of globalization more generally.

Musk’s comments immediately called to mind for me a great essay by one of my favorite science fiction writers, Charlie Stross, that posed precisely this question: “What is the minimum number of people you need in order to maintain (not necessarily to extend) our current level of technological civilization?”

Stross’s answer was that given the complexity of modern society, you’d need a lot of people. In fact, writing back in 2010 — when Musk’s Tesla was still a struggling company that had only survived the Great Recession thanks to an Obama administration bailout — he explained how Musk’s current plan is thinking far too small: “Colonizing Mars might well be practical, but only if we can start out by plonking a hundred million people down there.” I agree — if anything, that’s on the low side. To understand why, you need to think about why nations engage in international trade.

One reason is that countries have different resources and climates: It’s hard to grow pineapples in Norway. But another reason is that in the modern world there are often huge economies of scale in production. These economies of scale make it efficient to supply the entire world market for some goods from only a handful of locations — sometimes just a single location — with international trade delivering those goods to customers in other countries.

For example, a recent shortage of semiconductor chips — which seems, finally, to be easing — has drawn attention to the role of photolithography machines, which use light to etch microscopic circuits on silicon wafers. (Any sufficiently advanced technology is indistinguishable from magic.) The world market for these it turns out, is dominated by a single firm in the Netherlands, ASML, which has a complete monopoly on the latest generation of machines, which use extreme ultraviolet light to make circuits even more microscopic.

So how many factories does ASML have assembling these cutting-edge machines? One. (It has other factories producing subsystems.)

These economies of scale mean that no one country can reasonably produce the full range of goods required to operate a modern, high-technology economy. International trade is essential, and more essential the smaller the economy — which is why Canada is far more dependent on imports than the United States, Belgium far more dependent than Germany, and so on:

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Smaller countries trade more.Credit…World Bank

Now, given access to world markets, even small countries can have full access to the benefits of modern technology; life in Luxembourg is pretty good. But unless we actually invent the Epstein Drive or something, the realities of transportation costs mean that Musk’s hypothetical Mars colony would have to be largely self-sufficient, cut off from the rest of the solar system economy. And it wouldn’t have enough people to pull that off with anything like a modern standard of living.

As I said, I see Musk on Mars as a teachable moment, an unintended thought experiment that helps remind us of the positive aspects of international trade. Yes, there are downsides to globalization, especially to rapid change that can disrupt whole communities. But you really wouldn’t want to live in a world without extensive international trade. And you really, really wouldn’t want to live on another planet, cut off from the globalization we’ve created on this one.

 

Elon Musk, Marte e l’economia moderna,

di Paul Krugman

 

Elon Musk ha chiaramente un momentaccio: sta cercando di tornare indietro dal suo accordo per acquistare Twitter, ma probabilmente non potrà farlo senza pagare miliardi di danni. Forse quella è la ragione per la quale sta pensando di partire per Marte?

È vero, sto diventando ingiusto (riceverò una “faccina di cacca” [1] ?) Se la decisione di Musk di mettersi a parlare di un progetto sull’invio di un milione di coloni su Marte può riflettere il desiderio di cambiare tema, il suo programma è di farlo entro il 2050 – ed egli sta parlando da anni di quell’idea.

Eppure, il discorso su Marte ha catturato la mia attenzione, soprattutto per la frase relativa al milione di persone (che non posso fare a meno di pronunciare imitando nel migliore dei modi la voce del Dr Male [2]).

Quale è la vostra reazione a quel numero? Vi sembra assurdamente elevato? In termini di logistica per spostare effettivamente le persone su Marte, probabilmente lo è. Ma la mia disciplina originaria nell’economia è stata il commercio internazionale. E se conoscete qualcosa sul commercio, o del resto sulle realtà dell’industria, comprenderete che un milione è di fatto un numero assurdamente basso di persone – di gran lunga troppo basso per sostenere una economia moderna.

Consentitemi piuttosto di parlare delle fantasie marziane del capo di Space X [3] come di un episodio istruttivo – una possibilità di parlare più in generale sulla economia della globalizzazione.

Nel mio caso, i commenti di Musk richiamano alla mente uno dei miei preferiti scrittori di fantascienza, Charlie Stross, che poneva precisamente questa domanda: “Qual è il numero minimo di persone delle quali c’è bisogno allo scopo di mantenere (non necessariamente di estendere) il nostro attuale livello di civiltà tecnologica?”

La risposta di Stross era che, data la complessità della società moderna, c’era bisogno di una grande quantità di persone. Di fatto, scrivendo nel passato 2010 – quando la Tesla di Musk era ancora un società in difficoltà che era sopravvissuta alla Grande Recessione soltanto grazie ad un salvataggio della Amministrazione Obama – egli spiegava come l’attuale programma di Musk è un’idea di gran lunga troppo piccola: “Colonizzare Marte potrebbe ben essere fattibile. Ma solo se possiamo partire scaricandoci un centinaio di milioni di persone”. Sono d’accordo – semmai, direi che è il numero minore. Per capire perché, c’è bisogno di pensare alle ragioni per le quali le nazioni si impegnano nel commercio internazionale.

Una ragione è che i paesi hanno differenti risorse e climi: è difficile far crescere gli ananas in Norvegia. Ma un’altra ragione è che nel mondo moderno ci sono spesso nella produzione vaste economie di scala. Queste economie di scala rendono efficiente offrire alcuni prodotti all’intero mercato mondiale soltanto da una manciata di località – talvolta proprio da un singola località – con il commercio internazionale che fornisce quei prodotti ai consumatori negli altri paesi.

