Articoli sul NYT

Articoli sul New York Times dal 18 giugno 2009 al 31 dicembre 2009

 

Out of the Shadows

By PAUL KRUGMAN

Published: June 18, 2009

Would the Obama administration’s plan for financial reform do what has to be done? Yes and no.

Yes, the plan would plug some big holes in regulation. But as described, it wouldn’t end the skewed incentives that made the current crisis inevitable.

 

Let’s start with the good news.

Our current system of financial regulation dates back to a time when everything that functioned as a bank looked like a bank. As long as you regulated big marble buildings with rows of tellers, you pretty much had things nailed down.

 

But today you don’t have to look like a bank to be a bank. As Tim Geithner, the Treasury secretary, put it in a widely cited speech last summer, banking is anything that involves financing “long-term risky and relatively illiquid assets” with “very short-term liabilities.” Cases in point: Bear Stearns and Lehman, both of which financed large investments in risky securities primarily with short-term borrowing.

 

And as Mr. Geithner pointed out, by 2007 more than half of America’s banking, in this sense, was being handled by a “parallel financial system” — others call it “shadow banking” — of largely unregulated institutions. These non-bank banks, he ruefully noted, were “vulnerable to a classic type of run, but without the protections such as deposit insurance that the banking system has in place to reduce such risks.”

 

 

When Lehman fell, we learned just how vulnerable shadow banking was: a global run on the system brought the world economy to its knees.

 

One thing financial reform must do, then, is bring non-bank banking out of the shadows.

 

The Obama plan does this by giving the Federal Reserve the power to regulate any large financial institution it deems “systemically important” — that is, able to create havoc if it fails — whether or not that institution is a traditional bank. Such institutions would be required to hold relatively large amounts of capital to cover possible losses, relatively large amounts of cash to cover possible demands from creditors, and so on.

 

 

 

And the government would have the authority to seize such institutions if they appear insolvent — the kind of power that the Federal Deposit Insurance Corporation already has with regard to traditional banks, but that has been lacking with regard to institutions like Lehman or A.I.G.

Good stuff. But what about the broader problem of financial excess?

 

President Obama’s speech outlining the financial plan described the underlying problem very well. Wall Street developed a “culture of irresponsibility,” the president said. Lenders didn’t hold on to their loans, but instead sold them off to be repackaged into securities, which in turn were sold to investors who didn’t understand what they were buying. “Meanwhile,” he said, “executive compensation — unmoored from long-term performance or even reality — rewarded recklessness rather than responsibility.”

 

Unfortunately, the plan as released doesn’t live up to the diagnosis.

True, the proposed new Consumer Financial Protection Agency would help control abusive lending. And the proposal that lenders be required to hold on to 5 percent of their loans, rather than selling everything off to be repackaged, would provide some incentive to lend responsibly.

 

 

But 5 percent isn’t enough to deter much risky lending, given the huge rewards to financial executives who book short-term profits. So what should be done about those rewards?

 

Tellingly, the administration’s executive summary of its proposals highlights “compensation practices” as a key cause of the crisis, but then fails to say anything about addressing those practices. The long-form version says more, but what it says — “Federal regulators should issue standards and guidelines to better align executive compensation practices of financial firms with long-term shareholder value” — is a description of what should happen, rather than a plan to make it happen.

 

 

Furthermore, the plan says very little of substance about reforming the rating agencies, whose willingness to give a seal of approval to dubious securities played an important role in creating the mess we’re in.

 

In short, Mr. Obama has a clear vision of what went wrong, but aside from regulating shadow banking — no small thing, to be sure — his plan basically punts on the question of how to keep it from happening all over again, pushing the hard decisions off to future regulators.

 

I’m aware of the political realities: getting financial reform through Congress won’t be easy. And even as it stands the Obama plan would be a lot better than nothing.

 

But to live up to its own analysis, the Obama administration needs to come down harder on the rating agencies and, even more important, get much more specific about reforming the way bankers are paid.

 

“Fuori dalle ombre” di Paul Krugman

New York Times 18 giugno 2009

 

Riuscirà il piano di riforma finanziaria della amministrazione Obama a produrre gli effetti che deve produrre? Si e no.

Da una parte, il piano tapperà qualche grossa buca nel sistema regolamentare. Ma così come è stato descritto, esso non riuscirà a fermare quel sistema distorcente di incentivi[1] che hanno reso la crisi inevitabile.

Ma cominciamo con le buone notizie.

Il nostro sistema di regolamentazione finanziaria risale ad un epoca nella quale tutto ciò che funzionava come una banca, veniva trattato come una banca. Finchè si trattò di regolare grandi palazzi di marmo con file di cassieri, tutto scorreva abbastanza regolarmente[2].

Ma oggi non potete considerare una banca come se fosse una banca. Come ha dichiarato Tim Geithner in un discorso ampiamente ripreso della scorsa estate, il sistema bancario è qualcosa che attiene al finanziamento “di attività relativamente illiquide e rischiose nel lungo termine” con “passività nel brevissimo termine”. Sono i casi in questione: Bear Stearns e Lehman, entrambe le quali hanno finanziato grandi investimenti in titoli rischiosi attraverso risorse prese a termine nel breve termine.

E come Geithner ha sottolineato a conferma di ciò, dal 2007 più della metà delle attività bancarie americane sono state gestite da un “sistema finanziario parallelo” – che altri chiamano “sistema finanziario ombra” – composto da istituti del tutto privi di regolamentazione. Queste ‘banche-non-banche’, ha notato con una certa rassegnazione, erano “vulnerabili come in una gestione di tipo classico, ma senza quelle protezioni quali i depositi assicurativi che il sistema bancario pone in essere per ridurre tali rischi”.

Quando Lehman precipitò, noi ci rendemmo conto di quanto quel sistema bancario ombra fosse per davvero vulnerabile: la dimensione globale del sistema[3] mise in ginocchio l’economia del mondo intero.

Un obbiettivo che la riforma del sistema finanziaria si deve proporre, dunque, è quello di portare questo sistema di banche che non sono banche, fuori dalle ombre.

Il piano di Obama ottiene questo risultato dando alla Federal Reserve il potere di regolamentare ogni rilevante istituto finanziario a cui essa attribuisca “importanza sistemica” – ovvero che sia nelle condizioni, nel momento in cui fallisce, di provocare un disastro generale[4] – che sia o no un istituto del genere di una banca tradizionale. A questi istituti verrebbe richiesto di detenere una disponibilità relativamente cospicua di capitale per coprire possibili perdite, una disponibilità relativamente cospicua di contante per coprire le possibili richieste dei creditori, e così via.

E il governo avrebbe l’autorità di confiscare questi istituti nel momento in cui essi apparissero insolventi, quel genere di potere che la Federal Deposit Insurance Corporation[5] ha già nel riguardo delle banche tradizionali, ma che mancava nei confronti di istituti come Lehman e A.I.G.

Un buona cosa[6]. Ma cosa è previsto a proposito del problema più generale degli eccessi finanziari?

Il discorso con il quale Obama ha illustrato il piano finanziario, descrive molto bene il problema fondamentale. Wall Street ha sviluppato una “cultura della irresponsabilità”, ha detto il Presidente. Chi concedeva denaro non ha seguito con cura[7] i propri prestiti, piuttosto li ha smaltiti[8] affinchè fossero “impacchettati” in titoli, che a loro volta sono stati venduti a investitori che non sapevano cosa stessero acquistando. “Nel frattempo”, egli ha detto, “i compensi ai dirigenti – scollegati dal risultato nel lungo periodo e persino dalla realtà  – premiavano l’avventatezza piuttosto che la responsabilità”.

Sfortunatamente, il piano, così come è stato illustrato, non è al livello della diagnosi.

E’ vero, la proposta della nuova Agenzia per la tutela del consumatore finanziario aiuterebbe a mettere sotto controllo le forme distorte di credito. E la proposta per la quale gli istituti di credito sono tenuti a tenere presso di sé il 5 per cento dei propri prestiti, piuttosto che vendere tutto in le operazioni di ‘impacchettamento’ in titoli, fornirebbe un qualche incentivo alla responsabilità creditizia.

Ma il 5 per cento non può essere un deterrente sufficiente per i prestiti al elevato rischio, dati gli enormi compensi ai dirigenti del settore finanziario che registrano profitti a breve termine. Che cosa, dunque, si dovrebbe fare per questi compensi?

In modo espressivo[9], il riassunto delle proposte da parte del dirigente della amministrazione mette in evidenza come le “pratiche di definizione dei compensi” siano state cause fondamentali della crisi, dopodiché manca di dire alcunché su come aggredire[10] queste pratiche. La versione integrale dice di più, ma quello che dice – “la vigilanza federale dovrebbe fissare standards e linee guida che correlino in modo migliore le pratiche dei compensi ai dirigenti delle imprese finanziarie, all’utilità di lungo periodo degli azionisti” – appare una descrizione di quello che dovrebbe avvenire, piuttosto che un programma che lo renda possibile.

Inoltre, il piano dice molto poco a proposito della riforma delle agenzie di rating, la cui disponibilità a mettere il timbro dell’approvazione su titoli dubbi ha giocato un ruolo importante nel determinare il caos nel quale siamo finiti.

In breve, Obama mostra una visione chiara di ciò che c’è stato di sbagliato, ma lungi dal dare regole al sistema bancario ‘ombra’ – che, si può star certi, non è di piccole dimensioni – il suo piano si concentra sulla questione di come impedire una sua generalizzazione[11], rimettendo a future regole le decisioni più difficili.

Sono consapevole della realtà politica: far approvare al Congresso la riforma finanziaria non sarà facile. E con tutto ciò[12], il piano di Obama sarebbe molto meglio di niente.

Eppure, per essere conseguente alle sue stesse analisi, il piano di Obama ha bisogno di prendere di petto[13] in modo più efficace la questione delle agenzie di rating e, ancora più importante, di conseguire un risultato concreto sulla riforma dei modi nei quali i banchieri sono pagati. 

 

 


 

Health Care Showdown

By PAUL KRUGMAN

Published: June 22, 2009

America’s political scene has changed immensely since the last time a Democratic president tried to reform health care. So has the health care picture: with costs soaring and insurance dwindling, nobody can now say with a straight face that the U.S. health care system is O.K. And if surveys like the New York Times/CBS News poll released last weekend are any indication, voters are ready for major change.

 

 

 

The question now is whether we will nonetheless fail to get that change, because a handful of Democratic senators are still determined to party like it’s 1993.

 

And yes, I mean Democratic senators. The Republicans, with a few possible exceptions, have decided to do all they can to make the Obama administration a failure. Their role in the health care debate is purely that of spoilers who keep shouting the old slogans — Government-run health care! Socialism! Europe! — hoping that someone still cares.

 

 

The polls suggest that hardly anyone does. Voters, it seems, strongly favor a universal guarantee of coverage, and they mostly accept the idea that higher taxes may be needed to achieve that guarantee. What’s more, they overwhelmingly favor precisely the feature of Democratic plans that Republicans denounce most fiercely as “socialized medicine” — the creation of a public health insurance option that competes with private insurers.

 

 

 

Or to put it another way, in effect voters support the health care plan jointly released by three House committees last week, which relies on a combination of subsidies and regulation to achieve universal coverage, and introduces a public plan to compete with insurers and hold down costs.

 

 

Yet it remains all too possible that health care reform will fail, as it has so many times before.

I’m not that worried about the issue of costs. Yes, the Congressional Budget Office’s preliminary cost estimates for Senate plans were higher than expected, and caused considerable consternation last week. But the fundamental fact is that we can afford universal health insurance — even those high estimates were less than the $1.8 trillion cost of the Bush tax cuts. Furthermore, Democratic leaders know that they have to pass a health care bill for the sake of their own survival. One way or another, the numbers will be brought in line.

 

 

The real risk is that health care reform will be undermined by “centrist” Democratic senators who either prevent the passage of a bill or insist on watering down key elements of reform. I use scare quotes around “centrist,” by the way, because if the center means the position held by most Americans, the self-proclaimed centrists are in fact way out in right field.

 

 

What the balking Democrats seem most determined to do is to kill the public option, either by eliminating it or by carrying out a bait-and-switch, replacing a true public option with something meaningless. For the record, neither regional health cooperatives nor state-level public plans, both of which have been proposed as alternatives, would have the financial stability and bargaining power needed to bring down health care costs.

 

 

Whatever may be motivating these Democrats, they don’t seem able to explain their reasons in public.

Thus Senator Ben Nelson of Nebraska initially declared that the public option — which, remember, has overwhelming popular support — was a “deal-breaker.” Why? Because he didn’t think private insurers could compete: “At the end of the day, the public plan wins the day.” Um, isn’t the purpose of health care reform to protect American citizens, not insurance companies?

 

 

Mr. Nelson softened his stand after reform advocates began a public campaign targeting him for his position on the public option.

 

And Senator Kent Conrad of North Dakota offers a perfectly circular argument: we can’t have the public option, because if we do, health care reform won’t get the votes of senators like him. “In a 60-vote environment,” he says (implicitly rejecting the idea, embraced by President Obama, of bypassing the filibuster if necessary), “you’ve got to attract some Republicans as well as holding virtually all the Democrats together, and that, I don’t believe, is possible with a pure public option.”

 

 

Honestly, I don’t know what these Democrats are trying to achieve. Yes, some of the balking senators receive large campaign contributions from the medical-industrial complex — but who in politics doesn’t? If I had to guess, I’d say that what’s really going on is that relatively conservative Democrats still cling to the old dream of becoming kingmakers, of recreating the bipartisan center that used to run America.

 

 

But this fantasy can’t be allowed to stand in the way of giving America the health care reform it needs. This time, the alleged center must not hold.

 

“Assistenza sanitaria: il regolamento dei conti” di Paul Krugman

New York Times 22 giugno 2009

La scena politica americana è cambiata immensamente dall’ultima volta nella quale un Presidente democratico provò a riformare l’assistenza sanitaria. E’ anche cambiata l’immagine che la assistenza sanitaria offre di sé: con i costi che crescono e l’assicurazione che diminuisce, oggi nessuno può dire, restando impassibile, che il sistema della assistenza sanitaria degli Stati Uniti vada bene. E se indagini come il sondaggio  del New York Times e di CBS News  pubblicato la scorsa settimana sono in qualche modo indicativi, gli elettori sono pronti per un cambiamento di fondo.

La questione adesso è se, nonostante tutto ciò, riusciremo a mancare l’appuntamento con quel cambiamento, a causa di una manciata di senatori democratici che potrebbero aver deciso di far festa come nel 1993[14].

In effetti, mi riferisco ai senatori Democratici. I Repubblicani, con poche possibili eccezioni, hanno deciso di fare tutto quello che è nelle loro possibilità per provocare una sconfitta alla amministrazione Obama. Il loro ruolo nel dibattito sulla assistenza sanitaria è puramente quello dei guastatori[15] che continuano a gridare vecchi slogan – “Sanità statalizzata! Socialismo! Europa!” – sperando che a qualcuno ancora interessino.

Il sondaggio suggerisce cose che non ci si sarebbe aspettati. Gli elettori, a quanto pare, sono a favore di una garanzia universale di copertura, e gran parte di loro accetta l’idea che tasse più elevate potrebbero essere necessarie per ottenere tale garanzia. Più ancora, essi si pronunciano in modo schiacciante a favore precisamente di quella linea di fondo dei programmi dei Democratici[16]  che i Repubblicani  denunciano più accanitamente come “medicina socializzata”, vale a dire l’istituzione di una opzione assicurativa sanitaria pubblica che sia in competizione con le assicurazioni private.

Per dirla in altro modo, gli elettori effettivamente sostengono il piano di assistenza sanitaria congiuntamente approvato da tre Commissioni della Camera la scorsa settimana, che consiste in una combinazione di sussidi e di regole volte ad ottenere una copertura universale, e introduce un programma pubblico allo scopo di competere con gli assicuratori e tener bassi i costi.

Tuttavia rimane ancora del tutto possibile che la riforma della assistenza sanitaria sia sconfitta, come accadde molto tempo fa.

Io non sono così proccupato della questione dei costi. E’ vero, le stime preliminari del Congressional Budget Office per i programmi all’attenzione del  Senato sono risultate più alte di quanto ci si sarebbe aspettato, ed hanno provocato la scorsa settimana una considerevole costernazione. Ma il fatto fondamentale è che noi possiamo permetterci un sistema assicurativo sanitario di tipo universale; persino quelle stime elevate sono inferiori al costo di mille e ottocento miliardi di dollari dei tagli fiscali di Bush. Per di più, i dirigenti democratici sanno che devono approvare una proposta di legge per la assistenza sanitaria nell’interesse della loro stessa sopravvivenza. In un modo o nell’altro, i numeri verranno rimessi in riga.

Il rischio vero è che la riforma della assistenza sanitaria sia messa a repentaglio dai Senatori democratici “centristi”, sia che impediscano il passaggio della legge, sia che insistano per annacquare gli aspetti centrali della riforma. Tra parentesi, io utilizzo le virgolette con un certo sgomento[17] sulla parola “centristi”, giacché se il centro significa la posizione tenuta dalla maggior parte degli americani, i sedicenti centristi sono di fatto finiti nel campo della destra.

Quello che i democratici ‘recalcitranti’[18] sembrano per lo più intenzionati a fare è eliminare la opzione pubblica, o sopprimendola o utilizzando uno specchietto per le allodole[19], ovvero rimpiazzando la opzione pubblica con una soluzione priva di significato. Per memoria[20], né cooperative sanitarie regionali né programmi pubblici al livello degli Stati, entrambe le soluzioni che sono state proposte come alternative, avrebbero la stabilità finanziaria e il potere contrattuale necessario per abbassare i costi della assistenza sanitaria.

Qualsiasi possa essere la motivazione di questi democratici, essi non sembrano nelle condizioni di spiegare le loro ragioni pubblicamente.

Così, il Senatore Ben Nelson del Nebraska inizialmente aveva affermato che l’opzione pubblica – che, ricordate, ha un sostegno popolare di gran lunga prevalente – sarebbe stata “un impedimento ad ogni accordo[21]”. E come mai? Perchè egli pensa che per gli assicuratori privati non ci sarebbe competizione. “Alla fine dei giochi, vince il piano pubblico[22]”. Ma l’obbiettivo della riforma della assistenza sanitaria è quello di proteggere i cittadini americani o le compagnie assicuratrici?

Nelson ha attenuato la sua posizione, dopo che i sostenitori della riforma sanitaria l’hanno messo all’indice per la sua posizione sulla opzione pubblica.

A sua volta, il Senatore Kent Konrad del Nord Dakota ha offerto una argomentazione perfettamente circolare: non possiamo avere l’opzione pubblica, perché se lo facessimo, la riforma della assistenza sanitaria non avrebbe i voti dei senatori come lui. “Con un sistema basato sui 60 voti” egli dice (implicitamente rigettando l’idea, fatta propria da Obama, di mettere da parte l’ostruzionismo, se necessario) “è necessario aver ottenuto qualche consenso dei repubblicani oltre ad aver tenuti uniti, in pratica, i Democratici. E questo io non credo che sia possibile con un’opzione pubblica pura”.

Onestamente, io non so cosa questi democratici stiano cercando di ottenere. E’ vero, alcuni tra questi senatori ‘recalcitranti’ ricevono generosi contributi elettorali dal sistema  farmaceutico ed assicurativo[23], ma chi non lo fa nel mondo politico? Se devo avanzare una supposizione, direi che quello che sta realmente accadendo è che i Democratici con tendenze conservatrici[24] sono ancora affezionati al vecchio sogno di diventare il gruppo più influente[25], ricreando quel centro bipartisan che ha a lungo governato l’America.

Ma non si può consentire a questa fantasia di ostacolare il cammino della riforma sanitaria che serve all’America. Questa volta, il centro presunto  non deve far presa.

 

 

 


 

Not Enough Audacity

By PAUL KRUGMAN

Published: June 25, 2009

When it comes to domestic policy, there are two Barack Obamas.

On one side there’s Barack the Policy Wonk, whose command of the issues — and ability to explain those issues in plain English — is a joy to behold.

But on the other side there’s Barack the Post-Partisan, who searches for common ground where none exists, and whose negotiations with himself lead to policies that are far too weak.

 

Both Baracks were on display in the president’s press conference earlier this week. First, Mr. Obama offered a crystal-clear explanation of the case for health care reform, and especially of the case for a public option competing with private insurers. “If private insurers say that the marketplace provides the best quality health care, if they tell us that they’re offering a good deal,” he asked, “then why is it that the government, which they say can’t run anything, suddenly is going to drive them out of business? That’s not logical.”

 

 

 

But when asked whether the public option was non-negotiable he waffled, declaring that there are no “lines in the sand.” That evening, Rahm Emanuel met with Democratic senators and told them — well, it’s not clear what he said. Initial reports had him declaring willingness to abandon the public option, but Senator Kent Conrad’s staff later denied that. Still, the impression everyone got was of a White House all too eager to make concessions.

 

 

The big question here is whether health care is about to go the way of the stimulus bill.

 

 

At the beginning of this year, you may remember, Mr. Obama made an eloquent case for a strong economic stimulus — then delivered a proposal falling well short of what independent analysts (and, I suspect, his own economists) considered necessary. The goal, presumably, was to attract bipartisan support. But in the event, Mr. Obama was able to pick up only three Senate Republicans by making a plan that was already too weak even weaker.

 

At the time, some of us warned about what might happen: if unemployment surpassed the administration’s optimistic projections, Republicans wouldn’t accept the need for more stimulus. Instead, they’d declare the whole economic policy a failure. And that’s exactly how it’s playing out. With the unemployment rate now almost certain to pass 10 percent, there’s an overwhelming economic case for more stimulus. But as a political matter it’s going to be harder, not easier, to get that extra stimulus now than it would have been to get the plan right in the first place.

 

 

 

The point is that if you’re making big policy changes, the final form of the policy has to be good enough to do the job. You might think that half a loaf is always better than none — but it isn’t if the failure of half-measures ends up discrediting your whole policy approach.

 

 

Which brings us back to health care. It would be a crushing blow to progressive hopes if Mr. Obama doesn’t succeed in getting some form of universal care through Congress. But even so, reform isn’t worth having if you can only get it on terms so compromised that it’s doomed to fail.

 

What will determine the success or failure of reform? Above all, the success of reform depends on successful cost control. We really, really don’t want to get into a position a few years from now where premiums are rising rapidly, many Americans are priced out of the insurance market despite government subsidies, and the cost of health care subsidies is a growing strain on the budget.

 

 

 

And that’s why the public plan is an important part of reform: it would help keep costs down through a combination of low overhead and bargaining power. That’s not an abstract hypothesis, it’s a conclusion based on solid experience. Currently, Medicare has much lower administrative costs than private insurance companies, while federal health care programs other than Medicare (which isn’t allowed to bargain over drug prices) pay much less for prescription drugs than non-federal buyers. There’s every reason to believe that a public option could achieve similar savings.

 

 

 

Indeed, the prospects for such savings are precisely what have the opponents of a public plan so terrified. Mr. Obama was right: if they really believed their own rhetoric about government waste and inefficiency, they wouldn’t be so worried that the public option would put private insurers out of business. Behind the boilerplate about big government, rationing and all that lies the real concern: fear that the public plan would succeed.

 

 

So Mr. Obama and Democrats in Congress have to hang tough — no more gratuitous giveaways in the attempt to sound reasonable. And reform advocates have to keep up the pressure to stay on track. Yes, the perfect is the enemy of the good; but so is the not-good-enough-to-work. Health reform has to be done right.

 

“Non abbastanza audace” di Paul Krugman

New York Times 25 giugno 2009

 

Quando si viene alla politica interna, ci sono due Barack Obama.

Da una parte c’è il Barack Politico Sgobbone[26], la cui padronanza dei problemi – e la cui abilità nello spiegarli in un inglese semplice –  è uno spettacolo a vedersi[27].

Ma dall’altra parte c’è il Barack-Oltre-le-Fazioni[28], che è alla continua ricerca di un terreno di condivisione dove in realtà non esiste nulla, e i cui negoziati con se stesso portano a politiche che sono assolutamente troppo deboli.

Entrambi i Barack sono stati messi in mostra[29] nella conferenza stampa presidenziale agli inizi di questa settimana. Nel primo caso, Obama ha offerto una spiegazione cristallina della questione della riforma della assistenza sanitaria, e specialmente del punto relativo alla opzione pubblica in competizione con gli assicuratori privati. “Se gli assicuratori privati sostengono che il mercato fornisce una assistenza sanitaria della migliore qualità, se essi ci dicono che stanno offrendo una buona intesa”, ha chiesto, “allora come succede che il governo, che secondo loro non è nelle condizioni di far funzionare niente, improvvisamente si accinge a metterli fuori dagli affari. Non c’è logica”.

Ma quando gli è stato chiesto se l’opzione pubblica fosse non negoziabile, ha cominciato a ondeggiare[30], dichiarando che non c’erano “righe tracciate sulla sabbia[31]”. La sera stessa, Raham Emanuel si è incontrato con dei Senatori democratici e ha detto loro che, in effetti, non era chiaro cosa avesse voluto dire. I resoconti iniziali gli hanno attribuito la disponibilità ad abbandonare l’opzione pubblica, ma successivamente lo staff del Senatore Kent Conrad ha negato la circostanza. Tuttavia, ognuno si è fatto l’impressione di una Casa Bianca anche troppo disposta a fare concessioni.

La grande questione aperta è se per la assistenza sanitaria si seguirà la stessa strada della proposta di legge per il programma di sostegno all’economia.

Agli inizi di quest’anno, come ricorderete, Obama portò un’eloquente argomentazione a favore di una forte azione di sostegno all’economia, poi deliberò un proposta molto più esigua di quanto molti analisti indipendenti (e, io sospetto, i suoi stessi economisti) giudicassero necessario. Presumibilmente, l’obbiettivo era quello di attrarre un consenso bipartisan. Ma, nella circostanza, Obama fu capace di raccogliere soltanto tre repubblicani del Senato, rendendo anche più debole un programma che era già abbastanza debole.

In quel momento, alcuni di noi misero in guardia su quello che sarebbe poturo accadere: se la disoccupazione fosse andata oltre le ottimistiche previsioni della amministrazione, i Repubblicani non avrebbero poi convenuto con la necessità di un sostegno ulteriore. Piuttosto, avrebbero dichiarato che l’intera manovra economica era un fallimento. E questa è esattamente la scena che abbiamo sotto i nostri occhi[32]. Con un tasso di disoccupazione che a questa punto supera quasi certamente il 10 per cento, ci sarebbe un argomento economico schiacciante a favore di misure ulteriori. Ma, per una ragione politica, sta diventando più difficile, anziché più facile, ottenere adesso un sostegno supplementare, rispetto a quanto sarebbe stato se si fosse adottato un programma idoneo sin dalla prima battuta.

Il fatto è che quando si opera su grandi strategie di cambiamento, purtuttavia la forma finale delle politica deve essere sufficientemente adatta a fare quello che deve essere fatto[33]. Potreste pensare che mezza pagnotta è sempre meglio di niente, ma non è così se il fallimento delle mezze misure finisce col comportare discredito sul vostro intero approccio politico.

Il che ci riporta alla questione della assistenza sanitaria. Sarebbe un colpo tremendo per le speranze dei progressisti, se Obama non avesse successo nell’ottenere dal Congresso una qualche forma di assistenza universale. Ma anche in questo caso, una riforma non varrebbe la pena[34] se la si ottenesse in termini talmente compromissori, da renderla destinata al fallimento.

Cosa è che determinerà il successo o il fallimento della riforma? Sopra ogni altro aspetto, il successo della riforma dipenderà dal fatto di ottenere un buon risultato nel controllo dei costi. Noi non vorremmo nel modo più assoluto[35], di qua a pochi anni, finire in una situazione nella quale i premi assicurativi crescano rapidamente, il prezzo per molti americani venga stabilito fuori dal mercato assicurativo a dispetto dei sussidi governativi, e il costo dei sussidi per la assistenza sanitaria divenga uno sforzo crescente per il bilancio.

Questa è la ragione per la quale il programma pubblico è una parte importante della riforma: esso aiuterebbe a tenere sotto controllo i costi, attraverso una combinazione di minori costi gestionali e di maggiore forza di contrattazione. Non si tratta di un’ipotesi astratta, si tratta della conclusione di una solida esperienza. Attualmente, Medicare ha costi amministrativi molto più bassi delle compagnie assicurative private, mentre i programmi federali di assistenza sanitaria diversi da Medicare (a cui non è consentita la contrattazione sui prezzi dei medicinali), pagano molto meno per le prescrizioni dei farmaci di coloro che li acquistano fuori da tali programmi. Ci sono tutte le ragioni per credere che una opzione pubblica potrebbe ottenere risparmi analoghi.

Difatti, la prospettiva di tali risparmi è esattamente quello che ha atterrito gli oppositori del programma pubblico. Obama aveva ragione: se essi credono veramente nella loro retorica sull’inefficienza e gli sprechi governativi, non dovrebbero essere così preoccupati dal fatto che l’opzione pubblica spinga gli assicuratori privati fuori dagli affari. Dietro gli stereotipi[36] sullo statalismo, sui razionamenti e su tutte quelle falsificazioni, la reale preoccupazione è la paura che il programma pubblico abbia successo.

Dunque, Obama e i Democratici nel Congresso devono rimanere fermi sulle loro posizioni[37], piuttosto che fare regali gratuiti nel tentativo di sembrare ragionevoli. E i sostenitori della riforma debbono tenere viva la spinta perché non si esca dai binari[38]. E’ vero che il perfetto è il nemico del buono; ma lo è altrettanto tutto quello che non è buono abbastanza da funzionare[39].  La riforma sanitaria deve essere fatta per bene.

 

 

 


 

Betraying the Planet

By PAUL KRUGMAN

Published: June 28, 2009

So the House passed the Waxman-Markey climate-change bill. In political terms, it was a remarkable achievement.

 

But 212 representatives voted no. A handful of these no votes came from representatives who considered the bill too weak, but most rejected the bill because they rejected the whole notion that we have to do something about greenhouse gases.

And as I watched the deniers make their arguments, I couldn’t help thinking that I was watching a form of treason — treason against the planet.

 

To fully appreciate the irresponsibility and immorality of climate-change denial, you need to know about the grim turn taken by the latest climate research.

The fact is that the planet is changing faster than even pessimists expected: ice caps are shrinking, arid zones spreading, at a terrifying rate. And according to a number of recent studies, catastrophe — a rise in temperature so large as to be almost unthinkable — can no longer be considered a mere possibility. It is, instead, the most likely outcome if we continue along our present course.

 

Thus researchers at M.I.T., who were previously predicting a temperature rise of a little more than 4 degrees by the end of this century, are now predicting a rise of more than 9 degrees. Why? Global greenhouse gas emissions are rising faster than expected; some mitigating factors, like absorption of carbon dioxide by the oceans, are turning out to be weaker than hoped; and there’s growing evidence that climate change is self-reinforcing — that, for example, rising temperatures will cause some arctic tundra to defrost, releasing even more carbon dioxide into the atmosphere.

 

 

Temperature increases on the scale predicted by the M.I.T. researchers and others would create huge disruptions in our lives and our economy. As a recent authoritative U.S. government report points out, by the end of this century New Hampshire may well have the climate of North Carolina today, Illinois may have the climate of East Texas, and across the country extreme, deadly heat waves — the kind that traditionally occur only once in a generation — may become annual or biannual events.

 

 

In other words, we’re facing a clear and present danger to our way of life, perhaps even to civilization itself. How can anyone justify failing to act?

Well, sometimes even the most authoritative analyses get things wrong. And if dissenting opinion-makers and politicians based their dissent on hard work and hard thinking — if they had carefully studied the issue, consulted with experts and concluded that the overwhelming scientific consensus was misguided — they could at least claim to be acting responsibly.

 

 

 

But if you watched the debate on Friday, you didn’t see people who’ve thought hard about a crucial issue, and are trying to do the right thing. What you saw, instead, were people who show no sign of being interested in the truth. They don’t like the political and policy implications of climate change, so they’ve decided not to believe in it — and they’ll grab any argument, no matter how disreputable, that feeds their denial.

 

 

Indeed, if there was a defining moment in Friday’s debate, it was the declaration by Representative Paul Broun of Georgia that climate change is nothing but a “hoax” that has been “perpetrated out of the scientific community.” I’d call this a crazy conspiracy theory, but doing so would actually be unfair to crazy conspiracy theorists. After all, to believe that global warming is a hoax you have to believe in a vast cabal consisting of thousands of scientists — a cabal so powerful that it has managed to create false records on everything from global temperatures to Arctic sea ice.

 

 

 

Yet Mr. Broun’s declaration was met with applause.

Given this contempt for hard science, I’m almost reluctant to mention the deniers’ dishonesty on matters economic. But in addition to rejecting climate science, the opponents of the climate bill made a point of misrepresenting the results of studies of the bill’s economic impact, which all suggest that the cost will be relatively low.

 

 

Still, is it fair to call climate denial a form of treason? Isn’t it politics as usual?

 

Yes, it is — and that’s why it’s unforgivable.

Do you remember the days when Bush administration officials claimed that terrorism posed an “existential threat” to America, a threat in whose face normal rules no longer applied? That was hyperbole — but the existential threat from climate change is all too real.

 

Yet the deniers are choosing, willfully, to ignore that threat, placing future generations of Americans in grave danger, simply because it’s in their political interest to pretend that there’s nothing to worry about. If that’s not betrayal, I don’t know what is.

 

“Il pianeta tradito” di Paul Krugman

New York Times 28 giugno 2009

 

Dunque, la Camera ha approvato il disegno di legge Waxman-Markey sul cambiamento climatico. In termini politici, si è trattato di un considerevole passo in avanti.

Ma 212 deputati hanno votato contro. Una manciata di questi voti contrari è venuta da deputati che consideravano la proposta troppo debole, ma la gran parte ha respinto la legge perché rifiuta l’idea stessa che si debba fare qualcosa in materia di gas serra.

E mentre ascoltavo i ‘negazionisti[40]’ fornire i loro argomenti, non potevo fare a meno di pensare[41] che stavo assistendo ad una specie di tradimento – un tradimento contro il pianeta.

Per apprezzare pienamente l’irresponsabilità e l’immoralità della posizione di chi nega il cambiamento climatico, dovete conoscere  la sinistra novità rappresentata[42] dall’ultima ricerca sul clima.

Il fatto è che il pianeta sta cambiando più velocemente di quanto persino i pessimisti si aspettassero: le calotte polari si stanno restringendo e le zone aride si stanno espandendo con una velocità terrificante. E stando ai numeri di studi recenti, una catastrofe – una crescita nelle temperature così forte da essere quasi impensabile – non può più a lungo essere considerata una mera possibilità. Essa è l’esito più probabile, se continuiamo lungo questa strada.

Perciò i ricercatori del MIT, che avevano in precedenza previsto una crescita della temperatura di poco più di 4 gradi per la fine di questo secolo, ora stanno prevedendo una crescita  superiore a 9 gradi. Perché? Le emissioni globali di gas serra stanno crescendo in modo più rapido di quanto non ci si aspettasse; alcuni fattori di mitigazione, come l’assorbimento di anidride carbonica da parte degli oceani, si stanno rivelando più deboli di quanto non si fosse sperato; ed è sempre più evidente che il cambiamento climatico si auto-rafforza – ad esempio, che l’innalzamento delle temperature provocherà una determinata quantità di scongelamento nella tundra artica, rilasciando ancora più anidride carbonica in atmosfera.

La crescita delle temperature nella misura prevista dai ricercatori del MIT e da altri, determinerebbe un vasto sovvertimento nelle nostre vite e nella nostra economia. Come un recente autorevole rapporto del governo americano sottolinea, per la fine del secolo il New Hampshire si ritroverebbe con il clima attuale della Carolina del Nord, l’Illinois con quello del Texas orientale,  e per tutto il paese letali ondate di caldo estremo – dell’intensità che normalmente si ha una volta nel corso di una generazione – potrebbero diventare eventi annuali o biennali.

In altre parole, stiamo assistendo ad un inequivocabile ed immediato[43] pericolo per i nostri modi di vita, forse persino per la nostra civiltà. Come può essere giustificata da chicchessia la scelta dell’inerzia?

Il fatto è che talora persino le analisi più autorevoli ottengono gli effetti sbagliati.[44] E se coloro che dissentono tra gli uomini politici e tra quelli che influenzano l’opinione pubblica basassero il loro dissenso su un duro lavoro e su una seria riflessione – se essi avessero scrupolosamente studiato il problema, se avessero consultato gli esperti e se fossero giunti alla conclusione che lo schiacciante consenso nella comunità scientifica sia stato effetto di un travisamento – essi potrebbero almeno sostenere di stare agendo in modo responsabile.

Ma se avete assistito al dibattito di venerdì, non si era in presenza di persone che hanno pensato seriamente su un tema cruciale e che stanno cercando di fare la cosa giusta. Piuttosto, si era in presenza di gente che mostra di non essere minimamente interessata alla verità. Gente che non gradisce le implicazioni del cambiamento climatico sui rapporti politici e sulle strategie politiche, e che di conseguenza decide di non crederci; e si afferreranno ad ogni argomento, non conta quanto quanto inaffidabile[45], che alimenti il loro rifiuto.

Difatti, se c’è stato un momento significativo nel dibattito di venerdì, è stato quando il Deputato Paul Broun della Georgia ha dichiarato che il cambiamento climatico non è niente altro che “una bufala”, che è stata “messa in giro[46] dal di fuori della comunità scientifica”. Potrei definirla come una teoria della cospirazione pazzesca, ma facendo così sarei ingiusto nei confronti dei teorici di questa folle cospirazione. Dopo tutto, per credere che il riscaldamento globale sia una bufala, bisognerebbe credere in un vasto complotto[47] che avrebbe coinvolto migliaia di scienziati, un complotto così potente da aver organizzato la creazione di false documentazioni su tutto ciò che è attinente, dalle temperature globali ai ghiacciai del mare Artico.

Tuttavia, la affermazione del signor Broun è stata accolta con un applauso.

Dato questo disprezzo per il duro lavoro scientifico, sono piuttosto riluttante a riferirmi alla disonestà dei ‘negazionisti’ sulle questioni economiche. Ma, in aggiunta al rigetto della scienza del clima, gli oppositori alla proposta di legge  hanno considerato i risultati degli studi relativi all’impatto economico della legge, che indicano come i costi saranno relativamente bassi, come un aspetto importante della congiura[48].

Comunque, è giusto definire il ‘negazionismo’ climatico come un tradimento? Non si tratta della solita politica?[49] 

Si, e proprio per questo è imperdonabile.

Ricordate quei giorni, quando i dirigenti della amministrazione Bush sostenevano che il terrorismo rappresentava una “minaccia esistenziale” per l’America, una minaccia al cospetto della quale le regole normali non erano più applicabili? Si trattava di una iperbole, ma la minaccia esistenziale che proviene dal cambiamento climatico è anche troppo reale.

Tuttavia i ‘negazionisti’ hanno scelto deliberatamente di ignorare quella minaccia, mettendo in grave pericolo le future generazioni di Americani, semplicemente perché la pretesa per la quale non c’è niente di cui preoccuparsi è nel loro interesse politico. Se non è un tradimento, non so cosa sia.

 

 

 


 

That ’30s Show

By PAUL KRUGMAN

Published: July 2, 2009

O.K., Thursday’s jobs report settles it. We’re going to need a bigger stimulus. But does the president know that?

Let’s do the math.

 

Since the recession began, the U.S. economy has lost 6 ½ million jobs — and as that grim employment report confirmed, it’s continuing to lose jobs at a rapid pace. Once you take into account the 100,000-plus new jobs that we need each month just to keep up with a growing population, we’re about 8 ½ million jobs in the hole.

 

 

And the deeper the hole gets, the harder it will be to dig ourselves out. The job figures weren’t the only bad news in Thursday’s report, which also showed wages stalling and possibly on the verge of outright decline. That’s a recipe for a descent into Japanese-style deflation, which is very difficult to reverse. Lost decade, anyone?

 

 

 

Wait — there’s more bad news: the fiscal crisis of the states. Unlike the federal government, states are required to run balanced budgets. And faced with a sharp drop in revenue, most states are preparing savage budget cuts, many of them at the expense of the most vulnerable. Aside from directly creating a great deal of misery, these cuts will depress the economy even further.

So what do we have to counter this scary prospect? We have the Obama stimulus plan, which aims to create 3 ½ million jobs by late next year. That’s much better than nothing, but it’s not remotely enough. And there doesn’t seem to be much else going on. Do you remember the administration’s plan to sharply reduce the rate of foreclosures, or its plan to get the banks lending again by taking toxic assets off their balance sheets? Neither do I.

 

 

 

All of this is depressingly familiar to anyone who has studied economic policy in the 1930s. Once again a Democratic president has pushed through job-creation policies that will mitigate the slump but aren’t aggressive enough to produce a full recovery. Once again much of the stimulus at the federal level is being undone by budget retrenchment at the state and local level.

 

 

So have we failed to learn from history, and are we, therefore, doomed to repeat it? Not necessarily — but it’s up to the president and his economic team to ensure that things are different this time. President Obama and his officials need to ramp up their efforts, starting with a plan to make the stimulus bigger.

 

Just to be clear, I’m well aware of how difficult it will be to get such a plan enacted.

 

There won’t be any cooperation from Republican leaders, who have settled on a strategy of total opposition, unconstrained by facts or logic. Indeed, these leaders responded to the latest job numbers by proclaiming the failure of the Obama economic plan. That’s ludicrous, of course. The administration warned from the beginning that it would be several quarters before the plan had any major positive effects. But that didn’t stop the chairman of the Republican Study Committee from issuing a statement demanding: “Where are the jobs?”

 

It’s also not clear whether the administration will get much help from Senate “centrists,” who partially eviscerated the original stimulus plan by demanding cuts in aid to state and local governments — aid that, as we’re now seeing, was desperately needed. I’d like to think that some of these centrists are feeling remorse, but if they are, I haven’t seen any evidence to that effect.

And as an economist, I’d add that many members of my profession are playing a distinctly unhelpful role.

It has been a rude shock to see so many economists with good reputations recycling old fallacies — like the claim that any rise in government spending automatically displaces an equal amount of private spending, even when there is mass unemployment — and lending their names to grossly exaggerated claims about the evils of short-run budget deficits. (Right now the risks associated with additional debt are much less than the risks associated with failing to give the economy adequate support.)

 

 

Also, as in the 1930s, the opponents of action are peddling scare stories about inflation even as deflation looms.

 

So getting another round of stimulus will be difficult. But it’s essential.

Obama administration economists understand the stakes. Indeed, just a few weeks ago, Christina Romer, the chairwoman of the Council of Economic Advisers, published an article on the “lessons of 1937” — the year that F.D.R. gave in to the deficit and inflation hawks, with disastrous consequences both for the economy and for his political agenda.

 

What I don’t know is whether the administration has faced up to the inadequacy of what it has done so far.

So here’s my message to the president: You need to get both your economic team and your political people working on additional stimulus, now. Because if you don’t, you’ll soon be facing your own personal 1937.

 

“L’insegnamento degli anni 30” di Paul Krugman

New York Times 2 luglio 2009

Bene, il rapporto di giovedi sull’occupazione lo ha confermato:avremo bisogno di un intervento di sostegno all’economia più grande. Ma il Presidente ne è consapevole?

Facciamo parlare i numeri[50].

Dal momento in cui è iniziata la recessione l’economia americana ha perso sei milioni e mezzo di posti di lavoro, e come ha confermato quel severo rapporto sull’occupazione, stiamo continuando a perdere occupazione a passo svelto. Se mettete nel conto quei cento mila e più posti di lavoro che ci servono ogni mese per reggere il ritmo di crescita della popolazione, siamo in rosso[51] per circa otto milioni e mezzo di occupati.

E più profondo si fa il baratro, più difficile sarà per tutti noi venirne fuori[52]. I diagrammi sull’occupazione non sono l’unica cattiva notizia di quel rapporto di giovedi, che ha anche dimostrato come i salari abbiano conosciuto una battuta d’arresto e siano probabilmente sulla soglia di un vero e proprio[53] declino. E quella è una ricetta per una china verso una deflazione di tipo giapponese, che sarebbe un fenomeno molto difficile da invertire. Un decennio perso, ricordate[54]?

Aspettate: cè ancora una cattiva notizia: la crisi fiscale degli Stati. Diversamente dal governo federale, agli Stati è richiesto di avere bilanci in pareggio. E dinanzi ad una brusca caduta delle entrate, gran parte degli Stati si stanno preparando a tagli selvaggi sui bilanci, molti dei quali agiranno sulle spese che riguardano le categorie più vulnerabili. A parte la creazione di tanta miseria[55], quei tagli deprimeranno ancor più l’economia.

Dunque, in che modo possiamo rispondere a questa prospettiva paurosa? Abbiamo il progremma di sostegno all’economia di Obama, che mira a creare tre milioni e mezzo di posti di lavoro per l’ultima parte del prossimo anno. E’ molto meglio che niente, ma non è neanche lontanamente sufficiente. E non sembra ci sia molto altro da aggiungere. Qualcuno ricorda il piano della amministrazione per ridurre drasticamente il ritmo dei pignoramenti, oppure il piano per mettere le banche nella condizione di riavviare il credito con l’eliminazione degli assets tossici dai loro bilanci? Non se ne ha più memoria[56].

Cose di questo genere sono penosamente familiari[57] per chiunque abbia studiato la politica economica degli anni 30. Ancora una volta un Presidente democratico ha condotto a termine politiche di creazione di occupazione che mitigheranno la recessione, ma che non sono sufficientemente aggressive da produrre una piena ripresa. Ancora una volta le azioni di sostegno al livello federale sono contraddette[58] dal restringimento delle spese nei bilanci al livello degli Stati e delle isituzioni locali.

Dunque, non sappiamo apprendere la lezioni della storia e siamo, di conseguenza, costretti a ripeterla? Non necessariamente, ma tocca al Presidente e al suo gruppo di collaboratori economici assicurare che questa volta le cose saranno diverse. Il Presidente Obama ed i suoi dirigenti devono moltiplicare[59] gli sforzi, a cominciare da un programma che renda più forti le azioni di sostegno.

Per esser chiari, sono ben consapevole di quanto sarà difficile far approvare un programma del genere.

Non ci sarà alcuna collaborazione da parte dei dirigenti repubblicani, che si sono decisi per una strategia di opposizione totale, a prescindere[60] dai fatti e dalla logica. Difatti, questi dirigenti hanno risposto agli ultimi dati sull’occupazione proclamando il fallimento del programma economico di Obama. Questo è ridicolo, naturalmente. La amministrazione aveva messo in guardia sin dall’inizio che ci sarebbero voluti alcuni trimestri, prima che il programma avesse un qualche sostanziale effetto positivo. Ma questo non ha impedito al Presidente del Repubblican Study Committee di rilasciare una dichiarazione con la quale si chiede “Dove sono finiti i posti di lavoro?”

Non è neppure chiaro se l’amministrazione riceverà un grande aiuto dai “centristi” del Senato, che hanno in parte indebolito l’originale programma di sostegno chiedendo tagli negli aiuti agli Stati ed ai governi locali; aiuti che, come ora ci stiamo accorgendo, erano disperatamente necessari. Mi piacerebbe pensare che alcuni di questi centristi stiano provando rimorso, ma se così è, non ho visto alcun segno di un tale effetto.

E, come economista, devo aggiungere che molti componenti della mia categoria non stanno per niente dando una mano[61].

E’ stato un duro colpo vedere tanti economisti di buona fama ripetere vecchi errori – come l’argomento secondo il quale ogni incremento di spesa pubblica automaticamente esclude[62] una eguale somma di spesa privata, anche quando si è in presenza di una disoccupazione di massa – e prestare la loro reputazione a prese di posizione grossolanamente esagerate sulle disgrazie dei deficit di bilancio nel breve periodo (in questo momento, i rischi sono molto minori se sono associati  ad un debito aggiuntivo, piuttosto che se sono associati ad un venir meno di un adeguato sostegno all’economia).

Ancora come nel 1930, coloro che si oppongono all’iniziativa mettono in giro storie paurose sull’inflazione, anche se si profila piuttosto un rischio di deflazione.

Dunque, provocare una seconda mandata di misure di sostegno sarà difficile. Nondimeno è indispensabile.

Gli economisti della amministrazione Obama conoscono la posta in gioco[63]. Difatti, solo poche settimane fa, Christina Romer, che presiede il Council of Economic Advisers, ha pubblicato un articolo sulle “lezioni del 1937”, che fu l’anno nel quale Franklin Delano Roosvelt cedette ai falchi dell’inflazione e del deficit, con conseguenze disastrose sia per l’economia che per la sua agenda politica.

Quello che non so è se l’amministrazione si sia ancora misurata con l’inadeguatezza di quanto è stato fatto sinora.

Ecco, dunque, il mio messaggio al Presidente: lei ha bisogno di mettere al lavoro su un immediato provvedimento aggiuntivo di sostegno all’economia, sia la sua squadra di economisti che l’intera sua parte politica[64]. Perché se non lo fa, presto si troverà a fare i conti con un suo personale 1937.  

 

 

 

 

 


 

HELP Is on the Way

By PAUL KRUGMAN

Published: July 5, 2009

The Congressional Budget Office has looked at the future of American health insurance, and it works.

 

A few weeks ago there was a furor when the budget office “scored” two incomplete Senate health reform proposals — that is, estimated their costs and likely impacts over the next 10 years. One proposal came in more expensive than expected; the other didn’t cover enough people. Health reform, it seemed, was in trouble.

 

But last week the budget office scored the full proposed legislation from the Senate committee on Health, Education, Labor and Pensions (HELP). And the news — which got far less play in the media than the downbeat earlier analysis — was very, very good. Yes, we can reform health care.

 

 

Let me start by pointing out something serious health economists have known all along: on general principles, universal health insurance should be eminently affordable.

 

 

After all, every other advanced country offers universal coverage, while spending much less on health care than we do. For example, the French health care system covers everyone, offers excellent care and costs barely more than half as much per person as our system.

And even if we didn’t have this international evidence to reassure us, a look at the U.S. numbers makes it clear that insuring the uninsured shouldn’t cost all that much, for two reasons.

First, the uninsured are disproportionately young adults, whose medical costs tend to be relatively low. The big spending is mainly on the elderly, who are already covered by Medicare.

Second, even now the uninsured receive a considerable (though inadequate) amount of “uncompensated” care, whose costs are passed on to the rest of the population. So the net cost of giving the uninsured explicit coverage is substantially less than it might seem.

 

Putting these observations together, what sounds at first like a daunting prospect — extending coverage to most or all of the 45 million people in America without health insurance — should, in the end, add only a few percent to our overall national health bill. And that’s exactly what the budget office found when scoring the HELP proposal.

 

 

 

Now, about those specifics: The HELP plan achieves near-universal coverage through a combination of regulation and subsidies. Insurance companies would be required to offer the same coverage to everyone, regardless of medical history; on the other side, everyone except the poor and near-poor would be obliged to buy insurance, with the aid of subsidies that would limit premiums as a share of income.

 

 

Employers would also have to chip in, with all firms employing more than 25 people required to offer their workers insurance or pay a penalty. By the way, the absence of such an “employer mandate” was the big problem with the earlier, incomplete version of the plan.