Ad esempio, una recente scarsità di semiconduttori – che sembra, finalmente, stia attenuandosi – ha portato l’attenzione sul ruolo  sulle macchine fotolitografiche, che usano la luce per incidere circuiti microscopici su strati di silicone (qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia). Si scopre che il mercato mondiale di questi ultimi è dominato da un’impresa in Olanda, la ASML, che ha il monopolio completo dell’ultima generazione di tali macchine, che usano l’estrema luce ultravioletta per fare circuiti sempre più microscopici.

In quanti stabilimenti l’ASML deve assemblare queste macchine di avanguardia? In uno (essa ha altre fabbriche che producono sottosistemi).

Queste economie di scala comportano che nessun paese possa ragionevolmente produrre l’intera gamma di prodotti richiesti per far funzionare una moderna economia ad alta tecnologia. Il commercio internazionale è essenziale, e ancora più essenziale più che è piccola l’economia – che è la ragione per la quale il Canada è assai più indipendente dalle importazioni degli Stati Uniti, il Belgio molto più dipendente della Germania, e così via:

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I paesi più piccoli commerciano di più. Fonte: Banca Mondiale

Ora, considerato l’accesso ai mercati mondiali, persino piccoli paesi possono avere pieno accesso ai benefici della tecnologia moderna; la vita in Lussemburgo è abbastanza confortevole. Ma a meno che non si inventi lo Epstein Drive [4] o qualcosa di simile, le realtà dei costi di trasporto comportano che l’ipotetica colonia marziana di Musk dovrebbe essere ampiamente autosufficiente, tagliata fuori dal resto dell’economia del sistema solare. Ed essa non avrebbe abbastanza persone per riuscirci con qualcosa che assomigli ad uno standard di vita moderno.

Come ho detto, Musk su Marte è un episodio istruttivo, un involontario esperimento di pensiero che ci aiuta a ricordare gli aspetti positivi del commercio internazionale. È vero, ci sono aspetti negativi della globalizzazione, particolarmente del rapido cambiamento che può mettere in difficoltà intere comunità. Ma davvero non si vorrebbe vivere in un mondo senza un esteso commercio internazionale. E non si vorrebbe vivere in un altro pianeta, tagliato fuori dalla globalizzazione che abbiamo creato su questo.

 

 

 

 

 

[1]  Cos’è un “poop emoji”? Spiega UrbanDictionary, letteralmente è una “faccina di cacca”.  Ovvero, il seguente soggetto:

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Pare che l’omino con le un po’ sgradevoli fattezze di cui sopra, seppur sorridente, sia un modo per esprimere nella corrispondenza un giudizio di disapprovazione (ad esempio, si può dire a qualcuno, a conclusione di un messaggio, che è un “poop emoji”  …). In un precedente post, si era appreso che Musk ne aveva fatto uso nella sua vicenda relativa all’acquisto di Twiter; da lì il timore di Krugman di riceverne uno.

[2] Il dr. Male è il seguente personaggio di un film di fantascienza, con una espressione inorridita:

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[3] Space Exploration Technologies Corporation è un’azienda aerospaziale statunitense con sede a Hawthorne, USA, costituita nel 2002 da Elon Musk con l’obiettivo di creare le tecnologie per ridurre i costi dell’accesso allo spazio e permettere la colonizzazione di Marte. Wikipedia

[4] Un progetto teorico per un missile a propulsione tramite fusione nucleare. Se capisco, per ora fantascienza, ma se ne occupa la NASA.

 

 

 

Il riscaldamento è già acceso, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 24 maggio 2022)

maggio 30, 2022

 

May 24, 2022

The Heat Is Already On

By Paul Krugman

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Last week Stuart Kirk, the head of responsible investing (!) for HSBC’s asset management division, gave a talk titled “Why Investors Need Not Worry About Climate Risk,” in which he declared that it’s no big deal: “Who cares if Miami is six meters underwater in 100 years? Amsterdam has been six meters underwater for ages, and that’s a really nice place. We will cope with it.”

Kirk has reportedly been suspended, although The Financial Times also reports that his theme and content had been “approved internally” before the talk. Still, his self-immolation may be helpful in making a crucial counterpoint: Investors — and, more important, human beings — need to worry about climate risks right now. For climate change isn’t something that will happen decades in the future; its effects are happening as you read this. And while we may “cope with it” for a while, there will come a point when we can’t — and the scale of catastrophe will be immense.

There are several forms of climate denialism. Kirk simply offered one version — still unforgivable from someone who’s supposed to be a risk manager — which goes, “Hey, what’s the big deal if the planet gets a degree or two warmer?”

With apologies to climate scientists, who know that I’m about to perpetrate a vast oversimplification, and further apologies for my D.I.Y. artwork, I present a schematic explanation of why that argument is all wrong.

Weather fluctuates, and extreme weather events happened even before mankind began burning vast quantities of fossil fuels. For a particular location — say, northern India — the distribution of temperatures might have looked something like this:

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Extreme weather happens.Credit…Author’s imagination

I’m assuming — again, a huge oversimplification — that there’s some critical temperature that represents a danger point. The shaded area represents the frequency with which that threshold would have been exceeded before the fossil fuel era.

Now imagine that a buildup of greenhouse gases raises average temperatures, shifting the probability distribution to the right. Even if the average temperature — the peak of the bell-shaped curve — remains below the danger level, the frequency of episodes of dangerously high temperatures may dramatically increase:

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But now it’s happening more.Credit…Author’s imagination

It’s not just temperature, of course; it’s all the side effects of the temperature rise. Climate change increases the frequency of destructive storm surges, severe droughts and more.

Once you understand this point, you realize that the effects of climate change are all around us. Last week, for example, an extraordinary heat wave struck much of southern Europe, fortunately after I did my cycling trip in Portugal:

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Temperature anomalies, May 20.Credit…The Washington Post 

Such heat waves have happened before, but climate change has made them increasingly common. According to one estimate, the record-breaking heat wave that struck India and Pakistan this spring was 30 times as likely as it would have been without human-caused climate change.