 

And those who prefer not to buy insurance from the private sector would be able to choose a public plan instead. This would, among other things, bring some real competition to the health insurance market, which is currently a collection of local monopolies and cartels.

 

The budget office says that all this would cost $597 billion over the next decade. But that doesn’t include the cost of insuring the poor and near-poor, whom HELP suggests covering via an expansion of Medicaid (which is outside the committee’s jurisdiction). Add in the cost of this expansion, and we’re probably looking at between $1 trillion and $1.3 trillion.

 

There are a number of ways to look at this number, but maybe the best is to point out that it’s less than 4 percent of the $33 trillion the U.S. government predicts we’ll spend on health care over the next decade. And that in turn means that much of the expense can be offset with straightforward cost-saving measures, like ending Medicare overpayments to private health insurers and reining in spending on medical procedures with no demonstrated health benefits.

 

 

 

So fundamental health reform — reform that would eliminate the insecurity about health coverage that looms so large for many Americans — is now within reach. The “centrist” senators, most of them Democrats, who have been holding up reform can no longer claim either that universal coverage is unaffordable or that it won’t work.

 

The only question now is whether a combination of persuasion from President Obama, pressure from health reform activists and, one hopes, senators’ own consciences will get the centrists on board — or at least get them to vote for cloture, so that diehard opponents of reform can’t block it with a filibuster.

 

 

This is a historic opportunity — arguably the best opportunity since 1947, when the A.M.A. killed Harry Truman’s health-care dreams. We’re right on the cusp. All it takes is a few more senators, and HELP will be on the way.

 

“HELP è al varo[65]”, di Paul Krugman

New York Times 5 luglio 2009

 

Il Congressional Budget Office ha esaminato le prospettive future della assicurazione sanitaria degli americani, e pare che funzionino.

Poche settimane fa ci fu un gran clamore al momento in cui il Budget Office dette il “voto”[66] a due incomplete proposte di riforma sanitaria del Senato, vale a dire ne stimò i costi ed il probabile impatto sui prossimi dieci anni. Una proposta finiva col costare di più di quanto non ci si sarebbe aspettato; l’altra non forniva protezione ad un numero sufficiente di persone. La riforma sanitaria sembrava essere nei guai.

Ma la scorsa settimana il Budget Office ha esaminato l’intera legislazione proposta dalla commissione del Senato su Salute, Istruzione, Lavoro e Pensioni (HELP)[67]. E le notizie – che hanno avuto un impatto nei media molto inferiore alla orginaria analisi pessimistica[68] – sono davvero molto buone. Dunque, possiamo procedere alla riforma della assistenza sanitaria.

Lasciatemi partire da una sottolineatura di un aspetto che gli economisti seri dei sistemi sanitari conoscevano da molto tempo: come principi generali, una riforma del sistema assicurativo della sanità di tipo universalistico dovrebbe essere fondamentalmente sostenibile.

Dopo tutto, molte altre nazioni avanzate offrono una copertura universale, spendendo in assistenza sanitaria molto meno di quanto non si faccia noi. Per esempio, il sistema della assistenza sanitaria francese protegge ogni cittadino, offre una assistenza eccellente a costi pro-capite che sono appena la metà di quelli del nostro sistema.

E persino se non avessimo queste evidenze internazionali a rassicurarci, un’occhiata ai numeri degli Stati Uniti dovrebbe render chiaro che assicurare i non assicurati non dovrebbe costare così tanto, per due ragioni.

La prima: i non assicurati sono in proporzione soprattutto giovani adulti, i cui costi sanitari tendono ad essere relativamente bassi. La grande spesa è principalmente sugli anziani, che sono già assistiti da Medicare.

La seconda: i non assicurati ricevono anche oggi una considerevole (per quanto inadeguata) quantità di assistenza “senza compenso”, i cui costi vengono messi a carico[69] della restante popolazione. Dunque, il costo netto del fornire ai non assicurati una assistenza esplicita è sostanzialmente minore di quanto potrebbe sembrare.

Tenendo conto di entrambe queste osservazioni[70], quella che a prima vista appare una prospettiva scoraggiante[71] – la estensione della copertura assicurativa sanitaria alla gran parte di quei 45 milioni di americani che ne sono privi – dovrebbe, in fin dei conti, aggiungere una piccola percentuale alla nostra complessiva spesa nazionale per la salute. E questo è esattamnte quello che il Budget Office ha scoperto, nel momento in cui ha fatto una stima delle proposte HELP.

Veniamo dunque ad alcuni aspetti specifici[72]: il programma HELP ottiene una copertura quasi unversale attraverso una combinazione di regole e di sussidi. Alle compagnie assicurative viene richiesto di offrire lo stesso tipo di protezione a ciascuno, senza tener conto delle diverse storie cliniche; d’altra parte, tutti, ad eccezione di chi è povero o quasi-povero, sarebbero obbligati ad acquistare l’assicurazione, con l’aiuto di sussidi che porrebbero un limite ai premi entro una quota dei redditi individuali[73].

Anche gli imprenditori dovrebbero partecipare, essendo previsto per ogni impresa che impiega più di 25 persone di fornire ai propri impiegati l’assicurazione o, in alternativa, di pagere una penale. Ovviamente, l’assenza di questa “responsabilità dell’azienda” era il grande problema della prima, incompleta versione del programma.

E coloro che preferiscono non acquistare copertura dal sistema assicurativo privato, sarebbero messi nelle condizioni di scegliere in alternativa un programma pubblico. In questo modo si otterrebbe, tra le altre cose, di portare una qualche reale competizione all’interno del mercato della assicurazione sanitaria, che attualmente è costituito da monopoli locali e da cartelli.

Il Budget Office afferma che tutto questo costerebbe nel corso del prossimo decennio 597 miliardi di dollari. Ma in questa cifra non è inclusa la assicurazione dei poveri o dei quasi-poveri, che HELP suggerisce di coprire attraverso una espansione di Medicare (che è fuori dalla giurisdizione della Commissione). Se si aggiunge ai costi questa estensione, si è probabilmente in presenza di una spesa tra i mille ed i mille e trecento miliardi di dollari.

Esiste un certo numero di modi nei quali di può esaminare questi dati, ma può darsi che il migliore consista nel sottolineare che si tratta di meno del 4 per cento dei 33 mila miliardi di dollari che il governo degli Stati Uniti prevede di spendere nel prossimo decennio per la assistenza sanitaria. La qualcosa a sua volta significa che una gran parte della spesa può essere compensata da misure dirette di risparmio dei costi, quale quella di cessare le spese sproporzionate di Medicare a vantaggio del sistema delle assicurazioni sanitarie private e quella di mettere sotto controllo le spese per quelle procedure mediche che non comportano benefici accertati per la salute.

Dunque, la fondamentale riforma sanitaria – una riforma che eliminerebbe quel senso di insicurezza sulla protezione sanitaria che si profila così minaccioso[74] per milioni di americani – è oggi alla nostra portata[75]. I Senatori “centristi”, gran parte dei quali democratici, che pure hanno sostenuto una riforma[76], non possono più lamentare che una copertura universale non sia sostenibile o che essa sia destinata a non funzionare.

L’unico problema adesso è se una combinazione della capacità di persuasione del Presidente Obama, della pressione degli attivisti della riforma sanitaria e, si spera, delle coscienze degli stessi Senatori, otterrà il risultato di imbarcare i centristi[77], o almeno li indurrà a votare per il passaggio al voto[78], in modo tale che gli oppositori fanatici della riforma non possano bloccarla con l’ostruzionismo.

Si tratta di una opportunità storica – probabilmente la più importante dal 1947, allorché l’A.M.A.[79] fece fuori[80] il sogno di una riforma sanitaria di Harry Truman. Siamo davvero sulla soglia[81]. Quello che serve sono pochi senatori in più, ed HELP sarà varato[82].

 

 

 

 

 


 

The Stimulus Trap

By PAUL KRUGMAN

Published: July 9, 2009

As soon as the Obama administration-in-waiting announced its stimulus plan — this was before Inauguration Day — some of us worried that the plan would prove inadequate. And we also worried that it might be hard, as a political matter, to come back for another round.

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Unfortunately, those worries have proved justified. The bad employment report for June made it clear that the stimulus was, indeed, too small. But it also damaged the credibility of the administration’s economic stewardship. There’s now a real risk that President Obama will find himself caught in a political-economic trap.

 

I’ll talk about that trap, and how he can escape it, in a moment. First, however, let me step back and ask how concerned citizens should be reacting to the disappointing economic news. Should we be patient and give the Obama plan time to work? Should we call for bigger, bolder actions? Or should we declare the plan a failure and demand that the administration call the whole thing off?

 

 

Before you answer, consider what happens in normal times.

When there’s an ordinary, garden-variety recession, the job of fighting that recession is assigned to the Federal Reserve. The Fed responds by cutting interest rates in an incremental fashion. Reducing rates a bit at a time, it keeps cutting until the economy turns around. At times it pauses to assess the effects of its work; if the economy is still weak, the cutting resumes.

 

During the last recession, the Fed repeatedly cut rates as the slump deepened — 11 times over the course of 2001. Then, amid early signs of recovery, it paused, giving the rate cuts time to work. When it became clear that the economy still wasn’t growing fast enough to create jobs, more rate cuts followed.

 

 

 

Normally, then, we expect policy makers to respond to bad job numbers with a combination of patience and resolve. They should give existing policies time to work, but they should also consider making those policies stronger.

 

 

And that’s what the Obama administration should be doing right now with its fiscal stimulus. (It’s important to remember that the stimulus was necessary because the Fed, having cut rates all the way to zero, has run out of ammunition to fight this slump.) That is, policy makers should stay calm in the face of disappointing early results, recognizing that the plan will take time to deliver its full benefit. But they should also be prepared to add to the stimulus now that it’s clear that the first round wasn’t big enough.

 

Unfortunately, the politics of fiscal policy are very different from the politics of monetary policy. For the past 30 years, we’ve been told that government spending is bad, and conservative opposition to fiscal stimulus (which might make people think better of government) has been bitter and unrelenting even in the face of the worst slump since the Great Depression. Predictably, then, Republicans — and some Democrats — have treated any bad news as evidence of failure, rather than as a reason to make the policy stronger.

 

 

 

Hence the danger that the Obama administration will find itself caught in a political-economic trap, in which the very weakness of the economy undermines the administration’s ability to respond effectively.

As I said, I was afraid this would happen. But that’s water under the bridge. The question is what the president and his economic team should do now.

 

It’s perfectly O.K. for the administration to defend what it’s done so far. It’s fine to have Vice President Joseph Biden touring the country, highlighting the many good things the stimulus money is doing.

 

It’s also reasonable for administration economists to call for patience, and point out, correctly, that the stimulus was never expected to have its full impact this summer, or even this year.

 

But there’s a difference between defending what you’ve done so far and being defensive. It was disturbing when President Obama walked back Mr. Biden’s admission that the administration “misread” the economy, declaring that “there’s nothing we would have done differently.” There was a whiff of the Bush infallibility complex in that remark, a hint that the current administration might share some of its predecessor’s inability to admit mistakes. And that’s an attitude neither Mr. Obama nor the country can afford.

 

 

What Mr. Obama needs to do is level with the American people. He needs to admit that he may not have done enough on the first try. He needs to remind the country that he’s trying to steer the country through a severe economic storm, and that some course adjustments — including, quite possibly, another round of stimulus — may be necessary.

What he needs, in short, is to do for economic policy what he’s already done for race relations and foreign policy — talk to Americans like adults.

 

“La trappola del programma di sostegno” di Paul Krugman

New York Times 9 luglio 2009

Al momento in cui l’amministrazione Obama, in attesa di assumere le sue funzioni, annunziò – il giorno precedente dell’Inauguration Day –  il suo programma di sostegno all’economia, alcuni di noi ebbero il timore che il programma si sarebbe dimostrato inadeguato. E avevamo anche paura che poi sarebbe stato difficile, per una ragione politica, tornare indietro per un secondo giro.

Sfortunatamente, questi timori si sono mostrati giustificati. I cattivi risultati contenuti nel rapporto sull’occupazione di giugno hanno reso chiaro che il programma di sostegno era, per davvero, troppo modesto. Ma esso ha anche danneggiato la credibilità del governo dell’economia da parte della amministrazione. C’è ora il rischio reale che il Presidente Obama si ritrovi impigliato in una trappola politico economica.

Dirò tra un attimo di questa trappola e di come si possa venirne fuori. Consentitemi, tuttavia, in primo luogo di fare un passo indietro e di chiedermi come dei cittadini interessati dovrebbero reagire a queste notizie economiche deludenti. Dovrebbero essere pazienti e dare al programma di Obama il tempo di funzionare? Dovrebbero chiedere azioni più energiche e più coraggiose? Oppure, dovrebbero affermare che il programma è un fallimento e chiedere l’annullamento dell’intera operazione?

Prima di rispondere, considerate cosa avviene in tempi normali.

Quando si è in presenza di una recessione ordinaria ed insignificante[83], il compito di contrastare quella recessione è affidato alla Federal Reserve. La Fed risponde con un taglio dei tassi di interesse con modalità progressive. Riducendo i tassi un po’ alla volta, essa continua a tagliarli finché l’economia non modifica la sua tendenza. A volte essa fa un pausa per verificare gli effetti del suo intervento; se l’economia è ancora debole, le riduzioni riprendono.

Durante l’ultima recessione, la Fed tagliò ripetutamente i tassi nel mentre la fase negativa dell’economia continuava ad approfondirsi, ciò avvenne per undici volte nel corso del 2001. Poi, dinanzi ai primi segni di ripresa, la Fed face una pausa, in modo che i tagli dei tassi potessero produrre i loro effetti. Quando fu chiaro che l’economia non stava ancora crescendo in modo sufficientemente rapido da creare occupazione, seguirono tagli maggiori dei tassi di interesse.

Normalmente, dunque, ci aspettiamo che gli operatori politici rispondano a dati occupazionali negativi con una combinazione di pazienza e risolutezza. Essi dovrebbero dare alle politiche in essere il tempo di funzionare, ma dovrebbero anche considerare la possibilità di renderle più forti.

Questo è quanto la amministrazione Obama dovrebbe fare in questo momento con il suo programma finanziario di sostegno all’economia[84] (è importante ricordare che il programma si è reso necessario perché la Fed, avendo ridotto il tasso di interesse praticamente a zero, aveva esaurito le munizioni per combattere questa depressione). Ovvero, gli operatori politici dovrebbero rimanere calmi dinanzi ai primi dati deludenti, ma dovrebbero anche essere pronti ad aumentare il sostegno nel momento in cui diventa chiaro che la prima fase delle misure non è stata sufficiente.

Sfortunatamente, le politiche della finanza pubblica sono molto diverse dalle politiche della gestione monetaria[85]. Nel corso dei trent’anni passati, ci è stato detto che la spesa pubblica è una cosa cattiva, e l’opposizione conservatrice al programma finanziario di sostegno (che dovrebbe indurre la gente ad avere una idea migliore della amministrazione pubblica) è stata aspra ed ostinata[86] persino dinanzi alla peggiore crisi dai giorni della Grande Depressione. E’ prevedibile, dunque, che i Repubblicani – ed anche qualche democratico – abbiano interpretato[87] ogni cattiva notizia come la prova di un fallimento, anziché come una ragione per rendere più efficaci i programmi di intervento.

Di qua il pericolo che la amministrazione Obama finisca dentro una trappola politico economica, per effetto della quale la indiscutibile debolezza dell’economia mini alla base la possibilità per la amministrazione di dare risposte efficaci.

Come ho detto, io avevo avuto il timore che questo potesse accadere. Ma questa è acqua che scorre sotto i ponti. La vera questione è cosa dovrebbero fare a questo punto il Presidente e la sua squadra di economisti.

E’ assolutamente corretto che la amministrazione difenda quello che è stato fatto sino a questo punto. E’ giusto che il Vice Presidente Joseph Biden se ne vada a giro per il paese, mettendo in evidenza le molte cose positive che le risorse del programma di sostegno stanno rendendo possibili.

E’ anche comprensibile che gli economisti della amministrazione chiedano pazienza e sottolineino, correttamente, che il programma di sostegno non ci si attendeva avesse il suo pieno impatto nel corso di questa estate, e neanche di quest’anno.

Ma c’è una differenza tra difendere quello che è stato fatto sinora e restarsene sulla difensiva. E’ stato fastidioso quando il Presidente Obama è tornato sopra l’ammissione di Biden[88], secondo la quale la amministrazione aveva “male interpretato” la congiuntura economica, dicendo che “non c’è niente che avremmo potuto fare diversamente”. In quella sottolineatura c’è un vago sentore[89] del complesso di infallibilità di Bush, il segno che la amministrazione attuale potrebbe condividere una qualche incapacità a riconoscere i propri sbagli che fu propria dei suoi predecessori. Sarebbe questa una debolezza[90] che né Obama né il paese possono permettersi.

Ciò che serve ad Obama e di mettersi in piena sintonia[91] con il popolo americano. Egli deve riconoscere che è possibile che non abbia fatto abbastanza al primo tentativo. Egli deve ricordare al paese che sta cercando di guidarlo attraverso una tempesta economica gravissima, e che qualche aggiustamento in corso d’opera – incluso, possibilmente, un secondo giro di misure di sostegno – può essere indispensabile.

Egli ha bisogno, in poche parole, di fare per la gestione dell’economia quello che sta già facendo per le relazioni tra le razze[92] e per la politica estera: parlare agli americani come si parla a persone adulte.

 

 


 

Boiling the Frog

By PAUL KRUGMAN

Published: July 12, 2009

Is America on its way to becoming a boiled frog?

Skip to next paragraph I’m referring, of course, to the proverbial frog that, placed in a pot of cold water that is gradually heated, never realizes the danger it’s in and is boiled alive. Real frogs will, in fact, jump out of the pot — but never mind. The hypothetical boiled frog is a useful metaphor for a very real problem: the difficulty of responding to disasters that creep up on you a bit at a time.

 

And creeping disasters are what we mostly face these days.

 

I started thinking about boiled frogs recently as I watched the depressing state of debate over both economic and environmental policy. These are both areas in which there is a substantial lag before policy actions have their full effect — a year or more in the case of the economy, decades in the case of the planet — yet in which it’s very hard to get people to do what it takes to head off a catastrophe foretold.

 

And right now, both the economic and the environmental frogs are sitting still while the water gets hotter.

 

Start with economics: last winter the economy was in acute crisis, with a replay of the Great Depression seeming all too possible. And there was a fairly strong policy response in the form of the Obama stimulus plan, even if that plan wasn’t as strong as some of us thought it should have been.

 

 

At this point, however, the acute crisis has given way to a much more insidious threat. Most economic forecasters now expect gross domestic product to start growing soon, if it hasn’t already. But all the signs point to a “jobless recovery”: on average, forecasters surveyed by The Wall Street Journal believe that the unemployment rate will keep rising into next year, and that it will be as high at the end of 2010 as it is now.

 

 

Now, it’s bad enough to be jobless for a few weeks; it’s much worse being unemployed for months or years. Yet that’s exactly what will happen to millions of Americans if the average forecast is right — which means that many of the unemployed will lose their savings, their homes and more.

 

To head off this outcome — and remember, this isn’t what economic Cassandras are saying; it’s the forecasting consensus — we’d need to get another round of fiscal stimulus under way very soon. But neither Congress nor, alas, the Obama administration is showing any inclination to act. Now that the free fall is over, all sense of urgency seems to have vanished.

 

 

This will probably change once the reality of the jobless recovery becomes all too apparent. But by then it will be too late to avoid a slow-motion human and social disaster.

Still, the boiled-frog problem on the economy is nothing compared with the problem of getting action on climate change.

Put it this way: if the consensus of the economic experts is grim, the consensus of the climate experts is utterly terrifying. At this point, the central forecast of leading climate models — not the worst-case scenario but the most likely outcome — is utter catastrophe, a rise in temperatures that will totally disrupt life as we know it, if we continue along our present path. How to head off that catastrophe should be the dominant policy issue of our time.

 

But it isn’t, because climate change is a creeping threat rather than an attention-grabbing crisis. The full dimensions of the catastrophe won’t be apparent for decades, perhaps generations. In fact, it will probably be many years before the upward trend in temperatures is so obvious to casual observers that it silences the skeptics. Unfortunately, if we wait to act until the climate crisis is that obvious, catastrophe will already have become inevitable.

 

And while a major environmental bill has passed the House, which was an amazing and inspiring political achievement, the bill fell well short of what the planet really needs — and despite this faces steep odds in the Senate.

What makes the apparent paralysis of policy especially alarming is that so little is happening when the political situation seems, on the surface, to be so favorable to action.

 

After all, supply-siders and climate-change-deniers no longer control the White House and key Congressional committees. Democrats have a popular president to lead them, a large majority in the House of Representatives and 60 votes in the Senate. And this isn’t the old Democratic majority, which was an awkward coalition between Northern liberals and Southern conservatives; this is, by historical standards, a relatively solid progressive bloc.

 

And let’s be clear: both the president and the party’s Congressional leadership understand the economic and environmental issues perfectly well. So if we can’t get action to head off disaster now, what would it take?

I don’t know the answer. And that’s why I keep thinking about boiling frogs.

 

“La rana bollita”, di Paul Krugman

New York Times 12 luglio 2009

 

L’America è sulla strada di diventare una rana bollita?

Mi sto riferendo, naturalmente, alla rana del proverbio che, messa in una pentola di acqua fredda che viene lentamente riscaldata, non comprende il pericolo nel quale è finita e viene bollita viva. Le rane vere, in effetti, saltano fuori dalla pentola, ma non importa. La ipotetica rana bollita è una metafora utile per indicare un problema assai reale: la difficoltà a rispondere ai disastri che ci hanno colto di sorpresa[93] uno dietro l’altro[94].

E i disastri striscianti sono ciò in cui maggiormente ci imbattiamo negli ultimi tempi.

Ho cominciato a pensare all’immagine delle rane bollite in questi giorni, nel mentre constatavo lo stato deprimente del dibattito sia sui temi della politica economica che di quella ambientale. Si tratta in ambedue i casi di aree nelle quali l’azione politica dispiega la sua intera efficacia con un sostanziale ritardo – un anno o più nel caso dell’economia, decenni nel caso delle condizioni del pianeta; malgrado ciò, è assai difficile far fare alla gente quello che serve per scongiurare[95] la catastrofe annunciata.

Comprensibilmente, dunque, le due rane, quella dell’economia e quella delle condizioni ambientali, se ne stanno sedute e immobili[96], nel mentre l’acqua diventa sempre di più calda.

Cominciamo dall’economia: lo scorso inverno l’economia era in una crisi acuta, e una riedizione della Grande Depressione sembrava a tutti anche troppo possibile. Venne data una risposta politica abbastanza forte con il programma di sostegno di Obama, anche se quel programma non fu così energico come molti di noi credevano necessario.

A questo punto, tuttavia, la crisi acuta ha lasciato il posto ad una minaccia assai più insidiosa. Molti analisti della congiuntura economica si aspettano ora che il prodotto interno lordo ricominci a crescere entro breve tempo, ammesso che non lo stia già facendo. Ma molti segnali mettono in evidenza una “ripresa senza lavoro”; in media, gli analisti che sono incaricati dei rilevamenti per conto del Wall Street Journal credono che il tasso di disoccupazione continuerà a crescere nel corso del prossimo anno, e che alla fine del 2010 sarà elevato come adesso.

Ora, se è abbastanza negativo stare senza lavoro per poche settimane, lo è molto di più per mesi o anni. Tuttavia questo è esattamente ciò che accadrà a milioni di americani se le previsioni medie sono giuste, il che significa che molti disoccupati perderanno i loro risparmi, le loro case ed altro ancora.

Per scongiurare questo risultato – e badate bene che questo non è quello che dicono le Cassandre dell’economia, è la previsione unanime degli analisti – avremmo bisogno di mettere in atto molto presto un secondo giro di misure finanziarie di sostegno all’economia. Ma né il Congresso, né, ahimè, la amministrazione Obama stanno mostrando alcuna disponibilità ad agire. Ora che la caduta libera è alle nostre spalle, sembra che ogni senso di urgenza si sia volatilizzato.

Ci sarà probabilmente un cambiamento, al momento in cui la realtà di una ripresa senza lavoro apparirà a tutti sin troppo chiara. Ma a quel punto sarà troppo tardi per evitare un disastro umano e sociale al rallentatore[97].

E tuttavia, il problema della rana bollita dell’economia è niente se confrontato con il problema dell’assumere un’iniziativa sul cambiamento del clima.

Mettiamola così: se c’è un consenso un po’ svogliato[98] da parte degli esperti economici, il consenso da parte degli esperti del clima è completamente terrificante. A questo punto la previsione centrale dei modelli climatici accreditati[99] – ovvero non lo scenario peggiore, ma il risultato più probabile – è una completa catastrofe, una crescita delle temperature che sconvolgerà completamente la vita come noi la conosciamo, se si andrà avanti sulla strada attuale. Come prevenire quella catastrofe dovrebbe essere il tema dominante del nostro tempo.

Ma non è così, perché il cambiamento climatico è una minaccia ancora più strisciante[100] di una crisi economica che attira attenzione. Di fatto, ci vorranno molti anni prima che la tendenza a salire delle temperature divenga così evidente agli occhi di osservatori casuali, da ridurre al silenzio gli scettici. Sfortunatamente, se per agire attendiamo il momento in cui il cambiamento climatico sia del tutto evidente, a quel punto la catastrofe sarà ormai diventata inevitabile.

E mentre è stata approvata alla Camera una importante proposta di legge, la qual cosa ha rappresentato un sorprendente e meritorio[101] progresso politico, quel testo legislativo è rimasto assai al di sotto di quello che sarebbe necessario per il pianeta, e nonostante questo appare altamente improbabile[102] al Senato.

Quello che rende specialmente allarmante questa apparente paralisi della politica  è che accadono cose così esigue, nel mentre, sulla superficie, la situazione politica sembrerebbe assai favorevole.

Dopo tutto, i teorici dei tagli fiscali[103] e coloro che negano l’esistenza del cambiamento climatico[104] non controllano più la Casa Bianca e le Commissioni principali del Congresso. I Democratici hanno alla guida un Presidente popolare, hanno una larga maggioranza alla Camera dei Rappresentanti e 60 voti al Senato. E questa non è la vecchia maggioranza dei Democratici, ovvero una impacciata coalizione di liberals settentrionali e di conservatori del Sud; è, rispetto ad ogni riferimento storico, un blocco progressista apparentemente solido.

E siamo chiari: sia il Presidente che il gruppo dirigente del Partito al Congresso, comprendono alla perfezione le questioni dell’economia e dell’ambiente. Dunque: se non arriva una iniziativa per scongiurare il disastro a questo punto, cosa ci vorrà mai?

Io non conosco la risposta. Ed è per questo che continuo a pensare alle rane bollite.

 

 

 


 

The Joy of Sachs

By PAUL KRUGMAN

Published: July 16, 2009

The American economy remains in dire straits, with one worker in six unemployed or underemployed. Yet Goldman Sachs just reported record quarterly profits — and it’s preparing to hand out huge bonuses, comparable to what it was paying before the crisis. What does this contrast tell us?

 

First, it tells us that Goldman is very good at what it does. Unfortunately, what it does is bad for America.

 

Second, it shows that Wall Street’s bad habits — above all, the system of compensation that helped cause the financial crisis — have not gone away.

Third, it shows that by rescuing the financial system without reforming it, Washington has done nothing to protect us from a new crisis, and, in fact, has made another crisis more likely.

Let’s start by talking about how Goldman makes money.

 

Over the past generation — ever since the banking deregulation of the Reagan years — the U.S. economy has been “financialized.” The business of moving money around, of slicing, dicing and repackaging financial claims, has soared in importance compared with the actual production of useful stuff. The sector officially labeled “securities, commodity contracts and investments” has grown especially fast, from only 0.3 percent of G.D.P. in the late 1970s to 1.7 percent of G.D.P. in 2007.

 

Such growth would be fine if financialization really delivered on its promises — if financial firms made money by directing capital to its most productive uses, by developing innovative ways to spread and reduce risk. But can anyone, at this point, make those claims with a straight face? Financial firms, we now know, directed vast quantities of capital into the construction of unsellable houses and empty shopping malls. They increased risk rather than reducing it, and concentrated risk rather than spreading it. In effect, the industry was selling dangerous patent medicine to gullible consumers.

 

 

 

Goldman’s role in the financialization of America was similar to that of other players, except for one thing: Goldman didn’t believe its own hype. Other banks invested heavily in the same toxic waste they were selling to the public at large. Goldman, famously, made a lot of money selling securities backed by subprime mortgages — then made a lot more money by selling mortgage-backed securities short, just before their value crashed. All of this was perfectly legal, but the net effect was that Goldman made profits by playing the rest of us for suckers.

 

 

And Wall Streeters have every incentive to keep playing that kind of game.

The huge bonuses Goldman will soon hand out show that financial-industry highfliers are still operating under a system of heads they win, tails other people lose. If you’re a banker, and you generate big short-term profits, you get lavishly rewarded — and you don’t have to give the money back if and when those profits turn out to have been a mirage. You have every reason, then, to steer investors into taking risks they don’t understand.

 

 

And the events of the past year have skewed those incentives even more, by putting taxpayers as well as investors on the hook if things go wrong.

 

I won’t try to parse the competing claims about how much direct benefit Goldman received from recent financial bailouts, especially the government’s assumption of A.I.G.’s liabilities. What’s clear is that Wall Street in general, Goldman very much included, benefited hugely from the government’s provision of a financial backstop — an assurance that it will rescue major financial players whenever things go wrong.

 

 

You can argue that such rescues are necessary if we’re to avoid a replay of the Great Depression. In fact, I agree. But the result is that the financial system’s liabilities are now backed by an implicit government guarantee.

Now the last time there was a comparable expansion of the financial safety net, the creation of federal deposit insurance in the 1930s, it was accompanied by much tighter regulation, to ensure that banks didn’t abuse their privileges. This time, new regulations are still in the drawing-board stage — and the finance lobby is already fighting against even the most basic protections for consumers.

 

If these lobbying efforts succeed, we’ll have set the stage for an even bigger financial disaster a few years down the road. The next crisis could look something like the savings-and-loan mess of the 1980s, in which deregulated banks gambled with, or in some cases stole, taxpayers’ money — except that it would involve the financial industry as a whole.

 

 

The bottom line is that Goldman’s blowout quarter is good news for Goldman and the people who work there. It’s good news for financial superstars in general, whose paychecks are rapidly climbing back to precrisis levels. But it’s bad news for almost everyone else.

 

“La gioia di Sachs” di Paul Krugman

New York Times 16 luglio 2009

 

L’economia americana resta in serie difficoltà, con un lavoratore su sei disoccupato o sottoccupato. Tuttavia è stata diffusa la notizia del record trimestrale dei profitti della Goldman Sachs, la quale si sta preparando a concedere enormi gratifiche, simili a quelle che pagava prima della crisi. Che cosa ci dice questa contraddizione?

Prima di tutto, ci dice che la Goldman fa molto bene il suo mestiere[105].  Sfortunatamente, quel mestiere non fa bene all’America.

In secondo luogo, ci mostra che le cattive abitudini di Wall Street – prima tra tutte il sistema dei compensi che ha fatto la sua parte nel provocare la crisi finanziaria – non sono scomparse.

In terzo luogo, ci mostra che andando al salvataggio del sistema finanziario senza riformarlo, Washington non ci ha protetti da una nuova crisi ed anzi, nei fatti, la ha resa più probabile.

Cominciamo a discutere di come Sachs sia tornata a fare profitti.

Nel corso della passata generazione – dal momento della deregolamentazione del sistema bancario degli anni di Reagan – l’economia degli Stati Uniti è stata “finanziarizzata”. L’affare del far girare i soldi, del fare a fette, dello sminuzzare e del rimpacchettare[106] i diritti finanziari, è molto cresciuto di importanza in paragone alla produzione di oggetti effettivamente utili. Il settore ufficialmente denominato “titoli, contratti delle materie prime ed investimenti” è cresciuto in modo particolarmente rapido, passando da solo un 0,3 per cento del PIL della fine degli anni 70, all’1,7 per cento del PIL nel 2007.

Questa crescita sarebbe stata una buona cosa se la finanziarizzazione avesse effettivamente mantenuto[107] le sue promesse, se le imprese finanziarie avessero fatto profitti indirizzando i capitali verso gli usi maggiormente produttivi, sviluppando modi innovativi per distribuire e ridurre i rischi. Ma c’è qualcuno, al punto in cui sono le cose, che possa seriamente sostenere[108] una tesi del genere? Le imprese finanziarie, sappiamo come, hanno indirizzato grandi quantità di denaro nella costruzione di appartamenti invendibili[109] e di centri commerciali vuoti. Esse hanno accresciuto il rischio anziché ridurlo, lo hanno concentrato anziché spalmarlo. Di fatto, il settore finanziario ha venduto medicine manifestamente pericolose ad acquirenti creduloni. 

Il ruolo di Goldman nella finanziarizzazione dell’America è stato simile a quello di altri attori, con l’eccezione di un aspetto: Goldman era la prima a non credere  alla sua pubblicità[110]. Altre banche hanno investito pesantemente negli stessi rifiuti tossici e li hanno rivenduti al più largo pubblico. Goldman, notoriamente, fece un bel po’ di soldi nella vendita di titoli collegati con i mutui subprime, poi fece un altro bel po’ di soldi con la vendita a breve di altri titoli collegati con i mutui, proprio prima che il loro valore crollasse. Si trattò di una procedura perfettamente legale, ma il risultato netto fu che Goldman fece profitti trattandoci tutti come fessi[111].

E ora quelli di Wall Street hanno tutti gli incentivi per continuare a giocare una partita del genere.

Le enormi gratifiche che Goldman metterà tra poco in circolazione, dimostrano che quei geni[112] del sistema finanziario stanno ancora operando dentro un meccanismo per il quale se viene testa vincono loro, se viene croce perdiamo noi. Se siete un banchiere, e producete grandi profitti a breve termine, sarete generosamente ricompensati, e non dovrete restituire il denaro al momento in cui quei profitti risulteranno essere stati un miraggio. Avrete ogni opportunità, a quel punto, di rivolgervi[113] ad investitori in modo che prendano sulle loro spalle rischi che non sanno valutare.

E i fatti dell’ultimo anno hanno ancor più curvato[114] quegli incentivi a loro vantaggio, mettendo i contribuenti al gancio esattamente come gli investitori, nel caso che le cose andassero male.

Non voglio provare ad analizzare[115] le controverse opinioni[116] relativamente alla misura del beneficio diretto che Goldman ha ricevuto dai recenti salvataggi finanziari, specialmente a seguito della assunzione da parte del governo delle passività di A.I.G. Quello che è chiaro è che in generale Wall Street, inclusa Goldman ad ottimo titolo[117],  ha ampiamente goduto del privilegio della previsione governativa di una barriera di protezione finanziaria[118], una assicurazione destinata a mettere in salvo tutti gli operatori maggiori ogni qual volta le cose volgano al peggio.

Si può sostenere che questi salvataggi sono necessari se si vuole evitare la ripetizione di una Grande Depressione. Difatti, io sono d’accordo. Ma il risultato è che le passività del sistema finanziario sono ora coperte da una implicita garanzia governativa.

Ora, nel passato ci fu una crescita simile di reti della sicurezza finanziaria e la istituzione di un deposito assicurativo federale, nel corso degli anni 30, fu accompagnata da molte regole più stringenti, al fine di garantire che la banche non abusassero dei loro privilegi. Questa volta, nuove regole sono ancora allo stato di progetti[119], e la lobby finanziaria è già al lavoro per combattere persino le più elementari forme di protezione per i consumatori.

Se questi sforzi di lobbyng avranno successo, noi avremo organizzato lo scenario per una disastro finanziario ancora più grande, nel corso di pochi anni[120]. La prossima crisi somiglierebbe a qualcosa di simile al disastro dei “risparmi e prestiti”[121] degli anni 80, nel corso della quale banche prive di regolamentazione giocarono d’azzardo con i soldi dei contribuenti o, in qualche caso, li rubarono addirittura; a parte il fatto che questa volta la crisi coinvolgerebbe il sistema finanziario nella sua interezza.

La morale della favola è che la fiammata trimestrale della Goldman è una buona notizia per la Goldman medesima e per la gente che ci lavora. In generale è una buona notizia per gli assi della finanza[122], i cui compensi stanno rapidamente risalendo ai livelli precedenti alla crisi. Ma è una cattiva notizia per quasi tutti gli altri. 

 

 

 


 

Costs and Compassion

By PAUL KRUGMAN

Published: July 23, 2009

The talking heads on cable TV panned President Obama’s Wednesday press conference. You see, he didn’t offer a lot of folksy anecdotes.

 

Shame on them. The health care system is in crisis. The fate of America’s middle class hangs in the balance. And there on our TVs was a president with an impressive command of the issues, who truly understands the stakes.

 

Mr. Obama was especially good when he talked about controlling medical costs. And there’s a crucial lesson there — namely, that when it comes to reforming health care, compassion and cost-effectiveness go hand in hand.

To see what I mean, compare what Mr. Obama has said and done about health care with the statements and actions of his predecessor.

President Bush, you may remember, was notably unconcerned with the plight of the uninsured. “I mean, people have access to health care in America,” he once remarked. “After all, you just go to an emergency room.”

 

 

Meanwhile, Mr. Bush claimed to be against excessive government expenditure. So what did he do to rein in the cost of Medicare, the biggest single item driving federal spending?

 

Nothing. In fact, the 2003 Medicare Modernization Act drove costs up both by preventing bargaining over drug prices and by locking in subsidies to insurance companies.

 

Now President Obama is trying to provide every American with access to health insurance — and he’s also doing more to control health care costs than any previous president.

 

I don’t know how many people understand the significance of Mr. Obama’s proposal to give MedPAC, the expert advisory board to Medicare, real power. But it’s a major step toward reducing the useless spending — the proliferation of procedures with no medical benefits — that bloats American health care costs.

 

And both the Obama administration and Congressional Democrats have also been emphasizing the importance of “comparative effectiveness research” — seeing which medical procedures actually work.

 

So the Obama administration’s commitment to health care for all goes along with an unprecedented willingness to get serious about spending health care dollars wisely. And that’s part of a broader pattern.

 

Many health care experts believe that one main reason we spend far more on health than any other advanced nation, without better health outcomes, is the fee-for-service system in which hospitals and doctors are paid for procedures, not results. As the president said Wednesday, this creates an incentive for health providers to do more tests, more operations, and so on, whether or not these procedures actually help patients.

 

 

 

So where in America is there serious consideration of moving away from fee-for-service to a more comprehensive, integrated approach to health care? The answer is: Massachusetts — which introduced a health-care plan three years ago that was, in some respects, a dress rehearsal for national health reform, and is now looking for ways to help control costs.

 

Why does meaningful action on medical costs go along with compassion? One answer is that compassion means not closing your eyes to the human consequences of rising costs. When health insurance premiums doubled during the Bush years, our health care system “controlled costs” by dropping coverage for many workers — but as far as the Bush administration was concerned, that wasn’t a problem. If you believe in universal coverage, on the other hand, it is a problem, and demands a solution.

 

 

 

Beyond that, I’d suggest that would-be health reformers won’t have the moral authority to confront our system’s inefficiency unless they’re also prepared to end its cruelty. If President Bush had tried to rein in Medicare spending, he would have been accused, with considerable justice, of cutting benefits so that he could give the wealthy even more tax cuts. President Obama, by contrast, can link Medicare reform with the goal of protecting less fortunate Americans and making the middle class more secure.

 

 

As a practical, political matter, then, controlling health care costs and expanding health care access aren’t opposing alternatives — you have to do both, or neither.

At one point in his remarks Mr. Obama talked about a red pill and a blue pill. I suspect, though I’m not sure, that he was alluding to the scene in the movie “The Matrix” in which one pill brings ignorance and the other knowledge.

 

Well, in the case of health care, one pill means continuing on our current path — a path along which health care premiums will continue to soar, the number of uninsured Americans will skyrocket and Medicare costs will break the federal budget. The other pill means reforming our system, guaranteeing health care for all Americans at the same time we make medicine more cost-effective.

Which pill would you choose?

 

“Costi e umanità[123]” di Paul Krugman

New York Times 23 luglio 2009

 

I presentatori della TV via cavo hanno criticato aspramente[124] la conferenza stampa del Presidente Obama di mercoledì. Sapete, egli non si era limitato ad offrire un po’ di aneddoti popolari.

Dovrebbero vergognarsi[125]. Il sistema della assistenza sanitaria è in crisi. Il destino degli americani con un reddito medio basso è in bilico. Ed è apparso sui vostri teleschermi un presidente che mostrava una padronanza impressionante[126] dei problemi, una effettiva capacità di comprendere gli interessi in gioco.

Obama è stato particolarmente efficace quando ha toccato il tema del controllo dei costi sanitari. E in questo c’è una lezione cruciale: precisamente, quando si arriva al nodo della riforma della sanità, il senso di umanità e l’efficacia amministrativa devono andare mano nella mano.

Per rendervi conto di cosa intendo, fate un paragone tra quello che ha detto e fatto Obama in materia di assistenza sanitaria, ed i discorsi e le azioni del suo predecessore.

Il Presidente Bush, come potete ricordare, era del tutto disinteressato alla condizione dei cittadini non assicurati. “Io mi propongo che la gente in America abbia accesso alla assistenza sanitaria” sottolineò in una occasione. “Dopo tutto, si tratta semplicemente di andare ad un Pronto Soccorso[127]”.

Nel frattempo, Bush sosteneva di essere contrario ad una spesa eccessiva da parte del governo. Cosa fece dunque per mettere sotto controllo i costi di Medicare, l’unico prodotto che muove in modo molto consistente la spesa federale?

Niente. Di fatto, la legge di modernizzazione di Medicare del 2003, spinse in alto i costi sia sotto l’aspetto della contrattazione preventiva dei prezzi dei farmaci, che sotto quello del blocco dei sussidi alle compagnie assicurative.

Oggi il Presidente Obama sta cercando di fornire ad ogni americano l’accesso alla assicurazione sanitaria, e sta anche facendo molto di più di ogni altro presidente che l’ha preceduto quanto a controllo dei costi della assistenza sanitaria.

Io non so quante persone hanno capito il significato della proposta di Obama di dare un potere reale a MedPAC, il consiglio di consulenza degli esperti di cui si avvale Medicare. Eppure si tratta del passo più importante nella direzione della riduzione delle spese inutili – la proliferazione di procedure che non portano alcun beneficio sanitario e che gonfiano la spesa per la assistenza sanitaria in America.

E sia la  amministrazione Obama che i Democratici al Congresso stanno anche enfatizzando l’importanza della cosiddetta “ricerca dell’efficacia comparata”, ovvero di una analisi dell’effettivo funzionamento delle procedure mediche.

In questo modo l’impegno della amministrazione Obama per una assistenza sanitaria per tutti va di pari passo con la volontà senza precedenti di fare sul serio un uso saggio delle risorse finanziarie della sanità. E quell’obbiettivo è parte di un disegno più generale.

Molti esperti di assistenza sanitaria ritengono che una principale ragione per la quale spendiamo assai di più delle altre nazioni avanzate nella sanità, senza ritorni significativi sul piano della salute, sia il sistema degli onorari[128] con il quale gli ospedali ed i dottori sono pagati per le procedure, piuttosto che per i risultati medici. Come il Presidente ha affermato mercoledi, questo determina un incentivo per gli operatori sanitari a fare più esami, più procedure e quant’altro, a prescindere dal fatto che queste operazioni siano di effettivo beneficio per i pazienti.

Dov’è dunque che si sta provando, in America, a venir fuori dal sistema degli onorari, per un approccio più comprensivo ed integrato alla assistenza sanitaria? La risposta è: nel Massachusetts, dove lo Stato ha introdotto tre anni fa un programma di assistenza sanitaria che è stato, per certi aspetti, una prova generale[129] per la riforma sanitaria nazionale, e dove sta ora cercando i modi che possono aiutare ad un controllo dei costi.

Perché una azione significativa sui costi sanitari deve andare di pari passo con il senso di umanità? Una risposta consiste nel fatto che un atteggiamento di umanità permette di non chiudere gli occhi sulle conseguenze dei costi crescenti sulla vita delle persone. Quando i premi delle assicurazioni sanitarie raddoppiarono durante gli anni di Bush, il nostro sistema sanitario “controllò i costi” scaricando la copertura assistenziale per molti lavoratori, ma per come la amministrazione Bush se ne interessava, quasto non fu un problema. Se voi credete nella copertura universale, invece, questo è un problema, e reclama una soluzione.

Oltre a ciò, io riterrei che gli aspiranti[130] riformatori della sanità non possono avere l’autorità morale per misurarsi con le inefficienze del nostro sistema senza essere anche disposti ad interrompere le sue crudeltà. Se il Presidente Bush avesse provato a ridurre la spesa per Medicare, egli sarebbe stato accusato, con buon fondamento, di voler ridurre i benefici al fine di regalare ai ricchi sgravi fiscali anche più cospicui. Di contro, il Presidente Obama può collegare la riforma di Medicare con l’obbiettivo di proteggere gli americani meno fortunati e di rendere i ceti medio bassi più sicuri.

Da un punto di vista pratico e politico, dunque, controllare i costi ed espandere le possibilità di accesso alla assistenza sanitaria non sono alternative inconciliabili, o si fanno entrambe le cose, o non se ne fa nessuna.

Ad un certo punto delle sue osservazioni, Obama ha parlato di una pillola rossa e di una pillola blu. Io sospetto, sebbene non ne sia sicuro, che esgli stesse alludendo alla scena del film “The Matrix”, nella quale una pillola induce l’ignoranza e l’altra la conoscenza.

Bene, nel caso della assistenza sanitaria una pillola comporta di proseguire sulla strada attuale – una strada nella quale i premi per la assistenza sanitaria continueranno a crescere, il numero dei non assicurati salirà alle stelle[131] e i costi di Medicare porteranno al dissesto il bilancio federale. L’altra pillola significa la riforma del nostro sistema, garantendo l’assistenza sanitaria a tutti gli Americani nello stesso tempo nel quale si lavora ad una medicina con un migliore rapporto costi-benefici.

Voi quale pillola scegliereste?

 

 

 

 

 

 


 

An Incoherent Truth

By PAUL KRUGMAN

Published: July 26, 2009

Right now the fate of health care reform seems to rest in the hands of relatively conservative Democrats — mainly members of the Blue Dog Coalition, created in 1995. And you might be tempted to say that President Obama needs to give those Democrats what they want.

 

But he can’t — because the Blue Dogs aren’t making sense.

 

To grasp the problem, you need to understand the outline of the proposed reform (all of the Democratic plans on the table agree on the essentials.)

Reform, if it happens, will rest on four main pillars: regulation, mandates, subsidies and competition.

 

 

By regulation I mean the nationwide imposition of rules that would prevent insurance companies from denying coverage based on your medical history, or dropping your coverage when you get sick. This would stop insurers from gaming the system by covering only healthy people.

 

 

On the other side, individuals would also be prevented from gaming the system: Americans would be required to buy insurance even if they’re currently healthy, rather than signing up only when they need care. And all but the smallest businesses would be required either to provide their employees with insurance, or to pay fees that help cover the cost of subsidies — subsidies that would make insurance affordable for lower-income American families.

 

Finally, there would be a public option: a government-run insurance plan competing with private insurers, which would help hold down costs.

The subsidy portion of health reform would cost around a trillion dollars over the next decade. In all the plans currently on the table, this expense would be offset with a combination of cost savings elsewhere and additional taxes, so that there would be no overall effect on the federal deficit.

 

So what are the objections of the Blue Dogs?

Well, they talk a lot about fiscal responsibility, which basically boils down to worrying about the cost of those subsidies. And it’s tempting to stop right there, and cry foul. After all, where were those concerns about fiscal responsibility back in 2001, when most conservative Democrats voted enthusiastically for that year’s big Bush tax cut — a tax cut that added $1.35 trillion to the deficit?

 

 

But it’s actually much worse than that — because even as they complain about the plan’s cost, the Blue Dogs are making demands that would greatly increase that cost.

There has been a lot of publicity about Blue Dog opposition to the public option, and rightly so: a plan without a public option to hold down insurance premiums would cost taxpayers more than a plan with such an option.

But Blue Dogs have also been complaining about the employer mandate, which is even more at odds with their supposed concern about spending. The Congressional Budget Office has already weighed in on this issue: without an employer mandate, health care reform would be undermined as many companies dropped their existing insurance plans, forcing workers to seek federal aid — and causing the cost of subsidies to balloon. It makes no sense at all to complain about the cost of subsidies and at the same time oppose an employer mandate.

 

 

 

So what do the Blue Dogs want?

Maybe they’re just being complete hypocrites. It’s worth remembering the history of one of the Blue Dog Coalition’s founders: former Representative Billy Tauzin of Louisiana. Mr. Tauzin switched to the Republicans soon after the group’s creation; eight years later he pushed through the 2003 Medicare Modernization Act, a deeply irresponsible bill that included huge giveaways to drug and insurance companies. And then he left Congress to become, yes, the lavishly paid president of PhRMA, the pharmaceutical industry lobby.

 

One interpretation, then, is that the Blue Dogs are basically following in Mr. Tauzin’s footsteps: if their position is incoherent, it’s because they’re nothing but corporate tools, defending special interests. And as the Center for Responsive Politics pointed out in a recent report, drug and insurance companies have lately been pouring money into Blue Dog coffers.

 

 

But I guess I’m not quite that cynical. After all, today’s Blue Dogs are politicians who didn’t go the Tauzin route — they didn’t switch parties even when the G.O.P. seemed to hold all the cards and pundits were declaring the Republican majority permanent. So these are Democrats who, despite their relative conservatism, have shown some commitment to their party and its values.

 

 

Now, however, they face their moment of truth. For they can’t extract major concessions on the shape of health care reform without dooming the whole project: knock away any of the four main pillars of reform, and the whole thing will collapse — and probably take the Obama presidency down with it.

Is that what the Blue Dogs really want to see happen? We’ll soon find out.

 

“Una verità incoerente” di Paul Krugman

New York Times 26 luglio 2009

 

A questo punto il destino della riforma della assistenza sanitaria sembra sia nelle mani di quei Democratici relativamente conservatori, e tra essi principalmente dei componenti della Blue Dog Coalition[132], il gruppo creato nel 1995. Si sarebbe tentati di dire che il Presidente Obama dovrebbe concedere a quei democratici quello che essi vogliono.

Sennonché egli non può farlo, perché la posizione dei Blue Dogs non ha un senso effettivo.

Per afferrare il problema, dovete comprendere la sostanza della riforma proposta (tutti i programmi dei Democratici che sono sul tavolo, convergono sulle cose essenziali).

La riforma, se mai vedrà la luce, si reggerà su quattro principali pilastri: il regolamento, la questione delle responsabilità delle imprese e dei singoli[133], i sussidi e la concorrenza.

Per regolamento intendo l’imposizione su scala nazionale di quelle regole che impedirebbero alle compagnie assicuratrici di negare la copertura sulla base di argomenti derivanti dalla vostra storia clinica, oppure di farla cadere nel momento in cui vi ammalate. Il che impedirebbe agli assicuratori di prendersi gioco del sistema, dando protezione soltanto alle persone in salute.