Or consider the megadrought now afflicting the Western United States:

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A 1,200-year megadrought.Credit…U.S. Drought Monitor

There have always been Western droughts. But this one, which has now gone on for more than two decades and has reduced water levels in key reservoirs to record lows, is the worst in at least 1,200 years.

So climate change isn’t an issue for the distant future. Its effects are happening already, although there’s surely much worse to come.

But will we, as HSBC’s Kirk asserted, “cope with it”? For a while, yes.

Modern societies — certainly high-income countries like America and even lower-middle-income nations like India — have far more capacity to deal with problems than preindustrial societies. They can aid hard-hit regions; they can adapt their agriculture and living arrangements to changing weather; they can probably preserve the appearance of more or less normal life for years to come.

But there’s a well-known proposition in my original academic home field of international economics known as Dornbusch’s Law, named after the Massachusetts Institute of Technology economist (and my mentor) Rudiger Dornbusch: “The crisis takes a much longer time coming than you think, and then it happens much faster than you would have thought.” Rudi was talking about currency crises, but his rule applies to other crises too.

What I fear — and, alas, expect — is that for years, maybe even decades, to come, we’ll avoid the worst-case scenarios for climate disaster. Famines may kill millions, but not tens of millions, because food will be rushed in when crops fail. Incidents in which wet-bulb temperatures, a measure of heat and humidity combined, pass the limits of human endurance will remain rare for a while. Residents of cities swamped by storm surges will be rescued.

Thanks to human ingenuity, we’ll cope — until we can’t, because the scope of the crisis will exceed even modern society’s ability to adapt. I think of our response to changing climate as being like a rubber band that can be stretched a long way until it suddenly snaps. And then the megadeaths will begin.

I wish I were being hyperbolic, but I think I’m just being realistic.

The tragedy here is that the climate crisis is eminently solvable. Among other things, progress in renewable energy has been so dramatic that even a fairly modest policy push could still lead to a large reduction in greenhouse gas emissions.

But none of this can happen without participation from the United States, and rational climate policy in what is still the world’s essential nation is being held hostage by people more concerned with imaginary threats from critical race theory and swarming immigrants than with the rapidly changing fate of the planet.

 

Il riscaldamento è già acceso,

di Paul Krugman

 

La scorsa settimana Stuart Kirk, il capo degli investimenti responsabili (!) per la divisione della gestione degli asset della HSBC, ha tenuto un discorso dal titolo “Perché gli investitori non si debbono preoccupare del rischio climatico”, nel quale ha dichiarato che esso non è un gran problema: “Chi si preoccupa se Miami in cento anni scenderà di sei metri sotto il livello del mare? Amsterdam è stata sei metri sotto il livello del mare per secoli, ed è un posto proprio grazioso. Ci faremo fronte.”

Si dice che Kirk sia stato sospeso, per quanto il Financial Times informi anche che il suo tema e i suoi contenuti fossero stati “internamente approvati” prima del discorso. Eppure, la sua auto immolazione può essere utile ad avanzare un contro argomento cruciale: gli investitori – e, più importante, gli esseri umani – debbono preoccuparsi dei rischi del clima proprio adesso. Perché il cambiamento climatico non è qualcosa che accadrà tra decenni nel futuro; i suoi effetti stanno accadendo nel mentre voi leggete questo articolo. E mentre possiamo dire per un certo periodo “ci faremo i conti”, arriverà un momento nel quale non potremo più dirlo – e la dimensione della catastrofe sarà immensa.

Ci sono varie forme di negazionismo sul clima. Kirk ne ha semplicemente offerta una – seppure imperdonabile per un soggetto che si supponeva fosse un ‘gestore di rischi’ – del genere: “Vabbè, quale grande faccenda sarebbe se il pianeta diventasse un grado o due più caldo?”

Con le mie scuse agli scienziati del clima, che sanno che sto per compiere una enorme super semplificazione, e con scuse ulteriori per la mia grafica “fai-da-te”, presento una spiegazione schematica del perché quell’argomento è totalmente sbagliato.

Il cima varia, e gli eventi climatici estremi accadevano anche prima che il genere umano cominciasse a bruciare vaste quantità di combustibili fossili. Per una località particolare – ad esempio, l’India settentrionale – la distribuzione delle temperature potrebbe aver somigliato a qualcosa come questo:

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Un clima estremo succede. Fonte: immaginazione dell’autore

Io sto immaginando – ancora una esagerata semplificazione – che ci sia una qualche temperatura critica che rappresenta un punto di pericolo. L’area colorata rappresenta la frequenza con la quale quella soglia potrebbe essere stata superata prima dell’epoca dei combustibili fossili.

Ora si immagini che un accumulo di gas serra aumenti le temperature medie, spostando verso destra le probabilità della distribuzione. Anche se la temperatura media – il picco della curva a forma di campana – restasse sotto il livello di pericolo, la frequenza degli episodi di temperature pericolosamente elevate crescerebbe in modo spettacolare:

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Ma adesso sta accadendo più spesso. Fonte: immaginazione dell’autore

Ovviamente, non si tratta solo di temperature; sono tutti gli effetti collaterali della crescita della temperatura. Il cambiamento del clima aumenta la frequenza di tempeste distruttive, di gravi siccità e di altro ancora.