D’altra parte, anche ai singoli verrebbe impedito di prendersi gioco del sistema: gli Americani sarebbero tenuti ad acquistare l’assicurazione anche nei periodi nei quali sono in salute, piuttosto che iscriversi solo nel momento in cui hanno bisogno di assistenza.  E a tutte le imprese, con la sola eccezione delle minori, sarebbe richiesto o di assicurare direttamente i propri dipendenti, oppure di pagare un’imposta che aiuterebbe a coprire il costo dei sussidi pubblici, sussidi che renderebbero l’assicurazione sostenibile per le famiglie americane a basso reddito.

Infine, ci sarebbe una opzione pubblica: un programma assicurativo gestito dal governo in competizione con le assicurazioni private, che aiuterebbe ad abbassare i costi.

La parte dei sussidi nella riforma sanitaria avrebbe un costo di circa un miliardo di dollari nel prossimo decennio. In tutti i programmi attualmente sul tavolo, questa spesa verrebbe compensata con risparmi su altri costi[134] e con tasse addizionali, in modo tale che non ci sarebbe alcun effetto complessivo sul deficit federale.

Quali sono, dunque, le obiezioni dei Blue Dogs?

Ebbene, essi fanno un gran parlare di responsabilità della finanza pubblica, il che fondamentalmente riconduce al timore[135] per il costo di questi sussidi. Con il che si sarebbe tentati di fermarsi subito e di gridare allo scandalo[136].  Dopo tutto, dov’erano queste preoccupazioni sulla responsabilità fiscale nel passato 2001, quando gran parte dei Democratici conservatori aderirono con entusiasmo al grande taglio delle tasse di Bush di quell’anno, uno sgravio che aggravò il deficit per la bellezza di un miliardo e 350 milioni di dollari?

Ma in effetti è molto peggio di allora, perché nel mentre si lamentano per i costi del programma, i Blue Dogs avanzano richieste che accrescerebbero in modo cospicuo i costi.

C’è stata una grande pubblicità a proposito della opposizione dei Blue Dogs alla opzione pubblica, e comprensibilmente: un piano senza un’opzione pubblica che abbassi i premi assicurativi, costerebbe ai contribuenti di più che un piano con tale opzione.

Ma i Blue Dogs hanno anche messo sotto accusa le responsabilità previste a carico delle imprese, il che è anche maggiormente in contrasto con la loro supposta preoccupazione sulla spesa. Il Congressional Budget Office ha già fatto una simulazione di questo aspetto: senza gli obblighi per le imprese, la riforma della assistenza sanitaria finirebbe con l’essere messa a repentaglio, dato che molte compagnie farebbero cadere i loro precedenti programmi assicurativi, costringendo i lavoratori a cercarsi aiuti federali e provocando un rigonfiamento dei costi dei sussidi[137]. E’ completamente privo di senso lamentarsi per il costo dei sussidi e allo stesso tempo opporsi alle responsabilità delle imprese.

Cosa vogliono, dunque, i Blue Dogs?

Può darsi che essi siano soltanto ipocriti integrali. Vale la pena di raccontare la storia di uno dei fondatori della Blue Dog Coalition: l’ex deputato Bil Tauzin, della Lousiana. Il signor Tauzin passò ai Repubblicani subito all’indomani della costituzione del gruppo : otto anni più tardi egli approvò il Medicare Modernisation Act del 2003, un provvedimento del tutto irresponsabile che comprendeva anche cospicui premi alle imprese del settore farmaceutico ed assicurativo. A quel punto egli lasciò il Congresso per diventare, proprio così, il presidente generosamente retribuito della PhRMA, la lobby dell’industria fermaceutica.

Un interpretazione, dunque, è che i Blue Dogs stiano fondamentalmente seguendo le orme del singor Tauzin: se le loro posizioni sono incoerenti, questi dipenderebbe dal fatto che non son altro che strumenti di corporazioni, alla difesa dei loro particolari interessi. E il Center for Responsive Politics[138] ha sottolineato in un recente rapporto che le imprese dei sistemi assicurativi e fermaceutici, ultimamente, hanno riversato denaro nelle casse dei Blue Dogs.

Ma io penso di non essere abbastanza cinico per una spiegazione di quel genere. Dopo tutto, i Blue Dogs sono uomini politici che non hanno seguito il percorso del signor Tauzin; essi non cambiarono partito neanche quando il G.O.P. sembrava avesse tutte le carte in mano e gli esperti dichiaravano che la maggioranza al partito Repubblicano sarebbe durata in eterno. Dunque, si tratta di democratici che, a dispetto del loro relativo conservatorismo, hanno dimostrato un qualche attaccamento[139] al loro partito ed ai suoi valori.

E tuttavia, ora si trovano dinanzi al loro momento di verità. Perché essi non possono ottenere importanti concessioni nella configurazione di una riforma sanitaria senza mandare in rovina l’intero progetto: togliere[140] uno dei quattro principali pilastri della riforma equivarrebbe a provocarne il completo collasso, e probabilmente a far cadere la Presidenza Obama assieme ad esso.

E’ questo che i Blue Dogs voglione veramente veder accadere? Lo scopriremo presto.

 

 

 

 

 

  

 


 

Health Care Realities

By PAUL KRUGMAN

Published: July 30, 2009

At a recent town hall meeting, a man stood up and told Representative Bob Inglis to “keep your government hands off my Medicare.” The congressman, a Republican from South Carolina, tried to explain that Medicare is already a government program — but the voter, Mr. Inglis said, “wasn’t having any of it.”

It’s a funny story — but it illustrates the extent to which health reform must climb a wall of misinformation. It’s not just that many Americans don’t understand what President Obama is proposing; many people don’t understand the way American health care works right now. They don’t understand, in particular, that getting the government involved in health care wouldn’t be a radical step: the government is already deeply involved, even in private insurance.

 

 

 

And that government involvement is the only reason our system works at all.

The key thing you need to know about health care is that it depends crucially on insurance. You don’t know when or whether you’ll need treatment — but if you do, treatment can be extremely expensive, well beyond what most people can pay out of pocket. Triple coronary bypasses, not routine doctor’s visits, are where the real money is, so insurance is essential.

 

 

Yet private markets for health insurance, left to their own devices, work very badly: insurers deny as many claims as possible, and they also try to avoid covering people who are likely to need care. Horror stories are legion: the insurance company that refused to pay for urgently needed cancer surgery because of questions about the patient’s acne treatment; the healthy young woman denied coverage because she briefly saw a psychologist after breaking up with her boyfriend.

 

 

And in their efforts to avoid “medical losses,” the industry term for paying medical bills, insurers spend much of the money taken in through premiums not on medical treatment, but on “underwriting” — screening out people likely to make insurance claims. In the individual insurance market, where people buy insurance directly rather than getting it through their employers, so much money goes into underwriting and other expenses that only around 70 cents of each premium dollar actually goes to care.

 

 

 

 

 

Still, most Americans do have health insurance, and are reasonably satisfied with it. How is that possible, when insurance markets work so badly? The answer is government intervention.

 

Most obviously, the government directly provides insurance via Medicare and other programs. Before Medicare was established, more than 40 percent of elderly Americans lacked any kind of health insurance. Today, Medicare — which is, by the way, one of those “single payer” systems conservatives love to demonize — covers everyone 65 and older. And surveys show that Medicare recipients are much more satisfied with their coverage than Americans with private insurance.

 

Still, most Americans under 65 do have some form of private insurance. The vast majority, however, don’t buy it directly: they get it through their employers. There’s a big tax advantage to doing it that way, since employer contributions to health care aren’t considered taxable income. But to get that tax advantage employers have to follow a number of rules; roughly speaking, they can’t discriminate based on pre-existing medical conditions or restrict benefits to highly paid employees.

 

 

 

And it’s thanks to these rules that employment-based insurance more or less works, at least in the sense that horror stories are a lot less common than they are in the individual insurance market.

 

So here’s the bottom line: if you currently have decent health insurance, thank the government. It’s true that if you’re young and healthy, with nothing in your medical history that could possibly have raised red flags with corporate accountants, you might have been able to get insurance without government intervention. But time and chance happen to us all, and the only reason you have a reasonable prospect of still having insurance coverage when you need it is the large role the government already plays.

 

 

Which brings us to the current debate over reform.

Right-wing opponents of reform would have you believe that President Obama is a wild-eyed socialist, attacking the free market. But unregulated markets don’t work for health care — never have, never will. To the extent we have a working health care system at all right now it’s only because the government covers the elderly, while a combination of regulation and tax subsidies makes it possible for many, but not all, nonelderly Americans to get decent private coverage.

 

 

 

Now Mr. Obama basically proposes using additional regulation and subsidies to make decent insurance available to all of us. That’s not radical; it’s as American as, well, Medicare.

 

“I casi della assistenza sanitaria”, di Paul Krugman

New York Times 30 luglio 2009

In un recente incontro municipale, un uomo si è alzato e ha detto al Deputato Bob Inglis di “tenere la mani del vostro governo fuori dalla mia Medicare”. Il membro del Congresso, un repubblicano del Sud Carolina, ha cercato di spiegare che Medicare è già un programma governativo, ma l’elettore, secondo quanto Inglis ha riferito, “non era al corrente di niente del genere[141]”.

E’ una storia divertente, eppure mostra in quale misura la riforma della assistenza sanitaria debba superare un muro di disinformazione. Non si tratta solo del fatto che molti Americani non conoscono cosa il Presidente Obama stia proponendo; molta gente non ha alcuna idea di come il sistema americano di assistenza sanitaria funzioni in questo momento. Essi non sanno, in particolare, che mettere il governo nella condizioni di occuparsi di assistenza sanitaria non sarebbe un salto nel buio[142]: il governo se ne occupa già estesamente, persino nelle assicurazioni private.

E quel coinvolgimento governativo è l’unica ragione per la quale il nostro sistema in qualche modo funziona[143].

La questione chiave che dovete comprendere a proposito dell’assistenza sanitaria è che essa dipende in modo fondamentale dalle assicurazioni. Voi non sapete se e quando avrete bisogno di un trattamento, ma se accadesse, il trattamento potrebbe essere oltremodo dispendioso, molto oltre quello che potete tirar fuori di tasca vostra. Il denaro serve al momento di un triplice bypass alle coronarie, non per le visite mediche occasionali, ed è in questo modo che la assicurazione è essenziale.

Tuttavia i mercati delle assicurazioni sanitarie, lasciati a se stessi[144], funzionano molto male: gli assicuratori negano tutte le richieste che possono, e cercano anche di evitare la protezione delle persone che ne hanno evidente bisogno. Esiste una folla di aneddoti terrificanti[145]: la compagnia assicuratrice che ha rifiutato di pagare un indispensabile trattamento chirurgico su un cancro per via di questioni connesse con un trattamento dell’acne del paziente; la assistenza negata ad una giovane donna in salute che aveva avuto un breve colloquio con uno psicologo, a seguito di una rottura del suo fidanzamento.

E nei loro sforzi per evitare “perdite medicali”, questo è il termine utilizzato dalle assicurazioni per definire il pagamento dei conti delle cure, gli assicuratori spendono gran parte dei soldi incamerati attraverso i premi non nei trattamenti medici, bensì nel seguire il lavoro relativo alle cosidette “quotazioni sanitarie”[146], ovvero nello scartare la gente che ha probabilità di dover avanzare richieste alle assicurazioni. Nel mercato assicurativo individuale, nel quale la gente acquista direttamente la copertura assicurativa senza passare attraverso le proprie imprese, se ne va talmente tanto denaro in  verifica delle “quotazioni sanitarie” ed in altre spese del genere, che soltanto un 70 per cento di ogni dollaro speso per i premi assicurativi finisce in assistenza effettiva.

Eppure, molti americani hanno l’assicurazione sanitaria e sono ragionevolmente soddisfatti. Come è possibile, se i mercati delle assicurazioni funzionano così male? La risposta sta nell’intervento pubblico.

L’apetto più evidente consiste nel fatto che il governo fornisce assicurazione attraverso Medicare ed altri programmi simili. Prima che fosse istituito Medicare più del 40 per cento degli americani anziani mancavano di ogni tipo di assicurazione. Oggi, Medicare – che è, per inciso, uno di quei sistemi con un unico centro di responsabilità finanziaria[147] che i conservatori amano demonizzare –  protegge chiunque abbia 65 e più anni. E ricerche mostrano che i beneficiari di Medicare sono molto più soddisfatti della loro copertura che non gli americani con assicurazioni private.

Comunque, gran parte degli americani sotto i 65 anni possono usufruire di qualche forma di assicurazione privata. La grande maggioranza, tuttavia, non la acquista direttamente, ma la ottiene attraverso la propria impresa. C’è un grande vantaggio fiscale a comportarsi in questo modo, giacchè i contributi delle imprese per l’assistenza sanitaria non sono considerati reddito tassabile. Ma per conseguire questo vantaggio fiscale, gli imprenditori debbono attenersi ad un certo numero di regole: per dirla in termini generali, essi non possono adottare discriminazioni sulla base delle precedenti condizioni cliniche e neppure restringere i benefici dei loro impiegati con retribuzioni più alte.

Ed è grazie a queste regole che l’assicurazione basata sulle imprese più o meno funziona, nel senso che quelle storie terribili sono assai meno frequenti di quanto non lo siano sul mercato delle assicurazioni individuali.

La morale della favola è dunque la seguente: se avete attualmente una assicurazione sanitaria decente, potete ringraziare lo stato. E’ vero che se siete giovani e in salute, e non avete nella vostra storia clinica niente che potrebbe far alzare “bandierine rosse” ai commercialisti della vostra azienda, potreste essere nelle condizioni di ottenere la assicurazione senza l’intervento del governo. Ma il tempo passa e i casi della vita capitano a tutti[148], e il solo motivo per il quale avete una ragionevole prospettiva di conservare la copertura assicurativa nel momento del bisogno consiste nel ruolo significativo che lo stato già oggi esercita.

Il che ci riporta all’attuale dibattito sulla riforma.

Gli oppositori di destra della riforma vorrebbero che credeste che il Presidente Obama sia un socialista dallo sguardo minaccioso[149], all’assalto del libero mercato. Ma mercati senza regole non funzionano nel caso della assistenza sanitaria: non hanno mai funzionato e non funzioneranno in futuro[150]. Nella misura in cui oggi abbiamo un sistema di assistenza sanitaria che in qualche modo risponde ai suoi compiti, questo dipende dal fatto che lo stato protegge gli anziani, mentre una combinazione di regole e di sussidi fiscali consente a molti, ma non a tutti, gli americani non anziani di ottenere una decente copertura assicurativa privata.

Adesso Obama fondamentalmente propone di usare ulteriori regole e sussidi per mettere a disposizione di tutti un sistema assicurativo decente. In questo non c’è niente di radicale: è nello spirito americano, come del resto è americana Medicare[151].

 


 

Rewarding Bad Actors

By PAUL KRUGMAN

Published: August 2, 2009

Americans are angry at Wall Street, and rightly so. First the financial industry plunged us into economic crisis, then it was bailed out at taxpayer expense. And now, with the economy still deeply depressed, the industry is paying itself gigantic bonuses. If you aren’t outraged, you haven’t been paying attention.

But crashing the economy and fleecing the taxpayer aren’t Wall Street’s only sins. Even before the crisis and the bailouts, many financial-industry high-fliers made fortunes through activities that were worthless if not destructive from a social point of view.

 

And they’re still at it. Consider two recent news stories.

One involves the rise of high-speed trading: some institutions, including Goldman Sachs, have been using superfast computers to get the jump on other investors, buying or selling stocks a tiny fraction of a second before anyone else can react. Profits from high-frequency trading are one reason Goldman is earning record profits and likely to pay record bonuses.

 

 

On a seemingly different front, Sunday’s Times reported on the case of Andrew J. Hall, who leads an arm of Citigroup that speculates on oil and other commodities. His operation has made a lot of money recently, and according to his contract Mr. Hall is owed $100 million.

What do these stories have in common?

The politically salient answer, for now at least, is that in both cases we’re looking at huge payouts by firms that were major recipients of federal aid. Citi has received around $45 billion from taxpayers; Goldman has repaid the $10 billion it received in direct aid, but it has benefited enormously both from federal guarantees and from bailouts of other financial institutions. What are taxpayers supposed to think when these welfare cases cut nine-figure paychecks?

 

 

But suppose we grant that both Goldman and Mr. Hall are very good at what they do, and might have earned huge profits even without all that aid. Even so, what they do is bad for America.

 

 

Just to be clear: financial speculation can serve a useful purpose. It’s good, for example, that futures markets provide an incentive to stockpile heating oil before the weather gets cold and stockpile gasoline ahead of the summer driving season.

 

But speculation based on information not available to the public at large is a very different matter. As the U.C.L.A. economist Jack Hirshleifer showed back in 1971, such speculation often combines “private profitability” with “social uselessness.”

 

It’s hard to imagine a better illustration than high-frequency trading. The stock market is supposed to allocate capital to its most productive uses, for example by helping companies with good ideas raise money. But it’s hard to see how traders who place their orders one-thirtieth of a second faster than anyone else do anything to improve that social function.

 

 

What about Mr. Hall? The Times report suggests that he makes money mainly by outsmarting other investors, rather than by directing resources to where they’re needed. Again, it’s hard to see the social value of what he does.

 

And there’s a good case that such activities are actually harmful. For example, high-frequency trading probably degrades the stock market’s function, because it’s a kind of tax on investors who lack access to those superfast computers — which means that the money Goldman spends on those computers has a negative effect on national wealth. As the great Stanford economist Kenneth Arrow put it in 1973, speculation based on private information imposes a “double social loss”: it uses up resources and undermines markets.

 

 

 

Now, you might be tempted to dismiss destructive speculation as a minor issue — and 30 years ago you would have been right. Since then, however, high finance — securities and commodity trading, as opposed to run-of-the-mill banking — has become a vastly more important part of our economy, increasing its share of G.D.P. by a factor of six. And soaring incomes in the financial industry have played a large role in sharply rising income inequality.

 

 

What should be done? Last week the House passed a bill setting rules for pay packages at a wide range of financial institutions. That would be a step in the right direction. But it really should be accompanied by much broader regulation of financial practices — and, I would argue, by higher tax rates on supersized incomes.

 

 

Unfortunately, the House measure is opposed by the Obama administration, which still seems to operate on the principle that what’s good for Wall Street is good for America.

 

Neither the administration, nor our political system in general, is ready to face up to the fact that we’ve become a society in which the big bucks go to bad actors, a society that lavishly rewards those who make us poorer.

 

“Ricompense a chi non fa la propria parte[152]”, di Paul Krugman

New York Times 2 agosto 2009

Gli americani sono arrabbiati con Wall Street, e a ragione. Prima le banche ci hanno precipitato nella crisi finanziaria, poi hanno ottenuto i salvataggi a spese dei contribuenti. E ora, con l’economia ancora in profonda depressione, il settore finanziario si concede gigantesche gratifiche. Se non siete indignati, vuol dire che vi è sfuggito qualcosa.

Ma rovinare l’economia e spremere[153] i contribuenti non sono i soli peccati di Wall Street. Anche prima della crisi e dei salvataggi, molte imprese finanziarie che mirano in alto[154] fecero fortune attraverso attività indegne, se non, da un punto di vista sociale, propriamente distruttive.

Ed esse sono ancora a quel punto. Pensate a due recenti nuovi episodi.

Il primo riguarda la crescita del commercio “ad alta velocità”: alcuni istituti, compreso Goldman Sachs, hanno fatto uso di computer superveloci per scavalcare altri investitori, comprando o vendendo azioni una frazione minuscola di secondo prima che chiunque altro potesse agire. I profitti derivanti da questo genere di commercio ad elevata frequenza, sono una delle ragioni per la quale Goldman sta realizzando guadagni record e probabilmente pagherà indennità da primato.

Su un fronte apparentemente diverso, il Sunday’s Times ha riferito il caso di Andrew J. Hall, che dirige un settore di Citigroup che specula sul petrolio e su altri prodotti. Le sue operazioni di recente hanno prodotto un sacco di denaro, e sulla base del suo contratto il signor Hall ha intascato 100 milioni di dollari.

Che cosa hanno in comune queste storie?

La risposta fondamentale dal punto di vista politico, almeno per ora, è che in entrambi i casi assistiamo ad enormi compensi pagati da imprese che sono state tra le maggiori beneficiarie degli aiuti federali. Citi ha ricevuto circa 45 miliardi di dollari dai contribuenti; Goldman ha restituito i dieci miliardi di dollari che aveva ricevuto in aiuti diretti, ma ha tratto benefici enormi sia dalle garanzie federali che dai salvataggi di altri istituti finanziari. Come si pensa che dovrebbero reagire i contribuenti, quando in questi episodi di welfare si staccano assegni a nove cifre per pagare singoli stipendi[155]?

Ma supponiamo di prendere per buono che sia Goldman che il signor Hall si siano comportati ottimamente nel fare ciò che hanno fatto, e che potrebbero aver guadagnato elevati profitti anche senza tutto quell’aiuto. Anche in quel caso, quanto stanno facendo è negativo per l’America.

Per chiarezza: la speculazione finanziaria può servire a scopi utili. E’ una buona cosa, ad esempio, che i mercati dei futures forniscano incentivi per fare scorte di petrolio per riscaldamento prima che venga la stagione fredda, oppure per fare scorte di benzina in anticipo sui consumi per autoveicoli della stagione estiva[156].

Ma la speculazione basata su informazioni non disponibili per il largo pubblico è tutta un’altra questione. Come l’economista dell’ UCLA Jack Hirshleifer dimostrò nel passato 1971, una speculazione di tale genere di solito combina “profitti privati” con “inutilità sociale”.

E’ difficile immaginare una descrizione migliore per quelle operazioni che utilizzano la tecnologia della ‘elevata frequenza’. Si ritiene che il mercato azionario consenta di allocare i capitali nei suoi utilizzi maggiormente produttivi, per esempio aiutando le imprese che hanno buone idee a rafforzarsi finanziariamente[157]. Ma è difficile capire in che modo operatori che collocano i propri ordinativi un trentesimo di secondo più velocemente di chiunque altro, possano migliorare quella funzione sociale.

Che dire del signor Hall? Il servizio del Times ipotizza che egli faccia denaro principalmente vincendo con astuzie[158] gli altri investitori, piuttosto che indirizzando le risorse dove sono necessarie. Di nuovo, è difficile vedere il valore sociale dei suoi metodi.

E c’è un buon argomento che dimostra come quelle attività siano effettivamente dannose. Ad esempio: il commercio con la tecnologia della “elevata frequenza” probabilmente degrada le funzioni dei mercati azionari, essendo una specie di tassa sugli operatori ai quali manca l’accesso a quei computer superveloci, il che significa che i soldi che Goldman spende in quei computer producono una conseguenza negativa sulla ricchezza di noi tutti. Come il grande economista di Stanford Kenneth Arrow sottolineò nel 1973, la speculazione basata su informazioni private comporta “una doppia perdita dal punto di vista sociale”: essa esaurisce[159] le risorse e destabilizza i mercati.

Ora, voi potreste essere tentati di liquidare questa speculazione distruttiva come un male minore, e trenta anni fa avreste avuto ragione. Da allora, tuttavia, l’alta finanza – ovvero le operazioni sui titoli e sulle materie prime, in opposizione alle ordinarie[160] attività bancarie – è diventata una parte assai più importante della nostra economia, incrementando la sua percentuale sul PIL di un fattore pari a sei volte. E la crescita dei redditi nel settore finanziario ha giocato un ruolo importante nel determinare un brusco incremento delle più generali disuguaglianze di reddito.

Come si dovrebbe intervenire? La scorsa settimana la Camera ha approvato un disegno di legge che stabilisce regole per le retribuzioni complessive dell’intero comparto[161] degli istituti finanziari. Quello sarebbe un passo nella direzione giusta. Ma esso dovrebbe essere davvero accompagnato da un regolamento molto più ampio delle pratiche finanziarie, nonché, io proporrei, da aliquote fiscali maggiori per i redditi sproporzionatamente elevati[162].

Sfortunatamente l’amministrazione Obama si oppone all’iniziativa della Camera, a quanto pare sulla base del principio secondo il quale quello che va bene a Wall Street deve andar bene all’America.

Né l’amministrazione, come il nostro sistema politico nella sua interezza, sembrano pronti a fare i conti con il fatto che siamo diventati una società nella quale i grandi compensi vanno a coloro che recitano male la loro parte[163], una società che ricompensa profumatamente proprio quelli che ci fanno diventare più poveri. 

 

 


 

The Town Hall Mob

By PAUL KRUGMAN

Published: August 6, 2009

There’s a famous Norman Rockwell painting titled “Freedom of Speech,” depicting an idealized American town meeting. The painting, part of a series illustrating F.D.R.’s “Four Freedoms,” shows an ordinary citizen expressing an unpopular opinion. His neighbors obviously don’t like what he’s saying, but they’re letting him speak his mind.

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That’s a far cry from what has been happening at recent town halls, where angry protesters — some of them, with no apparent sense of irony, shouting “This is America!” — have been drowning out, and in some cases threatening, members of Congress trying to talk about health reform.

 

Some commentators have tried to play down the mob aspect of these scenes, likening the campaign against health reform to the campaign against Social Security privatization back in 2005. But there’s no comparison. I’ve gone through many news reports from 2005, and while anti-privatization activists were sometimes raucous and rude, I can’t find any examples of congressmen shouted down, congressmen hanged in effigy, congressmen surrounded and followed by taunting crowds.

 

 

And I can’t find any counterpart to the death threats at least one congressman has received.

So this is something new and ugly. What’s behind it?

Robert Gibbs, the White House press secretary, has compared the scenes at health care town halls to the “Brooks Brothers riot” in 2000 — the demonstration that disrupted the vote count in Miami and arguably helped send George W. Bush to the White House. Portrayed at the time as local protesters, many of the rioters were actually G.O.P. staffers flown in from Washington.

 

 

But Mr. Gibbs is probably only half right. Yes, well-heeled interest groups are helping to organize the town hall mobs. Key organizers include two Astroturf (fake grass-roots) organizations: FreedomWorks, run by the former House majority leader Dick Armey, and a new organization called Conservatives for Patients’ Rights.

 

 

The latter group, by the way, is run by Rick Scott, the former head of Columbia/HCA, a for-profit hospital chain. Mr. Scott was forced out of that job amid a fraud investigation; the company eventually pleaded guilty to charges of overbilling state and federal health plans, paying $1.7 billion — yes, that’s “billion” — in fines. You can’t make this stuff up.

 

 

But while the organizers are as crass as they come, I haven’t seen any evidence that the people disrupting those town halls are Florida-style rent-a-mobs. For the most part, the protesters appear to be genuinely angry. The question is, what are they angry about?

 

 

There was a telling incident at a town hall held by Representative Gene Green, D-Tex. An activist turned to his fellow attendees and asked if they “oppose any form of socialized or government-run health care.” Nearly all did. Then Representative Green asked how many of those present were on Medicare. Almost half raised their hands.

 

Now, people who don’t know that Medicare is a government program probably aren’t reacting to what President Obama is actually proposing. They may believe some of the disinformation opponents of health care reform are spreading, like the claim that the Obama plan will lead to euthanasia for the elderly. (That particular claim is coming straight from House Republican leaders.) But they’re probably reacting less to what Mr. Obama is doing, or even to what they’ve heard about what he’s doing, than to who he is.

 

 

That is, the driving force behind the town hall mobs is probably the same cultural and racial anxiety that’s behind the “birther” movement, which denies Mr. Obama’s citizenship. Senator Dick Durbin has suggested that the birthers and the health care protesters are one and the same; we don’t know how many of the protesters are birthers, but it wouldn’t be surprising if it’s a substantial fraction.

 

 

And cynical political operators are exploiting that anxiety to further the economic interests of their backers.

Does this sound familiar? It should: it’s a strategy that has played a central role in American politics ever since Richard Nixon realized that he could advance Republican fortunes by appealing to the racial fears of working-class whites.

Many people hoped that last year’s election would mark the end of the “angry white voter” era in America. Indeed, voters who can be swayed by appeals to cultural and racial fear are a declining share of the electorate.

 

But right now Mr. Obama’s backers seem to lack all conviction, perhaps because the prosaic reality of his administration isn’t living up to their dreams of transformation. Meanwhile, the angry right is filled with a passionate intensity.

 

And if Mr. Obama can’t recapture some of the passion of 2008, can’t inspire his supporters to stand up and be heard, health care reform may well fail.

 

“La folla dei municipi”, di Paul Krugman

New York Times 6 agosto 2009

 

C’è un famoso dipinto di Norman Rockwell dal titolo “Libertà di parola”, che raffigura una idealizzata manifestazione in una cittadina americana. L’opera, che fa parte di una serie di quattro dipinti che illustrano le “Quattro libertà” di Franklin Delano Roosvelt, mostra un normale cittadino nel mentre sta esprimendo una opinione piuttosto impopolare. Naturalmente i suoi vicini non apprezzano quanto sta dicendo, eppure gli consentono di dire la sua opinione[164].

Si tratta di tutt’altra cosa rispetto a quanto è successo in questi giorni nei municipi, dove manifestanti arrabbiati – alcuni di loro urlavano, senza alcuna apparente ironia, “Questa è l’America” – hanno ridotto al silenzio[165], e in qualche caso minacciato, membri del Congresso che cercavano di parlare sul tema della riforma sanitaria.

Alcuni commentatori hanno provato a minimizzare[166] la violenta rozzezza[167] di queste scene, paragonando la campagna contro la riforma sanitaria a quella contro la privatizzazione della Sicurezza Sociale del passato 2005. Ma non c’è alcun termine di paragone. Sono andato a rivedere vari resoconti giornalistici del 2005, e se gli attivisti ostili alla privatizzazione furono in qualche caso aspri ed anche rozzi, non ho potuto trovare alcun esempio di membri del Congresso accolti ad urla, di manifesti raffiguranti membri del Congresso impiccati, e neppure di membri del Congresso circondati ed inseguiti da folle insultanti.

Per non dire che non ho trovato niente di simile alle minacce di morte che almeno un membro del Congresso ha ricevuto.

Dunque, c’è qua qualcosa di nuovo e di brutto. Da cosa ha origine?

Robert Gibbs, il Segretario dell’ufficio stampa della Casa Bianca, ha paragonato le scene delle manifestazioni nei municipi sulla assistenza sanitaria ai “disordini dei Brooks Brothers” dell’anno 2000, la dimostrazione che interruppe la conta dei voti a Miami e presumibilmente aiutò George W. Bush nella scalata alla Casa Bianca. Camuffati[168] a quel tempo come manifestanti locali, molti dei protestatari erano in effetti funzionari del G.O.P. inviati sul posto da Washington.

Ma Gibbs ha probabilmente ragione solo a metà. E’ vero, gruppi di interesse ben organizzati si stanno prestando ad aiutare le folle dei contestatori dei municipi. Tra i principali organizzatori sono incluse due associazioni di apparente gente comune aderenti ad Astroturf [169]: Freedom Works[170], diretta da un passato esponente della maggioranza alla Camera di nome Dick Armey, e una nuova organizzazione denominata Conservatives for Patient’s Rights[171].

Quest’ultimo gruppo, come è noto, è diretto da Rick Scott, il precedente capo di Columbia/NCA, una rete di case di cura private. Scott fu costretto a lasciare quell’incarico a seguito di una indagine per frode: la società era stata alla fine dichiarata colpevole per i reati di sovrafatturazione sui programmi sanitari statali e federali, e dovette pagare un miliardo e 700 milioni di dollari – proprio così, “miliardo” – di multa. Non si può ragionare con roba del genere[172].

Eppure, se gli organizzatori sono effettivamente grossolani come appaiono, io non ho trovato nessuna somiglianza tra le persone che hanno creato scompiglio nelle manifestazioni  municipali e quella gente foraggiata del precedente della Florida[173]. In gran parte, i contestatori apparivano arrabbiati in modo genuino. La domanda è, per quale motivo erano così infuriati?

In un municipio è capitato un incidente significativo al Deputato Gene Green, democratico del Texas. Un attivista si è rivolto ai suoi compagni intervenuti per chiedere se essi “fossero contrari ad ogni genere di sanità governata dallo Stato o socializzata”. Praticamente tutti erano contrari. A quel punto il deputato Green ha chiesto quanti dei presenti fossero a carico di Medicare. Quasi la metà ha alzato la mano.

Ora, è probabile che persone che non sanno che Medicare è un programma governativo, non stiano reagendo a quello che Obama ha realmente proposto. Può darsi che esse credano a qualcuna delle mistificazioni che gli oppositori della riforma della assistenza sanitaria hanno messo in giro, come la pretesa secondo la quale il piano di Obama porterebbe all’eutanasia per le persone anziane (argomento che è stato messo direttamente in circolazione dai leaders repubblicani della Camera). In ogni caso, esse probabilmente se la prendono con quello che per loro Obama rappresenta, o magari con quello che hanno sentito dire che sta facendo, non con quello che è.

Il che significa che il fattore che opera dietro le contestazioni municipali è probabilmente la stessa agitazione culturale e razziale che sta dietro il movimento dei cosiddetti “nativi”[174], che nega ad Obama il diritto di cittadinanza. Il Senatore Dick Durbin ha suggerito che i “nativi” ed i contestori della riforma sanitaria siano le stesse persone; noi non sappiamo quanti tra coloro che protestano siano effettivamente “nativi”, ma non saremmo sorpresi se si trattasse di una parte sostanziale.

Cinici operatori politici stanno di fatto sfruttando questa agitazione per promuovere gli interessi economici dei loro sostenitori.

Vi suona familiare? Dovrebbe: si tratta  della stessa strategia che ebbe un ruolo fondamentale nella politica americana dal momento in cui Richard Nixon comprese che avrebbe potuto incrementare le fortune repubblicane facendo leva sulle paure razziali dei lavoratori bianchi.

Molta gente sperava che le elezioni dell’anno passato avessero segnato la fine dell’era dell’ “elettore bianco arrabbiato”. In effetti, gli elettori che possono essere influenzati da appelli alla paura culturale e razziale sono una quota in declino dell’elettorato.

Ma in questo momento i sostenitori di Obama sembrano mancare di convinzione, forse perché la prosaica realtà della sua amministrazione non pare all’altezza dei loro sogni di cambiamento. Nel frattempo, la destra più arrabbiata sembra aver fatto il pieno di appassionata volontà d’azione.

E se Obama non saprà riappropriarsi di un po’ della passione del 2008, non riuscirà a infondere nei suoi sostenitori quella fiducia che serve per reagire ed essere ascoltati. Cosicché, potrebbe ben accadere che la riforma della assistenza sanitaria non vada a buon esito.

 

 

  


 

Averting the Worst

By PAUL KRUGMAN

Published: August 9, 2009

So it seems that we aren’t going to have a second Great Depression after all. What saved us? The answer, basically, is Big Government.

Just to be clear: the economic situation remains terrible, indeed worse than almost anyone thought possible not long ago. The nation has lost 6.7 million jobs since the recession began. Once you take into account the need to find employment for a growing working-age population, we’re probably around nine million jobs short of where we should be.

 

 

And the job market still hasn’t turned around — that slight dip in the measured unemployment rate last month was probably a statistical fluke. We haven’t yet reached the point at which things are actually improving; for now, all we have to celebrate are indications that things are getting worse more slowly.

For all that, however, the latest flurry of economic reports suggests that the economy has backed up several paces from the edge of the abyss.

A few months ago the possibility of falling into the abyss seemed all too real. The financial panic of late 2008 was as severe, in some ways, as the banking panic of the early 1930s, and for a while key economic indicators — world trade, world industrial production, even stock prices — were falling as fast as or faster than they did in 1929-30.

 

 

 

But in the 1930s the trend lines just kept heading down. This time, the plunge appears to be ending after just one terrible year.

So what saved us from a full replay of the Great Depression? The answer, almost surely, lies in the very different role played by government.

 

Probably the most important aspect of the government’s role in this crisis isn’t what it has done, but what it hasn’t done: unlike the private sector, the federal government hasn’t slashed spending as its income has fallen. (State and local governments are a different story.) Tax receipts are way down, but Social Security checks are still going out; Medicare is still covering hospital bills; federal employees, from judges to park rangers to soldiers, are still being paid.

 

 

All of this has helped support the economy in its time of need, in a way that didn’t happen back in 1930, when federal spending was a much smaller percentage of G.D.P. And yes, this means that budget deficits — which are a bad thing in normal times — are actually a good thing right now.

 

In addition to having this “automatic” stabilizing effect, the government has stepped in to rescue the financial sector. You can argue (and I would) that the bailouts of financial firms could and should have been handled better, that taxpayers have paid too much and received too little. Yet it’s possible to be dissatisfied, even angry, about the way the financial bailouts have worked while acknowledging that without these bailouts things would have been much worse.

 

The point is that this time, unlike in the 1930s, the government didn’t take a hands-off attitude while much of the banking system collapsed. And that’s another reason we’re not living through Great Depression II.

 

Last and probably least, but by no means trivial, have been the deliberate efforts of the government to pump up the economy. From the beginning, I argued that the American Recovery and Reinvestment Act, a k a the Obama stimulus plan, was too small. Nonetheless, reasonable estimates suggest that around a million more Americans are working now than would have been employed without that plan — a number that will grow over time — and that the stimulus has played a significant role in pulling the economy out of its free fall.

 

 

All in all, then, the government has played a crucial stabilizing role in this economic crisis. Ronald Reagan was wrong: sometimes the private sector is the problem, and government is the solution.

And aren’t you glad that right now the government is being run by people who don’t hate government?

We don’t know what the economic policies of a McCain-Palin administration would have been. We do know, however, what Republicans in opposition have been saying — and it boils down to demanding that the government stop standing in the way of a possible depression.

I’m not just talking about opposition to the stimulus. Leading Republicans want to do away with automatic stabilizers, too. Back in March, John Boehner, the House minority leader, declared that since families were suffering, “it’s time for government to tighten their belts and show the American people that we ‘get’ it.” Fortunately, his advice was ignored.

 

I’m still very worried about the economy. There’s still, I fear, a substantial chance that unemployment will remain high for a very long time. But we appear to have averted the worst: utter catastrophe no longer seems likely.

 

And Big Government, run by people who understand its virtues, is the reason why.

 

“Evitare il peggio”, di Paul Krugman

New York Times, 9 agosto 2009

 

E così sembra che, in fin dei conti, non stiamo andando verso una seconda Grande Depressione. Cosa ci ha salvato? La risposta è, fondamentalmente, il Grande Governo[175].

Siamo chiari: la situazione economica americana rimane terribile, sicuramente peggiore di quanto quasi tutti ritenessero possibile non molto tempo fa. Il paese ha perso 6,7 milioni di posti di lavoro dal momento in cui la recessione ha avuto inizio. Se poi[176] mettete nel conto il bisogno di cercar lavoro per la crescente popolazione in età lavorativa, ci troviamo probabilmente con nove milioni di posti di lavoro in meno rispetto a quanto dovremmo.

E il mercato del lavoro non si è ancora risollevato: la leggera discesa del tasso di disoccupazione rilevata il mese scorso è dipesa probabilmente di un colpo di fortuna statistico. In realtà non abbiamo ancora raggiunto il punto in cui la situazione migliora: per ora, tutto quello che possiamo celebrare sono indici secondo i  quali le cose stanno peggiorando più lentamente.

Con tutto questo, tuttavia, l’ultima raffica di analisi economiche suggerisce che l’economia è tornata indietro di parecchio passi dal bordo dell’abisso.

Pochi mesi orsono, la possibilità di una caduta nel baratro era sembrata sin troppo reale. Il panico finanziario dell’ultima parte del 2008 era stato, per certi aspetti, atrettanto drammatico del panico bancario dei primi anni trenta, e per un certo periodo gli indicatori chiave dell’economia – il commercio mondiale, la produzione industriale mondiale ed anche i valori delle azioni – erano caduti altrettanto se non più velocemente che non nel 1929-30.

Ma negli anni 30 la congiuntura[177] continuò a precipitare. Questa volta, il tracollo appare al termine dopo un solo anno terribile.

Dunque, cosa ci ha salvato da una pura e semplice riedizione della Grande Depressione? La risposta, quasi certamente, sta nel ruolo molto diverso che ha avuto il governo.

Probabilmente,  l’aspetto più importante del ruolo del governo in questa crisi non è consistito in ciò che esso ha fatto, ma in ciò che non ha fatto: diversamente dal settore privato, il governo federale non ha tagliato la spesa nel momento in cui le sue entrate sono cadute (gli Stati e le amministrazioni locali sono un’altra storia). Le entrate fiscali sono molto calate[178], ma gli assegni della Sicurezza Sociale continuano ad essere emessi; Medicare continua a rimborsare i costi degli ospedali; gli impiegati federali, dai giudici alle guardie forestali ai soldati, sono sempre stati pagati.

Tutto ciò ha fornito sostegno all’economia nel momento in cui ne aveva bisogno, in un modo che non ha confronti con gli anni 30, quando la spesa federale era una percentuale molto più piccola del PIL. E davvero questo significa che la spesa in deficit, che è una cattiva pratica in condizioni normali, nelle condizioni attuali è effettivamente la cosa giusta.

In aggiunta a questo effetto “automatico” di stabilizzazione, il governo è intervenuto[179] nel salvataggio del settore finanziario. Si può obiettare (io lo farei)  che il salvataggio delle imprese finanziarie avrebbe potuto e dovuto essere attuato meglio, che i contribuenti hanno pagato troppo e ricevuto troppo poco. E’ anche possibile essere insoddisfatti, persino arrabbiati, dei modi nei quali i salvataggi finanziari hanno operato, pur riconoscendo che senza questi salvataggi le cose sarebbero andate molto peggio.

Il punto è che questa volta, diversamente dagli anni 30, il governo non è rimasto con le mani in mano[180] nel mentre gran parte del sistema finanziario entrava in collasso. E questa è un’altra ragione per la quale non stiamo vivendo la Seconda Grande Depressione.

Per ultimi e probabilmente non i più importanti[181], ma con effetti niente affatto banali[182], ci sono stati gli sforzi mirati[183] del governo per ridare fiato[184] all’economia. Sin dall’inizio ho avanzato l’obiezione che l’American Recovery and Reinvestment Act, ovvero il programma di sostegno di Obama, fosse insufficiente. Ciononostante, stime ragionevoli suggeriscono che circa un milione di americani (un numero che crescerà col tempo) che non avrebbero trovato impiego senza quel piano, sono oggi al lavoro, e dunque quel piano ha giocato un ruolo considerevole nel salvare l’economia da una caduta libera.

Tutto sommato, dunque, il governo ha avuto un ruolo cruciale di stabilizzazione in questa crisi economica. Ronald Reagan aveva torto: qualche volta il settore privato è il problema e il governo è la soluzione.

Dovreste esser contenti che di questi tempi la cosa pubblica sia amministrata da gente che non odia i governi[185].

Noi non sappiamo quali sarebbero state le politiche economiche di una amministrazione Mc Cain-Pelin. Sappiamo, tuttavia, cosa stanno dicendo i Repubblicani all’opposizione, che può essere condensato[186] nella richiesta che il governo stia fermo per tutta la durata di una possibile depressione.

Non sto solo parlando dell’opposizione al programma di sostegno. Coloro che guidano i Repubblicani vorrebbero anche abolire gli stabilizzatori automatici. Lo scorso marzo, John Boehener, leader della minoranza alla Camera, ha dichiarato che finché le famiglie sono in sofferenza “è il momento per il governo di stringere la cintola e di mostrare agli Americani che possiamo farcela”. Un consiglio che, fortunatamente, è stato ignorato.

Io sono ancora molto preoccupato per l’economia. Temo che rimanga la possibilità sostenziale di un elevata disoccupazione per un periodo molto lungo. Ma sembra che siamo riusciti ad evitare il peggio: una catastrofe completa non sembra più verosimile.

E il Grande Governo, amministrato da gente che crede nelle virtù di quella politica, è la ragione che ci ha consentito di farlo.

 

 


 

 

Republican Death Trip

By PAUL KRUGMAN

Published: August 13, 2009

“I am in this race because I don’t want to see us spend the next year re-fighting the Washington battles of the 1990s. I don’t want to pit Blue America against Red America; I want to lead a United States of America.” So declared Barack Obama in November 2007, making the case that Democrats should nominate him, rather than one of his rivals, because he could free the nation from the bitter partisanship of the past.

 

Some of us were skeptical. A couple of months after Mr. Obama gave that speech, I warned that his vision of a “different kind of politics” was a vain hope, that any Democrat who made it to the White House would face “an unending procession of wild charges and fake scandals, dutifully given credence by major media organizations that somehow can’t bring themselves to declare the accusations unequivocally false.”

 

So, how’s it going?

Sure enough, President Obama is now facing the same kind of opposition that President Bill Clinton had to deal with: an enraged right that denies the legitimacy of his presidency, that eagerly seizes on every wild rumor manufactured by the right-wing media complex.

This opposition cannot be appeased. Some pundits claim that Mr. Obama has polarized the country by following too liberal an agenda. But the truth is that the attacks on the president have no relationship to anything he is actually doing or proposing.

 

Right now, the charge that’s gaining the most traction is the claim that health care reform will create “death panels” (in Sarah Palin’s words) that will shuffle the elderly and others off to an early grave. It’s a complete fabrication, of course. The provision requiring that Medicare pay for voluntary end-of-life counseling was introduced by Senator Johnny Isakson, Republican — yes, Republican — of Georgia, who says that it’s “nuts” to claim that it has anything to do with euthanasia.

 

 

And not long ago, some of the most enthusiastic peddlers of the euthanasia smear, including Newt Gingrich, the former speaker of the House, and Mrs. Palin herself, were all for “advance directives” for medical care in the event that you are incapacitated or comatose. That’s exactly what was being proposed — and has now, in the face of all the hysteria, been dropped from the bill.

 

Yet the smear continues to spread. And as the example of Mr. Gingrich shows, it’s not a fringe phenomenon: Senior G.O.P. figures, including so-called moderates, have endorsed the lie.

 

Senator Chuck Grassley, Republican of Iowa, is one of these supposed moderates. I’m not sure where his centrist reputation comes from — he did, after all, compare critics of the Bush tax cuts to Hitler. But in any case, his role in the health care debate has been flat-out despicable.

Last week, Mr. Grassley claimed that his colleague Ted Kennedy’s brain tumor wouldn’t have been treated properly in other countries because they prefer to “spend money on people who can contribute more to the economy.” This week, he told an audience that “you have every right to fear,” that we “should not have a government-run plan to decide when to pull the plug on grandma.”

 

 

Again, that’s what a supposedly centrist Republican, a member of the Gang of Six trying to devise a bipartisan health plan, sounds like.

 

So much, then, for Mr. Obama’s dream of moving beyond divisive politics. The truth is that the factors that made politics so ugly in the Clinton years — the paranoia of a significant minority of Americans and the cynical willingness of leading Republicans to cater to that paranoia — are as strong as ever. In fact, the situation may be even worse than it was in the 1990s because the collapse of the Bush administration has left the G.O.P. with no real leaders other than Rush Limbaugh.

 

The question now is how Mr. Obama will deal with the death of his postpartisan dream.

So far, at least, the Obama administration’s response to the outpouring of hate on the right has had a deer-in-the-headlights quality. It’s as if officials still can’t wrap their minds around the fact that things like this can happen to people who aren’t named Clinton, as if they keep expecting the nonsense to just go away.

 

What, then, should Mr. Obama do? It would certainly help if he gave clearer and more concise explanations of his health care plan. To be fair, he’s gotten much better at that over the past couple of weeks.

 

What’s still missing, however, is a sense of passion and outrage — passion for the goal of ensuring that every American gets the health care he or she needs, outrage at the lies and fear-mongering that are being used to block that goal.

 

So can Mr. Obama, who can be so eloquent when delivering a message of uplift, rise to the challenge of unreasoning, unappeasable opposition? Only time will tell.

 

“Il macabro passo falso dei repubblicani[187]” di Paul Krugman

New York Times 13 agosto 2009

“Io sono in questa competizione perché non voglio che noi sprechiamo il prossimo anno di nuovo a combattere le stesse battaglie degli anni 90. Non voglio lo scontro tra l’America blu e l’America rossa; voglio guidare gli Stati Uniti d’America”. Questo dichiarò Barck Obama nel settembre del 2007, sostenendo la tesi che i Democratici avrebbero dovuto nominare lui anziché uno dei suoi rivali, perché avrebbe liberato l’America dalla aspra faziosità del passato.

Alcuni di noi furono scettici. Due mesi dopo quel discorso di Obama, io misi in guardia che quella sua concezione di “una politica di un nuovo genere” era una speranza infondata, che ogni democratico che avesse provato a fare una cosa del genere alla Casa Bianca, si sarebbe trovato a fronteggiare una “serie interminabile di accuse selvagge e di finti scandali, generosamente accreditati dai principali media che non possono in alcun modo spingersi sino alla demistificazione di accuse inequivocabilmente false[188]”.

Come sta andando, dunque?

E’ abbastanza chiaro che il Presidente Obama è adesso alle prese con lo stesso tipo di opposizione con la quale si era misurato Bill Clinton: una destra arrabbiata che nega ogni legittimazione alla sua presidenza e che scrupolosamente[189] si appropria di ogni insinuazione pazzesca architettata[190] dall’apparato mediatico dell’estrema destra.

Non è stato possibile placare l’opposizione. Alcuni esperti sostengono che Obama avrebbe polarizzato il paese, attenendosi ad una agenda troppo “liberal”. La verità e che gli attacchi al Presidente non hanno alcun nesso con qualsiasi cosa egli realmente faccia o proponga.

Proprio in questo momento, l’accusa che sta guadagnando il massimo della popolarità è la pretesa che la riforma della assistenza sanitaria finirà col creare i “tribunali della morte” (secondo la parole di Sarah  Pelin), i quali costringeranno gli anziani, ed altri con loro, a trascinarsi[191] verso una morte prematura. E’ chiaro che si tratta di una mistificazione completa. La disposizione che prevede che Medicare paghi per i volontari trattamenti terminali[192] è stata introdotta dal Senatore Jonny Isakson, un repubblicano – si, repubblicano – della Georgia, il quale dice che sarebbe da pazzi[193] ritenere che questo abbia qualcosa a che fare con l’eutanasia.

E non molto tempo fa, alcuni dei più entusiastici spacciatori[194] della calunnia dell’eutanasia, inclusi Newt Gingrich, precedente speaker della Camera, e la stessa Sarah Pelin, erano tutti a favore di “direttive di anticipazione[195]” a proposito delle cure mediche nei casi di coma irreversibile[196]. Il che è esattamente quello che era stato proposto, e che ora, dinanzi a tale isteria, è stato escluso dalla proposta di legge.

Tuttavia la calunnia continua a diffondersi. E come dimostra l’esempio di Gingrich, non si tratta di un fenomeno che riguarda posizioni estreme: mature personalita del G.O.P., inclusi i cosiddetti moderati, hanno sposato quella bugia.

Il Senatore Chuck Grassley, repubblicano dello Iowa, è uno di questi supposti moderati. Non so dirvi con certezza da dove vanga questa sua reputazione, considerato che dopo tutto aveva paragonato ad Hitler i critici dei tagli fiscali di Bush. Ma in ogni caso, il suo ruolo nel dibattito sulla assistenza sanitaria è stato, senza mezzi termini, ignobile[197].