Una volta che si comprende questo punto, si capisce che gli effetti del cambiamento climatico sono tutti attorno a noi. La scorsa settimana, ad esempio, una straordinaria ondata di caldo ha colpito l’Europa Meridionale, fortunatamente dopo il mio viaggio in bicicletta in Portogallo:

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Temperature anomale, 20 maggio. Fonte: Washington Post

Tali ondate di caldo ci sono state nel passato, ma il cambiamento climatico le ha rese sempre più frequenti. Secondo una stima, l’ondata di caldo record che ha colpito questa primavera l’India e il Pakistan è stata trenta volte più probabile di quanto sarebbe stata senza il cambiamento climatico provocato dall’uomo.

Oppure di consideri la grande siccità che sta attualmente affliggendo gli Stati Uniti occidentali:

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Una grande siccità della frequenza di 1.200 anni. Fonte: Monitoraggio delle siccità negli USA

Ci sono state sempre siccità nelle regioni occidentali. Ma questa, che adesso sta proseguendo da più di due decenni ed ha ridotto i livelli dell’acqua in riserve fondamentali ai minimi storici, è la peggiore da almeno 1.200 anni.

Dunque, il cambiamento climatico non è un tema di un futuro lontano. I suoi effetti sono già in corso, sebbene ci sia certamente molto di peggio in arrivo.

Ma noi “ce la faremo”, come ha sostenuto Kirk del HSBC? Sì, per un po’.

Le società moderne – certamente i paesi ad alto reddito come l’America ed anche nazioni a reddito medio basso come l’India – hanno di gran lunga una capacità maggiore di misurarsi con i problemi delle regioni preindustriali. Possono aiutare le aree colpite più duramente; possono adattare la loro agricoltura e i modi di vivere al cambiamento climatico; probabilmente possono conservare l’apparenza di una vita più o meno normale per anni avvenire.

Ma c’è un ben noto concetto nel mio originario campo della disciplina accademica dell’economia internazionale noto come la Legge di Dornbusch, che prende il nome dall’economista (e mio insegnante) al Massachusetts Institute of Technology Rudiger Dornbusch: “La crisi prende molto più tempo di quello che pensiate ad arrivare, ma quando avviene è molto più veloce di quello che avreste pensato”. Rudi stava parlando di crisi valutarie, ma la sua regola si applica anche ad altre crisi.

Quello che io temo – e, purtroppo, mi aspetto – è che per anni, forse persino per decenni avvenire,   noi eviteremo gli scenari peggiori del disastro climatico. Le carestie possono uccidere milioni di persone, ma non decine di milioni, perché il cibo verrà messo assieme in fretta e furia quando i mancheranno i raccolti. Gli incidenti nei quali le temperature a bulbo umido, una misura combinata di calore e di umidità [1], superano la sopportazione umana rimarranno per un po’ rari. I residenti delle città inondate dalla crescita delle tempeste verranno messi in salvo.

Ce la faremo, grazie all’ingegno umano – finché non potremo più, perché la dimensione della crisi supererà persino la capacità di adattamento della società moderna. Io penso alla nostra risposta al cambiamento climatico come una striscia di gomma che può essere tesa a lungo, finché all’improvviso si strappa. E allora cominceranno i milioni di morti.

Vorrei essere stato esagerato, ma penso di essere stato solo realistico.

In questo caso, la tragedia è che la crisi del clima è fondamentalmente risolvibile. Tra le altre cose, il progresso nelle energie rinnovabili è stato così spettacolare che persino una spinta politica abbastanza modesta potrebbe ancora portare ad una vasta riduzione delle emissioni dei gas serra.

Ma niente di questo può avvenire senza la partecipazione degli Stati Uniti e senza una politica razionale del clima, nella quale una nazione essenziale del mondo venga tenuta in ostaggio da persone più preoccupate delle minacce immaginarie della ‘teoria critica della razza’ e da sciami di emigranti, più che dal destino in rapido mutamento del pianeta.

 

 

 

 

 

[1] Più tecnicamente, secondo Wikipedia:

La temperatura di bulbo umido (in inglese wet bulb temperature) è la temperatura a cui si porta l’acqua in condizioni di equilibrio di scambio convettivo con una massa d’aria in moto turbolento completamente sviluppato. Viene solitamente misurata da un apposito termometro coperto da un panno imbevuto d’acqua. Tale temperatura riflette l’effetto refrigerante dell’evaporazione dell’acqua. Può essere determinata facendo passare l’aria sopra un termometro che sia stato avvolto con un tessuto umido. L’effetto refrigerante dell’evaporazione dell’acqua causa una temperatura più bassa rispetto a quella del bulbo secco. A partire dal valore della temperatura di bulbo umido si ricava l’umidità assoluta di un ambiente.

 

 

 

Siamo al ritorno della stagflazione? Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 20 maggio 2022)

maggio 25, 2022

 

May 20, 2022

Is Stagflation Making a Comeback?

By Paul Krugman

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When I talk to business groups these days, the most commonly asked question is, “Are we headed for stagflation?” I’m pretty sure they find my response unsatisfying, because I tell them it depends on their definition of the term.

If they understand it to mean a period of rising unemployment combined with inflation that’s still too high, the answer is that there’s a very good chance that we’ll suffer from that malady for at least a few months. But if they’re referring to something like the extreme pain we suffered to close out the 1970s, it looks unlikely.

To explain the difference, consider two historical episodes.

First, look at 1979 to ’80, which illustrates what I suspect most people have in mind when they talk about stagflation. At the beginning of 1979 the United States already had 9 percent annual inflation; the surge in oil prices after the Iranian revolution sent inflation well into double digits. The Federal Reserve, under Paul Volcker, responded with drastically tighter monetary policy, leading to a recession and a sharp rise in unemployment:

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The stagflation we remember.Credit…FRED

The recession brought inflation down but not enough, so the Fed tightened the screws further, sending the economy into a double dip (not shown on the chart). This finally did bring inflation down to around 4 percent, considered acceptable at the time, but at immense cost: Unemployment peaked at 10.8 percent in 1982 and didn’t get back down to 1979 levels until 1987.