La scorsa settimana, il signor Grassley ebbe a dichiarare che il tumore al cervello del suo collega Ted Kennedy, in altri paesi non sarebbe stato trattato appropriatamente, giacchè in essi si preferisce “spendere soldi per gente che può contribuire maggiormente all’economia”. Questa settimana egli ha dichiarato pubblicamente che “ci sono tutte le ragioni per essere spaventati”, dato che “non dovremmo avere un programma governativo che ha il potere di decidere quando si può ‘staccare la spina’ alla nonna”.

A quanto pare, inoltre, questo supposto centrista repubblicano sarebbe un componente della “Banda dei Sei”, alla quale è affidato il compito di escogitare un programma sanitario bipartisan.

C’è quanto basta, dunque, per il sogno di Obama di superare il settarismo politico. La verità è che i fattori che resero la politica così violenta negli anni di Clinton – la paranoia di una minoranza significativa di americani e la cinica disponibilità di chi era alla guida dei Repubblicani di soddisfare quella paranoia – sono più forti che mai. Di fatto, la situazione potrebbe essere persino peggiore di quella negli anni 90, perché il collasso della amministrazione Bush ha lasciato il G.O.P. senza nessun reale leader oltre Rush Limbaugh.

La questione adesso è come Obama vorrà fare i conti con la morte del suo sogno bipartisan.

Almeno sino a questo punto, la risposta della amministrazione Obama a questo eccesso[198] di odio, potremmo dire che è stata simile a quella di un cervo abbagliato dalle luci di una autovettura[199]. E’ come se i dirigenti della amministrazione non avessero ancora fatto mente locale[200] sulla circostanza che cose del genere possono accadere anche a persone che non si chiamano Clinton, come se stessero semplicemente aspettando un chiarimento dell’equivoco[201] per  procedere oltre.

Cosa farà, dunque, Obama? Sarebbe certamente di aiuto se egli fornisse spiegazioni più chiare e concise del suo piano di assistenza sanitaria. Ad essere onesti, è quello che ha fatto nel corso delle due ultime settimane.

Quello che ancora manca, tuttavia, è sia il senso di una passione civile che quello di una ribellione – passione civile per un obbiettivo che garantirebbe ad ogni donna ed uomo americani di ricevere la assistenza sanitaria di cui hanno bisogno, ribellione per le bugie e per il terrorismo verbale che è stato utilizzato contro quel proposito.

Saprà dunque Obama, che è capace di tanta eloquenza quando si tratta di inviare un messaggio per sollevare il morale degli americani, mettersi nelle condizioni di sfidare una opposizione così irragionevole ed irriducibile? Solo il tempo ce lo potrà dire.

 

 

 

 


 

The Swiss Menace

By PAUL KRUGMAN

Published: August 16, 2009

It was the blooper heard round the world. In an editorial denouncing Democratic health reform plans, Investor’s Business Daily tried to frighten its readers by declaring that in Britain, where the government runs health care, the handicapped physicist Stephen Hawking “wouldn’t have a chance,” because the National Health Service would consider his life “essentially worthless.”

 

 

Professor Hawking, who was born in Britain, has lived there all his life, and has been well cared for by the National Health Service, was not amused.

Besides being vile and stupid, however, the editorial was beside the point. Investor’s Business Daily would like you to believe that Obamacare would turn America into Britain — or, rather, a dystopian fantasy version of Britain. The screamers on talk radio and Fox News would have you believe that the plan is to turn America into the Soviet Union. But the truth is that the plans on the table would, roughly speaking, turn America into Switzerland — which may be occupied by lederhosen-wearing holey-cheese eaters, but wasn’t a socialist hellhole the last time I looked.

 

 

 

 

Let’s talk about health care around the advanced world.

 

Every wealthy country other than the United States guarantees essential care to all its citizens. There are, however, wide variations in the specifics, with three main approaches taken.

In Britain, the government itself runs the hospitals and employs the doctors. We’ve all heard scare stories about how that works in practice; these stories are false. Like every system, the National Health Service has problems, but over all it appears to provide quite good care while spending only about 40 percent as much per person as we do. By the way, our own Veterans Health Administration, which is run somewhat like the British health service, also manages to combine quality care with low costs.

 

 

The second route to universal coverage leaves the actual delivery of health care in private hands, but the government pays most of the bills. That’s how Canada and, in a more complex fashion, France do it. It’s also a system familiar to most Americans, since even those of us not yet on Medicare have parents and relatives who are.

 

Again, you hear a lot of horror stories about such systems, most of them false. French health care is excellent. Canadians with chronic conditions are more satisfied with their system than their U.S. counterparts. And Medicare is highly popular, as evidenced by the tendency of town-hall protesters to demand that the government keep its hands off the program.

Finally, the third route to universal coverage relies on private insurance companies, using a combination of regulation and subsidies to ensure that everyone is covered. Switzerland offers the clearest example: everyone is required to buy insurance, insurers can’t discriminate based on medical history or pre-existing conditions, and lower-income citizens get government help in paying for their policies.

 

 

In this country, the Massachusetts health reform more or less follows the Swiss model; costs are running higher than expected, but the reform has greatly reduced the number of uninsured. And the most common form of health insurance in America, employment-based coverage, actually has some “Swiss” aspects: to avoid making benefits taxable, employers have to follow rules that effectively rule out discrimination based on medical history and subsidize care for lower-wage workers.

 

 

 

So where does Obamacare fit into all this? Basically, it’s a plan to Swissify America, using regulation and subsidies to ensure universal coverage.

 

If we were starting from scratch we probably wouldn’t have chosen this route. True “socialized medicine” would undoubtedly cost less, and a straightforward extension of Medicare-type coverage to all Americans would probably be cheaper than a Swiss-style system. That’s why I and others believe that a true public option competing with private insurers is extremely important: otherwise, rising costs could all too easily undermine the whole effort.

 

 

But a Swiss-style system of universal coverage would be a vast improvement on what we have now. And we already know that such systems work.

 

So we can do this. At this point, all that stands in the way of universal health care in America are the greed of the medical-industrial complex, the lies of the right-wing propaganda machine, and the gullibility of voters who believe those lies.

 

 

Correction: In Friday’s column I mistakenly asserted that Senator Johnny Isakson was responsible for a provision in a House bill that would allow Medicare to pay for end-of-life counseling. In fact, he is responsible for a provision in a Senate bill that would allow a different, newly created government program to pay for such counseling.

 

“La minaccia svizzera”, di Paul Krugman

New York Times 16 agosto 2009

 

E’ stata una papera[202] che ha fatto il giro del mondo. In un editoriale di denuncia dei programmi di riforma sanitaria dei Democratici, Investor’s Businness Daily ha provato a spaventare i suoi lettori dichiarando che in Gran Bretagna, dove il governo gestisce la assistenza sanitaria, il fisico portatore di handicap Stephen Hawking “non avrebbe avuto alcuna opportunità”, perché il National Health Service avrebbe considerato la sua vita “essenzialmente senza valore”.

Il professor Hawking, che è nato in Inghilterra, ha vissuto lì per tutta la vita ed è stato ottimamente assistito dal servizio sanitario nazionale, non si è divertito.

Oltre ad essere vile e stupido, tuttavia, quell’editoriale era fuori tema. All’ Investor’s Businness Daily piacerebbe che voi credeste che la assistenza di Obama renderà l’America simile all’Inghilterra, o, piuttosto, ad una fantasiosa versione miserabile[203]  dell’Inghilterra. I conduttori che strepitano[204] nelle conversazioni radiofoniche e quelli di Fox News vorrebbero che voi vi convinceste che quel programma trasformerà l’America nell’Unione Sovietica. Ma la verità è che quei programmi che sono sotto esame trasformeranno l’America, per dirla semplicisticamente, in qualcosa di simile alla Svizzera, che può darsi che sia un paese abitato da individui che si vestono con calzoni corti e bretelle e passano il tempo a mangiare formaggio con i buchi [205], ma non mi risulta si sia trasformata, nel tempi recenti, in un girone dell’inferno socialista[206].

Parliamo un po’ della assistenza sanitaria nei paesi del mondo avanzato.

Ogni paese ricco, ad eccezione degli Stati Uniti, garantisce una forma essenziale di assistenza a tutti i propri cittadini. Vi sono, tuttavia, ampie differenze nelle situazioni specifiche, sulla base di tre principali indirizzi.

In Gran Bretagna è il governo stesso che gestisce gli ospedali ed impiega il personale medico. Abbiamo tutti sentito racconti spaventosi su come questo funzioni in pratica: si tratta di storie false. Come ogni sistema, il National Health Service ha i suoi problemi, ma soprattutto si capisce che esso fornisce una assistenza piuttosto buona con una spesa che è il 40 per cento a persona di quanto spendiamo noi. Incidentalmente, anche il nostro Veterans Health Administration, che gestisce qualcosa di simile al servizio sanitario inglese, si caratterizza per una combinazione di qualità assistenziale e di costi contenuti.

La seconda strada per una copertura universale lascia la effettiva operatività della assistenza sanitaria nelle mani dei privati, ma riserva ai governi il pagamento di gran parte dei conti. Questo è quanto fa il Canada e, in maniera più integrale, la Francia. Ed è anche un sistema familiare a molti americani, dato che  quelli di noi che non sono ancora assistiti da Medicare hanno parenti o genitori che lo sono.

Anche qua, sentirete un sacco di storie terrificanti su questi sistemi, gran parte delle quali completamente inventate. La assistenza sanitaria francese è eccellente. I canadesi con malattie croniche sono molto più soddisfatti dei loro omologhi americani. E Medicare è molto popolare, come è evidenziato dalle proteste municipali che chiedono al governo di tenere fuori le mani da quel programma.

Infine, la terza strada per una copertura universale si fonda sulle compagnie assicurative private, usando una combinazione di regole e di sussidi per assicurare che ognuno sia assistito. La Svizzera fornisce l’esempio più chiaro: ognuno è tenuto ad acquistare la assicurazione, gli assicuratori non possono fare discriminazioni sulla base della storia clinica degli utenti o delle loro preesistenti condizioni di salute, e i cittadini con i redditi più bassi ottengono aiuti dal governo per pagare le loro polizze.

Nel nostro paese, la riforma sanitaria del Massachusetts si ispira più o meno all’esempio svizzero: i costi sono cresciuti più di quanto ci si attendesse, ma si è grandemente ridotto il numero dei non assicurati. E la forma più comune di assicurazione sanitaria utilizzata in America, una copertura basata sulla responsabilità delle imprese, ha molti aspetti del modello svizzero: per evitare di produrre benefici tassabili, le imprese sono tenute ad attenersi a regole che effettivamente escludono la discriminazione basata sulla storia clinica e che offrono sussidi ai lavaoratori con gli stipendi più bassi.

Dunque, come dovrebbe integrarsi l’assistenza di Obama con tutto questo? Fondamentalmente, esso è un programma che si propone di rendere l’America simile alla Svizzera[207], utilizzando regole e sussidi per garantire la copertura universale.

Se partissimo da zero, probabilmente non avremmo scelto questo percorso. Una medicina effettivamente “socializzata” avrebbe indubitabilmente costi inferiori, e una diretta[208] estensione di una assistenza del tipo Medicare a tutti gli americani probabilmente sarebbe più economica del modello svizzero. Questa è la ragione per la quale alcuni di noi credono che una opzione pubblica che competa con le assicurazioni private sia estremamente importante: altrimenti, costi crescenti potrebbero anche troppo facilmente far naufragare l’intero tantativo.

Ma un sistema di copertura unversale sul modello svizzero, comporterebbe un profondo miglioramento rispetto alle nostre condizioni attuali. Inoltre, già sappiamo che si tratta di modelli funzionanti.

Dunque, possiamo scegliere questa strada. Al punto in cui siamo, tutto quello che si mette di traverso[209] ad una assistenza sanitaria universale in America sono gli interessi gretti del complesso medico-assicurativo[210], le bugie della macchina propagandistica della destra, e la dabbenaggine[211] degli elettori che credono a tali bugie.

  •  

Correzione: nell’articolo di venerdi ho erroneamente asserito che il Senatore Jonny Isakson era responsabile per una disposizione in una proposta di legge della Camera che consentirebbe a Medicare di pagare per le cure terminali. Di fatto, egli è responsabile di una previsione in una proposta di legge al Senato, che è relativa ad un diverso e recente programma governativo che ha per oggetto il pagamento di tali cure.

 

 

 

 


 

Obama’s Trust Problem

By PAUL KRUGMAN

Published: August 20, 2009

 

According to news reports, the Obama administration — which seemed, over the weekend, to be backing away from the “public option” for health insurance — is shocked and surprised at the furious reaction from progressives.

 

Well, I’m shocked and surprised at their shock and surprise.

A backlash in the progressive base — which pushed President Obama over the top in the Democratic primary and played a major role in his general election victory — has been building for months. The fight over the public option involves real policy substance, but it’s also a proxy for broader questions about the president’s priorities and overall approach.

 

The idea of letting individuals buy insurance from a government-run plan was introduced in 2007 by Jacob Hacker of Yale, was picked up by John Edwards during the Democratic primary, and became part of the original Obama health care plan.

 

One purpose of the public option is to save money. Experience with Medicare suggests that a government-run plan would have lower costs than private insurers; in addition, it would introduce more competition and keep premiums down.

 

And let’s be clear: the supposed alternative, nonprofit co-ops, is a sham. That’s not just my opinion; it’s what the market says: stocks of health insurance companies soared on news that the Gang of Six senators trying to negotiate a bipartisan approach to health reform were dropping the public plan. Clearly, investors believe that co-ops would offer little real competition to private insurers.

 

 

Also, and importantly, the public option offered a way to reconcile differing views among Democrats. Until the idea of the public option came along, a significant faction within the party rejected anything short of true single-payer, Medicare-for-all reform, viewing anything less as perpetuating the flaws of our current system. The public option, which would force insurance companies to prove their usefulness or fade away, settled some of those qualms.

 

 

 

That said, it’s possible to have universal coverage without a public option — several European nations do it — and some who want a public option might be willing to forgo it if they had confidence in the overall health care strategy. Unfortunately, the president’s behavior in office has undermined that confidence.

 

On the issue of health care itself, the inspiring figure progressives thought they had elected comes across, far too often, as a dry technocrat who talks of “bending the curve” but has only recently begun to make the moral case for reform. Mr. Obama’s explanations of his plan have gotten clearer, but he still seems unable to settle on a simple, pithy formula; his speeches and op-eds still read as if they were written by a committee.

 

 

Meanwhile, on such fraught questions as torture and indefinite detention, the president has dismayed progressives with his reluctance to challenge or change Bush administration policy.

 

 

And then there’s the matter of the banks.

I don’t know if administration officials realize just how much damage they’ve done themselves with their kid-gloves treatment of the financial industry, just how badly the spectacle of government supported institutions paying giant bonuses is playing. But I’ve had many conversations with people who voted for Mr. Obama, yet dismiss the stimulus as a total waste of money. When I press them, it turns out that they’re really angry about the bailouts rather than the stimulus — but that’s a distinction lost on most voters.

 

 

So there’s a growing sense among progressives that they have, as my colleague Frank Rich suggests, been punked. And that’s why the mixed signals on the public option created such an uproar.

 

Now, politics is the art of the possible. Mr. Obama was never going to get everything his supporters wanted.

But there’s a point at which realism shades over into weakness, and progressives increasingly feel that the administration is on the wrong side of that line. It seems as if there is nothing Republicans can do that will draw an administration rebuke: Senator Charles E. Grassley feeds the death panel smear, warning that reform will “pull the plug on grandma,” and two days later the White House declares that it’s still committed to working with him.

 

 

It’s hard to avoid the sense that Mr. Obama has wasted months trying to appease people who can’t be appeased, and who take every concession as a sign that he can be rolled.

 

Indeed, no sooner were there reports that the administration might accept co-ops as an alternative to the public option than G.O.P. leaders announced that co-ops, too, were unacceptable.

 

So progressives are now in revolt. Mr. Obama took their trust for granted, and in the process lost it. And now he needs to win it back.

 

“Obama e il problema della fiducia”, di PaulKrugman

New York Times 20 agosto.

 

Secondo notizie di agenzia, la amministrazione Obama, che era sembrata sul finire della scorsa settimana abbandonare la posizione della “opzione pubblica” in materia di assicurazione sanitaria, sarebbe rimasta colpita e sorpresa dalle reazioni furiose dei progressisti.

Bene, io sono colpito e sorpreso dalla meraviglia della amministrazione.

Una forte reazione negativa[212] nella base dei progressisti – quella stessa che aveva portato Obama in testa nelle primarie dei Democratici e che aveva giocato il ruolo principale nella sua vittoria nelle elezioni generali – era stata preparata da mesi. Lo scontro sulla opzione pubblica riguarda l’effettiva sostanza della politica, ma è anche indicativo[213] di questioni più generali che  riguardano le priorità del Presidente e il suo approccio complessivo.

L’idea di consentire agli utenti di comprarsi una copertura assicurativa dentro un programma gestito dal governo era stata introdotta da Jacob Hacker dello Yale, era stata raccolta da John Edwards durante le primarie dei Democratici, ed era diventata parte del progetto originario di assistenza sanitaria di Obama.

Uno dei propositi della opzione pubblica è quello di far risparmiare denaro. L’esperienza di Medicare suggerisce che un programma a gestione governativa avrebbe costi più bassi delle assicurazioni private; in aggiunta esso provocherebbe maggiore competizione e dunque abbasserebbe i premi.

E siamo chiari: la pretesa alternativa delle cooperative non-profit, è una finzione. Non si tratta solo della mia opinione, è quello che dice il mercato: le azioni delle società assicuratrici nella sanità sono schizzate in alto alla notizia relativa al tentativo della “banda dei Sei” di negoziare una soluzione bipartisan alla riforma sanitaria, che avrebbe fatto cadere il programma pubblico. Chiaramente, gli investitori ritengono che le cooperative sarebbero competitori assai modesti per le assicurazioni private.

Inoltre, e si tratta di un aspetto importante, l’opzione pubblica aveva offerto un modo per riconciliare i diversi punti di vista tra i Democratici. Finché non si era presentata l’idea della opzione pubblica, una significativa fazione all’interno del Partito respingeva qualsiasi soluzione non fosse effettivamente fondata su un unico centro di responsabilità finanziaria[214], ovvero su una riforma consistente nel “Medicare per tutti”, vedendo in ogni altra soluzione minore la perpetuazione delle tare del sistema attuale. L’opzione pubblica, che avrebbe costretto le compagnie assicurative a provare la loro utilità oppure a scomparire, placava buona parte di quelle insofferenze[215].

Cio detto, è possibile ottenere una copertura assistenziale universale senza una opzione pubblica – varie nazioni europee lo fanno – e coloro che vogliono una opzione pubblica potrebbero essere disponibili a rinunciarvi alla condizione di poter avere fiducia in una strategia complessiva di assistenza sanitaria. Sfortunatamente, la condotta del Presidente nelle sue funzioni ha minato questa fiducia.

Sulla stessa questione della assistenza sanitaria, l’ ispirata personalità che i progressisti ritenevano di aver eletto[216] ha dato l’impressione[217], anche troppo spesso, di un arido tecnocrate che parla di “flettere la curva dei punteggi[218]”, ma che ha solo di recente cominciato a considerare l’aspetto morale della riforma. Le spiegazioni fornite dal Presidente Obama sul suo piano, lo hanno reso più chiaro, ma egli sembra ancora incapace di definirlo con una formula semplice e concisa: i suoi discorsi e gli articoli che sinora si sono letti sembrano scritti da una comitato di esperti.

Nello stesso tempo, su questioni così significative[219] come la tortura e le detenzione a tempo indeterminato, il Presidente ha provocato sgomento tra i progressisti, per la sua riluttanza a sfidare e comunque a cambiare la politica della amministrazione Bush.

Poi c’è la faccenda delle banche.

Io non so se i dirigenti della amministrazione comprendano esattamente quanto sia grande il danno che fanno a se stessi con il loro trattare con i guanti di velluto[220] il settore finanziario, così come l’effetto negativo che deriva da un governo che tollera le enormi gratifiche pagate dagli istituti finanziari. Io ho avuto molte conversazioni con persone che hanno votato per Obama, che ancora liquidano il programma di sostegno all’economia come un totale spreco di denaro. Quando si insiste a ragionare con loro, viene fuori che in realtà sono arrabbiati con i salvataggi della banche piuttosto che con il programma di sostegno all’economia, ma questa è una distinzione che si è smarrita nella testa di gran parte degli elettori.

C’è così una crescente sensazione tra i progressisti, come suggerisce il mio collega Frank Rich, di essere stati fregati[221]. E questa è la ragione per la quale i confusi segnali sulla opzione pubblica hanno creato un tale tumulto.

Ora, la politica è l’arte del possibile. Obama non ha mai dato l’impressione di accogliere tutte le pretese dei suoi sostenitori.

E tuttavia c’è un punto nel quale il realismo degrada in debolezza, e i progressisti hanno la sensazione crescente che la amministrazione sia finita dalla parte sbagliata di quella linea di discrimine. Sembra che i Repubblicani possano fare di tutto, senza mai ottenere una censura dalla amministrazione: il Senatore Charles E. Grassley alimenta la calunnia dei “tribunali della morte”[222], ammonendo che con la riforma si “staccherà la spina alla nonna”, e due giorni dopo la Casa Bianca dichiara di essere ancora impegnata a collaborare con lui.

E’ difficile evitare la sensazione che Obama abbia buttato via mesi per cercare una conciliazione con gente che non ne vuol sapere, e che prende ogni concessione come il segno di poter andare dappertutto[223].

Difatti, ancora prima che arrivi la notizia che la amministrazione potrebbe accettare le cooperative come una alternativa alla opzione pubblica, i leaders repubblicani annunciano che anche le cooperative sarebbero inaccettabili.

E’ in questo modo che i progressisti, alla fine, si sono ribellati. Obama aveva dato per scontata la loro fiducia[224], ma l’ha persa per strada. E ora ha bisogno di riguadagnarsela.

 

 

 

 

 

 

 


 

All the President’s Zombies

By PAUL KRUGMAN

Published: August 23, 2009

The debate over the “public option” in health care has been dismaying in many ways. Perhaps the most depressing aspect for progressives, however, has been the extent to which opponents of greater choice in health care have gained traction — in Congress, if not with the broader public — simply by repeating, over and over again, that the public option would be, horrors, a government program.

Skip to next paragraphWashington, it seems, is still ruled by Reaganism — by an ideology that says government intervention is always bad, and leaving the private sector to its own devices is always good.

Call me naïve, but I actually hoped that the failure of Reaganism in practice would kill it. It turns out, however, to be a zombie doctrine: even though it should be dead, it keeps on coming.

 

Let’s talk for a moment about why the age of Reagan should be over.

First of all, even before the current crisis Reaganomics had failed to deliver what it promised. Remember how lower taxes on high incomes and deregulation that unleashed the “magic of the marketplace” were supposed to lead to dramatically better outcomes for everyone? Well, it didn’t happen.

To be sure, the wealthy benefited enormously: the real incomes of the top .01 percent of Americans rose sevenfold between 1980 and 2007. But the real income of the median family rose only 22 percent, less than a third its growth over the previous 27 years.

 

 

Moreover, most of whatever gains ordinary Americans achieved came during the Clinton years. President George W. Bush, who had the distinction of being the first Reaganite president to also have a fully Republican Congress, also had the distinction of presiding over the first administration since Herbert Hoover in which the typical family failed to see any significant income gains.

 

And then there’s the small matter of the worst recession since the 1930s.

 

There’s a lot to be said about the financial disaster of the last two years, but the short version is simple: politicians in the thrall of Reaganite ideology dismantled the New Deal regulations that had prevented banking crises for half a century, believing that financial markets could take care of themselves. The effect was to make the financial system vulnerable to a 1930s-style crisis — and the crisis came.

 

“We have always known that heedless self-interest was bad morals,” said Franklin Delano Roosevelt in 1937. “We know now that it is bad economics.” And last year we learned that lesson all over again.

 

Or did we? The astonishing thing about the current political scene is the extent to which nothing has changed.

The debate over the public option has, as I said, been depressing in its inanity. Opponents of the option — not just Republicans, but Democrats like Senator Kent Conrad and Senator Ben Nelson — have offered no coherent arguments against it. Mr. Nelson has warned ominously that if the option were available, Americans would choose it over private insurance — which he treats as a self-evidently bad thing, rather than as what should happen if the government plan was, in fact, better than what private insurers offer.

 

 

 

But it’s much the same on other fronts. Efforts to strengthen bank regulation appear to be losing steam, as opponents of reform declare that more regulation would lead to less financial innovation — this just months after the wonders of innovation brought our financial system to the edge of collapse, a collapse that was averted only with huge infusions of taxpayer funds.

 

 

So why won’t these zombie ideas die?

 

Part of the answer is that there’s a lot of money behind them. “It is difficult to get a man to understand something,” said Upton Sinclair, “when his salary” — or, I would add, his campaign contributions — “depend upon his not understanding it.” In particular, vast amounts of insurance industry money have been flowing to obstructionist Democrats like Mr. Nelson and Senator Max Baucus, whose Gang of Six negotiations have been a crucial roadblock to legislation.

 

But some of the blame also must rest with President Obama, who famously praised Reagan during the Democratic primary, and hasn’t used the bully pulpit to confront government-is-bad fundamentalism. That’s ironic, in a way, since a large part of what made Reagan so effective, for better or for worse, was the fact that he sought to change America’s thinking as well as its tax code.

 

 

 

 

How will this all work out? I don’t know. But it’s hard to avoid the sense that a crucial opportunity is being missed, that we’re at what should be a turning point but are failing to make the turn.

In my column last Monday, I made a joke about the Swiss that fell flat with some readers. Also, the Swiss don’t wear lederhosen.

 

“Tutti gli zombi del Presidente”, di Paul Krugman

New York Times 23 agosto 2009

Il dibattito sulla “opzione pubblica” nella assistenza sanitaria ha provocato sgomento in vari sensi. Forse l’aspetto più deprimente per i progressisti, tuttavia, è stato la misura in cui gli oppositori della riforma sanitaria si sono galvanizzati[225] – nel Congresso, se non tra il pubblico più ampio – solo ripetendo, più e più volte, che l’opzione pubblica sarebbe stata, orrore, un programma governativo.

Washington, a quanto pare, è ancora dominata dal reaganismo, ovvero da una ideologia che ritiene che il governo pubblico sia sempre sbagliato, e che lasciare il settore privato libero di operare con tutti i propri espedienti[226] sia sempre giusto.

Chiamatemi ingenuo, ma io avevo sperato che il fallimento del reaganismo, nella pratica, avrebbe liquidato quel pregiudizio. Tuttavia, esso sembra che sia una dottrina zombi: anche se dovrebbe essere morta, riappare di continuo.

Ragioniamo un momento del motivo per cui l’epoca di Reagan dovrebbe essere alle nostre spalle.

Prima di tutto, persino prima della crisi attuale, la Reaganomics aveva fallito nel mantenere quanto promesso. Ricordate il modo in cui la riduzione delle tasse sugli alti redditi e la deregolazione che fu scatenata dalla “magia del mercato”, si pensava che portassero in modo clamoroso[227] a redditi più elevati per ciascuno? Bene, non accadde.

Per essere precisi, i ricchi ne hanno beneficiato in larga misura: i redditi reali dell’1 per cento degli americani facoltosi sono aumentati sette volte, tra il 1980 ed il 2007. Ma il reddito reale della famiglia media è cresciuto soltanto di un 22 per cento, ovvero di meno di un terzo di quanto non fosse cresciuto nei precedenti 27 anni.

Inoltre, gran parte di tutti i guadagni ottenuti da un americano normale, sono venuti durante gli anni di Clinton. Il Presidente Geroge W. Bush, che si distinse per essere il primo presidente reaganiano che potesse contare su un Congresso a forte prevalenza repubblicana, si distinse anche per aver presieduto la prima amministrazione dai tempi di Herbert Hoover nel corso della quale la famiglia media non ha conosciuto alcun significativo incremento del reddito.

E poi c’è stato quel piccolo particolare della più grave recessione dagli anni 30.

Ci sarebbe un sacco da dire a proposito del disastro finanziario degli ultimi due anni, ma una versione sintetica è semplice: i politici che erano sotto la dipendenza[228] dell’ideologia reaganiana hanno smantellato quelle regole del New Deal che avevano consentito di prevenire per mezzo secolo le crisi bancarie, fiduciosi che i mercati finanziari avrebbero preso cura di se stessi. L’effetto è stato quello di rendere il sistema finanziario vulnerabile ad un crisi del genere di quella degli anni 30, e la crisi è venuta.

“Noi abbiamo sempre saputo che fare i propri interessi senza curarsi d’altro[229] è una pessima morale”, disse Franklin Delano Roosvelt nel 1937, “ora ci siamo accorti che è anche una pessima politica economica”. E nell’ultimo anno abbiamo appreso quella lezione un’altra volta.

E’ accaduto davvero? La cosa stupefacente nella attuale situazione politica è la misura in cui non è cambiato niente.

Il dibattito a proposito dell’opzione pubblica, come ho detto, è stato deprimente nella sua stupidità. Gli oppositori di tale opzione – non solo i Repubblicani, ma anche democratici come i Senatori Kent Conrad e Ben Nelson – hanno presentato contro di essa argomenti privi di qualsiasi coerenza. Il signor Nelson ha messo in guardia con toni profetici che, se la opzione pubblica fosse disponibile, gli Americani l’avrebbero preferita alle assicurazioni private, la quale circostanza egli la giudica negativa in sé, a prescindere dal fatto che, se ciò avvenisse, vorrebbe dire che il programma del governo sarebbe migliore di quanto offerto dalle assicurazioni private.

Ma è più o meno lo stesso[230] su altri fronti. Gli sforzi per rafforzare i regolamenti bancari appaiono parole in liberta[231], se gli oppositori della riforma argomentano che maggiori regole ci porterebbero ad una minore innovazione finanziaria, e questo pochi mesi dopo che le meraviglie dell’innovazione hanno portato il nostro sistema finanziario sull’orlo del collasso, un collasso che è stato evitato solo attraverso vaste somministrazioni[232] del denaro dei contribuenti.

Dunque, perché non muoiono queste idee zombie?

Parte della risposta consiste nel fatto che dietro di esse c’è un sacco di denaro. “E’ difficile ottenere che un individuo comprenda qualcosa”, disse Upton Sinclair, “quando il suo stipendio” – o i suoi contributi elettorali, aggiungo io – “dipende dal fatto di non capirla”. In particolare, grandi somme di denaro del settore delle assicurazioni si sono riversate sui democratici che hanno fatto ostruzionismo come i Senatori Nelson e Max Baucus, la cui “Banda dei Sei” ha costretto a trattative che sono state il cruciale punto di arresto[233] della legislazione.

Ma parte della colpa può anche essere assegnata al Presidente Obama, che espresse apprezzamenti verso Reagan che restarono famosi nel corso delle primarie  democratiche,  e che non ha voluto usare la sua posizione preminente[234] per contrastare il fondamentalismo per il quale “il pubblico-è-sempre-cattivo”. La qualcosa, in un certo senso, suona un po’ beffarda[235], dato che gran parte di quello che Reagan è riuscito realmente a fare, nel bene o nel male[236], e consistito nel cercare di cambiare il modo di pensare degli americani, oltre che le loro regole fiscali.

A che cosa porterà tutto questo? Non lo so, ma è difficile evitare la sensazione che una opportunità sta per essere persa, che siamo arrivati a quello che potrebbe essere un punto di svolta ma lo stiamo mancando.

  •  

P.S. Nel mio articolo di lunedì scorso, mi sono permesso di scherzare sugli Svizzeri, la qual cosa non è piaciuta[237] ad alcuni lettori. Inoltre, gli Svizzeri non portano calzoni corti con bretelle.

 

 


 

Till Debt Does Its Part

By PAUL KRUGMAN

Published: August 27, 2009

So new budget projections show a cumulative deficit of $9 trillion over the next decade. According to many commentators, that’s a terrifying number, requiring drastic action — in particular, of course, canceling efforts to boost the economy and calling off health care reform.

 

 

The truth is more complicated and less frightening. Right now deficits are actually helping the economy. In fact, deficits here and in other major economies saved the world from a much deeper slump. The longer-term outlook is worrying, but it’s not catastrophic.

The only real reason for concern is political. The United States can deal with its debts if politicians of both parties are, in the end, willing to show at least a bit of maturity. Need I say more?

 

Let’s start with the effects of this year’s deficit.

There are two main reasons for the surge in red ink. First, the recession has led both to a sharp drop in tax receipts and to increased spending on unemployment insurance and other safety-net programs. Second, there have been large outlays on financial rescues. These are counted as part of the deficit, although the government is acquiring assets in the process and will eventually get at least part of its money back.

 

 

What this tells us is that right now it’s good to run a deficit. Consider what would have happened if the U.S. government and its counterparts around the world had tried to balance their budgets as they did in the early 1930s. It’s a scary thought. If governments had raised taxes or slashed spending in the face of the slump, if they had refused to rescue distressed financial institutions, we could all too easily have seen a full replay of the Great Depression.

 

 

As I said, deficits saved the world.

In fact, we would be better off if governments were willing to run even larger deficits over the next year or two. The official White House forecast shows a nation stuck in purgatory for a prolonged period, with high unemployment persisting for years. If that’s at all correct — and I fear that it will be — we should be doing more, not less, to support the economy.

 

But what about all that debt we’re incurring? That’s a bad thing, but it’s important to have some perspective. Economists normally assess the sustainability of debt by looking at the ratio of debt to G.D.P. And while $9 trillion is a huge sum, we also have a huge economy, which means that things aren’t as scary as you might think.

 

Here’s one way to look at it: We’re looking at a rise in the debt/G.D.P. ratio of about 40 percentage points. The real interest on that additional debt (you want to subtract off inflation) will probably be around 1 percent of G.D.P., or 5 percent of federal revenue. That doesn’t sound like an overwhelming burden.

 

Now, this assumes that the U.S. government’s credit will remain good so that it’s able to borrow at relatively low interest rates. So far, that’s still true. Despite the prospect of big deficits, the government is able to borrow money long term at an interest rate of less than 3.5 percent, which is low by historical standards. People making bets with real money don’t seem to be worried about U.S. solvency.

 

 

The numbers tell you why. According to the White House projections, by 2019, net federal debt will be around 70 percent of G.D.P. That’s not good, but it’s within a range that has historically proved manageable for advanced countries, even those with relatively weak governments. In the early 1990s, Belgium — which is deeply divided along linguistic lines — had a net debt of 118 percent of G.D.P., while Italy — which is, well, Italy — had a net debt of 114 percent of G.D.P. Neither faced a financial crisis.

 

 

So is there anything to worry about? Yes, but the dangers are political, not economic.

 

As I’ve said, those 10-year projections aren’t as bad as you may have heard. Over the really long term, however, the U.S. government will have big problems unless it makes some major changes. In particular, it has to rein in the growth of Medicare and Medicaid spending.

 

That shouldn’t be hard in the context of overall health care reform. After all, America spends far more on health care than other advanced countries, without better results, so we should be able to make our system more cost-efficient.

 

 

But that won’t happen, of course, if even the most modest attempts to improve the system are successfully demagogued — by conservatives! — as efforts to “pull the plug on grandma.”

 

So don’t fret about this year’s deficit; we actually need to run up federal debt right now and need to keep doing it until the economy is on a solid path to recovery. And the extra debt should be manageable. If we face a potential problem, it’s not because the economy can’t handle the extra debt. Instead, it’s the politics, stupid.

 

“Finché il debito fa la sua parte”, di Paul Krugman

New York Times 27 agosto 2009

Dunque, le nuove proiezioni del Bilancio mostrano un deficit complessivo di 9 mila miliardi di dollari per il prossimo decennio. Secondo molti commentatori si tratterebbe di una cifra terrificante, che rende necessarie drastiche azioni; in particolare, naturalmente, la cancellazione degli sforzi per il sostegno all’economia e l’annullamento della riforma della assistenza sanitaria.

La verità è più complicata e meno spaventosa. Al momento attuale, il deficit sta in realtà aiutando l’economia. Di fatto, i deficit qua da noi e nelle altre principali economie mettono al riparo il mondo da una depressione assai più profonda. La prospettiva a lungo termine è preoccupante, ma non è catastrofica.

L’unica vera ragione di inquietudine è di natura politica. Gli Stati Uniti possono far fronte al loro debito se gli uomini politici di entrambi gli schieramenti  avranno la volontà, alla fine, di mostrare almeno un po’ di maturità. Devo aggiungere altro?

Cominciamo dagli effetti del deficit di quest’anno.

Ci sono due principali ragioni della crescita del debito. In primo luogo, la recessione ha portato sia ad un marcato calo delle entrate fiscali, sia ad un aumento della spesa pubblica per  la assicurazione dei disoccupati e per gli altri programmi del sistema della sicurezza sociale. In secondo luogo, ci sono stati ampi esborsi per i salvataggi del sistema finanziario. Questi ultimi vengono contabilizzati come parte del deficit, sebbene il governo stia acquisendo assets in queste operazioni, e potrà forse farsi restituire almeno una parte del proprio denaro.

La qual cosa ci dice che, sul momento, gestire un deficit è la cosa più opportuna. Considerate che cosa sarebbe successo se il governo degli Stati Uniti e i suoi omologhi nel resto del mondo avessero cercato di mettere in equilibrio i loro bilanci come fecero agli inizi degli anni 30.  E’ un pensiero che fa paura. Se i governi avessero innalzato le tasse o ridotto drasticamente la spesa pubblica di fronte alla recessione, se essi avessero rifiutato il salvataggio di istituti finanziari dissestati, noi tutti ci saremmo trovati dinanzi ad una perfetta riedizione della Grande Depressione.

Come ho detto, i deficit hanno salvato il mondo.

Di fatto, avremmo potuto uscirne meglio[238] se i governi avessero avuto la volontà di governare deficit anche superiori per il prossimo anno o due. La previsione ufficiale della Casa Bianca mostra un paese bloccato[239] in purgatorio per un periodo prolungato, con una disoccupazione che resterà elevata per anni.  Se essa è del tutto corretta – e temo che lo sia – avremmo dovuto fare di più, non di meno, per il sostegno dell’economia.

Ma che dire del debito che stiamo contraendo[240]? Esso è una cattiva cosa, ma è importante inquadrarlo in una qualche prospettiva. Gli economisti normalmente valutano la sostenibità del debito considerando il rapporto[241] tra debito e PIL. E, pur essendo 9 mila miliardi di debito una somma imponente, noi abbiamo pure un’economia imponente, il che significa che la situazione non è così spaventosa come potreste ritenere.

C’è un unico modo per valutare tale situazione: noi ci stiamo riferendo ad una crescita del rapporto debito/PIL di circa 40 punti percentuali. L’interesse reale di questo debito addizionale (dal quale dovete sottrarre gli effetti dell’inflazione) sarà probabilmente di circa l’uno per cento del PIL, ovvero del 5 per cento delle entrate federali. Il che non sembra essere un carico schiacciante.

Ora, in questo calcolo si assume che il governo degli Stati Uniti resterà nelle condizioni di prendere in prestito crediti ad un tasso di interesse relativamente basso. Sino a questo momento, questo è stato vero. Nonostante l’aspettativa di un grande deficit, il governo è nelle condizioni di prendere in prestito denaro a lungo termine ad un tasso di interesse inferiore al 3,5 per cento, che è per gli standards storici un tasso basso. La gente che scommette con il denaro reale non sembra essere preoccupata della solvibilità americana.

I numeri vi spiegano perché. Secondo le proiezioni della Casa Bianca, nel 2019 il debito netto federale sarà attorno al 70 per cento del PIL. Non è un buon dato, ma è dentro un range che si è dimostrato storicamente governabile per le economie avanzate, persino per quelle con governi relativamente deboli. Nei primi anni 90 il Belgio, che è profondamente diviso lungo una discriminante linguistica, aveva un debito netto peri al 118 per cento del PIL, mentre l’Italia – che è, per l’appunto, l’Italia[242] – aveva un debito netto del 114 per cento del PIL. In entrambi i caso non si è dovuta fronteggiare alcuna crisi finanziaria.

C’è dunque qualcosa di cui si deve essere preoccupati? Si, ma i pericoli sono di natura politica, non economica.

Come ho detto, quelle proiezioni su dieci anni non sono così preoccupanti come voi potreste aver sentito dire. Tuttavia, in un periodo di tempo effettivamente lungo, il governo degli Stati Uniti dovrà fronteggiare grandi problemi, a meno che non decida di cambiare alcune cose di fondo. In particolare, esso dovrà avere un maggior controllo dei costi in crescita di Medicare e di Medicaid.

La qualcosa non dovrebbe essere impossibile, nel contesto di un generale riforma della assistenza sanitaria. Dopotutto, l’America spende per l’assistenza sanitaria molto di più degli altri paesi avanzati, senza riceverne risultati migliori, cosicché dovremmo essere capaci di rendere il nostro sistema più efficiente sul lato dei costi.

Ma questo non accadrà, naturalmente, se persino il più modesto tentativo di migliorare il sistema viene con successo fatto oggetto di attacchi demagogici[243] – dai conservatori! – che lo descrivono come il tentativo di “staccare la spina alla nonna[244]”.

Dunque, non vi preoccupate del deficit di quest’anno; abbiamo adesso un effettivo bisogno di accrescere il debito federale e di continuare a farlo sinché l’economia non sarà su un solido sentiero di ripresa. E i debiti addizionali saranno comunque governabili. Se abbiamo dinanzi a noi un serio problema potenziale, questo non dipende dal fatto che dobbiamo prendere a carico un debito aggiuntivo. Piuttosto: “è la politica, stupidi![245]”. 

 

 


 

Missing Richard Nixon

By PAUL KRUGMAN

Published: August 30, 2009

Many of the retrospectives on Ted Kennedy’s life mention his regret that he didn’t accept Richard Nixon’s offer of a bipartisan health care deal. The moral some commentators take from that regret is that today’s health care reformers should do what Mr. Kennedy balked at doing back then, and reach out to the other side.

 

But it’s a bad analogy, because today’s political scene is nothing like that of the early 1970s. In fact, surveying current politics, I find myself missing Richard Nixon.

No, I haven’t lost my mind. Nixon was surely the worst person other than Dick Cheney ever to control the executive branch.

 

But the Nixon era was a time in which leading figures in both parties were capable of speaking rationally about policy, and in which policy decisions weren’t as warped by corporate cash as they are now. America is a better country in many ways than it was 35 years ago, but our political system’s ability to deal with real problems has been degraded to such an extent that I sometimes wonder whether the country is still governable.

 

As many people have pointed out, Nixon’s proposal for health care reform looks a lot like Democratic proposals today. In fact, in some ways it was stronger. Right now, Republicans are balking at the idea of requiring that large employers offer health insurance to their workers; Nixon proposed requiring that all employers, not just large companies, offer insurance.

Nixon also embraced tighter regulation of insurers, calling on states to “approve specific plans, oversee rates, ensure adequate disclosure, require an annual audit and take other appropriate measures.” No illusions there about how the magic of the marketplace solves all problems.

 

 

So what happened to the days when a Republican president could sound so nonideological, and offer such a reasonable proposal?

 

Part of the answer is that the right-wing fringe, which has always been around — as an article by the historian Rick Perlstein puts it, “crazy is a pre-existing condition” — has now, in effect, taken over one of our two major parties. Moderate Republicans, the sort of people with whom one might have been able to negotiate a health care deal, have either been driven out of the party or intimidated into silence. Whom are Democrats supposed to reach out to, when Senator Chuck Grassley of Iowa, who was supposed to be the linchpin of any deal, helped feed the “death panel” lies?

 

But there’s another reason health care reform is much harder now than it would have been under Nixon: the vast expansion of corporate influence.

 

We tend to think of the way things are now, with a huge army of lobbyists permanently camped in the corridors of power, with corporations prepared to unleash misleading ads and organize fake grass-roots protests against any legislation that threatens their bottom line, as the way it always was. But our corporate-cash-dominated system is a relatively recent creation, dating mainly from the late 1970s.

 

 

And now that this system exists, reform of any kind has become extremely difficult. That’s especially true for health care, where growing spending has made the vested interests far more powerful than they were in Nixon’s day. The health insurance industry, in particular, saw its premiums go from 1.5 percent of G.D.P. in 1970 to 5.5 percent in 2007, so that a once minor player has become a political behemoth, one that is currently spending $1.4 million a day lobbying Congress.

 

 

That spending fuels debates that otherwise seem incomprehensible. Why are “centrist” Democrats like Senator Kent Conrad of North Dakota so opposed to letting a public plan, in which Americans can buy their insurance directly from the government, compete with private insurers? Never mind their often incoherent arguments; what it comes down to is the money.

 

Given the combination of G.O.P. extremism and corporate power, it’s now doubtful whether health reform, even if we get it — which is by no means certain — will be anywhere near as good as Nixon’s proposal, even though Democrats control the White House and have a large Congressional majority.

And what about other challenges? Every desperately needed reform I can think of, from controlling greenhouse gases to restoring fiscal balance, will have to run the same gantlet of lobbying and lies.

 

 

I’m not saying that reformers should give up. They do, however, have to realize what they’re up against. There was a lot of talk last year about how Barack Obama would be a “transformational” president — but true transformation, it turns out, requires a lot more than electing one telegenic leader. Actually turning this country around is going to take years of siege warfare against deeply entrenched interests, defending a deeply dysfunctional political system.

 

“Nostalgia di Richard Nixon[246]”, di Paul Krugman,

New York Times 30 agosto 2009

In molti dei resoconti sulla vita di Ted Kennedy si fa menzione del suo rammarico per non aver accettato l’offerta di Richard Nixon per un accordo bipartisan sulla riforma sanitaria. La morale che qualche commentatore trae da quel rammarico è che i riformatori odierni della assistenza sanitaria dovrebbero procedere laddove Kennedy si tirò indietro[247], e raggiungere l’altra sponda.

Si tratta però di un cattivo paragone, perché lo scenario politico dei nostri giorni è assai diverso da quello degli anni 70. Di fatto, osservando la politica in corso, mi sento orfano di Richard Nixon.

No, non sono uscito di testa. Nixon fu sicuramente la peggiore persona, a parte Dick Cheney, che abbia mai controllato il potere esecutivo.

Ma l’epoca di Nixon fu un periodo nel quale le personalità che dirigevano entrambi i partiti erano capaci di parlare razionalmente di politica e nel quale le decisioni politiche non erano così deformate[248] da interessi corporativi[249] come sono oggi. L’America è in molti sensi un paese migliore di 35 anni fa, ma la capacità del nostro sistema politico di misurarsi con i problemi reali si è degradata in tale misura, che qualche volta mi chiedo[250] se siamo un paese ancora governabile.

Come in molti hanno sottolineato, la proposta di Nixon per la riforma della assistenza sanitaria assomigliava molto alle proposte dei Democratici di oggi. Di fatto, per vari aspetti essa era più forte. Ai nostri giorni i Repubblicani si oppongono all’idea di stabilire per le grandi imprese l’obbligo di offrire l’assicurazione sanitaria ai loro lavoratori; Nixon aveva proposto che l’obbligo della offerta assicurativa valesse per tutte le imprese, non solo per le più grandi.

Nixon aveva anche accolto l’idea di regole più stringenti nei confronti delle assicurazioni, facendo appello agli Stati affinchè “approvassero specifici piani, sorvegliassero le aliquote[251], assicurassero una adeguata trasparenza[252], richiedessero annuali verifiche di bilancio ed assumessero ogni altra appropriata misura”. Non ci si faceva alcuna illusione sul magico potere del mercato di risolvere tutti i problemi.

Dove è finito, dunque, il clima di quei giorni[253], quando un Presidente repubblicano appariva così non ideologico ed offriva una proposta talmente ragionevole?

In parte, la risposta consiste nel fatto che la frangia del’ala destra, che è sempre stata presente – come un articolo dello storico Rick Perlstein chiarisce, “la follia è una condizione che è sempre esistita” – oggi, di fatto, ha preso il controllo di uno dei due nostri maggiori partiti. I repubblicani moderati, quel genere di individui con i quali sarebbe stato possibile negoziare un accordo sulla assistenza sanitaria, o sono stati messi fuori dal Partito o sono stati ridotti al silenzio. A chi dovrebbero avvicinarsi i Democratici, nel momento in cui il Senatore Chuck Grassley dello Iowa, che viene descritto come il perno[254] di ogni possibile accordo, dà una mano ad alimentare le falsità dei “tribunali della morte”?

Ma c’è un’altra ragione per la quale la riforma della assistenza sanitaria è molto più difficile oggi di quanto non fosse sotto Nixon: la grande diffusione dell’influenza delle corporazioni.

Abbiamo la tendenza a pensare che il modo in cui le cose funzionano ai nostri giorni, con un vasto esercito di lobbisti accampati in permanenza nei corridoi del potere, con le corporazioni pronte a scatenare fuorvianti campagne[255] pubblicitarie e ad organizzare falsificanti proteste popolari[256] contro ogni legislazione che minacci i loro profitti[257], sia il modo di sempre. Ma il nostro sistema dominato dagli interessi corporativi è una creazione piuttosto recente, che risale principalmente all’ultima parte degli anni 70.

Ed ora che questo sistema esiste, qualsiasi tipo di riforma è diventata oltremodo difficile. Il che è specialmente vero per la assistenza sanitaria, un settore nel quale una crescente spesa pubblica ha fatto in modo che gli interessi acquisiti abbiano oggi molto maggior potere che all’epoca di Nixon. Il sistema delle assicurazioni sanitarie in particolare, ha visto salire i suoi premi dall’1,5 per cento del PIL nel 1970 al 5,5 per cento del PIL nel 2007, cosicchè chi era un tempo un attore secondario è oggi diventato un animale politico gigantesco[258], che spende normalmente 1,4 milioni di dollari al giorno in attività lobbistiche presso il Congresso.

Questa spesa alimenta dibattiti che altrimenti sarebbero incomprensibili. Perchè democratici “centristi” come il Senatore Kent Conrad del North Dakota, sono così ostili ad approvare un programma pubblico per effetto del quale gli americani potrebbero acquistare la loro assicurazione direttamente dal governo, in competizione con assicuratori privati? Non dovete curarvi degli argomenti di costoro, di solito incoerenti: alla fine è tutta una questione di soldi[259].

Data la combinazione tra l’estremismo del G.O.P. e il potere delle corporazioni, non c’è alcun dubbio sul fatto che una riforma della salute – ammesso che sia mai approvata, il che non è affatto sicuro – non sarà in alcun modo altrettanto positiva della proposta di Nixon, per quanto i democratici controllino la Camera ed abbiano una larga maggioranza al Congresso.

Cosa dire degli altri cambiamenti? Ogni riforma disperatamente necessaria alla quale io possa pensare, dal controllo dei gas serra al riequilibrio del bilancio, dovrà passare in mezzo al medesimo trattamento incrociato[260] dei gruppi lobbistici e delle bugie.

Non sto dicendo che i riformatori dovrebbero arrendersi. Tuttavia essi devono comprendere contro cosa si stanno battendo. Ci furono lo scorso anno un sacco di discorsi, a proposito del modo in cui Barack Obama avrebbe poturo essere un Presidente capace di grandi trasformazioni; ma ogni vera trasformazione, che voglia essere tale, richiede assai di più che l’elezione di un presidente ‘telegenico’. In realtà, restituire a questo paese una politica sensata[261] richiederà anni di una guerra d’assedio[262] contro poteri profondamente radicati[263],  che sono impegnati nella difesa di un sistema che non può funzionare.  