Now look at the period from 2007 to the fall of 2008, just before the demise of Lehman Brothers. On the surface it looks somewhat similar, with uncomfortably high inflation, brought on by rising oil and other commodity prices, and surging unemployment:

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This time was different.Credit…FRED

And a fair number of influential people worried about runaway prices more than the recession. According to the transcript of the August 2008 meeting of the Federal Open Market Committee, which sets monetary policy, there were 322 mentions of inflation and only 28 of unemployment.

Yet inflation subsided quickly. And while there was a severe recession — still generally known as the Great Recession — it had nothing to do with squeezing inflation out of the economy and everything to do with the fallout from a severe financial crisis.

What was the difference between these episodes? At the beginning of the 1980s, inflation was deeply entrenched in the economy, in the sense that everyone expected high inflation not just in the near term but also for the foreseeable future; companies were setting prices and negotiating wage deals on the assumption of continued high inflation, creating a self-fulfilling inflationary spiral. It took a huge, sustained uptick in unemployment to break that spiral.

In 2008, by contrast, while people expected high inflation in the near future — probably because they were extrapolating from higher gasoline prices — their medium-to-long-term expectations about inflation remained fairly low:

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Inflation, not entrenchedCredit…University of Michigan 

So there wasn’t any inflationary spiral to break.

Where are we now? As that last chart shows, consumer inflation expectations now look a lot like those of 2008 and nothing at all like those of 1979 to ’80: The public now expects high inflation for the near term but a return to normal inflation after that. Financial markets, where you can extract implied inflation expectations from the spread between yields on bonds that are and aren’t indexed to consumer prices, are telling the same story: inflation today but not so much tomorrow.

In short, inflation doesn’t seem to be entrenched; 2022 isn’t 1980.

Nonetheless, I do expect to see some rise in unemployment. While we don’t seem to be in an inflationary spiral, many indicators suggest that the economy is currently running too hot to be consistent with price stability. Higher wages are good, but they seem to be rising at an unsustainable pace; unlike in 2008, inflation isn’t confined to a few areas, so that even measures that exclude the extremes are running high.

So the Fed has to do what it’s doing, raising interest rates to cool things down, and it’s hard to see how that cooling happens without at least some increase in the unemployment rate. Will the slowdown be sharp enough to be considered a recession? I don’t know, and the truth is nobody does. But it doesn’t really matter. We’re probably headed for a period of weakening labor markets while inflation is still elevated, and many commentators will surely proclaim that we’re experiencing stagflation.

But such proclamations, while technically true, will be misleading. When people hear “stagflation,” most think of the late 1970s and early ’80s — but there’s no evidence that we’re facing anything comparable now.

 

Siamo al ritorno della stagflazione?

Di Paul Krugman

 

Quando di questi tempi parlo a gruppi di imprese, la domanda che viene più frequentemente posta è: “Andiamo verso la stagflazione?” Sono quasi certo che costoro trovino la mia risposta insoddisfacente, perché dico loro che ciò dipende dalla loro definizione del termine.

Se essi lo intendono nel senso di un periodo di disoccupazione crescente combinata con un’inflazione ancora troppo alta, la risposta è che c’è una ottima possibilità che soffriremo di questa malattia almeno per pochi mesi. Ma se si riferiscono a qualcosa di simile alla sofferenza estrema che patimmo per venire fuori dagli anni ‘70, ciò appare improbabile.

Per spiegare la differenza, si considerino due episodi storici.

Per il primo, si guardi al periodo tra il 1979 e il 1980, che illustra quello che io sospetto le persone abbiano in mente quando parlano di stagflazione. Agli inizi del 1979 gli Stati Uniti avevano già una inflazione annuale del 9 per cento; la crescita dei prezzi del petrolio dopo la rivoluzione iraniana spedì l’inflazione ad un valore di due cifre. La Federal Reserve, sotto Paul Volcker, rispose con una drastica restrizione della politica monetaria, portando ad una recessione e ad una brusca crescita della disoccupazione:

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La stagflazione che ricordiamo. Fonte: FRED [1]

La recessione abbatté l’inflazione ma non a sufficienza, cosicché la Fed strinse le viti ulteriormente, spedendo l’economia in una recessione a due cifre (dalla tabella, non si vede). Questo finalmente fece calare l’inflazione a circa il 4 per cento, a quei tempi considerato accettabile, ma con un costo immenso: la disoccupazione arrivò ad un massimo del 10,8 per cento nel 1982 e non tornò ai livelli del 1979 fino al 1987.

Ora si osservi il periodo tra il 2007 e l’autunno del 2008, appena prima della caduta della Lehman Brothers. In apparenza, sembra qualcosa di simile, con una inflazione  sgradevolmente elevata, provocata dai prezzi crescenti del petrolio e di altre materie prime, e con una disoccupazione in crescita:

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Questa volta è stato diverso. Fonte.FRED

E un discreto numero di persone influenti si preoccupavano più dei prezzi fuori controllo che della recessione. Secondo il verbale dell’incontro dell’agosto 2008 della Commissione Federale a Mercato Aperto [della Fed], che stabilisce la politica monetaria, ci furono 322 menzioni del tema dell’inflazione e soltanto 28 di quello della disoccupazione.

Tuttavia, l’inflazione recedette in modo rapido. E mentre ci fu una grave recessione – ancora generalmente conosciuta come la Grande Recessione – essa non ebbe niente a che fare con il cacciar fuori l’inflazione dall’economia ed ebbe molto a che fare con le ricadute di una grave crisi finanziaria.

Quale fu la differenza tra quei due episodi? Agli inizi degli anni ’80 l’inflazione era profondamente radicata nell’economia, nel senso che ognuno si aspettava una inflazione elevata non solo nel breve termine, ma anche in un futuro prevedibile; le società fissavano prezzi e negoziavano accordi salariali sull’assunto della prosecuzione di un’inflazione elevata, creando un spirale inflazionistica che si auto avverava. Per rompere quella spirale, ci volle un grande, sostenuto aumento della disoccupazione.

All’opposto, nel 2008, mentre le persone si aspettavano nel prossimo futuro una inflazione elevata – probabilmente perché la deducevano dai prezzi più alti della benzina – le loro aspettative a medio-lungo termine sull’inflazione rimasero abbastanza basse:

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Una inflazione che non mette radici. Fonte: Università del Michigan [2]

Dunque, non ci fu alcuna spirale inflazionistica da interrompere.

A che punto siamo oggi? Come mostra l’ultima tabella, le aspettative di inflazione al consumo oggi appaiono molto simili a quelle del 2008 e per niente simili a quelle del 1979-1980: l’opinione pubblica oggi si aspetta alta inflazione nel breve termine ma, dopo quella, un ritorno ad una inflazione normale. I mercati finanziari, dove si possono dedurre le aspettative implicite di inflazione dalla differenza nei rendimenti sulle obbligazioni che sono o non sono indicizzate ai prezzi al consumo, raccontano a stessa storia: inflazione per l’oggi ma non altrettanto per domani.

In breve, l’inflazione non sembra radicata: il 2022 non è il 1980.

Ciononostante, mi aspetto in effetti di vedere una qualche crescita nella disoccupazione. Mentre non sembra siamo in una spirale inflazionistica, molti indicatori indicano che l’economia è attualmente troppo surriscaldata per essere compatibile con una stabilità dei prezzi. I salari più alti sono una cosa positiva, ma essi sembrano crescere ad un ritmo insostenibile; diversamente dal 2008, l’inflazione non è confinata a pochi settori, cosicché anche le misurazioni che escludono i dati estremi stanno correndo in alto.

Dunque, la Fed deve fare quello che sta facendo, elevare i tassi di interesse per raffreddare la situazione, ed è difficile vedere come quel raffreddamento possa avvenire senza almeno un qualche incremento del tasso di disoccupazione. Il rallentamento sarà talmente brusco da essere considerato [3] una recessione? Non lo so, e la verità è che non lo sa nessuno. Ma in realtà non è importante. Probabilmente ci stiamo indirizzando verso un periodo di indebolimento dei mercati del lavoro con l’inflazione che resta elevata, e molti commentatori di sicuro proclameranno che stiamo facendo i conti con la stagflazione.

Ma tali proclami, se anche tecnicamente veri, saranno fuorvianti. Quando le persone sentono parlare di “stagflazione”, la maggioranza pensa agli ultimi anno 70 ed ai primi anni ’80 – ma non c’è alcuna prova che adesso siamo di fronte a niente di paragonabile.

 

 

 

 

 

[1] Nel periodo dall’inizio del 1979 alla fine del 1980,  in rosso l’andamento della disoccupazione e in blu quello della crescita dei prezzi al consumo.

[2] La tabella mostra l’inflazione ‘attesa’ – in blu quella attesa entro un anno, in giallo quella attesa entro 5-10 anni – in tre periodi: a febbraio del 1980, a luglio del 2008 e ad aprile del 2022. Come si vede nei due episodi del 2008 – crisi finanziaria globale – e in quello attuale, l’attesa inflazionistica è minore ma soprattutto è assai diversa tra il breve termine e il termine medio-lungo.

[3] “Da essere considerato” perché tecnicamente una situazione di recessione si misura sulla base di alcuni dati oggettivi. Questi dati potrebbero registrare l’ingresso in una fase recessiva, anche se non fossero tali da mostrare un fenomeno duraturo o rilevante come in altre recessioni.

 

 

 

Come potrebbe avvenire – o non avvenire – una recessione, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 22 aprile 2022)

aprile 30, 2022

 

April 22, 2022

How a Recession Might — and Might Not — Happen

By Paul Krugman

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The U.S. economy is still very strong, with, for example, initial at their lowest point since 1969. Yet everyone is talking about recession. And the truth is that there is a significant chance of recession over the course of the next few years. But do people understand why?

Part of the answer is that there is always a chance of a recession in the near future, no matter what the current data look like. As the bumper stickers don’t quite say, stuff happens. There’s always a chance of, say, a financial crisis few saw coming or a war that disrupts world trade.

Our current situation, however, clearly creates elevated risks of recession, mainly because policymakers — mainly, in practice, the Federal Reserve — are trying to steer a course through opposing dangers. They could pull it off — in fact, my guess is that they will. But they might not. And here’s the thing: The kind of recession we have, if we do have one, will depend on which way the Fed gets it wrong.

Where are we right now? Inflation is, of course, unacceptably high. Some of this reflects disruptions — supply-chain problems, surging food and energy prices from the war in Ukraine — that are likely to fade away over time. In fact, I’d argue that these temporary factors account for a majority of inflation, which is why just about every major economy is experiencing its highest inflation rate in decades.

But inflation, which used to be mainly confined to a few sectors strongly affected by the pandemic, has broadened. So I find myself in reluctant agreement with economists asserting that the U.S. economy is overheated — that overall demand exceeds productive capacity and that the two need to be brought in line.