 

 

 

 

 


 

Baucus and the Threshold

By PAUL KRUGMAN

Published: September 17, 2009

So Senator Max Baucus, the chairman of the Senate Finance Committee, has released his “mark” on proposed legislation — which would normally be the basis for the bill that eventually emerges from his committee. And serious supporters of health care reform will soon face their long-dreaded moment of truth.

 

You see, it has been clear for months that whatever health-care bill finally emerges will fall far short of reformers’ hopes. Yet even a bad bill could be much better than nothing. The question is where to draw the line. How bad does a bill have to be to make it too bad to vote for?

 

Now, the moment of truth isn’t here quite yet: There’s enough wrong with the Baucus proposal as it stands to make it unworkable and unacceptable. But that said, Senator Baucus’s mark is better than many of us expected. If it serves as a basis for negotiation, and the result of those negotiations is a plan that’s stronger, not weaker, reformers are going to have to make some hard choices about the degree of disappointment they’re willing to live with.

 

Of course, those who insist that we must have a single-payer system — Medicare for all — won’t accept any plan that tries, instead, to cajole and coerce private health insurers into covering everyone. But while many reformers, myself included, would prefer a single-payer system if we were starting from scratch, international experience shows that it’s not the only way to go. Several European countries, including Switzerland and the Netherlands, have managed to achieve universal coverage with a mainly private insurance system.

 

 

 

 

And right here in America, we have the example of the Massachusetts health reform, many of whose features are echoed in the Baucus plan. The Massachusetts system, introduced three years ago, has many problems. But as a new report from the Urban Institute puts it, it “has accomplished much of what it set out to do: Nearly all adults in the state have health insurance.” If we could accomplish the same thing for the nation as a whole, even with a less than ideal plan, it would be a vast improvement over what we have now.

 

So something along the general lines of the Baucus plan might be acceptable. But details matter. And the bad news is that the plan, as it stands, is inadequate or badly conceived in three major ways.

First, it bungles the so-called “employer mandate.” Most reform plans include a provision requiring that large employers either provide their workers with health coverage or pay into a fund that would help workers who don’t get insurance through their job buy coverage on their own. Mr. Baucus, however, gets too clever, trying to tie each employer’s fees to the subsidies its own employees end up getting.

 

 

 

That’s a terrible idea. As the Center on Budget and Policy Priorities points out, it would make companies reluctant to hire workers from lower-income families — and it would also create a bureaucratic nightmare. This provision has to go and be replaced with a simple pay-or-play rule.

 

 

Second, the plan is too stingy when it comes to financial aid. Lower-middle-class families, in particular, would end up paying much more in premiums than they do under the Massachusetts plan, suggesting that for many people insurance would not, in fact, be affordable. Fixing this means spending more than Mr. Baucus proposes.

 

 

 

Third, the plan doesn’t create real competition in the insurance market. The right way to create competition is to offer a public option, a government-run insurance plan individuals can buy into as an alternative to private insurance. The Baucus plan instead proposes a fake alternative, nonprofit insurance cooperatives — and it places so many restrictions on these cooperatives that, according to the Congressional Budget Office, they “seem unlikely to establish a significant market presence in many areas of the country.”

 

 

The insurance industry, of course, loves the Baucus plan. Need we say more?

 

So this plan has to change. What matters now is the direction in which it changes.

 

It would be disastrous if health care goes the way of the economic stimulus plan, earlier this year. As you may recall, that plan — which was clearly too weak even as originally proposed — was made even weaker to win the support of three Republican senators. If the same thing happens to health reform, progressives should and will walk away.

 

 

 

But maybe things will go the other way, and Mr. Baucus (and the White House) will, for once, actually listen to progressive concerns, making the bill stronger.

 

Even if the Baucus plan gets better, rather than worse, what emerges won’t be legislation reformers can love. Will it nonetheless be legislation that passes the threshold of acceptability, legislation they can vote for? We’ll see.

 

“Baucus e la soglia[264]”, di Paul Krugman

New York Times 17 settembre 2009

 

E così il Senatore Max Baucus, Presidente della commissione Finanze del Senato, ha messo il suo “timbro” sulla proposta di legislazione, la quale normalmente è la base per il testo che alla fine uscirà dalla sua commissione. I sostenitori della riforma della assistenza sanitaria tra poco si troveranno dinanzi al loro a lungo temuto momento della verità.

Come sapete, sono mesi che è chiaro che qualsiasi testo di legge alla fine emergerà, esso sarà poca cosa rispetto ai desideri dei riformatori. Tuttavia, persino una cattiva proposta sarebbe molto meglio che nulla. Il problema è dove fissare il discrimine. Quanto deve essere cattiva una proposta, per essere talmente cattiva da non meritare il voto?[265]

Tuttavia, al momento della verità non siamo ancora giunti del tutto[266]: ci sono varie cose sbagliate nella proposta Baucus, nel testo attuale[267], al punto da renderla impraticabile ed inaccettabile. Ma, detto ciò, il testo messo in circolazione da Baucus è migliore di quanto molti di noi si aspettessero. Se esso servirà come base per una negoziazione, e se il risultato di tali negoziati sarà un progetto più forte anziché più debole, i riformatori potranno prendersi una rivincita rispetto al grado di delusione che sono disposti a sopportare quotidianamente[268].

Naturalmente, coloro che insistono sulla necessità di un sistema con un unico centro di responsabilità finanziaria[269]Medicare per tutti – non vogliono accettare nessun programma che si fondi sul tentativo di persuadere, con le lusinghe e con la costrizione[270], le assicurazioni del sistema sanitario privato a garantire una copertura a tutti. Ma mentre molti riformatori, incluso il sottoscritto, preferirebbero, se fossimo partiti da zero[271], un sistema con un unico centro di responsabilità, l’esperienza internazionale dimostra che questa non è l’unica soluzione possibile. Molte nazioni europee, incluse la Svizzera e l’Olanda, sono riuscite ad ottenere una assistenza di tipo universale attraverso un sistema assicurativo fondamentalmente privatistico.

E, proprio in America, abbiamo l’esempio della riforma sanitaria del Massachusetts, molte caratteristiche della quale vengono imitate nel progetto proposto da Baucus. Il sistema Massachusetts, varato tre anni orsono, presenta non pochi problemi. Ma, come sottolinea un nuovo rapporto dello Urban Institute, esso “ha realizzato una buona parte di ciò che si proponeva: quasi tutti gli adulti dello Stato hanno la assistenza sanitaria”. Se noi riuscissimo ad ottenere lo stesso per la nazione nella sua interezza, avremmo un grande miglioramento rispetto al punto da cui partiamo.

Da questo punto di vista, alcune linee generali del piano Baucus potrebbero essere accettabili. Ma contano i dettagli. E la cattiva notizia è che quel piano, per come è attualmente concepito, è inadeguato o sbagliato sotto tre principali aspetti.

Il primo è che la soluzione al tema della cosiddetta “responsabilità del datore di lavoro[272]” è alquanto pasticciata. Molti programmi di riforma prevedono di richiedere alle grandi imprese o di provvedere direttamente alla copertura assistenziale dei loro impiegati,  o di versare contributi ad un fondo che aiuterebbe i lavoratori che non ottengono la assicurazione per effetto del loro impiego, a comprarsela da soli. Il signor Baucus, tuttavia, pretende di essere troppo abile[273], cercando di legare le quote di ogni imprenditore ai sussidi che i propri dipendenti finiscono col ricevere.

Questa è un’idea tutt’altro che buona. Come il Centre on Budget and Policy Priorities ha notato in questo modo si renderebbero le imprese riluttanti nella assunzione di lavoratori provenienti da famiglie a basso reddito, e si creerebbe anche una situazione burocratica da incubo. Queste provvigioni debbono essere versate o rimpiazzate attenendosi alla semplice regola del “pagare o partecipare[274]”.

Il secondo aspetto è che il piano è troppo avaro, quando tocca il punto degli aiuti finanziari. Le famiglie delle classi svantaggiate e medie, in particolare, finirebbero col pagare molto di più in premi assicurativi di quanto non si faccia con il programma del Massachusetts, il che significa che per molta gente l’assicurazione, nei fatti, non sarebbe sostenibile. Per correggere questo aspetto[275], occorre che si spenda di più di quanto il piano Baucus non preveda.

In terzo luogo, il piano non crea una reale competizione nel mercato delle assicurazioni. Il modo giusto per creare tale competizione è quello di offrire una opzione pubblica, ovvero un piano assicurativo gestito dal governo nel quale gli utenti possano acquistare “copertura” in alternativa alle assicurazioni private. Il piano Baucus, invece propone una falsa alternativa, quella delle cooperative assicurative no-profit, e prevede per quelle cooperative così numerose restrizioni che, secondo il Congressional Budget Office, “sembra improbabile che esse riescano a configurare una significativa presenza sul mercato in molte aree del paese”.

Di conseguenza, il sistema delle assicurazioni private ha espresso grandi apprezzamenti sul piano Baucus. E’ necessario aggiungere altro?

Dunque, questo piano deve essere cambiato. Ciò che ora conta è in quale direzione cambierà.

Sarebbe disastroso se sul tema della assistenza sanitaria si prendesse la strada che si è presa con il piano di sostegno pubblico all’economia, agli inizi di quest’anno. Come ricorderete, quel piano, che era evidentemente troppo debole anche nella sua formulazione originaria, divenne persino più debole nel tentativo di guadagnare il sostegno di tre senatori repubblicani. Se la stessa cosa accadesse alla riforma sanitaria, i progressisti dovrebbero andarsene, e di fatto sarebbero costretti a farlo[276].

Ma può darsi che si prenda un’altra strada e che Baucus (e la Casa Bianca), per una volta, ascoltino davvero le preoccupazioni dei progressisti, e rendano il testo di legge più forte.

Persino se il piano Baucus diventasse migliore, anziché peggiore, ne verrebbe fuori una legislazione alla quale i riformatori non potrebbero granché appassionarsi. Si tratterà, ciononostante, di una proposta legislativa che oltrepasserà la soglia della accettabilità, al punto che essi potranno votare a favore? Vedremo.

 

 

 

      

 

  

Reform or Bust

By PAUL KRUGMAN

Published: September 20, 2009

In the grim period that followed Lehman’s failure, it seemed inconceivable that bankers would, just a few months later, be going right back to the practices that brought the world’s financial system to the edge of collapse. At the very least, one might have thought, they would show some restraint for fear of creating a public backlash.

 

But now that we’ve stepped back a few paces from the brink — thanks, let’s not forget, to immense, taxpayer-financed rescue packages — the financial sector is rapidly returning to business as usual. Even as the rest of the nation continues to suffer from rising unemployment and severe hardship, Wall Street paychecks are heading back to pre-crisis levels. And the industry is deploying its political clout to block even the most minimal reforms.

 

The good news is that senior officials in the Obama administration and at the Federal Reserve seem to be losing patience with the industry’s selfishness. The bad news is that it’s not clear whether President Obama himself is ready, even now, to take on the bankers.

 

Credit where credit is due: I was delighted when Lawrence Summers, the administration’s ranking economist, lashed out at the campaign the U.S. Chamber of Commerce, in cooperation with financial-industry lobbyists, is running against the proposed creation of an agency to protect consumers against financial abuses, such as loans whose terms they don’t understand. The chamber’s ads, declared Mr. Summers, are “the financial-regulatory equivalent of the death-panel ads that are being run with respect to health care.”

 

 

 

Yet protecting consumers from financial abuse should be only the beginning of reform. If we really want to stop Wall Street from creating another bubble, followed by another bust, we need to change the industry’s incentives — which means, in particular, changing the way bankers are paid.

 

What’s wrong with financial-industry compensation? In a nutshell, bank executives are lavishly rewarded if they deliver big short-term profits — but aren’t correspondingly punished if they later suffer even bigger losses. This encourages excessive risk-taking: some of the men most responsible for the current crisis walked away immensely rich from the bonuses they earned in the good years, even though the high-risk strategies that led to those bonuses eventually decimated their companies, taking down a large part of the financial system in the process.

 

The Federal Reserve, now awakened from its Greenspan-era slumber, understands this problem — and proposes doing something about it. According to recent reports, the Fed’s board is considering imposing new rules on financial-firm compensation, requiring that banks “claw back” bonuses in the face of losses and link pay to long-term rather than short-term performance. The Fed argues that it has the authority to do this as part of its general mandate to oversee banks’ soundness.

 

 

But the industry — supported by nearly all Republicans and some Democrats — will fight bitterly against these changes. And while the administration will support some kind of compensation reform, it’s not clear whether it will fully support the Fed’s efforts.

 

I was startled last week when Mr. Obama, in an interview with Bloomberg News, questioned the case for limiting financial-sector pay: “Why is it,” he asked, “that we’re going to cap executive compensation for Wall Street bankers but not Silicon Valley entrepreneurs or N.F.L. football players?”

 

 

That’s an astonishing remark — and not just because the National Football League does, in fact, have pay caps. Tech firms don’t crash the whole world’s operating system when they go bankrupt; quarterbacks who make too many risky passes don’t have to be rescued with hundred-billion-dollar bailouts. Banking is a special case — and the president is surely smart enough to know that.

 

 

All I can think is that this was another example of something we’ve seen before: Mr. Obama’s visceral reluctance to engage in anything that resembles populist rhetoric. And that’s something he needs to get over.

 

 

It’s not just that taking a populist stance on bankers’ pay is good politics — although it is: the administration has suffered more than it seems to realize from the perception that it’s giving taxpayers’ hard-earned money away to Wall Street, and it should welcome the chance to portray the G.O.P. as the party of obscene bonuses.

 

 

 

Equally important, in this case populism is good economics. Indeed, you can make the case that reforming bankers’ compensation is the single best thing we can do to prevent another financial crisis a few years down the road.

 

It’s time for the president to realize that sometimes populism, especially populism that makes bankers angry, is exactly what the economy needs.

 

“Riforma o rovina[277]”, di Paul Krugma

New York Times 20 settembre 2009

 

Nel triste periodo che seguì al fallimento di Leheman, sembrava inconcepibile che, alla distanza di pochi mesi, i banchieri potessero tornare a quelle pratiche che avevano portato il mondo finanziario sull’orlo del collasso. Come minimo, si poteva pensare che essi avrebbero mostrato un qualche ritegno[278],  per evitare una forte reazione negativa da parte della gente.

Ma, ora che, ad un soffio dall’abisso, abbiamo fatto un passo indietro – grazie, non dimentichiamolo, alle enormi misure di salvataggio pagate con i soldi dei contribuenti – il settore finanziario sta rapidamente tornando alle sue consuete pratiche affaristiche. Anche se il resto della nazione continua a soffrire sotto il peso di una disoccupazione crescente e di aspre avversità, le gratifiche[279] di Wall Street stanno tornando ai livelli precedenti alla crisi. E il settore sta mettendo in campo[280] tutto il suo peso per impedire anche le riforme più banali.

La buona notizia è che i massimi dirigenti della amministrazione Obama e la Federal Reserve sembra stiano perdendo la pazienza con gli egoismi del settore finanziario. La cattiva notizia è che non è chiaro se anche il Presidente Obama, persino a questo punto, sia pronto ad impegnarsi in uno scontro[281] con i banchieri.

‘Il credito deve andare dove è richiesto’[282]: sono rimasto deliziato quando Lawrence Summers, l’economista di spicco della amministrazione, si è scagliato contro la campagna che la Camera di Commercio degli Stati Uniti , in collaborazione con le lobbies del settore finanziario, sta orchestrando contro la proposta della creazione di una agenzia per proteggere gli utenti dagli abusi finanziari, come nel caso di quei mutui per i quali le condizioni risultano incomprensibili. Gli annunci pubblicitari della Camera, ha dichiarato Summers, sono “l’equivalente, in materia di regolazione del settore finanziario, delle inserzioni sui “tribunali della morte” che sono state utilizzate nel caso della assistenza sanitaria”.

Eppure, la protezione degli utenti dagli abusi finanziari dovrebbe essere solo l’inizio di una riforma. Se realmente vogliamo impedire che Wall Street provochi un’altra bolla, seguita da un’altra caduta rovinosa, abbiamo bisogno di modificare il sistema degli incentivi nel settore, vale a dire, in particolare, dobbiamo cambiare il modo in cui i banchieri sono retribuiti.

Che cosa è sbagliato nei compensi del settore finanziario? In poche parole[283], gli esecutivi delle banche sono copiosamente retribuiti se producono grandi profitti a breve termine, ma non sono puniti in modo corrispondente se successivamente provocano il danno di perdite anche maggiori. Questo metodo incoraggia una eccessiva disposizione al rischio: alcuni dei massimi responsabili della crisi in corso hanno messo da parte immense ricchezze con le gratifiche ottenute negli anni buoni, nonostante che le strategie ad alto rischio che hanno permesso quei premi, alla fine, abbiano portato alla decimazione delle loro imprese, coinvolgendo[284] in quel processo larga parte del sistema finanziario.

La Federal Reserve, ora risvagliatasi dal torpore dell’epoca Greenspan, capisce il problema e propone di far qualcosa per risolverlo. Secondo recenti notizie, il Consiglio della Fed sta valutando di imporre nuove regole ai compensi nelle imprese finanziarie, chiedendo alle banche il recupero[285] delle gratifiche in presenza di perdite finanziarie e un sistema di pagamenti legato non più ai risultati a breve, bensì a quelli di lungo periodo. La Fed ritiene di avere l’autorità di deliberare in queste materie nell’ambito della sua responsabilità generale di sorveglianza sul corretto funzionamento[286] del sistema bancario.

Ma il settore – sostenuto da quasi tutti i repubblicani e da qualche democratico – combatterà con asprezza contro questi cambiamenti. E mentre la amministrazione sosterrà un qualche genere di riforma dei compensi, non è chiaro se darà un appoggio completo  agli sforzi della federal Reserve.

Sono rimasto assai sopreso, la scorsa settimana, quando ad Obama è stata fatta una domanda, in una intervista a Bloomberg News, a proposito della limitazione dei compensi nel settore finanziario. “Per quale ragione” ha risposto “dobbiamo mettere un limite obbligatorio[287] ai compensi per i banchieri di Wall Street e non per gli imprenditori di Silicon Valley o per i giocatori di football della N.F.L.?”

Si tratta di un rilievo stupefacente, e non solo perché, di fatto, la National Football League ha limiti nei compensi. Le imprese del settore tecnologico non hanno distrutto gli equilibri operativi del mondo intero quando sono finite in condizioni di bancarotta; inoltre i “quartebacks[288]” che prendono troppi rischi non risulta che siano beneficiati da salvataggi da centinaia di milioni di dollari. Le banche sono un caso speciale, e il Presidente Obama è sicuramente abbastanza esperto da riconoscerlo.

Tutto quello che posso pensare è che si sia trattato di un’altra circostanza indicativa di qualcosa che avevamo visto in precedenza: la viscerale riluttanza di Obama ad assumere in qualsiasi modo posizioni che assomiglino ad una retorica populistica. Ma in questo c’è qualcosa da cui deve fare uno sforzo per guarire.

Non si tratta solo del fatto che assumendo una posizione così popolare[289] sui compensi ai banchieri si fa una buona politica, sebbene anche di questo si tratti;  la amministrazione ha sofferto molto di più di quanto è sembrato comprendesse, per la generale disapprovazione nei confronti del versamento a Wall Street del denaro faticosamente guadagnato dai contribuenti; e avrebbe dovuto cogliere l’opportunità di indicare nel G.O.P. il partito responsabile delle vergognose gratifiche.

Ma è altrettanto importante il fatto che, in questo caso, fare un gesto popolare[290] sia una buona politica economica. Infatti, si può bene sostenere la tesi[291] per la quale riformare i compensi ai banchieri sia l’unica eccellente risposta per evitare di sbattere, nel percorso dei prossimi anni, in un’altra crisi finanziaria.

E’ tempo che il Presidente si renda conto che ogni tanto il populismo, specialmente il populismo che innervosisce i banchieri, è esattamente ciò che serve all’economia.

 

 

 


 

It’s Easy Being Green

By PAUL KRUGMAN

Published: September 24, 2009

So, have you enjoyed the debate over health care reform? Have you been impressed by the civility of the discussion and the intellectual honesty of reform opponents?

 

If so, you’ll love the next big debate: the fight over climate change.

 

The House has already passed a fairly strong cap-and-trade climate bill, the Waxman-Markey act, which if it becomes law would eventually lead to sharp reductions in greenhouse gas emissions. But on climate change, as on health care, the sticking point will be the Senate. And the usual suspects are doing their best to prevent action.

 

 

Some of them still claim that there’s no such thing as global warming, or at least that the evidence isn’t yet conclusive. But that argument is wearing thin — as thin as the Arctic pack ice, which has now diminished to the point that shipping companies are opening up new routes through the formerly impassable seas north of Siberia.

 

 

 

Even corporations are losing patience with the deniers: earlier this week Pacific Gas and Electric canceled its membership in the U.S. Chamber of Commerce in protest over the chamber’s “disingenuous attempts to diminish or distort the reality” of climate change.

 

 

So the main argument against climate action probably won’t be the claim that global warming is a myth. It will, instead, be the argument that doing anything to limit global warming would destroy the economy. As the blog Climate Progress puts it, opponents of climate change legislation “keep raising their estimated cost of the clean energy and global warming pollution reduction programs like some out of control auctioneer.”

 

 

 

It’s important, then, to understand that claims of immense economic damage from climate legislation are as bogus, in their own way, as climate-change denial. Saving the planet won’t come free (although the early stages of conservation actually might). But it won’t cost all that much either.

 

 

How do we know this? First, the evidence suggests that we’re wasting a lot of energy right now. That is, we’re burning large amounts of coal, oil and gas in ways that don’t actually enhance our standard of living — a phenomenon known in the research literature as the “energy-efficiency gap.” The existence of this gap suggests that policies promoting energy conservation could, up to a point, actually make consumers richer.

 

 

 

Second, the best available economic analyses suggest that even deep cuts in greenhouse gas emissions would impose only modest costs on the average family. Earlier this month, the Congressional Budget Office released an analysis of the effects of Waxman-Markey, concluding that in 2020 the bill would cost the average family only $160 a year, or 0.2 percent of income. That’s roughly the cost of a postage stamp a day.

 

By 2050, when the emissions limit would be much tighter, the burden would rise to 1.2 percent of income. But the budget office also predicts that real G.D.P. will be about two-and-a-half times larger in 2050 than it is today, so that G.D.P. per person will rise by about 80 percent. The cost of climate protection would barely make a dent in that growth. And all of this, of course, ignores the benefits of limiting global warming.

 

So where do the apocalyptic warnings about the cost of climate-change policy come from?

 

Are the opponents of cap-and-trade relying on different studies that reach fundamentally different conclusions? No, not really. It’s true that last spring the Heritage Foundation put out a report claiming that Waxman-Markey would lead to huge job losses, but the study seems to have been so obviously absurd that I’ve hardly seen anyone cite it.

 

 

Instead, the campaign against saving the planet rests mainly on lies.

Thus, last week Glenn Beck — who seems to be challenging Rush Limbaugh for the role of de facto leader of the G.O.P. — informed his audience of a “buried” Obama administration study showing that Waxman-Markey would actually cost the average family $1,787 per year. Needless to say, no such study exists.

 

But we shouldn’t be too hard on Mr. Beck. Similar — and similarly false — claims about the cost of Waxman-Markey have been circulated by many supposed experts.

 

A year ago I would have been shocked by this behavior. But as we’ve already seen in the health care debate, the polarization of our political discourse has forced self-proclaimed “centrists” to choose sides — and many of them have apparently decided that partisan opposition to President Obama trumps any concerns about intellectual honesty.

 

So here’s the bottom line: The claim that climate legislation will kill the economy deserves the same disdain as the claim that global warming is a hoax. The truth about the economics of climate change is that it’s relatively easy being green.

 

“E’ semplice essere verdi”, di Paul Krugman

New York Times 24 settembre 2009

 

Dunque, vi è piaciuto il dibattito sulla riforma della assistenza sanitaria? Siete rimasti impressionati dalla civiltà della discussione e dalla onestà intellettuale degli oppositori della riforma?

In questo caso, vi appassionerete di sicuro al prossimo grande dibattito: la battaglia sul cambiamento climatico.

La Camera ha già approvato un testo di legge sul clima abbastanza forte, basato su meccanismo del cosiddetto cap-and-trade [292], la proposta Waxman-Markey, che, se diventasse legge, potrebbe finalmente condurre ad una riduzione sensibile delle emissioni dei gas serra. Ma in materia di cambiamento climatico, come nel caso della assistenza sanitaria, la prova decisiva[293] sarà al Senato, dove i ‘soliti ignoti[294]’ si stanno dando moltissimo daffare per impedire la legislazione.

Alcuni di loro usano ancora l’argomento secondo il quale non sarebbe in atto niente di simile al riscaldamento globale, o almeno che non ci sarebbe ancora una evidenza definitiva. Ma questo argomento è ormai logoro sino all’inconsistenza[295], altrettanto inconsistente della banchisa artica, che attualmente si è ridotta sino al punto che la compagnie di navigazione stanno aprendo nuove rotte attraverso i mari precedentemente impraticabili a nord della Siberia.

Persino i grandi gruppi economici stanno perdendo la pazienza con questi ‘negazionisti[296]’: agli inizi di questa settimana Pacific Gas and Electric ha ritirato il suo componente dalla Camera di Commercio degli Stati Uniti per protesta contro “i tentativi insinceri di diminuire o di distorcere la realtà” da parte di quell’organismo, in materia di cambiamento climatico.

Così il principale argomento contro una legislazione sull’emergenza del clima, probabilmente non sarà la pretesa per la quale il riscaldamento globale sarebbe una favola. Sarà, piuttosto, l’argomento secondo il quale fare qualcosa per limitare il riscaldamento globale equivarrebbe a distruggere l’economia. Come sottolinea il blog Climate Progress, gli oppositori alla legislazione sul cambiamento climatico “continuano ad alzare le loro stime sui costi delle energie pulite e dei programmi di riduzione dell’inquinamento che dà origine al riscaldamento globale, come farebbe un banditore di aste[297] che ha perso il controllo”.

E’ importante comprendere, dunque, che quelle proteste per l’enorme danno economico che provocherebbe una legislazione sul clima sono letteralmente[298] un falso, così come la negazione del cambiamento climatico. Non sarà possibile salvare il pianeta gratuitamente (sebbene potrebbero essere tali le più elementari azioni di tutela). Ma non avrà neppure un costo spropositato[299].

Come facciamo a saperlo? In primo luogo, l’evidenza ci suggerisce che oggi stiamo sprecando una grande quantità di energia. Cioè, stiamo bruciando grandi quantità di carbone, di petrolio e di gas in modi che non accrescono la nostra qualità della vita – un fenomeno che nella letteratura specializzata è conosciuto come “disconnessione tra energia ed efficienza”. L’esistenza di questo gap ci dice che le politiche della conservazione dell’energia potrebbero, sino ad un certo limite, realmente rendere i consumatori più ricchi.

In secondo luogo, le migliori analisi disponibili confermano che tagli anche cospicui nelle emissioni di gas serra comporterebbero soltanto costi modesti per la famiglia media. Agli inizi di questo mese, il Congressional Budget Office ha reso nota una analisi sugli effetti della proposta Waxman–Markey, la quale in conclusione afferma che nel 2020 quella legge costerebbe ad una famiglia media soltanto 160 dollari all’anno, ovvero lo 0,2 per cento del reddito. Che è pressappoco il prezzo di un francobollo al giorno.

Attorno al 2050, quando il limiti alle emissioni sarebbero assai più severi, l’onere diverrebbe pari all’1,2 per cento del reddito. Ma il Budget Office prevede anche che attorno al 2050 il P.I.L. sarà più grande dell’attuale di circa due volte e mezzo, cosicché il P.I.L. a persona crescerà di circa l’80 per cento. Questa crescita sarebbe appena intaccata[300] dai costi della protezione del clima. E in questa analisi, naturalmente, non si considerano i benefici del contenimento del riscaldamento globale.

Dunque, da dove vengono gli ammonimenti apocalittici sui costi di una politica contro il cambiamento del clima?

Gli oppositori del cap-and-trade si basano su altri studi che pervengono a conclusioni essenzialmente diverse? In realtà, non sembra proprio. E’ vero che la scorsa primavera la Heritage Foundation mise in giro un rapporto che lamentava grandi perdite di posti di lavoro in conseguenza della Waxman-Markey, ma tale studio risultava così evidentemente assurdo che io ho fatto fatica a trovare qualcuno che lo prendesse sul serio.

Piuttosto, la campagna contro la salvezza del pianeta si basa principalmente su falsità.

Così, la scorsa settimana Glenn Beck – che sembra stia sfidando Charles Limbaugh per il ruolo di leader ‘de facto’ del G.O.P. – informò la sua platea che uno studio “segreto” della amministrazione Obama dimostrerebbe un reale costo della Waxman-Markey sulla famiglia media di 1.787 dollari all’anno. Non cè bisogno di dire che uno studio del genere non esiste.

Ma non dobbiamo essere troppo severi con il signor Beck. Analoghe dichiarazioni altrettanto false sui costi della Waxman-Merkey sono state messe in circolazione da parte di vari sedicenti esperti.

Un anno fa mi sarei scandalizzato per questi comportamenti. Ma come abbiamo già visto nel dibattito sulla assistenza sanitaria, la polarizzazione del dibattito politico ha costretto molti sedicenti “centristi” a schierarsi, e molti di loro paiono aver deciso che l’opposizione partigiana al Presidente Obama debba averla vinta[301] su ogni scrupolo di onestà intellettuale.

La questione è tutta qui: l’argomento secondo il quale la legislazione sul clima porterebbe un colpo mortale all’economia merita la stessa reazione sdegnata dell’argomento secondo il quale il riscaldamento globale sarebbe un falso allarme. La verità, a proposito delle politiche economiche di contrasto al cambiamento del clima, è che diventare verdi è relativamente semplice.

 

 

 

 

 

 


 

Cassandras of Climate

By PAUL KRUGMAN

Published: September 27, 2009

Every once in a while I feel despair over the fate of the planet. If you’ve been following climate science, you know what I mean: the sense that we’re hurtling toward catastrophe but nobody wants to hear about it or do anything to avert it.

 

And here’s the thing: I’m not engaging in hyperbole. These days, dire warnings aren’t the delusional raving of cranks. They’re what come out of the most widely respected climate models, devised by the leading researchers. The prognosis for the planet has gotten much, much worse in just the last few years.

 

What’s driving this new pessimism? Partly it’s the fact that some predicted changes, like a decline in Arctic Sea ice, are happening much faster than expected. Partly it’s growing evidence that feedback loops amplifying the effects of man-made greenhouse gas emissions are stronger than previously realized. For example, it has long been understood that global warming will cause the tundra to thaw, releasing carbon dioxide, which will cause even more warming, but new research shows far more carbon locked in the permafrost than previously thought, which means a much bigger feedback effect.

 

 

 

The result of all this is that climate scientists have, en masse, become Cassandras — gifted with the ability to prophesy future disasters, but cursed with the inability to get anyone to believe them.

 

And we’re not just talking about disasters in the distant future, either. The really big rise in global temperature probably won’t take place until the second half of this century, but there will be plenty of damage long before then.

For example, one 2007 paper in the journal Science is titled “Model Projections of an Imminent Transition to a More Arid Climate in Southwestern North America” — yes, “imminent” — and reports “a broad consensus among climate models” that a permanent drought, bringing Dust Bowl-type conditions, “will become the new climatology of the American Southwest within a time frame of years to decades.”

 

 

So if you live in, say, Los Angeles, and liked those pictures of red skies and choking dust in Sydney, Australia, last week, no need to travel. They’ll be coming your way in the not-too-distant future.

 

 

Now, at this point I have to make the obligatory disclaimer that no individual weather event can be attributed to global warming. The point, however, is that climate change will make events like that Australian dust storm much more common.

 

 

In a rational world, then, the looming climate disaster would be our dominant political and policy concern. But it manifestly isn’t. Why not?

Part of the answer is that it’s hard to keep peoples’ attention focused. Weather fluctuates — New Yorkers may recall the heat wave that pushed the thermometer above 90 in April — and even at a global level, this is enough to cause substantial year-to-year wobbles in average temperature. As a result, any year with record heat is normally followed by a number of cooler years: According to Britain’s Met Office, 1998 was the hottest year so far, although NASA — which arguably has better data — says it was 2005. And it’s all too easy to reach the false conclusion that the danger is past.

 

 

But the larger reason we’re ignoring climate change is that Al Gore was right: This truth is just too inconvenient. Responding to climate change with the vigor that the threat deserves would not, contrary to legend, be devastating for the economy as a whole. But it would shuffle the economic deck, hurting some powerful vested interests even as it created new economic opportunities. And the industries of the past have armies of lobbyists in place right now; the industries of the future don’t.

 

 

 

Nor is it just a matter of vested interests. It’s also a matter of vested ideas. For three decades the dominant political ideology in America has extolled private enterprise and denigrated government, but climate change is a problem that can only be addressed through government action. And rather than concede the limits of their philosophy, many on the right have chosen to deny that the problem exists.

 

So here we are, with the greatest challenge facing mankind on the back burner, at best, as a policy issue. I’m not, by the way, saying that the Obama administration was wrong to push health care first. It was necessary to show voters a tangible achievement before next November. But climate change legislation had better be next.

 

 

 

And as I pointed out in my last column, we can afford to do this. Even as climate modelers have been reaching consensus on the view that the threat is worse than we realized, economic modelers have been reaching consensus on the view that the costs of emission control are lower than many feared.

 

 

So the time for action is now. O.K., strictly speaking it’s long past. But better late than never.

 

“Le Cassandre del clima”, di Paul Krugman,

New York Times 27 settembre 2009

 

Di tanto in tanto provo un senso di diperazione sul destino della Terra. Se seguite il dibattito scientifico sul clima, sapete a cosa mi riferisco: la sensazione che stiamo andando a tutta velocità[302] verso una catastrofe, ma che nessuno voglia sentirne ragione né fare alcunché per evitarlo.

E qua è il punto: non mi sto esercitando in esagerazioni. Di questi tempi, quei terribili ammonimenti non sono sconfortanti deliri[303] di tipi strampalati[304]. Essi  derivano da modelli climatici elaborati da ricercatori all’avanguardia, che godono della massima generale considerazione. La prognosi per il pianeta è diventata molto, molto peggiore, solo nel corso degli ultimi pochi anni.

Che cosa ci porta a questo inedito pessimismo? In parte si tratta del fatto che alcuni dei cambiamenti previsti, come il declino dei ghiacciai nel Mare Artico, stanno avvenendo molto più rapidamente di quanto non ci si aspettasse. In parte si tratta della crescente evidenza che i meccanismi continui di retroazione[305], che hanno l’effetto di amplificare le emissioni dei gas serra artificiali, sono più forti di quanto non si fosse orginariamente compreso. Ad esempio, si era capito da tempo che il riscaldamento globale avrebbe provocato lo scongelamento della tundra, con un rilascio di anidride carbonica che, a sua volta, avrebbe provocato un ulteriore riscaldamento;  ma una recente ricerca ha dimostrato che esistono quantità molto maggiori di carbonio rinchiuse nelle terre ghiacciate[306], il che significa un effetto di retroazione molto superiore.

Il risultato di tutto questo è che gli scienziati del clima sono diventati, in massa, delle Cassandre: possiedono il dono[307] di profetizzare le disgrazie future, ma sono perseguitati dalla incapacità[308] di farsi credere da chicchessia.

E non stiamo neppure semplicemente parlando di disastri in un lontano futuro. La effettiva reale crescita della temperatura globale probabilmente non avrà luogo prima della seconda metà di questo secolo, ma saranno successi una infinità di danni ben prima di quella data.

Ad esempio, in un saggio del 2007 sul Journal Science dal titolo “Proiezioni modellistiche relative alla imminente transizione ad un clima più arido nella parte sudoccidentale del Nord America” (è scritto proprio “imminente”) si dà conto di “un vasto consenso attorno a modelli climatici” secondo i quali una permanente siccità, che provocherebbe condizioni simili al profondo Sud[309], “diventerà la nuova climatologia dell’America sud-occidentale in un periodo di tempo variabile tra gli anni ed i decenni”.

Così, se siete residenti, diciamo, a Los Angeles, e  vi sono piaciute quelle immagini di cieli rossi e di sabbie soffocanti[310] provenienti, la scorsa settimana, dalla australiana Sidney, non c’è alcun bisogno che organizziate un viaggio. Quei paesaggi vi diventeranno consueti in un futuro non troppo lontano.

Ora, a questo punto io dovrei pronunciare quella sorta di obbligato esonero da ogni responsabilità[311] secondo il quale nessun singolo evento atmosferico può essere attribuito al riscaldamento globale. Resta il fatto, tuttavia, che il cambiamento del clima renderà eventi del tipo le tempeste di sabbia australiane assai più comuni.

In un mondo razionale, dunque, l’incombente disastro ambientale dovrebbe essere la nostra principale preoccupazione politica e strategica[312]. Ma non è manifestamente ciò che accade. Perché?

In parte la risposta consiste nel fatto che è difficile catturare l’attenzione della gente. Le condizioni metereologiche sono fluttuanti . i newyorkesi possono rammentare il caldo che spinse il termometro sopra i 90[313] in aprile –  e, persino al livello globale, quelle variazioni sono sufficienti a provocare, anno dopo anno, notevoli spostamenti[314] nelle temperature medie. Come risultato, ogni anno con un record di caldo è normalmente seguito da un certo numero di anni più freddi. Secondo il Met Office britannico, sinora l’anno più caldo è stato il 1998, sebbene la NASA, che ha presumibilmente dati migliori, sostiene che esso fu il 2005. Così, è anche troppo facile giungere alla conclusione che il pericolo è scampato.

Ma la ragione più generale per la quale stiamo ignorando il cambiamento climatico è che aveva ragione Al Gore: questa verità comporta troppi inconvenienti. Rispondere al cambiamento climatico con il vigore che merita una minaccia del genere, non sarebbe devastante per l’economia nel suo complesso, contrariamente alle leggende. Sennonché in quel modo si andrebbe ad un rimescolamento delle carte dell’economia[315], si colpirebbero alcuni importanti poteri forti[316] anche se si creerebbero nuove opportunità economiche. E le industrie del passato hanno già adesso belli e schierati gli eserciti dei lobbisti; mentre le industrie del futuro non li hanno ancora in posizione.

Né è solo una questione di poteri forti; è anche una questione di idee forti. Lungo tre decenni l’ideologia politica dominante in America ha lusingato[317] l’impresa privata e denigrato i governi pubblici, ma il cambiamento climatico è un problema che può essere affrontato solo attraverso l’azione dei governi. E piuttosto che ammettere i limiti della propria filosofia, molta gente a destra ha scelto di negare l’esistenza del problema.

Cosi siamo arrivati a questo punto, con la più grande sfida che il genere umano abbia mai dovuto affrontare che viene messa da parte[318], nel migliore dei casi, come se fosse una qualsiasi questione politica. Non sto dicendo, ovviamente, che la amministrazione Obama ha sbagliato a porre il tema della assistenza sanitaria al primo posto. Era indispensabile mostrare agli elettori un tangibile successo prima del prossimo novembre. Ma era meglio che la legislazione sul cambiamento climatico venisse subito dopo.

E come ho sottolineato nel mio precedente articolo, si tratta di una sfida sostenibile. Nello stesso modo in cui gli esperti di modelli climatici stanno raggiungendo il consenso attorno al punto di vista per il quale la minaccia è peggiore di quanto non si fosse compreso, gli esperti di modelli economici stanno raggiungendo il consenso attorno alla opinione per la quale i costi del controllo delle emissioni sono minori di quanto si fosse temuto.

Dunque, è adesso il momento di agire. In effetti, ad esser precisi quel momento è passato da un bel po’. Ma meglio tardi che mai.

 

 

 

  


 

Mission Not Accomplished

By PAUL KRUGMAN

Published: October 2, 2009

Stocks are up. Ben Bernanke says that the recession is over. And I sense a growing willingness among movers and shakers to declare “Mission Accomplished” when it comes to fighting the slump. It’s time, I keep hearing, to shift our focus from economic stimulus to the budget deficit.

 

 

No, it isn’t. And the complacency now setting in over the state of the economy is both foolish and dangerous.

 

Yes, the Federal Reserve and the Obama administration have pulled us “back from the brink” — the title of a new paper by Christina Romer, who leads the Council of Economic Advisers. She argues convincingly that expansionary policy saved us from a possible replay of the Great Depression.

 

But while not having another depression is a good thing, all indications are that unless the government does much more than is currently planned to help the economy recover, the job market — a market in which there are currently six times as many people seeking work as there are jobs on offer — will remain terrible for years to come.

Indeed, the administration’s own economic projection — a projection that takes into account the extra jobs the administration says its policies will create — is that the unemployment rate, which was below 5 percent just two years ago, will average 9.8 percent in 2010, 8.6 percent in 2011, and 7.7 percent in 2012.

 

This should not be considered an acceptable outlook. For one thing, it implies an enormous amount of suffering over the next few years. Moreover, unemployment that remains that high, that long, will cast long shadows over America’s future.

 

 

Anyone who thinks that we’re doing enough to create jobs should read a new report from John Irons of the Economic Policy Institute, which describes the “scarring” that’s likely to result from sustained high unemployment. Among other things, Mr. Irons points out that sustained unemployment on the scale now being predicted would lead to a huge rise in child poverty — and that there’s overwhelming evidence that children who grow up in poverty are alarmingly likely to lead blighted lives.

 

 

These human costs should be our main concern, but the dollars and cents implications are also dire. Projections by the Congressional Budget Office, for example, imply that over the period from 2010 to 2013 — that is, not counting the losses we’ve already suffered — the “output gap,” the difference between the amount the economy could have produced and the amount it actually produces, will be more than $2 trillion. That’s trillions of dollars of productive potential going to waste.

Wait. It gets worse. A new report from the International Monetary Fund shows that the kind of recession we’ve had, a recession caused by a financial crisis, often leads to long-term damage to a country’s growth prospects. “The path of output tends to be depressed substantially and persistently following banking crises.”

 

 

The same report, however, suggests that this isn’t inevitable: “We find that a stronger short-term fiscal policy response” — by which they mean a temporary increase in government spending — “is significantly associated with smaller medium-term output losses.”

So we should be doing much more than we are to promote economic recovery, not just because it would reduce our current pain, but also because it would improve our long-run prospects.

 

But can we afford to do more — to provide more aid to beleaguered state governments and the unemployed, to spend more on infrastructure, to provide tax credits to employers who create jobs? Yes, we can.

 

The conventional wisdom is that trying to help the economy now produces short-term gain at the expense of long-term pain. But as I’ve just pointed out, from the point of view of the nation as a whole that’s not at all how it works. The slump is doing long-term damage to our economy and society, and mitigating that slump will lead to a better future.

What is true is that spending more on recovery and reconstruction would worsen the government’s own fiscal position. But even there, conventional wisdom greatly overstates the case. The true fiscal costs of supporting the economy are surprisingly small.

 

You see, spending money now means a stronger economy, both in the short run and in the long run. And a stronger economy means more revenues, which offset a large fraction of the upfront cost. Back-of-the-envelope calculations suggest that the offset falls short of 100 percent, so that fiscal stimulus isn’t a complete free lunch. But it costs far less than you’d think from listening to what passes for informed discussion.

 

 

Look, I know more stimulus is a hard sell politically. But it’s urgently needed. The question shouldn’t be whether we can afford to do more to promote recovery. It should be whether we can afford not to. And the answer is no.

 

“Missione incompiuta”, di Paul Krugman,

New York Times, 2 ottobre 2009

 

Il valore delle azioni risale. Ben Bernanke dichiara che la recessione è superata. E si avverte un desiderio crescente tra le persone potenti ed influenti[319] di dichiarare che, per quanto riguarda[320] la lotta contro la crisi, la “missione è compiuta”. E’ tempo, sento ripetere[321], di spostare il centro della nostra iniziativa dalle azioni di sostegno al deficit del bilancio.

Non è vero; e, a questo punto, starsene compiaciuti ad osservare le condizioni dell’economia sarebbe, insieme, sciocco e pericoloso.

E’ vero che la Federal Reserve e la amministrazione Obama ci hanno tirato “indietro dall’orlo del burrone” – il titolo di un nuovo saggio di Christina Romer, che è alla guida del Council of Economic Advisers[322]. Ella argomenta in modo convincente che è stata la politica espansiva a salvarci dalla possibile riedizione di una Grande Depressione.

Ma se non avere un’altra depressione è una buona cosa, tutte le indicazioni dicono che se il governo non metterà in atto uno sforzo molto maggiore di quello attualmente in cantiere, il mercato del lavoro – un mercato nel quale attualmente ci sono sei persone in cerca di lavoro per ogni posto disponibile – resterà in condizioni terribili per gli anni a venire.

Difatti, le proiezioni economiche della stessa amministrazione – proiezioni che mettono nel conto i posti di lavoro strordinari che la amministrazione ritiene verranno in conseguenza delle proprie politiche – dicono che il tasso di disoccupazione, che era attorno al 5 per cento solo due anni fa, sarà il 9,8 per cento nel 2010, il 8,6 per cento nel 2011, e il 7,7 per cento nel 2012.

Questa non dovrebbe essere considerata una prospettiva accettabile. Per un verso, essa comporterebbe un enorme quantità di sofferenze nel corso dei prossimi pochi anni. Più ancora, una disoccupazione che rimane così elevata, e per un periodo così lungo, proietta un’ombra inquietante sul futuro dell’America.

Tutti coloro che ritengono che stiamo facendo abbastanza per creare lavoro, dovrebbero andare a leggere un nuovo rapporto, a cura di John Irons dell’Economic Policy Institute, che descrive lo “sfregio[323]” che verosimilmente verrebbe provocato da un prolungato periodo di alta disoccupazione. Tra l’altro, Irons sottolinea il fatto che una prolungata disoccupazione delle dimensioni attualmente previste provocherebbe una ampia crescita della povertà infantile, e che c’è una evidenza indiscutibile nel fatto che bambini che crescono nella povertà comportino una conseguenza allarmante di vite sciupate[324].

Questi costi umani dovrebbero essere la nostra preoccupazione principale, ma sarebbero terribili anche le implicazioni meramente monetarie[325]. Proiezioni del Congressional Budget Office, indicano che nel periodo dal 2010 al 2013, cioè non considerando le perdite che sono già state scontate,  il “gap di risultato”, ovvero la differenza tra la ricchezza che l’economia potrebbe produrre e quella che realmente produce, sarebbe di due mila miliardi di dollari. Il che significa migliaia di miliardi di potenziale produttivo che vanno al macero[326].

Aspettate, perché c’è di peggio. Un nuovo rapporto a cura del Fondo Monetario Internazionale dimostra che il genere di recessione che abbiamo avuto, una recessione provocata da una crisi nel sistema finanziario, di solito comporta un danno di lungo periodo alle prospettive di crescita di un paese: “La prospettiva della produzione di reddito[327] tende sostanzialmente e persistentemente a restare depressa a seguito di crisi bancarie”.

Lo stesso rapporto, tuttavia, suggerisce che questo non è inevitabile: “Si può constatare che il risultato di politiche finanziarie più energiche nel breve periodo” – con il che si intende una crescita temporanea della spesa pubblica – “è associata a minori perdite nella produzione del reddito a medio termine”.

Dunque, dovremmo fare molto di più di quanto stiamo facendo per sostenere la ripresa economica, non solo perché in tal modo ridurremmo le sofferenze attuali, ma anche perché miglioreremmo le nostre prospettive nel tempo.

Ma possiamo permetterci di fare di più – possiamo fornire maggiori aiuti ai dissestati[328] governi degli Stati ed ai disoccupati, spendere di più in infrastrutture, stabilire crediti di imposta per quegli imprenditori che creano occupazione? Si, possiamo.

Secondo il presunto convenzionale buon senso, cercare di sostenere l’economia nel presente produce effetti immediati ma aumenta le difficoltà future. Ma ho appena sottolineato che, dal punto di vista della nazione nella sua interezza, in pratica non è così che funziona. E’ la crisi che provoca danni a lungo termine alla nostra economia ed alla nostra società, mentre mitigare la crisi può consentirci un futuro migliore.

Quello che è vero è che il governo, spendendo di più per la ripresa e la ricostruzione, peggiorerebbe la propria situazione finanziaria.  Ma persino in quel caso, quel buon senso convenzionale esagera di molto la situazione. L’effettivo costo finanziario del sostegno all’economia è sorprendentemente modesto.

Come si vede, utilizzare la spesa pubblica oggi significa un’economia più forte, sia nel breve che nel lungo termine. E un’economia più forte significa maggiori entrate, che controbilanciano[329] in larga parte le spese sostenute[330]. Calcoli approssimativi fanno ritenere che il risultato non compenserebbe le spese al cento per cento, ovvero che il programma di sostegno non sarebbe un pranzo completamente gratuito. Tuttavia costerebbe molto meno di quello che sareste indotti a pensare ascoltando discussioni apparentemente informate.

Attenzione, so bene che un programma di sostegno più forte è qualcosa che non è facile fare accettare in termini politici[331]. Eppure, esso è necessario con urgenza. La domanda non dovrebbe essere se possiamo permetterci di spendere di più per promuovere la ripresa; dovrebbe essere se possiamo permetterci di non farlo. E la risposta è che non possiamo permettercelo. 

 

 


 

The Politics of Spite

By PAUL KRUGMAN

Published: October 4, 2009

There was what President Obama likes to call a teachable moment last week, when the International Olympic Committee rejected Chicago’s bid to be host of the 2016 Summer Games.

 

“Cheers erupted” at the headquarters of the conservative Weekly Standard, according to a blog post by a member of the magazine’s staff, with the headline “Obama loses! Obama loses!” Rush Limbaugh declared himself “gleeful.” “World Rejects Obama,” gloated the Drudge Report. And so on.

 

So what did we learn from this moment? For one thing, we learned that the modern conservative movement, which dominates the modern Republican Party, has the emotional maturity of a bratty 13-year-old.

 

But more important, the episode illustrated an essential truth about the state of American politics: at this point, the guiding principle of one of our nation’s two great political parties is spite pure and simple. If Republicans think something might be good for the president, they’re against it — whether or not it’s good for America.

 

To be sure, while celebrating America’s rebuff by the Olympic Committee was puerile, it didn’t do any real harm. But the same principle of spite has determined Republican positions on more serious matters, with potentially serious consequences — in particular, in the debate over health care reform.

Now, it’s understandable that many Republicans oppose Democratic plans to extend insurance coverage — just as most Democrats opposed President Bush’s attempt to convert Social Security into a sort of giant 401(k). The two parties do, after all, have different philosophies about the appropriate role of government.

 

 

But the tactics of the two parties have been different. In 2005, when Democrats campaigned against Social Security privatization, their arguments were consistent with their underlying ideology: they argued that replacing guaranteed benefits with private accounts would expose retirees to too much risk.

 

The Republican campaign against health care reform, by contrast, has shown no such consistency. For the main G.O.P. line of attack is the claim — based mainly on lies about death panels and so on — that reform will undermine Medicare. And this line of attack is utterly at odds both with the party’s traditions and with what conservatives claim to believe.