The good news is that there’s essentially no evidence that inflation has become entrenched — that we’re in the situation we were in circa 1980, when inflation persisted simply because everyone expected it to persist. Every measure I can find shows that people expect high inflation for the next year but much lower inflation over the medium term, indicating that Americans still view low inflation as the norm. Here, for example, are results from the New York Fed survey of consumer expectations:

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Inflation, still not entrenched.Credit…Federal Reserve Bank of New York

An aside: I wish people would stop talking about a “wage-price spiral.” Such a spiral is supposed to happen when workers demand higher wages because they believe they deserve compensation for a rising cost of living. Ask yourself: Does this sound like the America we live in these days? Who, exactly, are these workers who are demanding what they believe they deserve? We’ve become a country in which workers take what they can get, and employers pay what they must. In such a country, the whole wage-price spiral narrative makes no sense.

But back to the current situation. The fact that inflation is not yet entrenched offers the possibility of a soft landing. I’d schematically represent where we are and what should happen like this:

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This is what should happen. Credit…Author’s imagination

 

In the figure, potential G.D.P. is the level of output consistent with an acceptable rate of inflation — a level that grows over time. I agree — reluctantly, as I said — that we’re currently above that level. But we can close that gap without having a recession simply by slowing growth, while letting potential G.D.P. catch up. As long as inflation isn’t entrenched in expectations and temporary disruptions fade away, closing the gap should bring inflation down to an acceptable rate.

Why do I call this the “Goldilocks path”? Because, as the next figure shows, policy can err in either direction:

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But there are two ways it could go wrong.Credit…Author’s imagination

 

One possibility, which has been the subject of many, many rants from inflation hawks, is that the Fed is moving too slowly, that the economy will run too hot for too long — the red path in the figure — and that inflation will become entrenched. At that point, bringing the inflation rate down would require putting the economy through the wringer, the way Paul Volcker did in the 1980s, when it took years of extremely high unemployment to undo the inflationary legacy of the 1970s. That is, inadequate tightening by the Fed would set the stage for a nasty recession down the pike.

But there’s another possibility, which if you ask me isn’t getting enough attention. Namely, that the Fed will move, or maybe already has moved, too fast and that the economy will cool off much more than necessary. In that case — shown by the blue path in the figure — we could have an unnecessary recession, one that could develop quite quickly.

Why worry about this possibility? After all, so far the Fed hasn’t done much in the way of concrete action: It has raised the interest rate it controls by only a quarter of a percentage point. But the longer-term interest rates that matter for the real economy, especially mortgage rates, have already soared based on the expectation that there will be many more rate hikes to come:

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The big squeeze has begun. Credit…FRED

As a practical matter, then, the Fed has already done a lot to cool off the economy. Has it done enough? Has it done too much? That’s really hard to say.

After all, there’s a reason I used schematic figures rather than real numbers to make my argument in today’s newsletter. Most, though not all, macroeconomists seem to agree that the economy is at least somewhat overheated. But there’s no consensus on how much. Nor do we really know how much the rise in interest rates will slow the economy. And these uncertainties make the Fed’s job really hard right now.

What we do know, or at least what I’d argue, is that there is a path through this difficult moment that needn’t involve a recession. And while the Fed can get it wrong — and will almost surely get it wrong to some degree, because these are tricky times — it can get things wrong in either direction. Right now I am, if anything, worried that the Fed is overreacting to inflation. But time will tell.

 

Come potrebbe avvenire – o non avvenire – una recessione,

di Paul Krugman

 

L’economia statunitense è ancora molto forte, come mostrano ad esempio le richieste di assicurazione per la disoccupazione al loro punto più basso dal 1969. Tuttavia tutti parlano di recessione. E la verità è che c’è una significativa possibilità di recessione nel corso dei prossimi anni. Ma le persone comprendono quale è la causa?

In parte la risposta è che c’è sempre una possibilità di recessione nel prossimo futuro, a prescindere da quello che mostrano i dati attuali. Come non ricordano a sufficienza gli adesivi sui paraurti, gli incidenti accadono. C’è sempre la possibilità, ad esempio, di una crisi finanziaria che in pochi avevano visto arrivare o di una guerra che blocca il commercio mondiale.

La nostra situazione attuale, tuttavia, genera chiaramente elevati rischi di recessione principalmente perché le autorità – in pratica, soprattutto la Federal Reserve – stanno cercando di seguire una rotta in mezzo a pericoli opposti. Potrebbero farcela – di fatto, la mia idea è che ce la faranno. Ma potrebbero non farcela. E lì è il punto: il genere di recessione che avremo, se ne avremo una, dipenderà dal modo in cui la Fed farà la cosa sbagliata.

A che punto siamo adesso? L’inflazione, evidentemente è inaccettabilmente elevata. In parte questo riflette perturbazioni – problemi nelle catene dell’offerta, crescita dei prezzi dei generi alimentari e dell’energia a seguito della guerra in Ucraina – che è probabile svaniscano con il tempo. Di fatto, penserei che questi fattori temporanei giustificano la maggior parte dell’inflazione, che è la ragione per la quale quasi tutte le economie importanti stanno conoscendo il tasso di inflazione più elevato da decenni.

Ma l’inflazione, che di solito era principalmente confinata a pochi settori fortemente influenzati dalla pandemia, si è allargata. Dunque mi ritrovo seppur riluttante d’accordo con gli economisti che sostengono che l’economia statunitense è surriscaldata – che la domanda complessiva eccede la capacità produttiva e che i due fattori debbono essere rimessi in linea.