 

Think about just how bizarre it is for Republicans to position themselves as the defenders of unrestricted Medicare spending. First of all, the modern G.O.P. considers itself the party of Ronald Reagan — and Reagan was a fierce opponent of Medicare’s creation, warning that it would destroy American freedom. (Honest.) In the 1990s, Newt Gingrich tried to force drastic cuts in Medicare financing. And in recent years, Republicans have repeatedly decried the growth in entitlement spending — growth that is largely driven by rising health care costs.

 

But the Obama administration’s plan to expand coverage relies in part on savings from Medicare. And since the G.O.P. opposes anything that might be good for Mr. Obama, it has become the passionate defender of ineffective medical procedures and overpayments to insurance companies.

 

How did one of our great political parties become so ruthless, so willing to embrace scorched-earth tactics even if so doing undermines the ability of any future administration to govern?

 

The key point is that ever since the Reagan years, the Republican Party has been dominated by radicals — ideologues and/or apparatchiks who, at a fundamental level, do not accept anyone else’s right to govern.

 

Anyone surprised by the venomous, over-the-top opposition to Mr. Obama must have forgotten the Clinton years. Remember when Rush Limbaugh suggested that Hillary Clinton was a party to murder? When Newt Gingrich shut down the federal government in an attempt to bully Bill Clinton into accepting those Medicare cuts? And let’s not even talk about the impeachment saga.

 

The only difference now is that the G.O.P. is in a weaker position, having lost control not just of Congress but, to a large extent, of the terms of debate. The public no longer buys conservative ideology the way it used to; the old attacks on Big Government and paeans to the magic of the marketplace have lost their resonance. Yet conservatives retain their belief that they, and only they, should govern.

The result has been a cynical, ends-justify-the-means approach. Hastening the day when the rightful governing party returns to power is all that matters, so the G.O.P. will seize any club at hand with which to beat the current administration.

 

 

It’s an ugly picture. But it’s the truth. And it’s a truth anyone trying to find solutions to America’s real problems has to understand.

 

“La politica del dispetto”, di Paul Krugman

New York Times 4 ottobre 2009

 

La scorsa settimana è successa una di quelle cose che il Presidente Obama ama definire episodi istruttivi, allorchè l’ International Olimpic Committee ha respinto la condidatura di Chicago ad ospitare i Giochi dell’estate del 2016.

“Esplosione di brindisi” al quartier generale del conservatore Weekly Standard, secondo quanto è stato riferito ad un blog da parte di un membro della redazione della rivista; con il titolo “Obama perde! Obama perde!”, Rush Limbaugh si è dichiarato “gioioso”. “Il mondo respinge Obama”, ha gongolato il Drudge Report. E via di questo passo.

Cosa c’è, dunque, di istruttivo in questi episodi? Da una parte, abbiamo appreso che l’attuale movimento dei conservatori, che domina all’interno del Partito Repubblicano, ha la maturità emotiva di un ragazzino impertinente[332] di 13 anni.

Ma, più importante ancora, quegli episodi mettono a nudo una verità a proposito delle condizioni della politica americana: a questo punto, il principio guida di uno dei due grandi partiti politici della nostra nazione è la strumentalità[333] pura e semplice. Se i Repubblicani ritengono che una qualsiasi cosa possa risultare positiva per il Presidente, essi si mettono di traverso, sia essa buona o no per l’America.

E’ certo che, mentre i festeggiamenti al diniego dell’ International Olimpic Committee sono risultati puerili, essi non hanno provocato particolare danno. Ma la stessa ispirazione strumentale ha informato le posizioni dei repubblicani su faccende più serie, con conseguenze potenzialmente gravi, come nel caso della riforma della assistenza sanitaria.

Ora, è comprensibile che molti repubblicani si siano opposti ai programmi dei democratici per una estensione della copertura delle assicurazioni, così come una gran parte dei democratici si opposero al tentativo del Presidente Bush di trasformare il sistema della Sicurezza Sociale in una specie di gigantesco modulo 401(k)[334]. I due partiti hanno, in fin dei conti, diverse filosofie su quale sia il ruolo più appropriato del governo.

Ma le tattiche dei due partiti sono state ben diverse. Nel 2005, quando i Democratici si opposero alla privatizzazione del sistema della sicurezza sociale, usarono argomenti coerenti con la loro impostazione ideologica: essi ritenevano che lo spostare benefici garantiti su contabilità di tipo privatistico avrebbe esposto le pensioni ad un rischio troppo grande.

La campagna repubblicana contro la riforma della assistenza sanitaria, di contro, non ha avuto affatto la medesima consistenza. La principale linea di attacco del G.O.P. è la pretesa – basata su bugie del genere dei “tribunali della morte” e simili – che la riforma finirebbe con il mettere a repentaglio Medicare. E questa linea di attacco è completamente in contrasto sia con le tradizioni del Partito, sia con quello che i conservatori sostengono di credere.

Pensate soltanto a quanto sia bizzarro che i Repubblicani si presentino come gli alfieri di una spesa senza limiti per Medicare. Prima di tutto i Repubblicani di oggi si considerano il partito di Ronald Reagan, e Reagan fu un oppositore feroce della istituzione di Medicare, ammonendo che esso avrebbe letteralmente distrutto la libertà emericana. Nel 1990 Newt Gingrich provo a introdurre tagli drastici nel finanziamento di Medicare. Negli anni recenti, infine, i Repubblicani hanno ripetutamente criticato la crescita della spesa pubblica per i diritti sociali,  crescita che è largamente provocata dai costi crescenti della assistenza sanitaria.

Ma il programma della amministrazione Obama per la espansione della copertura assistenziale si fonda in parte su risparmi nella spesa per Medicare. E, dato che il G.O.P. si oppone a qualsiasi cosa possa essere positiva per Obama, esso è diventato l’appassionato difensore di pratiche mediche inefficaci e di spese incontrollate a favore delle compagnie assicuratrici.

Come è stato possibile che uno dei nostri grandi partiti politici sia diventato così cinico[335], così desideroso di adottare tattiche da ‘guerra bruciata’[336], anche se così facendo compromette le possibilità di governo di ogni amministrazione futura?

Il punto chiave è che sin dagli anni di Reagan, il Partito Repubblicano è stato dominato da ideologi radicali e/o da uomini di apparato i quali, fondamentalmente, non riconoscevano il diritto e la possibilità di governare a nessun altro.

Chiunque si sorprenda per l’opposizione velenosa e sopra le righe ad Obama, deve aver dimenticato gli anni di Clinton. Ricordate quando Rush Limbaugh suggerì che Hillary Clinton fosse facesse parte di un gruppo criminale[337]? E ricordate quando Newt Gingrich bloccò il governo federale[338] nel tentativo di imporre con la prepotenza[339] a Bill Clinton l’accettazione di quei tagli a Medicare? E non parliamo neanche della ‘saga’ dell’impeachment.

La sola differenza è che oggi il G.O.P. è più debole, avendo perso il controllo non solo del Congresso, ma, in larga misura, degli stessi termini del confronto. La gente non abbocca più[340] alla ideologia conservatrice, nei modi in cui faceva in passato; gli attacchi di una volta allo statalismo[341] e le sviolinate[342] alle magie del mercato hanno perso la loro risonanza. Tuttavia i conservatori restano convinti che loro, e solo loro, sono abilitati al governo.

Il risultato di tutto ciò è stato un approccio cinico, del tipo ‘il fine giustifica i mezzi’. L’unica cosa che conta è accelerare il giorno nel quale il partito che ha diritto a governare ritornerà al potere, a questo fine il G.O.P. prenderà in mano qualsiasi arma[343] utilizzabile contro la amministrazione in carica.

Ne deriva una immagine sgradevole, ma veritiera. Ed è una verità che tutti quelli che sono impegnati a cercare soluzione ai problemi reali dell’America faranno bene a mettersi in testa.

 

 

 


 

The Uneducated American

By PAUL KRUGMAN

Published: October 8, 2009

If you had to explain America’s economic success with one word, that word would be “education.” In the 19th century, America led the way in universal basic education. Then, as other nations followed suit, the “high school revolution” of the early 20th century took us to a whole new level. And in the years after World War II, America established a commanding position in higher education.

 

 

But that was then. The rise of American education was, overwhelmingly, the rise of public education — and for the past 30 years our political scene has been dominated by the view that any and all government spending is a waste of taxpayer dollars. Education, as one of the largest components of public spending, has inevitably suffered.

 

 

Until now, the results of educational neglect have been gradual — a slow-motion erosion of America’s relative position. But things are about to get much worse, as the economic crisis — its effects exacerbated by the penny-wise, pound-foolish behavior that passes for “fiscal responsibility” in Washington — deals a severe blow to education across the board.

 

 

 

About that erosion: there has been a flurry of reporting recently about threats to the dominance of America’s elite universities. What hasn’t been reported to the same extent, at least as far as I’ve seen, is our relative decline in more mundane measures. America, which used to take the lead in educating its young, has been gradually falling behind other advanced countries.

 

 

Most people, I suspect, still have in their minds an image of America as the great land of college education, unique in the extent to which higher learning is offered to the population at large. That image used to correspond to reality. But these days young Americans are considerably less likely than young people in many other countries to graduate from college. In fact, we have a college graduation rate that’s slightly below the average across all advanced economies.

 

 

Even without the effects of the current crisis, there would be every reason to expect us to fall further in these rankings, if only because we make it so hard for those with limited financial means to stay in school. In America, with its weak social safety net and limited student aid, students are far more likely than their counterparts in, say, France to hold part-time jobs while still attending classes. Not surprisingly, given the financial pressures, young Americans are also less likely to stay in school and more likely to become full-time workers instead.

 

 

But the crisis has placed huge additional stress on our creaking educational system.

 

According to the Bureau of Labor Statistics, the United States economy lost 273,000 jobs last month. Of those lost jobs, 29,000 were in state and local education, bringing the total losses in that category over the past five months to 143,000. That may not sound like much, but education is one of those areas that should, and normally does, keep growing even during a recession. Markets may be troubled, but that’s no reason to stop teaching our children. Yet that’s exactly what we’re doing.

 

 

 

There’s no mystery about what’s going on: education is mainly the responsibility of state and local governments, which are in dire fiscal straits. Adequate federal aid could have made a big difference. But while some aid has been provided, it has made up only a fraction of the shortfall. In part, that’s because back in February centrist senators insisted on stripping much of that aid from the American Recovery and Reinvestment Act, a k a the stimulus bill.

 

 

As a result, education is on the chopping block. And laid-off teachers are only part of the story. Even more important is the way that we’re shutting off opportunities.

 

 

For example, the Chronicle of Higher Education recently reported on the plight of California’s community college students. For generations, talented students from less affluent families have used those colleges as a stepping stone to the state’s public universities. But in the face of the state’s budget crisis those universities have been forced to slam the door on this year’s potential transfer students. One result, almost surely, will be lifetime damage to many students’ prospects — and a large, gratuitous waste of human potential.

 

 

 

 

So what should be done?

First of all, Congress needs to undo the sins of February, and approve another big round of aid to state governments. We don’t have to call it a stimulus, but it would be a very effective way to create or save thousands of jobs. And it would, at the same time, be an investment in our future.

 

 

 

Beyond that, we need to wake up and realize that one of the keys to our nation’s historic success is now a wasting asset. Education made America great; neglect of education can reverse the process.

 

“Americani non istruiti”, di Paul Krugman

New York Times 8 ottobre 2009

 

Se un tempo aveste dovuto spiegare i successi economici dell’America con una parola, quella parola avrebbe dovuto essere “istruzione”. Nel diciannovesimo secolo l’America aprì la strada della istruzione di base per tutti. A quel punto, dopo che altre nazioni ci avevano imitato, la “rivoluzione della scuola superiore” degli inizi del XX secolo ci portò ad un livello interamente nuovo. Infine, negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, l’America assunse una posizione di avanguardia nell’istruzione universitaria.

Ma tutto questo avveniva nel passato. La crescita del sistema educativo americano fu, in modo del tutto preponderante, la crescita della scuola pubblica, mentre nei trenta anni passati la nostra scena politica è stata dominata dal pregiudizio secondo il quale la spesa pubblica di ogni genere non fosse altro che uno spreco dei soldi dei contribuenti. Il sistema educativo, in quanto uno dei destinatari principali della spesa pubblica, ne ha inevitabilmente sofferto.

Sino ad oggi, i risultati di questa scelta punitiva nei riguardi della istruzione pubblica sono stati graduali: una specie di erosione al rallentatore[344] della posizione degli Stati Uniti in quella graduatoria. Ma la situazione sta diventando molto peggiore, oggi che la crisi economica – i cui effetti sono esacerbati da un comportamento ondivago, dalla esagerata parsimonia alle spese folli[345], che a Washington passa per “responsabilità finanziaria” – dà un duro colpo all’istruzione a tutti i livelli[346].

A proposito di quella erosione: c’è stata di recente una indondazione di resoconti giornalistici a proposito dei rischi che corre il predominio del fior fiore delle Università americane. Quello che non è stato oggetto della stessa attenzione, almeno per quanto ho potuto constatare, è stato il nostro relativo declino anche per aspetti assai più banali[347]. L’America, che era abituata ad essere all’avanguardia nella istruzione dei suoi giovani, sta gradualmente collocandosi alle spalle di altri paesi avanzati.

Ho il sospetto che molta gente abbia ancora in testa una immagine dell’America come il grande paese della educazione nei colleges, insuperabile per la generosità con la quale gli studi superiori sono offerti senza limiti alla popolazione. Quell’immagine corrispondeva in effetti alla realtà. Ma in questi tempi i giovani americani sono considerevolmente meno favoriti dei giovani di molti altri paesi nel laurearsi nei colleges. Di fatto, la nostra percentuale di laureati si colloca leggermente al di sotto della media di tutte le altre economie avanzate.

Anche senza gli effetti della crisi in corso, ci sarebbe stata ogni ragione per aspettersi una ulteriore retrocessione in quelle graduatorie, non fosse altro perché da noi  la possibilità di restare negli studi è ardua, per coloro che non hanno i mezzi finanziari. In America, per effetto della nostra debole rete di sicurezza sociale e dei limitati sussidi, gli studenti svolgono lavori a tempo parziale mentre ancora sono negli studi, in una proporzione assai superiore di quella, per fare un esempio, dei giovani francesi. Né sorprende, dati i condizionamenti finanziari, che per i giovani americani anche proseguire gli studi, piuttosto che entrare prematuramente nel mondo del lavoro, sia assai meno probabile.

Ma la crisi ha provocato una ulteriore grave tensione nel nostro scricchiolante[348] sistema educativo.

Secondo il Bureau of Labor Statistics, l’economia degli Stati Uniti ha perso nel mese scorso 273.000 posti di lavoro. Di questi posti di lavoro andati in fumo, 29.000 erano nel settore statale e delle scuole locali, in questo modo portando le perdite totali in questa categoria, con riferimento agli ultimi cinque mesi, a 143.000 unità.  Può sembrare che non sia una cifra elevata, ma l’istruzione è una di quelle aree che dovrebbero crescere anche durante le recessioni, la qualcosa peraltro normalmente accade. I mercati possono avere problemi, ma questa non è una ragione per interrompere i percorsi di apprendimento dei nostri figli. Ed invece è esattamente questo che stiamo facendo.

In quello che sta avvenendo non c’è nessun mistero: l’istruzione pubblica è una delle principali responsabilità degli stati e dei governi locali, che si trovano in terribili ristrettezze finanziarie. Se fosse intervenuto un adeguato aiuto federale, le cose sarebbero andate diversamente. Ma se un qualche aiuto è stato fornito, esso ha compensato solo una parte esigua del deficit. E in parte questo è accaduto perché i senatori “centristi”, lo scorso febbraio, insistettero per escludere la parte principale[349] di questi aiuti dall’ American Recovery and Reinvestment Act, ovvero dalla legge per il sostegno all’economia.

Il risultato è stata una vera e propria amputazione per il sistema educativo[350]. E il licenziamento degli insegnanti è solo una parte della vicenda. Ancora più importante è stato il modo in cui si sono chiuse molte opportunità.

Per esempio il Chronicle of Higher Education[351] recentemente ha riportato una notizia relativa alla triste condizione[352] degli studenti degli istituti per la formazione professionale[353] della California. Da generazioni, studenti dotati di buon talento e provenienti da famiglie economicamente svantaggiate hanno usato questi istituti  come una sorta di trampolino[354] per accedere alle università pubbliche degli Stati. Ma dinanzi alla crisi di bilancio di quegli Stati, quelle università sono state costrette a sbattere la porta in faccia agli studenti che avrebbero potuto trasferirsi in esse, nel corso di quest’anno scolastico. E’ verosimile che il risultato sarà un danno che durerà una vita intera per le prospettive di molti studenti, nonché un ampio e gratuito spreco di potenziale umano.

Dunque, cosa si dovrebbe fare?

Prima di tutto, è necessario che il Congresso si emendi dal peccato[355] commesso lo scorso febbraio, ed approvi un altro cospicuo giro di finanziamenti ai governi degli Stati. Non c’è bisogno di chiamarlo il “secondo piano di sostegno[356]”, tuttavia dovrebbe trattarsi di una soluzione davvero efficace per creare o salvare migliaia di posti di lavoro. Nel qual modo si farebbe, nello stesso tempo, un investimento sul nostro futuro.

Oltre a ciò, abbiamo bisogno di svegliarci e di comprendere che una delle chiavi che ci hanno garantito come nazione un successo storico, è oggi ridotta ad una risorsa sprecata[357]. L’istruzione ha fatto grande l’America; trascurare l’istruzione può portarci all’esito opposto.  

 

 

 

 

 

 

 


 

Misguided Monetary Mentalities

By PAUL KRUGMAN

Published: October 11, 2009

One lesson from the Great Depression is that you should never underestimate the destructive power of bad ideas. And some of the bad ideas that helped cause the Depression have, alas, proved all too durable: in modified form, they continue to influence economic debate today.

 

What ideas am I talking about? The economic historian Peter Temin has argued that a key cause of the Depression was what he calls the “gold-standard mentality.” By this he means not just belief in the sacred importance of maintaining the gold value of one’s currency, but a set of associated attitudes: obsessive fear of inflation even in the face of deflation; opposition to easy credit, even when the economy desperately needs it, on the grounds that it would be somehow corrupting; assertions that even if the government can create jobs it shouldn’t, because this would only be an “artificial” recovery.

 

 

 

In the early 1930s this mentality led governments to raise interest rates and slash spending, despite mass unemployment, in an attempt to defend their gold reserves. And even when countries went off gold, the prevailing mentality made them reluctant to cut rates and create jobs.

 

But we’re past all that now. Or are we?

 

America isn’t about to go back on the gold standard. But a modern version of the gold standard mentality is nonetheless exerting a growing influence on our economic discourse. And this new version of a bad old idea could undermine our chances for full recovery.

 

 

Consider first the current uproar over the declining international value of the dollar.

The truth is that the falling dollar is good news. For one thing, it’s mainly the result of rising confidence: the dollar rose at the height of the financial crisis as panicked investors sought safe haven in America, and it’s falling again now that the fear is subsiding. And a lower dollar is good for U.S. exporters, helping us make the transition away from huge trade deficits to a more sustainable international position.

 

 

But if you get your opinions from, say, The Wall Street Journal’s editorial page, you’re told that the falling dollar is a terrible thing, a sign that the world is losing faith in America (and especially, of course, in President Obama). Something, you believe, must be done to stop the dollar’s slide. And in practice the dollar’s decline has become a stick with which conservative members of Congress beat the Federal Reserve, pressuring the Fed to scale back its efforts to support the economy.

 

 

We can only hope that the Fed stands up to this pressure. But there are worrying signs of a misguided monetary mentality within the Federal Reserve system itself.

In recent weeks there have been a number of statements from Fed officials, mainly but not only presidents of regional Federal Reserve banks, calling for an early return to tighter money, including higher interest rates. Now, people in the Federal Reserve system are normally extremely circumspect when making statements about future monetary policy, so as not to step on the efforts of the Fed’s Open Market Committee, which actually sets those rates, to shape expectations. So it’s extraordinary to see all these officials suddenly breaking the implicit rules, in effect lecturing the Open Market Committee about what it should do.

 

 

 

 

What’s even more extraordinary, however, is the idea that raising rates would make sense any time soon. After all, the unemployment rate is a horrifying 9.8 percent and still rising, while inflation is running well below the Fed’s long-term target. This suggests that the Fed should be in no hurry to tighten — in fact, standard policy rules of thumb suggest that interest rates should be left on hold for the next two years or more, or until the unemployment rate has fallen to around 7 percent.

 

 

 

Yet some Fed officials want to pull the trigger on rates much sooner. To avoid a “Great Inflation,” says Charles Plosser of the Philadelphia Fed, “we will need to act well before unemployment rates and other measures of resource utilization have returned to acceptable levels.” Jeffrey Lacker of the Richmond Fed says that rates may need to rise even if “the unemployment rate hasn’t started falling yet.”

 

 

 

I don’t know what analysis lies behind these itchy trigger fingers. But it probably isn’t about analysis, anyway — it’s about mentality, the sense that central banks are supposed to act tough, not provide easy credit.

 

 

And it’s crucial that we don’t let this mentality guide policy. We do seem to have avoided a second Great Depression. But giving in to a modern version of our grandfathers’ prejudices would be a very good way to ensure the next worst thing: a prolonged era of sluggish growth and very high unemployment.

 

“Fuorvianti mentalità monetariste”, di Paul Krugman

New York Times 11 ottobre 2009

Una lezione che viene dalla Grande Depressione è che non si dovrebbe mai sottovalutare il potere distruttivo delle idee sbagliate. Ed alcune delle idee sbagliate che favorirono l’avvento delle Depressione si sono dimostrate, ahimè, anche troppo tenaci: in forme modificate, esse continuano ad influenzare il dibattito economico odierno.

Di quali idee sto parlando? Lo storico dell’economia Peter Temin ha sostenuto che una delle cause principali della Depressione consistette in quella che lui chiama la “mentalità del gold-standard”. Con questa espressione egli si riferisce non soltanto alla fede dell’importanza sacra del mantenimento del valore aureo di una valuta, ma ad un complesso di convergenti attitudini: la paura ossessiva dell’inflazione anche di fronte alla deflazione; l’opposizione al credito facile, anche quando l’economia ne ha disperatamente bisogno, sulla base del preconcetto secondo il quale  esso sarebbe in qualche modo una forma di corruzione; la convinzione secondo la quale, anche se lo Stato è nelle condizioni di creare posti di lavoro, non dovrebbe farlo, perché in questo modo si determinerebbe una ripresa soltanto “artificiale”.

All’inizio degli anni 30, questa mentalità portò i governi a far salire i tassi di interesse ed a ridurre drasticamente la spesa pubblica, nonostante una disoccupazione massiccia, nel tentativo di difendere le proprie riserve auree. E persino quando i paesi abbandonarono la parità aurea[358], la mentalità prevalente li aveva resi diffidenti a tagliare i tassi ed a creare occupazione.

Tutto ciò è alle nostre spalle. Ma ne siamo certi?

L’America non è prossima a tornare al gold-standard. Ma una versione aggiornata della mentalità del gold-standard, nondimeno, sta esercitando una influenza crescente nel nostro dibattito economico. E questa versione aggiornata di una vecchia idea sbagliata potrebbe minare le nostre potenzialità nella direzione di una piena ripresa.

Si consideri, in primo luogo, tutto l’attuale trambusto a proposito del declino internazionale del valore del dollaro.

La verità è che la perdita di valore del dollaro è una buona notizia. In un certo senso, esso è principalmente il risultato di una crescente fiducia; il dollaro è salito nel mentre si era al culmine di una crisi finanziaria nella quale investitori in preda al panico cercavano in America un rifugio sicuro, e sta di nuovo scendendo adesso che la paura si è placata[359]. Un dollaro più basso è un bene per gli esportatori americani, ci aiuta a realizzare il passaggio da un vasto deficit commerciale ad una posizione internazionale più sostenibile.

Ma se voi vi formate le vostre opinioni, per esempio, sulla pagina degli editoriali del Wall Street Journal, sentirete dire che la caduta del dollaro è una cosa terribile, è il segno che il mondo sta perdendo la fiducia nell’America (e, naturalmente, in special modo nel Presidente Obama). Qualcosa, crederete, deve essere fatto per fermare la caduta del dollaro. In pratica, il declino del dollaro è diventato il bastone che gli esponenti conservatori del Congresso utilizzano per dare addosso alla Federal Reserve, nel tentativo di farla recedere dagli sforzi di sostegno dell’economia.

Possiamo solo sperare che la Fed resista a queste pressioni. Ma alcuni segnali preoccupanti ci dicono che fuorvianti mentalità monetariste allignano all’interno dello stesso sistema della Federal Reserve.

Nelle settimane recenti, si sono avute un certo numero di dichiarazioni da parte dei dirigenti della Fed, principalmente ma non soltanto da parte dei presidenti delle banche regionali della Federal Reserve, che chiedevano un pronto ritorno ad una stretta monetaria[360], inclusi tassi di interesse più elevati. Ora, le persone all’interno del sistema della Federal Reserve sono normalmente assai caute nel rilasciare dichiarazioni a proposito delle future politiche monetarie, anche per non fare pressioni indebite[361] sull’attività dell’ Open Market Committee della Fed, al quale in realtà spetta la decisione su quei tassi, al fine di determinare le aspettative. Dunque è straordinario vedere tutti questi dirigenti, all’improvviso, rompere ogni regola implicita, in pratica indicando all’Open Market Committee cosa dovrebbe fare.

Quello che è ancora più straordinario, tuttavia, è l’idea che aumentare i tassi di interesse sarebbe una cosa sensata, da fare comunque subito. Dopotutto il tasso di disoccupazione è al livello terribile del 9,8 per cento, e sta ancora crescendo, mentre l’inflazione si muove ben al di sotto dell’obbiettivo di lungo periodo della Fed. Questo suggerisce che la Fed non dovrebbe avere furia nel determinare una stretta: di fatto, le regole generali di una normale politica[362] ci dicono che i tassi di interesse dovrebbero essere lasciati fermi[363] per i prossimi due anni ed anche più, comunque sino a che il tasso di disoccupazione non sia ridisceso attorno al 7 per cento.

Tuttavia, alcuni dirigenti della Fed vorrebbero “premere il grilletto” sui tassi[364] il prima possibile. Al fine di evitare una “Grande Inflazione”, dice Charles Plosser della Fed di Filadelfia, “noi abbiamo bisogno di agire molto prima che i tassi di disoccupazione e gli altri dati relativi all’utilizzo delle risorse siano tornati a livelli accettabili”. Jeffrey Lacker della Fed di Richmond, a sua volta afferma che ci può essere il bisogno di innalzare i tassi di interesse anche se “il livello della disoccupazione non ha ancora cominciato a scendere”.

Io non so quale genere di analisi sia sotteso a queste “dita ansiose di premere il grilletto”[365]. Ma probabilmente non si tratta di analisi, piuttosto si tratta di una mentalità, ovvero di un sentimento per il quale è dato per scontato che le banche centrali debbano agire con durezza, piuttosto che concedere credito facile.

E’ fondamentale che non si lasci guidare la politica da mentalità di questo genere. Sembra che siamo riusciti ad evitare una seconda Grande Depressione. Ma tradurre in una versione aggiornata i pregiudizi dei nostri nonni, sarebbe il modo migliore per assicurarci la prossima disgrazia: un lungo periodo di crescita stentata e di elevatissima disoccupazione.

 

 


 

A Hatchet Job So Bad It’s Good

By PAUL KRUGMAN

Published: October 15, 2009

In the past, the insurance industry’s power has been a major barrier to health-care reform. Most notably, the industry paid for the infamous “Harry and Louise” ads that helped kill the Clinton plan. But times have changed.

 

Last weekend, the lobbying organization America’s Health Insurance Plans, or AHIP, released a report attacking the reform plan just passed by the Senate Finance Committee. Some news organizations gave the report prominent, uncritical coverage. But health-care experts quickly, and correctly, dismissed it as a hatchet job. And the end result of AHIP’s blunder may be a better bill than we would otherwise have had.

 

 

 

For 2009, it turns out, is not 1993. Once again, Republicans have tried to kill reform with smears and scare stories. But all they seem to have killed with their cries of “socialism” and warnings about “death panels” is their own credibility. Some form of health-care reform is highly likely to pass.

 

 

So it’s a different game than it was 16 years ago. And it’s a game that the insurance industry apparently doesn’t know how to play.

The motivation for the AHIP report seems to have been the decision by the Finance Committee to weaken the penalties for individuals who don’t sign up for insurance, even as it retains regulations requiring that insurers offer the same policies to everyone, regardless of medical history. The industry worries that some people will game the system, remaining uninsured as long as they’re healthy, then signing up when they get sick.

 

 

This is, believe it or not, a valid concern. Many health-care economists believe that a strong individual mandate, requiring that almost everyone sign up, will be needed to make health reform work. And the Finance Committee probably did weaken the mandate too much.

 

 

But AHIP, apparently unable to help itself, didn’t stop there. Instead, the report threw every anti-reform argument the authors could think of at the wall, hoping that something would stick.

One argument was particularly striking: the claim that attempts to limit Medicare spending would lead to higher insurance premiums. In fact, the report assumes that 100 percent of any reduction in Medicare payments to hospitals will translate into higher costs for patients with private insurance.

The only way to justify this claim is to assume that all hospitals are purely charitable institutions, charging as little as they possibly can. Now, some hospitals may fit this description. But all of them?

 

What’s more, this argument stands the usual logic of markets on its head: if you believe AHIP’s story, competition raises prices instead of reducing them. And it doesn’t matter where the competition comes from: anyone who gets a better deal, whether it’s Medicare or a private insurer, makes life worse for everyone else. I don’t believe that, and neither should you.

 

Of course, the report doesn’t mention these implications. The only bad competition it talks about is competition from the government. Specifically, it claims that a public insurance option would be a bad thing — not because it would be inefficient, but because the public plan would negotiate better prices. Isn’t that an argument for, not against, such a plan?

 

Which brings us to the ways in which AHIP may have done health reform a favor.

 

As I said, the individual mandate probably should be stronger than it is in the Finance Committee’s bill. But there’s a reason the mandate was weakened: fear that too many people would balk at the cost of insurance, even with the subsidies provided to lower-income individuals and families. So why not address that cost?

 

Aside from making the subsidies larger, which they should be, there are at least two changes to the legislation that would help limit costs. First, health exchanges — special, regulated markets in which individuals and small businesses can buy insurance — can be made stronger, in effect giving small buyers a better bargaining position. Second, the public option — missing from the Finance Committee’s bill — can be brought back in, giving private insurers some real competition.

 

 

The insurance industry won’t like these changes, but that matters less than it did a week ago.

There’s also another point, which House Speaker Nancy Pelosi has stressed. Part of the opposition to a strong individual mandate comes from the sense that Americans will be forced to buy policies from a greedy insurance industry. Giving people, literally, another option — the right to buy into a public plan instead — would defuse that opposition.

 

 

Even with stronger exchanges and a public option, health reform would probably increase, not reduce, insurance industry profits. But the insurers wanted it all. The good news is that by overreaching, they may have ensured that they won’t get it.

 

“Una polemica così maldestra, da tornare utile[366]”di Paul Krugman,

New York Times 15 ottobre 2009

Nel passato il potere del sistema assicurativo aveva costituito il maggiore ostacolo ad una riforma della assistenza sanitaria. Fu memorabile il pagamento da parte delle assicurazioni dell’oscena campagna pubblicitaria[367] “Harry e Louise”, che contribuì a sconfiggere il progetto di Clinton. Ma i tempi sono cambiati.

La scorsa fine settimana, l’organizzazione lobbistica America’s Health Insurance Plans[368], o AHIP, ha pubblicato un rapporto che attacca il progetto di riforma appena approvato dalla Commissione Finanze del Senato. Alcune agenzie di stampa[369] hanno dedicato a tale rapporto un grande ed acritico rilievo. Ma gli esperti del sistema sanitario gli hanno riservato, tempestivamente e correttamente, un’aspra critica. E il risultato finale del passo falso dell’AHIP  potrebbe essere una legge migliore di quella che altrimenti non avremmo avuto.

Si conferma che il 2009 è altra cosa dal 1993. Ancora una volta i Repubblicani hanno provato a liquidare la riforma con storielle calunniose e impressionanti. Ma ciò che essi sembrano aver fatto fuori con i loro strepiti sul “socialismo” e con il terrorismo dei “tribunali della morte”, è la loro stessa credibilità. E’ altamente probabile che, in qualche modo, una riforma del sistema sanitario finirà con l’essere approvata.

Dunque, siamo dinanzi ad una partita diversa da quella che si giocò 16 anni fa. E questa partita, il sistema assicurativo non sembra saperla giocare.

All’origine del rapporto dell’AHIP sembra ci sia stata la decisione della Commissione Finanze di indebolire le penalità per le persone che non si iscrivono alle assicurazioni, proprio nel mentre si ritiene di esigere regole  per le quali gli assicuratori offrano le stesse polizze a ciascuno, senza attribuire valore alla storia clinica degli individui. Il settore delle assicurazioni teme che qualcuno possa prendersi gioco del sistema, restando non assicurato finché è in salute e aderendovi al momento in cui si ammala.

Questa, la si condivida o meno, è una preoccupazione sensata. Molti economisti dei sistemi sanitari credono che una forte delega individuale[370], con la previsione dell’obbligo della adesione assicurativa quasi per tutti, sarà necessaria al fine di realizzare una riforma della sanità. E la Commissione Finanze probabilmente ha indebolito  troppo tali meccanismi di responsabilità.

Ma l’AHIP, apparentemente incapace di difendere il proprio stesso interesse, non si è fermata lì. Invece, il rapporto ha usato alla rinfusa[371] ogni argomento anti-riforma che agli autori potesse venire in mente, nella speranza che alcuno di essi facesse effetto.

Un argomento ha fatto particolare impressione: la pretesa secondo la quale gli sforzi per contenere la spesa di Medicare avrebbero portato a premi più elevati per le assicurazioni. In sostanza, il rapporto assume che la totalità delle riduzioni dei pagamenti di Medicare agli ospedali si trasferirà in costi più alti per i pazienti delle assicurazioni private.

L’unico modo per giustificare questa pretesa è quello di credere che gli Ospedali siano tutti mere istituzioni caritative,  che fanno pagare il minimo di quello che possono. Ora, per qualche ospedale questa descrizione può essere calzante. Ma lo è per tutti?

Inoltre, questo argomento rovescia[372] la normale logica dei mercati. Se si dà retta all’articolo dell’AHIP, la competizione alzerebbe i prezzi, anziché ridurli. E non conta da dove la competizione abbia origine: chiunque concluda un migliore accordo, che sia Medicare o una assicurazione privata, renderebbe la vita peggiore a tutti gli altri. Io non credo che sia così e penso che neppure voi dovreste crederlo.

Naturalmente, il rapporto non fa menzione di queste implicazioni. La sola cattiva competizione sulla quale si intrattiene è quella che proviene dal Governo. Specificamente, esso pretende che la opzione assicurativa pubblica sarebbe un danno, non perché inefficiente, ma perché la pianificazione del pubblico negozierebbe prezzi migliori. Non è questo un argomento a favore, anziché contro, tale pianificazione?

Tutto ciò ci porta alla questione dei modi nei quali la AHIP potrebbe aver fatto un favore alla riforma della sanità.

Come ho detto, la delega degli utenti, probabilmente, dovrebbe essere più forte di quanto non venga previsto nel testo della Commissione Finanze. Ma c’è una ragione per la quale tali obblighi sono stati indeboliti: la paura che molte persone potrebbero tirarsi indietro dinanzi ai costi della assicurazione, persino con i sussidi previsti per i redditi individuali e familiari più bassi. Ma allora, perché non affrontare la questione di tali costi?

A parte prevedere sussidi più elevati, come pur si dovrebbe fare, alla fine esistono due cambiamenti alla legislazione che potrebbero aiutare a limitare i costi. Il primo: le “borse della salute”[373] (speciali mercati sottoposti a regolazione, nei quali gli individui ed i possessori di medi redditi possono acquistare coperture assicurative), possono essere rese più robuste, offrendo ai piccoli acquirenti effettive migliori condizioni contrattuali. Il secondo, la opzione pubblica – scomparsa dal testo legislativo della Commissione Finanze – potrebbe essere ripresa in considerazione, concedendo agli assicuratori privati una qualche forma di reale competizione.

L’industria delle assicurazioni non gradisce questi cambiamenti, ma questo oggi sembra avere meno peso di qualche settimana fa.

C’è anche un altro aspetto, che la speaker della Camera Nancy Pelosi ha messo in risalto. Una parte della opposizione ad una responsabilizzazione forte degli utenti, deriva dalla sensazione che gli americani saranno pressati ad acquistare polizze da un sistema assicurativo ingordo. Dando alla gente, letteralmente, la possibilità di un’altra scelta – il diritto di acquistare alternativamente all’interno di un programma pubblico – quella opposizione sarebbe disinnescata.

Anche con “borse” più forti e con una opzione pubblica, la riforma della salute potrebbe probabilmente accrescere, anzichè ridurre, i profitti del sistema assicurativo. Ma le assicurazioni vogliono tutto. La buona notizia è che puntando troppo in alto, esse possono star sicure che non lo otterrano.

 

 

     


 

The Banks Are Not All Right

By PAUL KRUGMAN

Published: October 18, 2009

It was the best of times, it was the worst of times. O.K., maybe not literally the worst, but definitely bad. And the contrast between the immense good fortune of a few and the continuing suffering of all too many boded ill for the future.

I’m talking, of course, about the state of the banks.

The lucky few garnered most of the headlines, as many reacted with fury to the spectacle of Goldman Sachs making record profits and paying huge bonuses even as the rest of America, the victim of a slump made on Wall Street, continues to bleed jobs.

 

But it’s not a simple case of flourishing banks versus ailing workers: banks that are actually in the business of lending, as opposed to trading, are still in trouble. Most notably, Citigroup and Bank of America, which silenced talk of nationalization earlier this year by claiming that they had returned to profitability, are now — you guessed it — back to reporting losses.

 

 

Ask the people at Goldman, and they’ll tell you that it’s nobody’s business but their own how much they earn. But as one critic recently put it: “There is no financial institution that exists today that is not the direct or indirect beneficiary of trillions of dollars of taxpayer support for the financial system.” Indeed: Goldman has made a lot of money in its trading operations, but it was only able to stay in that game thanks to policies that put vast amounts of public money at risk, from the bailout of A.I.G. to the guarantees extended to many of Goldman’s bonds.

 

 

So who was this thundering bank critic? None other than Lawrence Summers, the Obama administration’s chief economist — and one of the architects of the administration’s bank policy, which up until now has been to go easy on financial institutions and hope that they mend themselves.

 

 

Why the change in tone? Administration officials are furious at the way the financial industry, just months after receiving a gigantic taxpayer bailout, is lobbying fiercely against serious reform. But you have to wonder what they expected to happen. They followed a softly, softly policy, providing aid with few strings, back when all of Wall Street was on the ropes; this left them with very little leverage over firms like Goldman that are now, once again, making a lot of money.

 

 

 

 

But there’s an even bigger problem: while the wheeler-dealer side of the financial industry, a k a trading operations, is highly profitable again, the part of banking that really matters — lending, which fuels investment and job creation — is not. Key banks remain financially weak, and their weakness is hurting the economy as a whole.

 

 

 

You may recall that earlier this year there was a big debate about how to get the banks lending again. Some analysts, myself included, argued that at least some major banks needed a large injection of capital from taxpayers, and that the only way to do this was to temporarily nationalize the most troubled banks. The debate faded out, however, after Citigroup and Bank of America, the banking system’s weakest links, announced surprise profits. All was well, we were told, now that the banks were profitable again.

 

 

But a funny thing happened on the way back to a sound banking system: last week both Citi and BofA announced losses in the third quarter. What happened?

 

Part of the answer is that those earlier profits were in part a figment of the accountants’ imaginations. More broadly, however, we’re looking at payback from the real economy. In the first phase of the crisis, Main Street was punished for Wall Street’s misdeeds; now broad economic distress, especially persistent high unemployment, is leading to big losses on mortgage loans and credit cards.

 

 

And here’s the thing: The continuing weakness of many banks is helping to perpetuate that economic distress. Banks remain reluctant to lend, and tight credit, especially for small businesses, stands in the way of the strong recovery we need.

 

So now what? Mr. Summers still insists that the administration did the right thing: more government provision of capital, he says, would not “have been an availing strategy for solving problems.” Whatever. In any case, as a political matter the moment for radical action on banks has clearly passed.

 

The main thing for the time being is probably to do as much as possible to support job growth. With luck, this will produce a virtuous circle in which an improving economy strengthens the banks, which then become more willing to lend.

 

 

Beyond that, we desperately need to pass effective financial reform. For if we don’t, bankers will soon be taking even bigger risks than they did in the run-up to this crisis. After all, the lesson from the last few months has been very clear: When bankers gamble with other people’s money, it’s heads they win, tails the rest of us lose.

 

“Nelle banche non è tutto al posto”, di Paul Krugman

New York Times, 18 ottobre 2009

Si dirà che furono tempi magnifici, ed anche che furono tempi pessimi. Va bene, forse non pessimi alla lettera, ma sicuramente[374] cattivi. Il contrasto tra l’immensa fortuna dei pochi e la continua sofferenza dei troppi, era un cattivo auspicio[375] per il futuro.

Sto parlando, lo si capisce, dello stato delle banche.

I pochi fortunati sono apparsi su tutti i titoli dei giornali, così che in molti si sono infuriati allo spettacolo della Goldman Sachs che realizza profitti da record e distribuisce gigantesche gratifiche, anche se nel resto dell’America, vittima di questa crisi fabbricata a Wall Street, continua il salasso dei posti di lavoro.

Ma non si tratta semplicemente del contrasto tra banche rigogliose e lavoratori in sofferenza; le banche che svolgono davvero la funzione di dare prestiti, diversamente dalle banche d’affari, sono ancora nei guai. I casi più rilevanti sono quelli di Citigroup e di Bank of America, gli istituti che avevano messo a tacere[376] le voci di una possibile nazionalizzazione agli inizi di quest’anno, con l’argomento dei profitti che stavano tornando a produrre, e che adesso – indovinate un po’[377] – sono tornati a produrre perdite.

Se parlate con quelli di Goldman, vi diranno che i loro guadagni non dipendono da nessun altro, se non dai loro propri affari. Ma, come di recente ha affermato un commentatore: “Non esiste nessun istituto finanziario, di questi tempi, che non sia direttamente o indirettamente beneficiario del sostegno al sistema finanziario di migliaia di miliardi di dollari dei contribuenti”. Difatti, Goldman ha fatto un sacco di soldi con le sue operazioni commerciali, ma era rimasta nelle condizioni di operare in quella partita grazie alle politiche che hanno messo a rischio grandi riserve di capitali pubblici, dal salvataggio di A.I.G. alla proroga delle garanzie per molte obbligazioni della stessa Goldman.

E chi era quel commentatore così severamente critico nei confronti delle banche?  Niente di meno che Lawrence Summers, il capo dei consiglieri economici della amministrazione Obama, nonché uno degli architetti della politica bancaria della amministrazione, la quale sino ad oggi è consistita nel continuare a semplificare le cose agli istituti finanziari e nello sperare sulla loro capacità di curarsi da soli.

Perché i toni sono cambiati? I dirigenti della amministrazione sono furiosi per il modo in cui il settore finanziario, passati solo pochi mesi dal gigantesco salvataggio ricevuto con i soldi dei contribuenti, ha ripreso una accanita attività di lobbying per contrastare una seria riforma. Eppure, c’è piuttosto da restare meravigliati per quello che essi prevedevano che accadesse. Si soni ispirati ad una politica del tutto conciliante[378], fornendo sino ad ieri aiuti con poche limitazioni, quando a Wall Street  tutto era finito a gambe all’aria[379]; questo li ha lasciati con un minimo potere di condizionamento nei confronti di società come la Goldman, nel momento in cui essa, ancora una volta, ha ripreso a fare soldi a palate.

Ma c’è un problema ancora più grande: nel mentre il settore affaristico[380] dell’industria finanziaria, anche conosciuto come il settore delle operazioni commerciali, sembra di nuovo assai redditizio, quella parte del sistema bancario che effettivamente conta – nel senso che, attraverso il credito, alimenta gli investimenti e la creazione di posti di lavoro – non lo è. La parte cruciale del sistema bancario resta finanziariamente debole, e la sua debolezza fa male all’economia nel suo complesso.

Vi ricorderete che agli inizi dell’anno c’era un gran dibattito sul tema di come ottenere che le banche ricominciassero a concedere prestiti. Qualche analista, incluso il sottoscritto, riteneva che almeno alcuni principali istituti di credito avevano bisogno di grandi iniezioni di capitali provenienti dal sostegno pubblico, e che l’unico modo per farlo fosse una temporanea nazionalizzazione di quelle banche che erano in maggiori difficoltà. Quel dibattito, tuttavia, è svanito nel momento in cui Citigroup e Bank of America, gli anelli più deboli del sistema bancario, hanno annunciato sorprendenti profitti. Tutto ha ripreso ad andar bene, ci è stato detto, ora che le banche sono diventate di nuovo redditizie.

Eppure, su questa strada di un ritorno a condizioni di salute, è successa una cosa curiosa:  la scorsa settimana sia Citi che BofA hanno annunciato perdite relative al primo trimestre. Cosa è avvenuto?

Parte della risposta è che quei primi profitti erano una invenzione[381] derivante da una contabilità fantasiosa[382]. Più in generale, tuttavia, noi ci troviamo dinanzi a quello che possiamo definire un saldo dei conti da parte dell’economia reale[383]. In una prima fase della crisi, Main Street era stata punita dai misfatti di Wall Street[384]; adesso una sofferenza generale dell’economia, e specialmente una disoccupazione che permane elevata, ci conducono a grandi perdite nei settori dei mutui immobiliari e delle carte di credito.

E qua è il punto: la persistente debolezza di molte banche dà una mano a perpetuare quella condizione di sofferenza economica. Le banche restano riluttanti nel concedere prestiti, e tale ristrettezza del credito, specialmente per i piccoli affari, ostacola[385] la forte ripresa di cui ci sarebbe bisogno.

Cosa fare, dunque? Summers ancora insiste sul fatto che la amministrazione avrebbe fatto la cosa giusta: una maggiore provvista di capitali pubblici, egli dice, non sarebbe stata “una strategia utile alla soluzione dei problemi”. Può darsi. In ogni caso, per un ragione politica il momento di una azione radicale sulle banche è chiaramente passato.

La cosa principale al punto in cui siamo è probabilmente fare tutto ciò che è possibile per sostenere una crescita dell’occupazione. Con un po’ di fortuna, questa potrebbe produrre un circolo virtuoso per effetto del quale l’economia in ripresa rafforzerebbe le banche, e a queste tornerebbe una maggior voglia di concedere prestiti.

Oltre a ciò, noi abbiamo il bisogno diperato che una riforma effettiva del sistema finanziario ottenga la approvazione del Congresso. Se questo non accadesse, i banchieri tornerebbero rapidamente a prendere rischi anche maggiori di quelli che non si assunsero nel periodo precedente alla crisi. In fin dei conti, la lezione che viene dagli ultimi mesi è molto chiara: quando i banchieri fanno scommesse con il denaro della gente, se viene “testa” vincono loro, se viene “croce” perdono tutti gli altri. 

 

 

 

 

 


 

The Chinese Disconnect

By PAUL KRUGMAN

Published: October 22, 2009

Senior monetary officials usually talk in code. So when Ben Bernanke, the Federal Reserve chairman, spoke recently about Asia, international imbalances and the financial crisis, he didn’t specifically criticize China’s outrageous currency policy.

 

 

But he didn’t have to: everyone got the subtext. China’s bad behavior is posing a growing threat to the rest of the world economy. The only question now is what the world — and, in particular, the United States — will do about it.

 

Some background: The value of China’s currency, unlike, say, the value of the British pound, isn’t determined by supply and demand. Instead, Chinese authorities enforced that target by buying or selling their currency in the foreign exchange market — a policy made possible by restrictions on the ability of private investors to move their money either into or out of the country.

 

 

 

There’s nothing necessarily wrong with such a policy, especially in a still poor country whose financial system might all too easily be destabilized by volatile flows of hot money. In fact, the system served China well during the Asian financial crisis of the late 1990s. The crucial question, however, is whether the target value of the yuan is reasonable.

 

Until around 2001, you could argue that it was: China’s overall trade position wasn’t too far out of balance. From then onward, however, the policy of keeping the yuan-dollar rate fixed came to look increasingly bizarre. First of all, the dollar slid in value, especially against the euro, so that by keeping the yuan/dollar rate fixed, Chinese officials were, in effect, devaluing their currency against everyone else’s. Meanwhile, productivity in China’s export industries soared; combined with the de facto devaluation, this made Chinese goods extremely cheap on world markets.

 

 

 

The result was a huge Chinese trade surplus. If supply and demand had been allowed to prevail, the value of China’s currency would have risen sharply. But Chinese authorities didn’t let it rise. They kept it down by selling vast quantities of the currency, acquiring in return an enormous hoard of foreign assets, mostly in dollars, currently worth about $2.1 trillion.

 

 

Many economists, myself included, believe that China’s asset-buying spree helped inflate the housing bubble, setting the stage for the global financial crisis. But China’s insistence on keeping the yuan/dollar rate fixed, even when the dollar declines, may be doing even more harm now.

 

 

Although there has been a lot of doomsaying about the falling dollar, that decline is actually both natural and desirable. America needs a weaker dollar to help reduce its trade deficit, and it’s getting that weaker dollar as nervous investors, who flocked into the presumed safety of U.S. debt at the peak of the crisis, have started putting their money to work elsewhere.

 

But China has been keeping its currency pegged to the dollar — which means that a country with a huge trade surplus and a rapidly recovering economy, a country whose currency should be rising in value, is in effect engineering a large devaluation instead.

 

 

And that’s a particularly bad thing to do at a time when the world economy remains deeply depressed due to inadequate overall demand. By pursuing a weak-currency policy, China is siphoning some of that inadequate demand away from other nations, which is hurting growth almost everywhere. The biggest victims, by the way, are probably workers in other poor countries. In normal times, I’d be among the first to reject claims that China is stealing other peoples’ jobs, but right now it’s the simple truth.

 

So what are we going to do?

 

U.S. officials have been extremely cautious about confronting the China problem, to such an extent that last week the Treasury Department, while expressing “concerns,” certified in a required report to Congress that China is not — repeat not — manipulating its currency. They’re kidding, right?

 

The thing is, right now this caution makes little sense. Suppose the Chinese were to do what Wall Street and Washington seem to fear and start selling some of their dollar hoard. Under current conditions, this would actually help the U.S. economy by making our exports more competitive.

 

In fact, some countries, most notably Switzerland, have been trying to support their economies by selling their own currencies on the foreign exchange market. The United States, mainly for diplomatic reasons, can’t do this; but if the Chinese decide to do it on our behalf, we should send them a thank-you note.

 

The point is that with the world economy still in a precarious state, beggar-thy-neighbor policies by major players can’t be tolerated. Something must be done about China’s currency.

 

“Il corto circuito[386] cinese”, di Paul Krugman,

New York Times, 22 ottobre 2009.

 

I dirigenti più accreditati del sistema monetario, di solito parlano in codice. Così, quando Ben Bernanke, il Presidente della Federal Reserve, ha di recente fatto riferimento alla Cina, agli squilibri del bilancio ed alla crisi finanziaria, egli si è guardato dal formulare critiche sulla scandalosa[387] politica valutaria della Cina.

Del resto non aveva l’obbligo di farlo: tutti potevano comprendere il messaggio implicito[388]. Il pessimo comportamento della Cina ormai comporta una crescente minaccia alla restante economia mondiale. A questo punto, l’unica questione che conta è quale sarà la reazione del mondo e, in particolare, degli Stati Uniti.

Un passo indietro: il valore della moneta cinese, diversamente, diciamo, dal valore della sterlina britannica, non è determinato dal gioco dell’offerta e della domanda. Piuttosto, le autorità cinesi obbligano a far rispettare un valore predeterminato[389] attraverso l’acquisto o la vendita della loro valuta sui mercati di scambio stranieri; politica che è resa possibile dalle restrizioni sulla libertà degli investitori privati di mettere in movimento il loro denaro, sia verso interno che verso l’esterno di quel paese.

In sé non c’è niente di necessariamente sbagliato in una politica del genere, specialmente in un paese ancora povero, il cui sistema finanziario può essere destabilizzato con troppa facilità da flussi volatili di capitali vaganti[390]. Di fatto, quel meccanismo è stato molto utile alla Cina durante la crisi finanziaria asiatica, sulla fine degli anni 90. La questione cruciale, tuttavia, è se quel valore-obbiettivo dello yuan sia ragionevole.

Ancora attorno al 2001, si poteva ritenere che lo fosse: la posizione commerciale complessiva della Cina non era poi in un fantastico equilibrio[391].  Da allora in poi, tuttavia, la politica del mantenimento di un tasso di scambio fisso tra yuan e dollaro è apparsa sempre più fantasiosa. Prima di tutto, la scivolata del valore del dollaro, specialmente nei confronti dell’euro, è stata tale che, mantenendo fisso lo scambio yuan-dollaro, i dirigenti cinesi, in pratica, hanno svalutato la loro moneta nei confronti di tutte le altre. Nel frattempo, è molto cresciuta la produttività delle industrie di esportazione cinesi; in combinazione con quella svalutazione, in sostanza questo ha reso i beni cinesi estremamente economici sui mercati mondiali.

Il risultato è stato un ampio surplus commerciale della Cina. Se fosse stato consentito ai meccanismi della domanda e dell’offerta di operare liberamente, il valore della valuta cinese sarebbe salito bruscamente. Ma le autorità cinesi non hanno permesso che salisse. Lo hanno tenuto basso vendendo massicci quantitativi di valuta e acquistando in cambio una enorme provvista di assets stranieri, in massima parte in dollari, per un valore corrente di circa 2.100 miliardi di dollari.

Molti economisti, incluso chi scrive, credono che questi folli acquisti di assets[392] da parte della Cina abbiano contribuito a gonfiare la bolla immobiliare, definendo in tal modo il contesto[393] della crisi finanziaria globale. Ma l’insistenza cinese nel tener fermo il tasso di scambio yuan-dollaro, persino nel momento in cui il valore del dollaro scende, può provocare oggi un danno anche maggiore.

Sebbene sul tema della caduta del dollaro siano in circolazione una gran quantità di Cassandre[394], quel declino è attualmente sia naturale che desiderabile. L’America ha bisogno che un dollaro più debole aiuti a ridurre il suo deficit commerciale, e sta ottenendo quel dollaro più debole nel mentre investitori nervosi, che si affollano attorno alla presunta sicurezza del debito degli Stati Uniti nel momento più acuto della crisi, hanno cominciato ad utilizzare il loro denaro nel produrre effetti altrove[395].

Ma la Cina ha mantenuto la sua moneta strettamente vincolata[396] al dollaro, il che significa che un paese con un ampio surplus commerciale e con un’economia in rapida ripresa, ovvero un paese la cui moneta dovrebbe accrescere il proprio valore, sta di fatto piuttosto mettendo in cantiere una cospicua svalutazione [397].

E questa è una cosa particolarmente negativa, in un momento nel quale l’economia mondiale resta profondamente depressa in conseguenza di una inadeguatezza della domanda globale. Perseguendo una politica della valuta debole, la Cina toglie una parte di questa domanda complessiva da altri paesi, la qual cosa nuoce alla ripresa quasi dappertutto. Le maggiori vittime, tra l’altro, sono probabilmente i lavoratori degli altri paesi poveri. In tempi normali, io sarei il primo a respingere l’affermazione secondo la quale la Cina sta rubando posti di lavoro ad altri popoli, ma oggi è la semplice verità.

Dunque, come rispondiamo?

I dirigenti statunitensi sono stati estremamente cauti nel misurarsi con il problema cinese, sino al punto che la scorsa settimana il Dipartimento del Tesoro, sia pure esprimendo “preoccupazione”, ha certificato in una relazione con la quale rispondeva a quesiti del Congresso che la Cina non sta – ripeto, non sta – manipolando la sua valuta. Stanno scherzando, o che altro?

Il fatto è che, nel momento attuale, questa cautela ha poco senso. Supponiamo che la Cina si appresti a fare ciò che Wall Street e Washington si teme, ovvero che cominci a vendere una parte della sua provvista in dollari. Nelle attuali condizioni, questo in realtà aiuterebbe l’economia americana, rendendo le esportazioni più competitive.

Di fatto, alcuuni paesi, tra i quali il caso più rilevante è stato quella della Svizzera, hanno cercato di sostenere le proprie economie attraverso la vendita di valuta sui mercati di scambio stranieri. Gli Stati Uniti, principalmente per ragioni diplomatiche, non lo possono fare: ma se la Cina decidesse di farlo per conto nostro, noi dovremmo inviargli una nota di ringraziamento.

Il punto è che, con un’economia mondiale ancora in condizioni precarie, le politiche che scaricano il problema sul vicino[398], da parte dei principali protagonisti, non possono essere tollerate. E’ nell’ambito della politica valutaria cinese che deve essere trovato il rimedio.

 

 

 


 

After Reform Passes

By PAUL KRUGMAN

Published: October 25, 2009

So, how well will health reform work after it passes?

There’s a part of me that can’t believe I’m asking that question. After all, serious health reform has long seemed like an impossible dream. And it could yet go all wrong.

 

But the teabaggers have come and gone, as have the cries of “death panels” and the demonstrations by Medicare recipients demanding that the government stay out of health care. And reform is still on track. Right now it looks highly likely that Congress will, indeed, send a health care bill to the president’s desk. Then what?

 

 

Conservatives insist (and hope) that reform will fail, and that there will be a huge popular backlash. Some progressives worry that they might be right, that the imperfections of reform — what we’re about to get will be far from ideal — will be so severe as to undermine public support. And many critics complain, with some justice, that the planned reform won’t do much to contain rising costs.

But the experience in Massachusetts, which passed major health reform back in 2006, should dampen conservative hopes and soothe progressive fears.

 

Like the bill that will probably emerge from Congress, the Massachusetts reform mainly relies on a combination of regulation and subsidies to chivy a mostly private system into providing near-universal coverage. It is, to be frank, a bit of a Rube Goldberg device — a complicated way of achieving something that could have been done much more simply with a Medicare-type program. Yet it has gone a long way toward achieving the goal of health insurance for all, although it’s not quite there: according to state estimates, only 2.6 percent of residents remain uninsured.

 

 

 

 

This expansion of coverage has tremendous significance in human terms. The Kaiser Commission on Medicaid and the Uninsured recently did a focus-group study of Massachusetts residents and reported that “Health reform enabled many of these individuals to take care of their medical needs, to start seeing a doctor, and in some cases to regain their health and control over their lives.” Even those who probably would have been insured without reform felt “peace of mind knowing they could obtain health coverage if they lost access to their employer-sponsored coverage.”

 

 

 

 

And reform remains popular. Earlier this year, many conservatives, citing misleading poll results, claimed that public support for the Massachusetts reform had plunged. Newer, more careful polling paints a very different picture. The key finding: an overwhelming 79 percent of the public think the reform should be continued, while only 11 percent think it should be repealed.

 

 

Interestingly, another recent poll shows similar support among the state’s physicians: 75 percent want to continue the policies; only 7 percent want to see them reversed.

 

 

There are, of course, major problems remaining in Massachusetts. In particular, while employers are required to provide a minimum standard of coverage, in a number of cases this standard seems to be too low, with lower-income workers still unable to afford necessary care. And the Massachusetts plan hasn’t yet done anything significant to contain costs.

 

 

But just as reform advocates predicted, the move to more or less universal care seems to have helped prepare the ground for further reform, with a special state commission recommending changes in the payment system that could contain costs by reducing the incentives for excessive care. And it should be noted that Hawaii, which doesn’t have universal coverage but does have a long-standing employer mandate, has been far more successful than the rest of the nation at cost control.

 

 

 

So what does this say about national health reform?

To be sure, Massachusetts isn’t fully representative of America as a whole. Even before reform, it had relatively broad insurance coverage, in part because of a large union movement. And the state has a tradition of strong insurance regulation, which has probably made it easier to run a system that depends crucially on having regulators ride herd on insurers.

 

 

 

So national reform’s chances will be better if it contains elements lacking in Massachusetts — in particular, a real public option to keep insurers honest (and fend off charges that the individual mandate is just an insurance-industry profit grab). We can only hope that reports that the Obama administration is trying to block a public option are overblown.

 

 

 

 

Still, if the Massachusetts experience is any guide, health care reform will have broad public support once it’s in place and the scare stories are proved false. The new health care system will be criticized; people will demand changes and improvements; but only a small minority will want reform reversed.

 

This thing is going to work.

 

“Una volta approvata la riforma”, di Paul Krugman

New York Times 25 ottobre 2009

Dunque: funzionerà bene la riforma sanitaria, una volta che sarà approvata?

C’è una parte di me che non vuol credere che mi stia facendo questa domanda. Dopotutto, una seria riforma sanitaria è sembrata un impossibile sogno, per lungo tempo. E potrebbe ancora finir male.

Ma quelli delle “bustine da tè[399]” sono andati avanti e indietro, sono state lanciate alte grida contro i “tribunali della morte[400]”, ci sono state le dimostrazioni dei beneficiari di Medicare che chiedevano che il governo non si occupasse di assistenza sanitaria; e la riforma è ancora in pista. A questo punto appare altamente probabile che il Congresso voglia sul serio inviare un testo legislativo sulla assistenza sanitaria sul tavolo del Presidente. E dunque, cosa sta succedendo?

I conservatori insistono (e sperano) che la riforma non ci sarà, che alla fine ci sarà una vasta rivolta popolare. Qualche progressista teme che essi possano aver ragione, che le imperfezioni della riforma saranno così serie, da scalzare il sostegno della gente (si sa che la legge che stiamo per ottenere sarà tutt’altro che perfetta). E molti critici lamentano, non senza fondamento, che la riforma messa in cantiere non farà molto per contenere i costi crescenti.

Ma l’esperienza del Massachusetts, dove si approvò una importante riforma sanitaria nel 2006, dovrebbe raffreddare le speranza dei conservatori e dare sollievo alle paure dei progressisti.

Come il testo che probabilmente scaturirà dal Congresso, la riforma del Massachusetts si basa su una combinazione di regole e di sussidi che hanno l’effetto di costringere[401] un sistema in massima parte privatistico a realizzare una copertura assistenziale quasi-universale. Si tratta, per essere franchi, un po’ di un dispositivo alla Rube Goldberg[402] – ovvero un modo complicato di ottenere qualcosa che potrebbe essere molto più semplicemente realizzato con un programma del genere di Medicare. Tuttavia, in quel modo si è fatto un bel pezzo di strada verso il raggiungimento della assicurazione sanitaria per tutti, anche se non è ancora abbastanza: secondo le stime dello Stato, solo il 2,6 per cento dei residenti rimane sprovvisto di assistenza.

L’espansione della copertura asistenziale ha un enorme[403] significato in termini umani. La Commissione Kaiser, che si è occupata di Medicaid e di coloro che sono privi di assistenza, recentemente ha costituito un gruppo di studio focalizzato sui residenti del Massachusetts, il quale ha riferito che “la riforma sanitaria ha messo molti di questi individui nelle condizioni di prendersi cura dei loro bisogni medici, facendo per la prima volta conoscenza con un dottore, e in vari casi di recuperare salute e un effettivo controllo sulla propria vita”. Anche coloro che probabilmente si sarebbero assicurati anche senza la riforma si sono sentiti “tranquillizati dal sapere che avrebbero ottenuto l’assistenza sanitaria anche nel caso in cui avessero abbandonato l’assicurazione sponsorizzata dal loro imprenditore”.

 

E la riforma resta popolare. Agli inizi di quest’anno, molti conservatori, citando i risultati di inchieste fuorvianti, avevano sostenuto che il sostegno della gente alla riforma del Massachusetts era crollato. Ma una inchiesta più recente e più accurata, fornisce un quadro molto diverso. Queste sono le scoperte principali[404]: uno schiaccente 79 per cento delle persone intervistate pensa che la riforma dovrebbe continuare, contro solo un 11 per cento che pensa che dovrebbe essere abrogata.

In modo interessante, una recente inchiesta mostra un analogo giudizio positivo sui medici di famiglia pubblici[405]: il 75 per cento sono a favore di una continuazione di quelle politiche; solo un 7 per cento vuole che si torni indietro.

Ci sono, naturalmente, molti fondamentali problemi che restano aperti in Massachussetts. In particolare, mentre agli imprenditori viene richiesto di provvedere ad uno standard minimo di copertura della assistenza, questo standard sembra essere troppo basso, e molti lavoratori a basso reddito non sono ancora nelle condizioni di permettersi l’assistenza necessaria. Inoltre, il programma del Massachusetts non ha ancora prodotto particolari risultati nel contenimento dei costi.

Ma, proprio come i  sostenitori della riforma avevano previsto, andare nella direzione di una assistenza più ampia, se non universale, sembra che abbia aiutato a preparare il terreno a riforme ulteriori, come è dimostrato dai cambiamenti raccomandati da una speciale commissione dello Stato, che si è espressa a favore di un sistema di pagamenti che contenga i costi attraverso la riduzione degli incentivi a forme di assistenza eccessive. E si dovrebbe notare che nello stato delle Hawaii, che non ha la copertura universale ma ha da molto tempo una particolare responsabilizzazione delle imprese[406], si sono avuti successi molto maggiori nel controllo dei costi, che nel resto della nazione.

Cosa ci dicono questi fatti, a proposito di una riforma sanitaria nazionale?

E’ certo che il Massachusetts non è pienamente rappresentativo della America nella sua interezza. Anche prima della riforma, esso aveva una copertura assistenziale relativamente ampia, anche a causa di un forte movimento sindacale. E quello Stato ha una forte tradizione di regolazione delle assicurazioni, la qualcosa probabilmente ha reso più facile il funzionamento di un sistema che dipende fondamentalmente dall’avere controllori addetti alla sorveglianza delle varie assicurazioni[407].

Per questo, le possibilità della riforma nazionale saranno migliori se essa conterrà elementi che facevano difetto al provvedimento del Massachusetts: in particolare, una reale opzione pubblica che consenta di scegliere assicuratori onesti (e di rifiutare il prezzo[408] di una concezione della delega individuale[409], secondo la quale essa finirebbe col diventare l’occasione per arraffare profitti da parte del sistema assicurativo). Possiamo solo sperare che le notizie secondo le quali l’amministrazione Obama intenderebbe impedire  ogni opzione pubblica siano infondate[410].

Infine, se dall’esperienza del Massachussetts ci viene una indicazione, è che la riforma della assistenza sanitaria avrà un ampio consenso popolare, nel momento in cui sarà entrata in funzione e le storielle terrorizzanti si saranno dimostrate false. Il nuovo sistema di assistenza sanitaria sarà sottoposto a critiche; la gente chiederà cambiamenti e miglioramenti; ma solo una piccola minoranza vorrà cancellare la riforma.

E’ una riforma destinata a funzionare.      

 

 

 


 

The Defining Moment

By PAUL KRUGMAN

Published: October 29, 2009

O.K., folks, this is it. It’s the defining moment for health care reform.

 

Past efforts to give Americans what citizens of every other advanced nation already have — guaranteed access to essential care — have ended not with a bang, but with a whimper, usually dying in committee without ever making it to a vote.

 

But this time, broadly similar health-care bills have made it through multiple committees in both houses of Congress. And on Thursday, Nancy Pelosi, the speaker of the House, unveiled the legislation that she will send to the House floor, where it will almost surely pass. It’s not a perfect bill, by a long shot, but it’s a much stronger bill than almost anyone expected to emerge even a few weeks ago. And it would lead to near-universal coverage.

 

 

As a result, everyone in the political class — by which I mean politicians, people in the news media, and so on, basically whoever is in a position to influence the final stage of this legislative marathon — now has to make a choice. The seemingly impossible dream of fundamental health reform is just a few steps away from becoming reality, and each player has to decide whether he or she is going to help it across the finish line or stand in its way.

 

 

For conservatives, of course, it’s an easy decision: They don’t want Americans to have universal coverage, and they don’t want President Obama to succeed.

 

For progressives, it’s a slightly more difficult decision: They want universal care, and they want the president to succeed — but the proposed legislation falls far short of their ideal. There are still some reform advocates who won’t accept anything short of a full transition to Medicare for all as opposed to a hybrid, compromise system that relies heavily on private insurers. And even those who have reconciled themselves to the political realities are disappointed that the bill doesn’t include a “strong” public option, with payment rates linked to those set by Medicare.

 

 

 

But the bill does include a “medium-strength” public option, in which the public plan would negotiate payment rates — defying the predictions of pundits who have repeatedly declared any kind of public-option plan dead. It also includes more generous subsidies than expected, making it easier for lower-income families to afford coverage. And according to Congressional Budget Office estimates, almost everyone — 96 percent of legal residents too young to receive Medicare — would get health insurance.

 

 

So should progressives get behind this plan? Yes. And they probably will.

The people who really have to make up their minds, then, are those in between, the self-proclaimed centrists.

The odd thing about this group is that while its members are clearly uncomfortable with the idea of passing health care reform, they’re having a hard time explaining exactly what their problem is. Or to be more precise and less polite, they have been attacking proposed legislation for doing things it doesn’t and for not doing things it does.

 

 

Thus, Senator Joseph Lieberman of Connecticut says, “I want to be able to vote for a health bill, but my top concern is the deficit.” That would be a serious objection to the proposals currently on the table if they would, in fact, increase the deficit. But they wouldn’t, at least according to the Congressional Budget Office, which estimates that the House bill, in particular, would actually reduce the deficit by $100 billion over the next decade.

 

Or consider the remarkable exchange that took place this week between Peter Orszag, the White House budget director, and Fred Hiatt, The Washington Post’s opinion editor. Mr. Hiatt had criticized Congress for not taking what he considers the necessary steps to control health-care costs — namely, taxing high-cost insurance plans and establishing an independent Medicare commission. Writing on the budget office blog — yes, there is one, and it’s essential reading — Mr. Orszag pointed out, not too gently, that the Senate Finance Committee’s bill actually includes both of the allegedly missing measures.

 

 

 

I won’t try to psychoanalyze the “naysayers,” as Mr. Orszag describes them. I’d just urge them to take a good hard look in the mirror. If they really want to align themselves with the hard-line conservatives, if they just want to kill health reform, so be it. But they shouldn’t hide behind claims that they really, truly would support health care reform if only it were better designed.

 

 

 

For this is the moment of truth. The political environment is as favorable for reform as it’s likely to get. The legislation on the table isn’t perfect, but it’s as good as anyone could reasonably have expected. History is about to be made — and everyone has to decide which side they’re on.

 

“Il momento decisivo”, di Paul Krugman.

New York Times, 29 ottobre 2009

 

Sissignori, ci siamo: siamo al passaggio decisivo della riforma dell’assistenza sanitaria.

In passato, i tentativi per dare agli americani quello che i cittadini di ogni altra nazione avanzata già hanno – l’accesso garantito alle cure essenziali – non si conclusero con un crescendo fragoroso, piuttosto con un lamentoso sussurro[411], generalmente furono sepolti all’interno di commissioni senza neppure ottenere che fossero portati al voto.

Ma questa volta, proposte di riforma sanitaria simili, almeno nelle loro linee generali, sono giunte ad un esito, dopo che erano state esaminate da svariate commissioni in entrambi i rami del Congresso. E giovedì Nancy Pelosi, la speaker della Camera, ha reso noto il testo legislativo che invierà  all’aula[412], dove quasi sicuramente sarà approvato. Non è un testo ineccepibile, ad una prima impressione, ma è una proposta molto più audace di quello che quasi tutti si aspettavano, sino a qualche settimana fa. Una proposta che ci porterebbe ad una assistenza sanitaria quasi-universale.

Di conseguenza, chiunque nel ceto politico – intendo i gli uomini politici in senso stretto, coloro che operano nell’informazione, e così via, in sostanza chiunque sia nelle condizioni di influenzare quest’ultima parte della maratona legislativa –  a questo punto deve fare una scelta. Il sogno che era sembrato impossibile di una legge fondamentale di riforma sanitaria, ormai è a pochi passi dal diventare realtà, ed ogni possibile attore o attrice della politica deve decidere se intende aiutare[413] la riforma a superare la linea di arrivo, o starsene a guardare.

Per i conservatori, naturalmente è una decisione semplice: essi non vogliono che gli americani abbiano una copertura sanitaria universale, e neanche vogliono che il Presidente Obama ottenga un successo.

Per i progressisti, si tratta di una decisione leggermente più difficile: essi vorrebbero l’assistenza universale, ed anche vorrebbero che il Presidente Obama cogliesse un successo, ma la legislazione proposta va un po’ stretta[414] alle loro aspirazioni. Ci sono ancora sostenitori della riforma che non vogliono accettare soluzioni diverse da un pieno passaggio per tutti ad un sistema del tipo Medicare, rispetto a un sistema ibrido di compromesso che continua a gravare pesantemente sulle assicurazioni private. E persino quelli che si sono rassegnati[415] ad una forma di realismo politico, non sono d’accordo con il fatto che la proposta non includa una “forte” opzione pubblica, ovvero sia caratterizzata da tariffe collegate a quelle fissate per Medicare.

Ma la proposta di legge include una opzione pubblica di un certo valore[416], secondo la quale il programma pubblico avrebbe il potere di negoziare le tariffe, e questo in contrasto con le previsioni degli addetti ai lavori, che avevano ripetutamente pronosticato la definitiva scomparsa della opzione pubblica, in qualsiasi forma. Essa include anche sussidi più generosi di quanto non si fosse previsto, rendendo più sostenibili i costi della assistenza per le famiglie a basso reddito. E secondo stime del Congressional Budget Office, quasi tutti – ovvero il 96 per cento di coloro che hanno residenza legale e che sono troppo giovani per essere assistiti da Medicare – sarebbero nelle condizioni di procurarsi una copertura assistenziale.

Dunque, i progressisti dovrebbero accettare questo piano? Si, e probabilmente lo faranno.

Coloro che realmente devono prendere una decisione[417], dunque, sono quelli in mezzo, coloro che si autodefiniscono centristi.

La cosa curiosa a proposito di questo gruppo è che, nel mentre i suoi membri sono chiaramente a disagio all’idea di approvare la riforma, essi sono in difficoltà nello spiegare esattamente cosa gli passi per la testa.  Ovvero, per essere più precisi e meno cortesi, essi hanno attaccato la legislazione proposta, accusandola di fare cose che essa non fa, e di non fare quelle che essa invece essa fa[418].

Così, il senatore Joseph Lieberman del Connecticut dice: “Io vorrei essere nelle condizioni di votare la legge sanitaria, ma la mia maggiore preoccupazione è per il deficit”. La qual cosa sarebbe una obiezione seria alle proposte che sono attualmente sul tavolo, se esse davvero procurassero un aumento del deficit. Ma così non sarà, almeno secondo il Congressional Budget Office, il quale ha stimato che la proposta della Camera, in particolare, di fatto ridurrebbe il deficit di 100 miliardi di dollari nel corso del prossimo decennio.

Oppure, si consideri il sorprendente scambio di battute che è avvenuto tra Peter Orszag, direttore dell’Ufficio del Bilancio della Casa Bianca, e Fred Hiatt, editorialista del Washington Post. Hiatt ha criticato il Congresso per non aver previsto le necessarie misure per un controllo dei costi della assistenza sanitaria – precisamente, la tassazione dei programmi a costo elevato delle assicurazioni, e la cosituzione di una commissione indipendente per Medicare. Scrivendo sul blog dell’Ufficio del Bilancio – vi consigliamo la lettura del testo, perché è imprescindibile – il signor Orszag sottolinea, con espressioni non del tutto gentili, che in realtà il testo della Commissione Finanze del Senato contiene entrambe le misure date per scomparse[419].

Non è mia intenzione cercare di psicoanalizzare i “bastian contrari[420]”, come li chiama il signor Orszag. Vorrei solo consigliarli di guardarsi bene allo specchio, con un po’ di severità[421]. Se essi vogliono effettivamente allinearsi con le peggiori posizioni dei conservatori, se essi voglio effettivamente liquidare la riforma sanitaria, lo facciano. Ma essi non dovranno nascondersi dietro la dichiarazione secondo la quale avrebbero in realtà e sinceramente voluto dare il loro sostegno alla riforma della assistenza sanitaria, se essa fosse stata soltanto meglio concepita.

Per queste ragioni è il momento della verità. L’ambiente politico è più favorevole alla riforma di quanto non sembri. La legislazione sul tavolo non è perfetta, ma è migliore di quanto nessuno potesse ragionevolmente attendersi. Siamo dinanzi ad una occasione storica, e ognuno deve decidere da che parte stare.

 

 

 

 


 

 

Too Little of a Good Thing

By PAUL KRUGMAN

Published: November 1, 2009

 

The good news is that the American Recovery and Reinvestment Act, a k a the Obama stimulus plan, is working just about the way textbook macroeconomics said it would. But that’s also the bad news — because the same textbook analysis says that the stimulus was far too small given the scale of our economic problems. Unless something changes drastically, we’re looking at many years of high unemployment.

 

And the really bad news is that “centrists” in Congress aren’t able or willing to draw the obvious conclusion, which is that we need a lot more federal spending on job creation.

 

 

About that good news: not that long ago the U.S. economy was in free fall. Without the recovery act, the free fall would probably have continued, as unemployed workers slashed their spending, cash-strapped state and local governments engaged in mass layoffs, and more.

 

 

The stimulus didn’t completely eliminate these effects, but it was enough to break the vicious circle of economic decline. Aid to the unemployed and help for state and local governments were probably the most important factors. If you want to see the recovery act in action, visit a classroom: your local school probably would have had to fire a lot of teachers if the stimulus hadn’t been enacted.

 

And the free fall has ended. Last week’s G.D.P. report showed the economy growing again, at a better-than-expected annual rate of 3.5 percent. As Mark Zandi of Moody’s Economy.com put it in recent testimony, “The stimulus is doing what it was supposed to do: short-circuit the recession and spur recovery.”

 

But it’s not doing enough.

 

Suppose that the economy were to keep growing at 3.5 percent. If that happened, unemployment would eventually start falling — but very, very slowly. The experience of the Clinton era, when the economy grew at an average rate of 3.7 percent for eight years (did you know that?) suggests that at current growth rates we’d be lucky to see the unemployment rate fall by half a percentage point per year, meaning that it would take a decade to return to something like full employment.

Worse yet, it’s far from clear that growth will continue at this rate. The effects of the stimulus will build over time — it’s still likely to create or save a total of around three million jobs — but its peak impact on the growth of G.D.P. (as opposed to its level) is already behind us. Solid growth will continue only if private spending takes up the baton as the effect of the stimulus fades. And so far there’s no sign that this is happening.

 

 

 

So the government needs to do much more. Unfortunately, the political prospects for further action aren’t good.

 

What I keep hearing from Washington is one of two arguments: either (1) the stimulus has failed, unemployment is still rising, so we shouldn’t do any more, or (2) the stimulus has succeeded, G.D.P. is growing, so we don’t need to do any more. The truth, which is that the stimulus was too little of a good thing — that it helped, but it wasn’t big enough — seems to be too complicated for an era of sound-bite politics.

 

 

But can we afford to do more? We can’t afford not to.

 

High unemployment doesn’t just punish the economy today; it punishes the future, too. In the face of a depressed economy, businesses have slashed investment spending — both spending on plant and equipment and “intangible” investments in such things as product development and worker training. This will hurt the economy’s potential for years to come.

 

Deficit hawks like to complain that today’s young people will end up having to pay higher taxes to service the debt we’re running up right now. But anyone who really cared about the prospects of young Americans would be pushing for much more job creation, since the burden of high unemployment falls disproportionately on young workers — and those who enter the work force in years of high unemployment suffer permanent career damage, never catching up with those who graduated in better times.

 

 

Even the claim that we’ll have to pay for stimulus spending now with higher taxes later is mostly wrong. Spending more on recovery will lead to a stronger economy, both now and in the future — and a stronger economy means more government revenue. Stimulus spending probably doesn’t pay for itself, but its true cost, even in a narrow fiscal sense, is only a fraction of the headline number.

 

 

O.K., I know I’m being impractical: major economic programs can’t pass Congress without the support of relatively conservative Democrats, and these Democrats have been telling reporters that they have lost their appetite for stimulus.

 

 

But I hope their stomachs start rumbling soon. We now know that stimulus works, but we aren’t doing nearly enough of it. For the sake of today’s unemployed, and for the sake of the nation’s future, we need to do much more.

 

“Una buona cosa, ma troppo piccola”, di Paul Krugman,

New York Times, 1 novembre 2009.

 

La buona notizia è che la American Recovery and Reinvestment Act , anche conosciuto come il piano di sostegno all’economia di Obama, sta funzionando esattamente come i libri di testo di macroeconomia dicevano che avrebbe dovuto. Ma in ciò sta anche la cattiva notizia, giacché la stessa analisi presente nei libri di testo ci indica che il sostegno è stato troppo piccolo, data la scala delle nostre difficoltà economiche. Se non cambia qualcosa, assisteremo ad anni di elevata disoccupazione.

E la notizia più cattiva ancora è che i “centristi” nel Congresso non sono capaci o non vogliono trarne la ovvia conseguenza, ovvero che abbiamo bisogno di un bel po’ di investimenti federali in più per creare nuovi posti di lavoro.

A proposito della buona notizia: non molto tempo fa l’economia statunitense era in caduta libera. Senza il provvedimento per la ripresa dell’economia, quella caduta libera sarebbe continuata, dato che i lavoratori disoccupati avrebbero ridotto drasticamente i loro consumi ed i governi degli stati e delle comunità locali, in disastrose condizioni finanziarie,  sarebbero stati costretti a massicci licenziamenti, per non dire altro.

Le misure di sostegno non hanno eliminato del tutto questi effetti, ma sono bastate a rompere il circolo vizioso del declino economico. Gli aiuti ai disoccupati, nonché quelli agli stati ed ai governi locali, sono stati probabilmente i fattori più importanti. Se volete vedere gli effetti della legge per la ripresa, andate in un’aula scolastica: probabilmente la scuola del vostro territorio avrebbe dovuto licenziare un bel po’ di insegnanti, se il provvedimento di sostegno all’economia non fosse stato varato.

E la caduta libera è terminata. Il rapporto sul PIL della scorsa settimana mostrava una economia di nuovo in crescita, ad un tasso del 3,5 per cento, migliore del previsto. Come Mark Zandy, del Moody’s Economy.com ha avuto modo di chiarire in una recente testimonianza: “Le misure di sostegno stanno provocando gli effetti che si pensava: un corto-circuito alla recessione ed un colpo di sprone alla ripresa”.

Ma tutto questo non basta.

Supponiamo che l’economia si mantenga ad una crescita attorno al 3,5 per cento. Se ciò avvenisse, la disoccupazione potrebbe cominciare a scendere; ma molto, molto lentamente. L’esperienza dell’era Clinton, quando l’economia incrementò di un tasso medio del 3,7 per cento per otto anni (lo sapevate?) ci dice che con i tassi attuali di crescita, saremo fortunati se vedremo la disoccupazione ridursi di mezzo punto all’anno, ovvero che ci vorrà un decennio per tornare a qualcosa di paragonabile al pieno impiego.

Peggio ancora, è tutt’altro che chiaro che la crescita continuerà con questi ritmi. Il programma di sostegno potrà produrre effetti con il passare del tempo[422] – esso è ancora capace di creare o risparmiare un totale di circa tre milioni di posti di lavoro –  ma il suo impatto massimo sulla crescita del PIL (al contrario del suo livello[423]) è già alle nostre spalle. Una crescita solida continuerà solo alla condizione che la spesa privata raccolga il testimone[424], al momento in cui gli effetti del programma svaniranno. E al momento non c’è alcun segno che questo stia accadendo.

Così, il governo ha la necessità di fare molto di più. Sfortunatamente, le condizioni politiche per una azione ulteriore non sono buone.

Ciò che si può ascoltare a Washington è una di queste due tesi: o che (1) il programma di sostegno è fallito, la disoccupazione è ancora in crescita, e dunque non dovremmo fare niente di più; oppure che (2) il programma di sostegno ha avuto successo, il PIL è in crescita, e dunque non abbiamo bisogno di fare niente di più. La verità, ovvero il fatto che il programma di sostegno sia stato una buona cosa ma di dimensioni insufficienti – che sia servito, ma non sia stato abbastanza grande – sembra essere troppo complicata per un’epoca nella quale la politica si basa sugli slogan[425].

E’ possibile che non possiamo permetterci di fare qualcosa di più[426]? In realtà, noi non ci possiamo permettere di non farlo.

Un’alta disoccupazione non solo colpisce l’economia di oggi; essa colpisce anche il futuro. Di fronte alla depressione economica, le imprese hanno ridotto drasticamente la spesa per investimenti – sia le spese in impianti ed attrezzature che quelle per investimenti “intangibili”, quali lo sviluppo dei prodotti e la formazione dei lavoratori. Questo provocherà un danno all’economia futura per gli anni avvenire.

I “falchi” del deficit sembra che si lamentino del fatto che i giovani di oggi finiranno col dover pagare tasse più elevate al servizio del debito, di quelle che non si pagano attualmente. Ma chiunque voglia prendersi cura realmente del futuro dei giovani americani dovrebbe adoperarsi per la creazione di molti posti di lavoro in più, almeno sinché il carico di una elevata disoccupazione ricadrà in modo sproporzionato sui lavoratori giovani, dato che coloro che entrano nelle forze di lavoro in anni di alta disoccupazione soffrono di un danno pemenente alle loro carriere, e non potranno mai rimettersi in pari[427] con coloro che sono usciti dalla scuola in tempi migliori.

Anche la lamentela secondo la quale noi dovremo pagare tasse più elevate  in futuro per le spese dell’attuale programma di sostegno, è completamente priva di fondamento. Una spesa maggiore per la ripresa ci porterà ad una economia più forte, sia nell’immediato che nel futuro; e un’economia più forte significa maggiori entrate per il governo. La spesa per il programma di sostegno, probabilmente non si ripagherà, ma il suo costo reale, persino nel suo significato finanziario in senso stretto[428], è solo una frazione dei numeri che appaiono sui titoli dei giornali[429].

Sono consapevole che sto correndo il rischio di essere poco pratico[430] : programmi economici più impegnativi non possono essere approvati dal Congresso senza il sostegno dei settori relativamente conservatori dei democratici, e costoro hanno già dichiarato ai cronisti di aver perso ogni appetito, quanto a spese di sostegno all’economia.

Eppure, io spero che i loro stomaci comincino presto a rimettersi in movimento[431].  Oggi sappiamo che le misure di sostegno funzionano, ma non ce ne stiamo servendo neanche lontanamente a sufficienza. Nell’interesse[432] di chi è disoccupato oggi, e nell’interesse del futuro della nazione, abbiamo la necessità di  fare molto di più.

 

 


 

Obama Faces His Anzio

By PAUL KRUGMAN

Published: November 5, 2009

Remember those Republican boasts that they would turn health care into President Obama’s Waterloo? Well, exit polls suggest that to the extent that health care was an issue in Tuesday’s elections, it worked in Democrats’ favor. But while health care won’t be Mr. Obama’s Waterloo, economic policy is starting to look like his Anzio.

 

 

True, the elections weren’t a referendum on Mr. Obama. Most voters focused on local issues — and those who did focus on national issues tended, if anything, to go Democratic. In New Jersey, voters who considered health care the top issue went for Gov. Jon Corzine by a 4-to-1 margin; Chris Christie won voters who were concerned about property taxes and corruption.

 

 

 

Yet there was a national element to the election. Voters across America are in a bad mood, largely because of the still-grim economic situation. And when voters are feeling bad, they turn on whomever currently holds office. Even Michael Bloomberg, the mayor of New York City, saw his supposedly easy reelection turn into a tight race.

 

 

And challengers did well even if they had no coherent alternative to offer. Mr. Christie never explained how he can reduce property taxes given New Jersey’s dire fiscal straits — but voters were nonetheless willing to take a flier.

 

 

This bodes ill for the Democrats in the midterm elections next year — not because voters will reject their agenda, but because all indications are that a year from now unemployment will still be painfully high. And Republicans may well benefit, despite having become the party of no ideas.

 

Which brings me to the Anzio analogy.

The World War II battle of Anzio was a classic example of the perils of being too cautious. Allied forces landed far behind enemy lines, catching their opponents by surprise. Instead of following up on this advantage, however, the American commander hunkered down in his beachhead — and soon found himself penned in by German forces on the surrounding hills, suffering heavy casualties.

 

 

The parallel with current economic policy runs as follows: early this year, President Obama came into office with a strong mandate and proclaimed the need to take bold action on the economy. His actual actions, however, were cautious rather than bold. They were enough to pull the economy back from the brink, but not enough to bring unemployment down.

 

Thus the stimulus bill fell far short of what many economists — including some in the administration itself — considered appropriate. According to The New Yorker, Christina Romer, the chairwoman of the president’s Council of Economic Advisers, estimated that a package of more than $1.2 trillion was justified.

Meanwhile, the administration balked at proposals to put large amounts of additional capital into banks, which would probably have required temporary nationalization of the weakest institutions. Instead, it turned to a strategy of benign neglect — basically, hoping that the banks could earn their way back to financial health.

 

 

Administration officials would presumably argue that they were constrained by political realities, that a bolder policy couldn’t have passed Congress. But they never tested that assumption, and they also never gave any public indication that they were doing less than they wanted. The official line was that policy was just right, making it hard to explain now why more is needed.

 

 

And more is needed. Yes, the economy grew fairly fast in the third quarter — but not fast enough to make significant progress on jobs. And there’s little reason to expect things to look better going forward. The stimulus has already had its maximum effect on growth. Even Timothy Geithner, the Treasury secretary, admits that banks remain reluctant to lend. Many economists predict that the economy’s growth, such as it is, will fade out over the course of next year.

 

 

The problem is that it’s not clear what Mr. Obama can do about this prospect. Conventional wisdom in Washington seems to have congealed around the view that budget deficits preclude any further fiscal stimulus — a view that’s all wrong on the economics, but that doesn’t seem to matter. Meanwhile, the Democratic base, so energized last year, has lost much of its passion, at least partly because the administration’s soft-touch approach to Wall Street has seemed to many like a betrayal of their ideals.

 

 

The president, then, having failed to exploit his early opportunities, is pinned down in his too-small beachhead.

 

If the Democrats lose badly in the midterms, the talking heads will say that Mr. Obama tried to do too much, this is a center-right nation, and so on. But the truth is that Mr. Obama put his agenda at risk by doing too little. The fateful decision, early this year, to go for economic half-measures may haunt Democrats for years to come.

 

“Obama di fronte alla sua Anzio”, di Paul Krugman

New York Times, 5 novembre 2009

Ricordate quei repubblicani che si vantavano che avrebbero trasformato la questione della assistenza sanitaria nella Waterloo del Presidente Obama? Bene, gli exit polls ci dicono che, nella misura in cui la assistenza sanitaria è stata un tema delle elezioni di giovedì, essa ha giocato a favore dei democratici. Ma, se la assistenza sanitaria non sarà la Waterloo di Obama, la politica economica comincia ad assomigliare alla sua Anzio.

Certamente, le elezioni non erano un referendum su Obama. La maggior parte degli elettori erano concentrati su tematiche locali, e coloro che avevano soprattutto in mente problemi di livello nazionale, hanno optato semmai per i democratici[433]. Nel New Jersey, gli elettori che consideravano la questione della sanità come il tema principale, hanno votato per il Governatore Jon Corzine con un margine di 4 a 1; Chris Christie ha guadagnato i voti di coloro che erano preoccupati delle tasse sulle proprietà e della corruzione.

Tuttavia, c’era un elemento di significato nazionale in queste elezioni. Il malumore caratterizza lo stato d’animo degli elettori un po’ dappertutto in America, in gran parte a causa della situazione economica ancora difficile. E quando gli elettori sono di cattivo umore, essi se la prendono con chiunque abbia in quel momento la responsabilità di un incarico[434]. Persino Michael Bloomberg, il sindaco di New York, ha visto trasformarsi la sua rielezione apparentemente scontata, in una competizione serrata.

Chiunque si presenti come un cambiamento ottiene buoni risultati, anche se non ha alcuna sensata alternativa da proporre.  Il signor Christie non a mai spiegato in che modo egli riuscirebbe a ridurre le tasse sulla proprietà, date le terribili ristrettezze fiscali del New Jersey; ciononostante gli elettori erano disposti a dargli ascolto[435].

Tutto ciò è di cattivo augurio per i democratici, alle elezioni di medio termine del prossimo anno, non perché gli elettori rifiuteranno i loro programmi, ma perché tutte le indicazioni vanno nel senso di una disoccupazione penosamente elevata, di qua ad un anno. E i repubblicani potranno ben trarne beneficio, a dispetto del fatto che sono diventati un partito senza idee.

Questo mi porta alla analogia con Anzio.

La battaglia di Anzio, nella II Guerra Mondiale, fu un classico esempio dei pericoli che si corrono ad essere troppo cauti. Le forze alleate sbarcarono alle spalle delle linee nemiche e catturarono i loro nemici per effetto della sorpresa. Invece di sfruttare questo vantaggio, tuttavia, il Comando Americano si attestò[436] sulla sua testa di sbarco,e si trovò immediatamente rinchiuso dalle forze tedesche piazzate sulle colline circostanti, che gli inflissero danni molto pesanti.

Il confronto con la attuale politica economica si può leggere in questo modo[437]: agli inizi di quest’anno il Presidente Obama assunse la sua carica a seguito di un forte mandato e proclamò la necessità di una azione energica sullo stato dell’economia. Le sue reali iniziative, tuttavia, sono state caute, piuttosto che energiche. Esse sono state sufficienti ad allontanare l’economia dal baratro, ma non sono bastate a ridurre la disoccupazione.

In tal modo, la legge per il sostegno all’economia ha prodotto effetti minori di quelli che molti economisti – compresi alcuni consulenti della stessa amministrazione – ritenevano appropriati. Secondo quanto scrive il New Yorker, Christina Romer, la presidentessa del Council Economic Adivisors della Casa Bianca, stimava che fosse giustificata una massa di interventi superiore a 1,2 mila miliardi di dollari.

Nel frattempo, la amministrazione si è tirata indietro rispetto al proposito di collocare grandi capitali aggiuntivi nelle banche, la qualcosa avrebbe  probabilmente richiesto la nazionalizzazione degli istituti più deboli. Al posto di ciò, essa ha prescelto la benevola strategia del chiudere un occhio[438], sostanzialmente sperando che le banche avrebbero da sole ritrovato la via del risanamento finanziario.

Si può presumere che i dirigenti della amministrazione argomenterebbero di essere stati costretti dalla realtà politica, giacchè il Congresso non avrebbe approvato una politica più energica. Ma questo assunto non è mai stato provato, ed essi non hanno neanche mai fornito alcuna indicazione pubblica secondo la quale stavano facendo meno di quanto avrebbero desiderato.  La linea ufficiale è stata che questa politica era l’unica giusta, il che rende difficile ora spiegare in che senso sarebbe stato necessario fare di più.

E fare di più era necessario. E’ vero, l’economia è cresciuta in modo discretamente veloce nell’ultimo trimestre dell’anno, ma non veloce abbastanza da ottenere significativi progressi in materia di occupazione. E non ci sono molte ragioni per aspettarsi che le cose vadano meglio nel prossimo futuro. Il piano di sostegno ha già avuto il suo massimo effetto sulla crescita. Persino Timothy Geithner ammette che le banche restano riluttanti a concedere prestiti. Molti economisti prevedono che la crescita dell’economia, a queste condizioni, finirà con lo svanire nel corso del prossimo anno.

La questione è che non è chiaro cosa Obama possa fare, rispetto ad una prospettiva del genere. A Washington, il pregiudizio diffuso sembra coagularsi attorno ad un punto di vista secondo il quale il deficit di bilancio preclude ogni ulteriore programma di sostegno;  punto di vista che è del tutto infondato dal punto di vista della scienza economica, ma questo non sembra avere alcuna influenza. Nel frattempo, la base democratica, così attiva l’anno trascorso, ha perso buona parte delle sue motivazioni, almeno in parte perché l’approccio timoroso nei confronti di Wall Street è sembrato a molti un tradimento dei propri ideali.

Il Presidente, dunque, avendo mancato di cogliere le sue iniziali opportunità, appare anch’egli rinchiuso nello spazio angusto della sua testa di sbarco.

Se i Democratici saranno pesantemente sconfitti nelle elezioni di medio termine, le “teste pensanti” diranno che Obama ha cercato di ottenere troppo, che questa è una nazione di centro-destra, ed altre piacevolezze del genere. Ma la verità è che Obama ha messo a rischio il suo programma per essersi proposto troppo poco. La decisione fatale, agli inizi di quest’anno, di utilizzare mezze misure, potrebbe perseguitare[439] i democratici negli anni avvenire.

 

 

 

 


 

Paranoia Strikes Deep

By PAUL KRUGMAN

Published: November 9, 2009

Last Thursday there was a rally outside the U.S. Capitol to protest pending health care legislation, featuring the kinds of things we’ve grown accustomed to, including large signs showing piles of bodies at Dachau with the caption “National Socialist Healthcare.” It was grotesque — and it was also ominous. For what we may be seeing is America starting to be Californiafied.

 

 

The key thing to understand about that rally is that it wasn’t a fringe event. It was sponsored by the House Republican leadership — in fact, it was officially billed as a G.O.P. press conference. Senior lawmakers were in attendance, and apparently had no problem with the tone of the proceedings.

 

 

True, Eric Cantor, the second-ranking House Republican, offered some mild criticism after the fact. But the operative word is “mild.” The signs were “inappropriate,” said his spokesman, and the use of Hitler comparisons by such people as Rush Limbaugh, said Mr. Cantor, “conjures up images that frankly are not, I think, very helpful.”

 

What all this shows is that the G.O.P. has been taken over by the people it used to exploit.

The state of mind visible at recent right-wing demonstrations is nothing new. Back in 1964 the historian Richard Hofstadter published an essay titled, “The Paranoid Style in American Politics,” which reads as if it were based on today’s headlines: Americans on the far right, he wrote, feel that “America has been largely taken away from them and their kind, though they are determined to try to repossess it and to prevent the final destructive act of subversion.” Sound familiar?

 

 

But while the paranoid style isn’t new, its role within the G.O.P. is.

When Hofstadter wrote, the right wing felt dispossessed because it was rejected by both major parties. That changed with the rise of Ronald Reagan: Republican politicians began to win elections in part by catering to the passions of the angry right.

 

 

Until recently, however, that catering mostly took the form of empty symbolism. Once elections were won, the issues that fired up the base almost always took a back seat to the economic concerns of the elite. Thus in 2004 George W. Bush ran on antiterrorism and “values,” only to announce, as soon as the election was behind him, that his first priority was changing Social Security.

 

 

But something snapped last year. Conservatives had long believed that history was on their side, so the G.O.P. establishment could, in effect, urge hard-right activists to wait just a little longer: once the party consolidated its hold on power, they’d get what they wanted. After the Democratic sweep, however, extremists could no longer be fobbed off with promises of future glory.

 

 

Furthermore, the loss of both Congress and the White House left a power vacuum in a party accustomed to top-down management. At this point Newt Gingrich is what passes for a sober, reasonable elder statesman of the G.O.P. And he has no authority: Republican voters ignored his call to support a relatively moderate, electable candidate in New York’s special Congressional election.

 

 

Real power in the party rests, instead, with the likes of Rush Limbaugh, Glenn Beck and Sarah Palin (who at this point is more a media figure than a conventional politician). Because these people aren’t interested in actually governing, they feed the base’s frenzy instead of trying to curb or channel it. So all the old restraints are gone.

 

 

In the short run, this may help Democrats, as it did in that New York race. But maybe not: elections aren’t necessarily won by the candidate with the most rational argument. They’re often determined, instead, by events and economic conditions.

 

 

In fact, the party of Limbaugh and Beck could well make major gains in the midterm elections. The Obama administration’s job-creation efforts have fallen short, so that unemployment is likely to stay disastrously high through next year and beyond. The banker-friendly bailout of Wall Street has angered voters, and might even let Republicans claim the mantle of economic populism. Conservatives may not have better ideas, but voters might support them out of sheer frustration.

 

 

 

And if Tea Party Republicans do win big next year, what has already happened in California could happen at the national level. In California, the G.O.P. has essentially shrunk down to a rump party with no interest in actually governing — but that rump remains big enough to prevent anyone else from dealing with the state’s fiscal crisis. If this happens to America as a whole, as it all too easily could, the country could become effectively ungovernable in the midst of an ongoing economic disaster.

 

The point is that the takeover of the Republican Party by the irrational right is no laughing matter. Something unprecedented is happening here — and it’s very bad for America.

 

“La paranoia agisce in profondità”, di Paul Krugman

New York Times, 9 novembre 2009

Lo scorso mercoledì si è svolto un raduno fuori dall’edificio del Campidoglio, per protestare contro la legislazione in corso di definizione[440] sulla assistenza sanitaria. Esso si è caratterizzato per quel genere di esibizioni alle quali ci stiamo ormai abituando, compresi i grandi cartelli che mostrano le pile di cadaveri di Dachau, con la scritta “Sistema Sanitario Nazionalsocialista”.  Immagini grottesche, ed anche sinistre. Da quel che possiamo vedere, l’America comincia a “californizzarsi”.

L’aspetto principale da comprendere, a proposito di quella manifestazione, è che non si è trattato di un episodio marginale. Essa è stata promossa dai dirigenti del gruppo repubblicano della Camera, tant’è che è stata pubblicizzata[441] come una conferenza stampa del G.O.P. Erano presenti parlamentari di lungo corso, in apparenza per niente imbarazzati dal tono degli argomenti propagandistici.

E’ vero, Eric Cantor, il secondo esponente del gruppo parlamentare repubblicano, ha avanzato qualche lieve appunto, al termine della manifestazione. Ma “lieve” è appunto la parola giusta. I cartelli erano “inappropriati”, ha riferito il suo addetto stampa, e i paragoni con Hitler da parte di individui come Charles Limbaugh, ha detto il signor Cantor, “hanno comportato l’utilizzo di immagini[442] che, francamente, non aiutano”.