La buona notizia è che non c’è sostanzialmente nessuna prova che l’inflazione stia mettendo radici – nessuna prova che siamo in una situazione come quella in cui eravamo circa nel 1980, quando l’inflazione persisteva semplicemente perché tutti si aspettavano che persistesse. Ogni misura che posso raccogliere dimostra che le persone si aspettano una inflazione elevata per il prossimo anno ma una inflazione più bassa nel medio termine, indicando che gli americani ancora considerano la bassa inflazione come la regola. Ecco, ad esempio, i risultati di una sondaggio della Fed di New York sulle aspettative dei consumatori:

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L’inflazione ancora non mette radici. Fonte: Banca di New York della Fed [1]

Un inciso: mi piacerebbe che le persone smettessero di parlare di una “spirale salari prezzi”. Un tale spirale si suppone che avvenga quando i lavoratori chiedono salari più alti perché credono di meritare un compenso per il costo della vita crescente. Chiedetevi: questo assomiglia all’America nella quale viviamo di questi tempi? Chi sono, esattamente, questi lavoratori che stanno chiedendo quello che credono di meritare? Noi siamo diventati un paese nel quale i lavoratori prendono quello che possono avere, e i datori di lavoro pagano quello che debbono. In un paese del genere, tutto il racconto sulla spirale tra salari e prezzi perde di senso.

Ma torniamo alla situazione attuale. Il fatto che l’inflazione non abbia ancora messo radici, fornisce la possibilità di un atterraggio morbido. Schematicamente rappresento il punto in cui siamo e quello che dovrebbe accadere nel modo seguente:

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Questo è quello che dovrebbe accadere. Fonte: immaginazione dell’autore [2]

Nella tabella, il PIL potenziale è il livello di produzione coerente con un tasso di inflazione accettabile – un livello che cresce nel corso del tempo. Concordo – come ho detto, con riluttanza – che noi siamo attualmente sopra quel livello. Ma possiamo chiudere quel divario semplicemente rallentando la crescita, facendo in modo di raggiungere la linea del PIL potenziale. Finché l’inflazione non mette radici nelle aspettative e i turbamenti temporanei svaniscono, chiudere quel divario dovrebbe portare l’inflazione al di sotto di un tasso accettabile.

Perché lo definisco il “sentiero di Riccioli d’Oro”? Perché, come mostra la tabella successiva, la politica può sbagliare in ambedue le direzioni:

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Ma ci sono due modi nei quali si potrebbe sbagliare. Fonte: ancora immaginazione dell’autore

Una possibilità, che è il tema di moltissime invettive dei falchi dell’inflazione, è che la Fed si stia muovendo troppo lentamente, e che l’economia continui ad essere surriscaldata per troppo tempo –  la linea rossa nella tabella – e che l’inflazione metta radici. A quel punto, portare in basso il tasso di inflazione comporterebbe far passare all’economia le pene dell’inferno, come fece Paul Volcker negli anni ’80, quando ci vollero anni di disoccupazione estremamente elevata per liberarsi dall’eredità inflazionistica degli anni ’70. Ovvero, una restrizione inadeguata da parte dela Fed sarebbe la premessa per il palesarsi di una grave recessione.

Ma c’è un’altra possibilità, che secondo me non sta ottenendo adeguata attenzione. Precisamente, che la Fed si muoverà, se non si è già mossa, troppo velocemente e che l’economia si raffredderà molto più del necessario. In quel caso – mostrato dalla linea blu nella tabella – potremmo avere una recessione non necessaria, e quella potrebbe svilupparsi abbastanza rapidamente.

Perché preoccuparci di questa possibilità? Dopo tutto, sinora la Fed non ha fatto granché come iniziativa concreta: ha elevato il tasso di interesse che essa controlla solo di una quarto di punto percentuale. Ma i tassi di interesse che contano per l’economia reale, sono già schizzati in alto basandosi sull’aspettativa che arriveranno molti altri rialzi dei tassi:

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La grande stretta è cominciata. Fonte: FRED

Da un punto di vista pratico, dunque, la Fed ha già fatto molto per raffreddare l’economia. Ha fatto abbastanza? Ha fatto troppo? Questo è veramente difficile da dire.

Dopo tutto, c’è una ragione per la quale ho usato rappresentazioni schematiche piuttosto che dati reali per sostenere il mio attuale argomento. La maggior parte, per quanto non tutti, dei macroeconomisti paiono d’accordo nel sostenere che l’economia è almeno un po’ surriscaldata. Ma non c’è accordo su quanto lo sia. In realtà, noi non sappiamo neppure quanto la crescita nei tassi di interesse rallenterà l’economia. E queste incertezze rendono in questo momento il lavoro della Fed davvero difficile.

Quello che sappiamo, o almeno quello che io sosterrei, è che esiste una strada per superare questo difficile momento che non comporta necessariamente una recessione. E mentre la Fed può sbagliare – e quasi certamente in una certa misura sbaglierà, perché questi sono tempi difficili – essa può fare cose sbagliate in entrambe le direzioni. In questo momento, semmai, io sono preoccupato che la Fed stia reagendo in eccesso all’inflazione. Ma lo dirà il tempo.

 

 

 

 

 

[1] In blu il tasso di inflazione medio atteso nel prossimo anno, in rosso nel prossimi tre anni.

[2] La linea curva è il PIL potenziale, normalmente in crescita. Il cerchietto giallo è la situazione attuale. La correzione introdotta dal “sentiero di Riccioli d’Oro” (“Goldilocks path”, dalla favola che in italiano traduciamo con ‘Riccioli d’Oro’) indica un rallentamento della crescita che dovrebbe portare la situazione a coincidere con l’evoluzione del PIL potenziale.

Quanto alla ragione per la quale la ‘correzione’ viene assimilata a Riccioli d’Oro, credo che questa dipenda dal fatto che – nella favola – la ragazzina, una volta entrata nella tana degli orsetti, era continuamente alla prese con l’interrogativo se quello che trovava in quella tana, per i suoi gusti, era ‘troppo’ o ‘troppo poco’. Ovvero: il sentiero di Riccioli d’Oro è afflitto in permanenza da una incertezza sulla misura delle cose da scegliere … come la Fed.

 

 

 

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