Con il che si dimostra che il G.O.P. si suggestiona facilmente con gli umori della gente che strumentalizza[443].

Lo stato mentale che emerge dalle manifestazioni della destra non è per niente nuovo. Già nel 1964 lo storico Richard Hofstadter pubblicò un saggio dal titolo “Lo stile paranoide nella politica americana”, che si potrebbe oggi parafrasare come se fosse ispirato dai titoli dei giornali di questi giorni. Gli Americani che stanno a destra, egli scrisse, intuiscono che “l’America si è ampiamente allontanata da loro e dal loro sentire, sebbene essi siano determinati a riprendere il possesso del loro paese ed a prevenire un esito di sovversione definitivamente distruttivo”. Dove l’abbiamo già sentito?[444]

Ma se lo stile paranoide non è nuovo, lo è il significato che esso assume all’interno del G.O.P.

Al momento in cui Hofstadter scriveva, la gente di destra si sentiva spossessata perché era respinta da entrambi i principali partiti. Questa situazione si modificò con l’ascesa di Ronald Reagan: i politici repubblicani cominciarono a vincere le elezioni in parte venendo incontro[445] alla passioni della destra più arrabbiata.

Sino al periodo recente, tuttavia, questa tendenza aveva soprattutto la forma di un vuoto simbolismo. Una volta vinte le  elezioni, i temi che infiammavano la base venivano collocati in second’ordine rispetto alle preoccupazioni dei gruppi dirigenti, soprattutto in materia economica. Fu in questo modo che, nel 1994, George W. Bush dopo aver parlato di continuo[446] di antiterrorismo e di “valori”, una volta che le elezioni furono alle sue spalle, fece del cambiamento del sistema della Sicurezza Sociale la effettiva priorità.

Ma l’anno passato qualcosa si spezzò[447] nel meccanismo. I conservatori si erano persuasi da tempo che la storia fosse dalla loro parte, in tal modo, il gruppo dirigente del G.O.P. poteva, in effetti, cercar di convincere gli attivisti della destra più accanita ad attendere un po’ più a lungo: una volta che il partito avesse consolidato il suo potere, essi avrebbero avuto quello che volevano. Una volta che i Democratici fecero piazza pulita, tuttavia, non fu più possibile acquietare gli estremisti con promesse di gloria futura.

Per di più, la perdita sia del Congresso che della Casa Bianca ha lasciato un vuoto di potere in un partito che era abituato ad occupare ogni posto[448]. Siamo arrivati al punto che Newt Gingrich è ciò che passa per il più anziano, serio e ragionevole uomo di stato del G.O.P. Ed egli non ha alcuna autorità: gli elettori repubblicani hanno ignorato il suo invito a sostenere una candidatura relativamente moderata e presentabile alle elezioni speciali per il Congresso di New York.

Il potere reale del partito, invece, è nelle mani di persone come[449]  Rush Limbaugh, Glenn Beck e Sarah Pelin (che a questo punto è più una figura mediatica[450] che non un politico nel senso convenzionale del termine). Dato che questo genere di persone non sono effettivamente interessate alle questioni del governo, esse eccitano gli umori della base[451], piuttosto che cercare di contenerli o di incanalarli. E’ in questo modo che ogni freno inibitorio[452] è scomparso.

Nel breve termine, questo potrebbe aiutare i democratici, come è avvenuto nella competizione di New York. Ma non è detto che sia così: le elezioni non le vincono necessariamente i candidati che presentano gli argomenti più razionali. Esse sono piuttosto, il più delle volte, determinate dagli eventi e dalle condizioni economiche.

Di fatto, il partito di Limbaugh e Beck potrebbe ben ottenere maggiori consensi nelle elezioni di medio termine. Gli sforzi della amministrazione Obama di creare occupazione hanno prodotto scarso effetto, al punto che la disoccupazione resterà ad un livello disastrosamente alto per tutto il prossimo anno ed anche successivamente. Il salvataggio di Wall Street, così generoso con i banchieri, ha fatto arrabbiare gli elettori, e potrebbe addirittura consentire ai repubblicani di indossare la casacca[453] del populismo economico. Può darsi che i conservatori non abbiano idee migliori, ma gli elettori potrebbero dare ad essi il sostegno per effetto di una vera e propria frustrazione.

E se i repubblicani dei tea parties vinceranno alla grande il prossimo anno, quello che è già successo in California potrebbe accadere a livello nazionale. In California, il G.O.P si è essenzialmente ridotto ad un partito dimezzato[454] con nessun interesse sulle effettive questioni di governo, ma quel gruppo ridotto resta grande a sufficienza da impedire a chiunque altro di misurarsi con la crisi finanziaria di quello Stato. Se questo accadesse all’America nella sua interezza, il paese diverrebbe effettivamente ingovernabile, nel bel mezzo di un crescente disastro economico.

Il controllo[455] del partito repubblicano da parte di una destra irrazionale non è per niente una cosa da ridere. Sta accadendo da noi qualcosa che non ha precedenti, che potrebbe provocare grandi danni all’America.

 

 

 

 


 

Free to Lose

By PAUL KRUGMAN

Published: November 12, 2009

Consider, for a moment, a tale of two countries. Both have suffered a severe recession and lost jobs as a result — but not on the same scale. In Country A, employment has fallen more than 5 percent, and the unemployment rate has more than doubled. In Country B, employment has fallen only half a percent, and unemployment is only slightly higher than it was before the crisis.

Skip to next paragraph Don’t you think Country A might have something to learn from Country B?

 

This story isn’t hypothetical. Country A is the United States, where stocks are up, G.D.P. is rising, but the terrible employment situation just keeps getting worse. Country B is Germany, which took a hit to its G.D.P. when world trade collapsed, but has been remarkably successful at avoiding mass job losses. Germany’s jobs miracle hasn’t received much attention in this country — but it’s real, it’s striking, and it raises serious questions about whether the U.S. government is doing the right things to fight unemployment.

 

 

Here in America, the philosophy behind jobs policy can be summarized as “if you grow it, they will come.” That is, we don’t really have a jobs policy: we have a G.D.P. policy. The theory is that by stimulating overall spending we can make G.D.P. grow faster, and this will induce companies to stop firing and resume hiring.

 

 

The alternative would be policies that address the job issue more directly. We could, for example, have New-Deal-style employment programs. Perhaps such a thing is politically impossible now — Glenn Beck would describe anything like the Works Progress Administration as a plan to recruit pro-Obama brownshirts — but we should note, for the record, that at their peak, the W.P.A. and the Civilian Conservation Corps employed millions of Americans, at relatively low cost to the budget.

 

 

 

Alternatively, or in addition, we could have policies that support private-sector employment. Such policies could range from labor rules that discourage firing to financial incentives for companies that either add workers or reduce hours to avoid layoffs.

 

 

And that’s what the Germans have done. Germany came into the Great Recession with strong employment protection legislation. This has been supplemented with a “short-time work scheme,” which provides subsidies to employers who reduce workers’ hours rather than laying them off. These measures didn’t prevent a nasty recession, but Germany got through the recession with remarkably few job losses.

 

 

Should America be trying anything along these lines? In a recent interview in The Washington Post, Lawrence Summers, the Obama administration’s highest-ranking economist, was dismissive: “It may be desirable to have a given amount of work shared among more people. But that’s not as desirable as expanding the total amount of work.” True. But we are not, in fact, expanding the total amount of work — and Congress doesn’t seem willing to spend enough on stimulus to change that unfortunate fact. So shouldn’t we be considering other measures, if only as a stopgap?

 

 

 

 

Now, the usual objection to European-style employment policies is that they’re bad for long-run growth — that protecting jobs and encouraging work-sharing makes companies in expanding sectors less likely to hire and reduces the incentives for workers to move to more productive occupations. And in normal times there’s something to be said for American-style “free to lose” labor markets, in which employers can fire workers at will but also face few barriers to new hiring.

 

 

But these aren’t normal times. Right now, workers who lose their jobs aren’t moving to the jobs of the future; they’re entering the ranks of the unemployed and staying there. Long-term unemployment is already at its highest levels since the 1930s, and it’s still on the rise.

 

And long-term unemployment inflicts long-term damage. Workers who have been out of a job for too long often find it hard to get back into the labor market even when conditions improve. And there are hidden costs, too — not least for children, who suffer physically and emotionally when their parents spend months or years unemployed.

 

 

So it’s time to try something different.

 

Just to be clear, I believe that a large enough conventional stimulus would do the trick. But since that doesn’t seem to be in the cards, we need to talk about cheaper alternatives that address the job problem directly. Should we introduce an employment tax credit, like the one proposed by the Economic Policy Institute? Should we introduce the German-style job-sharing subsidy proposed by the Center for Economic Policy Research? Both are worthy of consideration.

 

 

 

 

The point is that we need to start doing something more than, and different from, what we’re already doing. And the experience of other countries suggests that it’s time for a policy that explicitly and directly targets job creation.

 

“La mobilità del lavoro[456]”, di Paul Krugman

New York Times, 12 novembre

 

Consideriamo per un attimo le vicende di due paesi. Entrambi hanno patito una recessione severa e di conseguenza hanno perso posti di lavoro, ma non nella medesima misura. Nel paese A l’occupazione è caduta di più del 5 per cento e il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato. Nel paese B l’occupazione è caduta di solo mezzo punto, e la disoccupazione è solo leggermente più alta di quanto non fosse prima della crisi.

Non direste che il paese A ha qualcosa da imparare dal paese B?

Questa storia non è ipotetica. Il paese A sono gli Stati Uniti, dove le scorte sono in crescita, il PIL sta risalendo, ma la terribile situazione dell’occupazione sta seriamente[457] peggiorando. Il paese B è la Germania, il cui PIL ha preso un colpo al momento del collasso del commercio mondiale, ma che ha ottenuto un successo considerevole nell’evitare cadute nell’occupazione complessiva. Al miracolo dell’occupazione in Germania non si è prestata particolare attenzione, qua da noi; eppure esso è reale, ha del sensazionale, e pone alcune serie domande in ordine al tema se il governo degli Stati Uniti stia facendo le cose giuste per contrastare la disoccupazione.

Qua in America la filosofia che sta dietro le politiche del lavoro[458] può essere così sintetizzata: “Se si lavora alla crescita[459], i posti di lavoro vengono di conseguenza”. Detto in altre parole, noi non abbiamo una reale politica del lavoro, ci fermiamo ad una politica del Prodotto Interno Lordo. La teoria è che attraverso un sostegno generale della spesa, possiamo ottenere una crescita più rapida del PIL, la qualcosa indurrà le imprese a fermare i licenziamenti ed a riprendere le assunzioni.

L’alternativa sarebbe praticare politiche indirizzate più direttamente al problema della creazione di posti di lavoro. Potremmo, ad esempio, avere programmi di occupazione del tipo di quelli che caratterizzarono il New Deal. Forse una soluzione del genere sarebbe politicamente impossibile, al giorno d’oggi – Glenn Beck descriverebbe un programma che somigliasse al Works Progress Administration[460] alla stregua di un piano per il reclutamento delle “camicie nere” di Obama – anche se si dovrebbe tener conto, per memoria, che soluzioni come il W.P.A. ed il Civilian Conservation Corps dettero lavoro a milioni di americani, con effetti sui bilanci relativamente bassi.

In alternativa, o in aggiunta, potremmo avere politiche di sostegno all’occupazione nel settore privato. Politiche del genere potrebbero spaziare da regole del diritto del lavoro che scoraggino i licenziamenti a incentivi finanziari alle imprese, sia nel caso che esse assumano nuovi lavoratori, sia nel caso che riducano gli orari di lavoro per evitare licenziamenti.

Questo è quanto hanno fatto i tedeschi. La Germania è entrata nella Grande Recessione forte di una robusta legislazione di protezione del lavoro. Questa è stata incrementata con un “piano del lavoro a breve termine[461]”, che stabilisce sussidi per quegli imprenditori che riducono gli orari di lavoro piuttosto che procedere a licenziamenti.  Queste misure non hanno impedito una severa recessione, ma la Germania è transitata attraverso la recessione con sacrifici occupazionali sorprendentemente bassi.

L’America potrebbe tentare qualcosa, nel senso di questi indirizzi? In una recente intervista al Washington Post Lawrence Summers, l’economista di maggior spicco tra i consiglieri della amministrazione Obama, ha usato toni di irrisione nei confonti di queste soluzioni: “Potrebbe essere desiderabile la suddivisione di una quantità definita di lavoro tra un maggior numero di persone. Ma non così desiderabile, quanto una crescita di tale quantità complessiva di lavoro”. E’ vero. Senonché, non abbiamo alcuna crescita della quantità complessiva di lavoro, né il Congresso sembra avere intenzione di spendere a sufficienza nelle misure di sostegno all’economia, al punto da modificare tale infelice circostanza. Non è dunque il caso di prendere in considerazione altre soluzioni, anche se soltanto alla stregua di una “riduzione del danno[462]”?

Di fatto, l’obiezione consueta a politiche occupazionali di stile europeo è che esse hanno una influenza negativa sulla crescita a lungo termine, che l’incoraggiamento a politiche di protezione e di maggiore distribuzione del lavoro rende le imprese nei settori in espansione meno propense ad assumere e riduce la motivazione dei lavoratori alla mobilità verso occupazioni più produttive. In effetti, in tempi normali occorre dare un qualche riconoscimento[463] alla attitudine di noi americani alla mobilità del lavoro[464], per la quale le imprese possono licenziare a discrezione[465], ma anche hanno pochi ostacoli alle nuove assunzioni.

Senonché, questi non sono tempi normali. In questo momento, i lavoratori che perdono il lavoro non sono certo interessati da processi di mobilità verso le occupazioni future: essi entrano nei ranghi della disoccupazione e ci restano. La disoccupazione di lungo periodo è già ai livelli più alti dal 1930, ed è ancora in crescita.

E la disoccupazione di lungo periodo provoca danni di lungo periodo. I lavoratori che stanno senza un lavoro troppo a lungo, spesso hanno difficoltà a rientrare nel mercato del lavoro, anche se le condizioni generali migliorano. Ci sono poi i costi che non si vedono, anche e non per ultimi quelli che toccano ai bambini, che soffrono nel fisico e nell’animo quando i loro genitori restano ai margini per mesi o anni.

E’ dunque tempo di provare qualcosa di diverso.

Solo per chiarezza, io credo che un programma convenzionale di sostegno all’economia più adeguato, sarebbe servito allo scopo. Ma dal momento che esso non sembra essere tra le cose possibili[466], bisogna ragionare di alternative meno dispendiose che aggrediscano il problema del lavoro in modo più diretto. Dovremmo introdurre un credito di imposta a favore dell’occupazione, come quello che è stato proposto dall’Economic Policy Institute? Dovremmo introdurre gl incentivi verso forme di distribuzione del lavoro de tipo di quelle praticate in Germania, come ha proposto il Centre for Economic Policy Research? Sono entrambi soluzioni meritevoli di considerazione.

Il punto è che dobbiamo cominciare a fare qualcosa di più e di diverso, rispetto a quanto stiamo già facendo. E l’esperienza di altri paesi ci suggerisce che è urgente una politica che aggredisca in modo diretto ed esplicito il tema della creazione di nuovo lavoro.

 

 

 


 

World Out of Balance

By PAUL KRUGMAN

Published: November 15, 2009

International travel by world leaders is mainly about making symbolic gestures. Nobody expects President Obama to come back from China with major new agreements, on economic policy or anything else.

Skip to next paragraph But let’s hope that when the cameras aren’t rolling Mr. Obama and his hosts engage in some frank talk about currency policy. For the problem of international trade imbalances is about to get substantially worse. And there’s a potentially ugly confrontation looming unless China mends its ways.

 

Some background: Most of the world’s major currencies “float” against one another. That is, their relative values move up or down depending on market forces. That doesn’t necessarily mean that governments pursue pure hands-off policies: countries sometimes limit capital outflows when there’s a run on their currency (as Iceland did last year) or take steps to discourage hot-money inflows when they fear that speculators love their economies not wisely but too well (which is what Brazil is doing right now). But these days most nations try to keep the value of their currency in line with long-term economic fundamentals.

 

 

 

China is the great exception. Despite huge trade surpluses and the desire of many investors to buy into this fast-growing economy — forces that should have strengthened the renminbi, China’s currency — Chinese authorities have kept that currency persistently weak. They’ve done this mainly by trading renminbi for dollars, which they have accumulated in vast quantities.

 

And in recent months China has carried out what amounts to a beggar-thy-neighbor devaluation, keeping the yuan-dollar exchange rate fixed even as the dollar has fallen sharply against other major currencies. This has given Chinese exporters a growing competitive advantage over their rivals, especially producers in other developing countries.

 

What makes China’s currency policy especially problematic is the depressed state of the world economy. Cheap money and fiscal stimulus seem to have averted a second Great Depression. But policy makers haven’t been able to generate enough spending, public or private, to make progress against mass unemployment. And China’s weak-currency policy exacerbates the problem, in effect siphoning much-needed demand away from the rest of the world into the pockets of artificially competitive Chinese exporters.

 

 

But why do I say that this problem is about to get much worse? Because for the past year the true scale of the China problem has been masked by temporary factors. Looking forward, we can expect to see both China’s trade surplus and America’s trade deficit surge.

That, at any rate, is the argument made in a new paper by Richard Baldwin and Daria Taglioni of the Graduate Institute, Geneva. As they note, trade imbalances, both China’s surplus and America’s deficit, have recently been much smaller than they were a few years ago. But, they argue, “these global imbalance improvements are mostly illusory — the transitory side effect of the greatest trade collapse the world has ever seen.”

 

 

Indeed, the 2008-9 plunge in world trade was one for the record books. What it mainly reflected was the fact that modern trade is dominated by sales of durable manufactured goods — and in the face of severe financial crisis and its attendant uncertainty, both consumers and corporations postponed purchases of anything that wasn’t needed immediately. How did this reduce the U.S. trade deficit? Imports of goods like automobiles collapsed; so did some U.S. exports; but because we came into the crisis importing much more than we exported, the net effect was a smaller trade gap.

 

 

 

But with the financial crisis abating, this process is going into reverse. Last week’s U.S. trade report showed a sharp increase in the trade deficit between August and September. And there will be many more reports along those lines.

 

 

So picture this: month after month of headlines juxtaposing soaring U.S. trade deficits and Chinese trade surpluses with the suffering of unemployed American workers. If I were the Chinese government, I’d be really worried about that prospect.

 

Unfortunately, the Chinese don’t seem to get it: rather than face up to the need to change their currency policy, they’ve taken to lecturing the United States, telling us to raise interest rates and curb fiscal deficits — that is, to make our unemployment problem even worse.

 

And I’m not sure the Obama administration gets it, either. The administration’s statements on Chinese currency policy seem pro forma, lacking any sense of urgency.

 

That needs to change. I don’t begrudge Mr. Obama the banquets and the photo ops; they’re part of his job. But behind the scenes he better be warning the Chinese that they’re playing a dangerous game.

 

“Gli squilibri del mondo”, di Paul Krugman,

New York Times, 15 novembre 2009

 

I viaggi internazionali dei leaders del mondo, hanno principalmente a che fare con gesti simbolici. Nessuno si aspetta che il Presidente Obama torni dalla Cina con nuovi importanti accordi, in materia di politica economica o di qualsiasi altro genere.

Ma speriamo che quando le telecamere smetteranno di girare, Obama ed i suoi ospiti si impegnino in qualche franca discussione a proposito della politica attuale. Parchè il problema degli squilibri nel commercio internazionale sta peggiorando in modo sostanziale e un preoccupante potenziale conflitto si delinea minacciosamente, se la Cina non corregge le sue scelte.

Un passo indietro: la gran parte delle principali monete mondiali “fluttuano” l’una in relazione all’altra. Il che significa che i relativi valori si muovono in alto o in basso, in dipendenza dalle forze che operano sui mercati. Questo non significa necessariamente che i governi perseguano la politica del lavarsene le mani: talvolta i paesi, quando è in atto una fuga dei capitali, ne limitano la fuoriuscita (così fece l’Islanda lo scorso anno), oppure prendono misure per scoraggiare l’afflusso di capitali vaganti[467], quando temono che gli speculatori si appassionino alle loro economie non per un giudizio sensato ma per smodata attrazione (che è quanto il Brasile sta facendo proprio in questo periodo). Ma in questi tempi, gran parte dei paesi cercano di mantenere le loro valute in linea con i fondamentali economici di lungo periodo.

La Cina è la grande eccezione. A dispetto di ampi surplus commerciali e del desiderio di molti investitori di fare acquisti all’interno di questa economia in rapida crescita – fattori che avrebbero rafforzato il renminbi, la moneta cinese – le autorità di quel paese hanno mantenuto la loro valuta persistentemente debole. Essi hanno ottenuto quel risultato principalmente scambiando renminbi con dollari, che hanno accumulato in grandi quantità.

E nei mesi recenti la Cina ha messo in atto[468] quella che corrisponde ad una sorta di svalutazione mirata[469], stabilendo un tasso di scambio fisso tra yuan e dollaro, persino nel caso in cui il dollaro stia perdendo bruscamente quota nei confronti delle altre principali valute. Questo ha dato agli esportatori cinesi un crescente vantaggio competitivo sui loro rivali, specialmente produttori di altri paesi in sviluppo.

Ciò che rende la politica monetaria cinese particolarmente problematica, è lo stato di depressione dell’economia mondiale. Il denaro a buon mercato e il sostegno della spesa pubblica[470] pare abbiano evitato una seconda Grande Depressione. Ma gli operatori politici non sono stati in grado di mobilitare una spesa, pubblica e privata, sufficiente a realizzare risultati positivi a fronte di una disoccupazione di massa. E la politica di una valuta debole da parte della Cina, ha esacerbato il problema, in pratica travasando una domanda di cui c’è grande necessità dal resto del mondo alle tasche di esportatori cinesi artificialmente competitivi.

Ma perché affermo che questo problema sta diventando molto più grave? Perchè nell’anno passato la dimensione reale del problema cinese è stata mascherata da fattori transitori. Guardando avanti, possiamo aspettarci di vedere una crescita sia del surplus commerciale cinese che del deficit commerciale americano.

In ogni caso, è questo l’argomento offerto in un nuovo saggio da Richard Baldwin e Daria Taglioni dell’Istituto Universitario di Ginevra. Come essi notano, gli squilibri commerciali, sia il surplus cinese che il deficit americano, sono stati recentemente molto più piccoli di quanto non fossero pochi anni fa. Ma, essi affermano “Questi miglioramenti dell’equilibrio mondiale sono in gran parte illusori, effetti secondari transitori del più grande collasso commerciale che il mondo abbia mai conosciuto”.

Difatti, la caduta del commercio mondiale del 2008-2009 è stato un episodio da libro dei primati. Ciò che in esso si è maggiormente riflesso è stata la circostanza di un commercio mondiale dominato dalle vendite di beni manifatturieri durevoli, e di fronte alla aspra crisi finanziaria ed al suo carico concomitante[471] di incertezze, sia i consumatori che le imprese hanno posposto gli acquisti di tutto ciò che non fosse immediatamente indispensabile. In che modo questo ha ridotto il deficit commerciale americano? L’importazione di beni come le automobili sono collassate, la stessa cosa è successa a vari generi di esportazione degli Stati Uniti; ma poiché eravamo giunti alla crisi importando molto di più di quanto non esportavamo, l’effetto netto è stato un gap commerciale molto più piccolo.

Ma con la crisi finanziaria che si affievolisce [472], questo processo si trasformerà nel suo opposto. Il rapporto sugli scambi commerciali degli Stati Uniti della scorsa settimana, mostrava una improvvisa crescita del deficit tra agosto e settembre. E verranno molti altri rapporti a confermare queste tendenze.

Immaginatevi[473] questa situazione: un mese dopo l’altro di titoli dei giornali che propongono una correlazione tra i deficit commerciali americani ed i surplus cinesi, a fronte delle sofferenze dei lavoratori americani disoccupati. Se fossi nei panni del governo cinese, sarei realmente preoccupato di questa prospettiva.

Sfortunatamente, i Cinesi non sembrano esserlo. Piuttosto che fare i conti con la necessità di un cambiamento delle loro politica valutaria, essi hanno preso a dare lezioni agli Stati Uniti, dicendoci di innalzare i tassi di interesse e di tenere a freno il deficit fiscale; ovvero, di rendere il problema della nostra disoccupazione ancora più grave.

Non sono sicuro che l’amministrazione Obama comprenda né l’una cosa né l’altra. Le dichiarazioni della amministrazione sulla politica valutaria cinese sembrano pro-forma, manca ad esse ogni requisito dell’urgenza.

E’ necessario che questo cambi. Io non consiglio Obama di lesinare i banchetti o le foto di gruppo, sono cose che fanno parte del suo lavoro. Ma dietro tali scene, egli farebbe meglio a mettere in guardia i cinesi per la partita pericolosa che stanno giocando.       

 

 


    

 

 

 

 

 

The Big Squander

By PAUL KRUGMAN

Published: November 19, 2009

Earlier this week, the inspector general for the Troubled Asset Relief Program, a k a, the bank bailout fund, released his report on the 2008 rescue of the American International Group, the insurer. The gist of the report is that government officials made no serious attempt to extract concessions from bankers, even though these bankers received huge benefits from the rescue. And more than money was lost. By making what was in effect a multibillion-dollar gift to Wall Street, policy makers undermined their own credibility — and put the broader economy at risk.

 

 

For the A.I.G. rescue was part of a pattern: Throughout the financial crisis key officials — most notably Timothy Geithner, who was president of the New York Fed in 2008 and is now Treasury secretary — have shied away from doing anything that might rattle Wall Street. And the bitter paradox is that this play-it-safe approach has ended up undermining prospects for economic recovery. For the job of fixing the broken economy is far from done — yet finishing the job has become nearly impossible now that the public has lost faith in the government’s efforts, viewing them as little more than handouts to the people who got us into this mess.

 

 

About the A.I.G. affair: During the bubble years, many financial companies created the illusion of financial soundness by buying credit-default swaps from A.I.G. — basically, insurance policies in which A.I.G. promised to make up the difference if borrowers defaulted on their debts. It was an illusion because the insurer didn’t have remotely enough money to make good on its promises if things went bad. And sure enough, things went bad.

 

 

So why protect bankers from the consequences of their errors? Well, by the time A.I.G.’s hollowness became apparent, the world financial system was on the edge of collapse and officials judged — probably correctly — that letting A.I.G. go bankrupt would push the financial system over that edge. So A.I.G. was effectively nationalized; its promises became taxpayer liabilities.

 

But was there any way to limit those liabilities? After all, banks would have suffered huge losses if A.I.G. had been allowed to fail. So it seemed only fair for them to bear part of the cost of the bailout, which they could have done by accepting a “haircut” on the amounts A.I.G. owed them. Indeed, the government asked them to do just that. But they said no — and that was the end of the story. Taxpayers not only ended up honoring foolish promises made by other people, they ended up doing so at 100 cents on the dollar.

Could things have been different? Some commentators argue that government officials had no way to force the banks to accept a haircut — either they let A.I.G. go bankrupt, which they weren’t ready to do, or they had to honor its contracts as written.

 

 

But this seems like a naïve view of how Wall Street works. Major financial firms are a small club, with a shared interest in sustaining the system; ever since the days of J.P. Morgan, it has been common in times of crisis to call on the big players to forgo short-term profits for the industry’s common good. Back in 1998, it was a consortium of private bankers — not the government — that put up the funds to rescue the hedge fund Long Term Capital Management.

 

Furthermore, big financial firms have a long-term relationship, both with the government and with each other, and can pay a price if they act selfishly in times of crisis. Bear Stearns, the investment bank, earned itself a lot of ill will by refusing to participate in that 1998 rescue, and it’s widely believed that this ill will played a major factor in the demise of Bear Stearns itself, 10 years later.

 

 

So officials could have called on bankers to offer a better deal, for their own sake, and simultaneously threatened to name and shame those who balked. It was their choice not to do that, just as it was their choice not to push for more control over bailed-out banks in early 2009.

 

And, as I said, these seemingly safe choices have now placed the economy in grave danger.

 

For the economy is still in deep trouble and needs much more government help. Unemployment is in double-digits; we desperately need more government spending on job creation. Banks are still weak, and credit is still tight; we desperately need more government aid to the financial sector. But try to talk to an ordinary voter about this, and the response you’re likely to get is: “No way. All they’ll do is hand out more money to Wall Street.”

 

 

So here’s the real tragedy of the botched bailout: Government officials, perhaps influenced by spending too much time with bankers, forgot that if you want to govern effectively you have retain the trust of the people. And by treating the financial industry — which got us into this mess in the first place — with kid gloves, they have squandered that trust.

 

“Il grande spreco”, di Paul Krugman

New York Times 19 novembre 2009

 

Agli inizi di questa settimana, l’ispettore generale per il Programma di sostegno ai Bilanci in Crisi, ovvero il fondo di soccorso degli istituti di credito, ha rimesso il suo rapporto relativo al salvataggio dell’American International Group, nel settore delle assicurazioni. La sostanza del rapporto è che i funzionari del governo non prestano alcuna seria attenzione nel decidere concessioni per i banchieri, persino quando costoro ricevono ampi benefici dal salvataggio. E gran parte del denaro si perde. Nel mettere in atto quello che in effetti è un regalo multimilardario per Wall Street, gli uomini politici hanno compromesso la loro stessa credibilità, ed hanno causato un rischio per l’economia in generale.

Il fatto è che il soccorso a AIG faceva parte di uno schema: utilizzando la crisi finanziaria, i principali dirigenti statali – e il più importante di tutti, Timothy Geithner, che fu presidente della Fed di New York nel 2008 ed è adesso Segretario del Tesoro – hanno evitato [474] di fare qualcosa che potesse innervosire Wall Street. E il paradosso più amaro è che questo approccio senza rischi [475] ha finito con lo scalzare le stesse prospettive di ripresa economica. Dato che il lavoro di aggiustare i guai dell’economia è lungi dall’essere concluso, a questo punto portare a termine il compito è diventato quasi impossibile, ora che l’opinione pubblica ha perso fiducia negli sforzi del governo, giudicandoli niente altro che regalie a coloro che ci hanno messi in questo pasticcio.

A proposito dell’affare dell’AIG: durante gli anni della bolla, molte compagnie finanziarie crearono l’illusione che fosse finanziariamente corretto acquistare dall’AIG credit default swaps[476] – fondamentalmente, polizze assicurative con le quali l’AIG si impegnava a mettere insieme la differenza una volta che i creditori fossero divenuti inadempienti nei loro debiti. Si trattava di una illusione, perché l’assicurazione non aveva affatto sufficiente denaro per onorare le sue promesse se le cose fossero finite male. Ed è proprio sicuro che le cose finirono male.

Dunque, perché proteggere i banchieri dalle conseguenze dei loro errori? Il fatto è che, al momento in cui l’insolvenza [477] dell’AIG divenne chiara, il sistema finanziario mondiale era sull’orlo del collasso e i dirigenti giudicarono, probabilmente in modo corretto, che lasciar andare l’AIG verso la bancarotta avrebbe spinto il sistema finanziario oltre tale limite. Così AIG fu in effetti nazionalizzata; le sue promesse divennero responsabilità dei contribuenti.

Ma c’era una maniera per porre un limite a tali responsabilità? Dopo tutto, le banche avrebbero patito gravi perdite se ad AIG fosse stato consentito di fallire. Appariva così solo giusto che esse sopportassero una parte del tracollo, cosa che avrebbero potuto fare accettando un “taglio [478]” sull’ammontare dei debiti che AIG aveva nei loro confronti. Difatti, il governo chiese loro di comportarsi così. Ma esse dissero di no, e questa fu la fine del gioco. I contribuenti non solo finirono per onorare le folli promesse fatte da altri, ma lo fecero pagando sino all’ultimo centesimo [479]

Sarebbe potuta andare diversamente? Qualche commentatore ritiene che i dirigenti governativi non avevano il modo per costringere le banche ad accettare una partecipazione, sia nell’ipotesi  di lasciar andare AIG alla bancarotta, cosa che essi non erano pronti a fare, sia in quella di onorare i suoi contratti così come erano stati pattuiti.

Ma in questo è implicito un modo di giudicare un po’ ingenuo su come Wall Street funzioni. Le maggiori imprese finanziarie sono un piccolo club, con interessi ben condivisi nel sostegno del sistema; dai giorni di J.P.Morgan, è stata prassi comune fare appello agli attori principali affinché rinunciassero a profitti a breve termine a favore del bene comune dell’economia. Risalendo al 1998, fu un consorzio di banchieri privati, non il governo, a mettere insieme i fondi per il salvataggio dell’hedge fund Long Term Capital Management.

Inoltre, le principali imprese finanziarie hanno relazioni a lunga scadenza, sia con il governo che con chiunque altro, e possono pagare un prezzo se agiscono egoisticamente in tempi di crisi. Bear Sterns, la banca per investimenti, si guadagnò un bel po’ di discredito [480] per aver rifiutato di partecipare a quel salvataggio del 1998, ed è stato ampiamente riconosciuto che quel discredito giocò un ruolo fondamentale nell’uscita di scena della medesima Bear Sterns, dieci anni dopo.

Così i dirigenti dello stato avrebbero potuto fare appello ai banchieri per un accordo più favorevole, e contemporaneamente minacciare di rendere noti i nomi e di svergognare coloro i quali si fossero tirati indietro. Hanno scelto di non farlo, così come agli inizi del 2009 avevano scelto di non spingere per maggiori controlli sulle banche a rischio di fallimento.

E, come ho detto, queste scelte apparentemente non rischiose ora hanno messo l’economia in condizioni di grave pericolo.

Il fatto è che l’economia è ancora in guai profondi e necessita di un aiuto statale molto maggiore. La disoccupazione è a due cifre; abbiamo disperatamente bisogno di maggiore intervento statale per la creazione di posti di lavoro. Le banche sono ancora deboli e il credito ancora sofrre di ristrettezze; abbiamo ancora un bisogno impellente di maggiore aiuto statale al settore finanziario. Ma provate a parlare con un qualunque elettore a questo proposito e la risposta che avrete sarà pressappoco questa: “In nessun modo. Tutto quello che sanno fare sono maggiori regalie a Wall Street”.

E’ dunque qua la reale tragedia di questo pasticcio di salvataggio: i dirigenti statali, forse influenzati dal fatto che passano troppo tempo con i banchieri, si sono dimenticati che se si vuole governare con efficacia, si deve ottenere la fiducia della gente. Avendo trattato le imprese finanziarie con i guanti di velluto[481],  essi hanno sperperato quella fiducia.

 

 


 

The Phantom Menace

By PAUL KRUGMAN

Published: November 22, 2009

A funny thing happened on the way to a new New Deal. A year ago, the only thing we had to fear was fear itself; today, the reigning doctrine in Washington appears to be “Be afraid. Be very afraid.”

 

What happened? To be sure, “centrists” in the Senate have hobbled efforts to rescue the economy. But the evidence suggests that in addition to facing political opposition, President Obama and his inner circle have been intimidated by scare stories from Wall Street.

Consider the contrast between what Mr. Obama’s advisers were saying on the eve of his inauguration, and what he himself is saying now.

In December 2008 Lawrence Summers, soon to become the administration’s highest-ranking economist, called for decisive action. “Many experts,” he warned, “believe that unemployment could reach 10 percent by the end of next year.” In the face of that prospect, he continued, “doing too little poses a greater threat than doing too much.”

 

 

Ten months later unemployment reached 10.2 percent, suggesting that despite his warning the administration hadn’t done enough to create jobs. You might have expected, then, a determination to do more.

But in a recent interview with Fox News, the president sounded diffident and nervous about his economic policy. He spoke vaguely about possible tax incentives for job creation. But “it is important though to recognize,” he went on, “that if we keep on adding to the debt, even in the midst of this recovery, that at some point, people could lose confidence in the U.S. economy in a way that could actually lead to a double-dip recession.”

 

 

What? Huh?

Most economists I talk to believe that the big risk to recovery comes from the inadequacy of government efforts: the stimulus was too small, and it will fade out next year, while high unemployment is undermining both consumer and business confidence.

 

 

Now, it’s politically difficult for the Obama administration to enact a full-scale second stimulus. Still, he should be trying to push through as much aid to the economy as possible. And remember, Mr. Obama has the bully pulpit; it’s his job to persuade America to do what needs to be done.

 

 

Instead, however, Mr. Obama is lending his voice to those who say that we can’t create more jobs. And a report on Politico.com suggests that deficit reduction, not job creation, will be the centerpiece of his first State of the Union address. What happened?

 

It took me a while to puzzle this out. But the concerns Mr. Obama expressed become comprehensible if you suppose that he’s getting his views, directly or indirectly, from Wall Street.

 

Ever since the Great Recession began economic analysts at some (not all) major Wall Street firms have warned that efforts to fight the slump will produce even worse economic evils. In particular, they say, never mind the current ability of the U.S. government to borrow long term at remarkably low interest rates — any day now, budget deficits will lead to a collapse in investor confidence, and rates will soar.

 

 

And it’s this latter claim that Mr. Obama echoed in that Fox News interview. Is he right to be worried?

Well, spikes in long-term interest rates have happened in the past, most famously in 1994. But in 1994 the U.S. economy was adding 300,000 jobs a month, and the Fed was steadily raising short-term rates. It’s hard to see why anything similar should happen now, with the economy still bleeding jobs and the Fed showing no desire to raise rates anytime soon.

 

 

A better model, I’d argue, is Japan in the 1990s, which ran persistent large budget deficits, but also had a persistently depressed economy — and saw long-term interest rates fall almost steadily. There’s a good chance that officials are being terrorized by a phantom menace — a threat that exists only in their minds.

 

And shouldn’t we consider the source? As far as I can tell, the analysts now warning about soaring interest rates tend to be the same people who insisted, months after the Great Recession began, that the biggest threat facing the economy was inflation. And let’s not forget that Wall Street — which somehow failed to recognize the biggest housing bubble in history — has a less than stellar record at predicting market behavior.

 

 

 

Still, let’s grant that there is some risk that doing more about double-digit unemployment would undermine confidence in the bond markets. This risk must be set against the certainty of mass suffering if we don’t do more — and the possibility, as I said, of a collapse of confidence among ordinary workers and businesses.

 

 

And Mr. Summers was right the first time: in the face of the greatest economic catastrophe since the Great Depression, it’s much riskier to do too little than it is to do too much. It’s sad, and unfortunate, that the administration appears to have lost sight of that truth.

 

“La minaccia dei fantasmi”, di Paul Krugman

New York Times, 23 novembre

E’ accaduta una cosa curiosa, lungo questo tragitto verso un nuovo New Deal. Un anno fa, l’unica cosa di cui avevamo paura era la paura stessa; oggi, la dottrina imperante a Washington sembra essere: “Aver timore. Avere molto timore”.

Cos’è accaduto? Per essere tranquilli, i “centristi” al Senato hanno azzoppato[482] gli sforzi per il salvataggio dell’economia. Ma l’evidenza suggerisce che il Presidente Obama e il suo gruppo ristretto di collaboratori, oltre a dover fronteggiare l’opposizione politica, siano stati intimiditi da storie spaventose provenienti da Wall Street.

Considerate il contrasto tra quello che i consiglieri di Obama dicevano alla vigilia del suo insediamento[483], e quello che sostiene lui stesso oggi.

Nel dicembre del 2008, Lawrence Summer, prossimo a diventare l’economista più accreditato della amministrazione, si esprimeva a favore di una azione energica. “Molti esperti” ammoniva “ credono che la disoccupazione potrà raggiungere il 10 per cento alla fine del prossimo anno”.  Dinanzi a quella prospettiva, egli continuava, “fare poco costituisce una minaccia maggiore che fare tanto”.

Dieci mesi dopo, la disoccupazione ha raggiunto il 10,2 per cento, il che ci dice che, a dispetto dei suoi ammonimenti, la amministrazione non ha fatto abbastanza per creare posti di lavoro. Vi sareste aspettati, dunque, una determinazione a fare di più.

Ma in una recente intervista a Fox News il Presidente si è espresso in modo diffidente e nervoso, a proposito della sua politica economica. Egli ha parlato vagamente di possibili incentivi fiscali a favore dell’occupazione. Ma “è importante tuttavia riconoscere” ha proseguito “che se noi proseguiamo sulla strada dell’innalzamento del debito, persino nel mezzo di questa ripresa, ad un certo punto la gente potrebbe perdere fiducia nell’economia americana, in un modo che effettivamente ci potrebbe portare ad una riedizione della recessione[484].

Che cosa? Come?

La maggior parte degli economisti con i quali parlo credono che il maggior rischio per la ripresa derivi dalla inadeguatezza degli interventi governativi: il sostegno è stato troppo piccolo ed i suoi effetti svaniranno il prossimo anno, nel momento in cui una disoccupazione elevata scalzerà la fiducia sia dei consumatori che degli operatori economici.

Ora,  è politicamente difficile per la amministrazione Obama delibarare un secondo programma di sostegno di dimensioni piene. Eppure, egli potrebbe provare a far accettare un aiuto all’economia di dimensioni ragionevoli. E va ricordato che Obama parla dal pulpito più potente[485]: è compito suo persuadere l’America a fare ciò che ritiene vada fatto.

Invece, ciononostante, Obama sta dando in prestito la sua voce a coloro i quali ritengono che non si possa creare più lavoro. E un rapporto apparso su Politico.com suggerisce che la riduzione del deficit, non la creazione di posti di lavoro, sarà l’aspetto centrale del suo primo discorso sullo stato dell’Unione. Cosa sta avvenendo?

Mi ci è voluto un po’ di tempo per risolvere questo puzzle. Ma le preoccupazioni espresse da Obama diventano comprensibili se voi supponete che egli stia prendendo, direttamente o indirettamente, i suoi punti di vista da Wall Street.

Dal momento in cui la grande recessione è cominciata, gli analisti economici di alcune principali imprese di Wall Street (non di tutte) hanno avvertito che gli sforzi per combattere la depressione avrebbero generato disgrazie persino peggiori. In particolare, essi sostengono, non conta la attuale possibilità  del governo degli Stati Uniti di indebitarsi a lungo termine a tassi di interesse particolermente bassi; un giorno qualsiasi[486] i deficit di bilancio porteranno ad un collasso nella fiducia degli investitori, ed i tassi saliranno alle stelle.

E nell’intervista di Obama a Fox News si è sentita l’eco di quest’ultima tesi. E’ fondata la sua preoccupazione?

Ebbene, picchi[487] nei tassi di interesse a lungo termine si sono manifestati in passato, il più clamoroso nel 1994. Ma nel 1994 l’economia americana generava 300 mila nuovi posti di lavoro al mese, e la Fed stava procedendo con costanza a rialzi dei tassi a breve termine. E’ arduo immaginarsi perché una cosa simile dovrebbe avvenire adesso, con l’economia che ancora soffre di una emorragia di posti di lavoro e la Fed che non mostra alcun desiderio di far crescere i tassi di interesse nel prossimo futuro[488].

Un modello più adatto, mi sembrerebbe, è quello del Giappone degli anni 90, che procedeva con persistenti e cospicui deficit di bilancio, ma anche aveva un’economia in continua depressione, e conobbe una caduta quasi costante dei tassi di interesse a lungo termine. C’è dunque una buona possibilità che quegli esperti siano stati terrorizzati dalla minaccia d’un fantasma, una paura che esiste soltanto nelle loro teste.

E non dobbiamo forse fare qualche considerazione su tali ispiratori? Per quanto posso vedere, gli analisti che ora mettono in guardia da una improvvisa risalita dei tassi di interesse, generalmente sono le stesse persone che indicavano nell’inflazione, dopo mesi che la grande recessione aveva avuto inizio, la più grande minaccia per l’economia. Né possiamo dimenticare che Wall Street – che in un modo o nell’altro non è stata capace di riconoscere la più grande bolla immobiliare della storia – ha prestazioni non proprio stellari nel predire i comportamenti dei mercati.

Ancora, ammettiamo che ci sia qualche rischio per effetto del quale il fare di più dinanzi ad una disoccupazione a due cifre,  potrebbe minare la fiducia nel mercato dei bond.  L’entità di questo rischio deve essere valutata[489] di contro alla certezza di una grande quantità di sofferenze se non facciamo di più, e alla possibilità, come ho detto, di un collasso della fiducia tra i comuni lavoratori e gli uomini di affari.

Summers aveva ragione la prima volta: di fronte alla più grande catastrofe economica dalla Grande Depressione, è molto più pericoloso far poco che non fare molto. E’ una cosa triste ed è una sfortuna, che la amministrazione mostri di aver perso di vista quella verità.

 

 


 

 

 

Taxing the Speculators

By PAUL KRUGMAN

Published: November 26, 2009

Should we use taxes to deter financial speculation? Yes, say top British officials, who oversee the City of London, one of the world’s two great banking centers. Other European governments agree — and they’re right.

 

Unfortunately, United States officials — especially Timothy Geithner, the Treasury secretary — are dead set against the proposal. Let’s hope they reconsider: a financial transactions tax is an idea whose time has come.

 

The dispute began back in August, when Adair Turner, Britain’s top financial regulator, called for a tax on financial transactions as a way to discourage “socially useless” activities. Gordon Brown, the British prime minister, picked up on his proposal, which he presented at the Group of 20 meeting of leading economies this month.

 

 

Why is this a good idea? The Turner-Brown proposal is a modern version of an idea originally floated in 1972 by the late James Tobin, the Nobel-winning Yale economist. Tobin argued that currency speculation — money moving internationally to bet on fluctuations in exchange rates — was having a disruptive effect on the world economy. To reduce these disruptions, he called for a small tax on every exchange of currencies.

 

Such a tax would be a trivial expense for people engaged in foreign trade or long-term investment; but it would be a major disincentive for people trying to make a fast buck (or euro, or yen) by outguessing the markets over the course of a few days or weeks. It would, as Tobin said, “throw some sand in the well-greased wheels” of speculation.

 

 

Tobin’s idea went nowhere at the time. Later, much to his dismay, it became a favorite hobbyhorse of the anti-globalization left. But the Turner-Brown proposal, which would apply a “Tobin tax” to all financial transactions — not just those involving foreign currency — is very much in Tobin’s spirit. It would be a trivial expense for long-term investors, but it would deter much of the churning that now takes place in our hyperactive financial markets.

 

 

This would be a bad thing if financial hyperactivity were productive. But after the debacle of the past two years, there’s broad agreement — I’m tempted to say, agreement on the part of almost everyone not on the financial industry’s payroll — with Mr. Turner’s assertion that a lot of what Wall Street and the City do is “socially useless.” And a transactions tax could generate substantial revenue, helping alleviate fears about government deficits. What’s not to like?

 

The main argument made by opponents of a financial transactions tax is that it would be unworkable, because traders would find ways to avoid it. Some also argue that it wouldn’t do anything to deter the socially damaging behavior that caused our current crisis. But neither claim stands up to scrutiny.

 

On the claim that financial transactions can’t be taxed: modern trading is a highly centralized affair. Take, for example, Tobin’s original proposal to tax foreign exchange trades. How can you do this, when currency traders are located all over the world? The answer is, while traders are all over the place, a majority of their transactions are settled — i.e., payment is made — at a single London-based institution. This centralization keeps the cost of transactions low, which is what makes the huge volume of wheeling and dealing possible. It also, however, makes these transactions relatively easy to identify and tax.

 

 

 

What about the claim that a financial transactions tax doesn’t address the real problem? It’s true that a transactions tax wouldn’t have stopped lenders from making bad loans, or gullible investors from buying toxic waste backed by those loans.

 

But bad investments aren’t the whole story of the crisis. What turned those bad investments into catastrophe was the financial system’s excessive reliance on short-term money.

As Gary Gorton and Andrew Metrick of Yale have shown, by 2007 the United States banking system had become crucially dependent on “repo” transactions, in which financial institutions sell assets to investors while promising to buy them back after a short period — often a single day. Losses in subprime and other assets triggered a banking crisis because they undermined this system — there was a “run on repo.”

 

 

And a financial transactions tax, by discouraging reliance on ultra-short-run financing, would have made such a run much less likely. So contrary to what the skeptics say, such a tax would have helped prevent the current crisis — and could help us avoid a future replay.

 

Would a Tobin tax solve all our problems? Of course not. But it could be part of the process of shrinking our bloated financial sector. On this, as on other issues, the Obama administration needs to free its mind from Wall Street’s thrall.

 

“Tassare gli speculatori”, di Paul Krugman,

New York Times novembre 2009

 

Si potrebbe utilizzare la tassazione come deterrente della speculazione finanziaria? Si, dicono gli alti dirigenti statali britannici, che sorvegliano la City di Londra, uno dei due grandi centri bancari del mondo. Altri governi europei concordano, ed hanno ragione.

Sfortunatamente, i dirigenti degli Stati Uniti – specialmente Timothy Geithner, il Segretario al Tesoro – sono inflessibili [490] nel contrastare la proposta. Speriamo che ci ripensino: una tassa sulle transazioni finanziarie è un’idea per la quale i tempi sono maturi.

La disputa ha avuto origine in agosto, quando Adair Turner, massimo responsabile dei regolamenti finanziari della Gran Bretagna, fece appello ad una tassa sulle transazioni finanziarie come un modo per scoraggiare le attività “socialmente inutili”. Gordon Brown, Primo Ministro britannico, prese nota della sua proposta [491],  e la ha presentata all’incontro del Gruppo dei 20 rappresentanti delle principali economie mondiali, lo scorso mese.

Perché è una buona idea? La proposta Turner-Brown è una versione aggiornata di una idea originalmente messa in circolazione[492] dall’ultimo James Tobin, l’economista di Yale vincitore del Nobel. Tobin argomentò che la speculazione sulle monete – movimenti internazionali di denaro che scommettono sulle fluttuazioni dei tassi di cambio – stava producendo un effetto dirompente  sull’economia mondiale. Allo scopo di ridurre queste turbolenze [493], egli fece appello ad una piccola tassa su ogni scambio monetario.

Una tassa del genere sarebbe una spesa insignificante per persone impegnate nel commercio estero o negli investimenti a lungo termine; invece potrebbe essere un disincentivo di un certo peso nei confronti di coloro che cercano di realizzare rapidi guadagni – in dollari, euro o yen – prevedendo l’andamento dei mercati  per periodi di giorni o settimane. In quel modo, come disse Tobin, “si getterebbe un po’ di sabbia nelle ruote ben oliate” della speculazione.

A quel tempo l’idea di Tobin non ebbe alcun risultato. Successivamente, con suo grande sgomento, essa divenne il cavallo di battaglia della sinistra antiglobalista. Ma la proposta Turner-Brown, che vorrebbe applicare una “Tobin tax” ad ogni transazione finanziaria e non soltanto a quelle concernenti monete straniere, è davvero nello spirito della proposta di Tobin. Essa sarebbe una spesa insignificante per gli investitori a lungo termine, ma potrebbe funzionare come deterrente contro l’agitazione [494] che si è insediata nei nostri iperattivi mercati finanziari.

Essa sarebbe una cosa negativa se l’iperattività finanziaria fosse produttiva. Ma dopo la débacle degli ultimi due anni, c’è un generale consenso – consenso, sarei tentato di dire, di tutti coloro che non sono sul libro-paga dell’industria finanziaria – con l’assunto di Turner secondo il quale una gran parte di ciò che fanno Wall Street e la City è “socialmente inutile”. E una tassa sulle transazioni potrebbe generare una entrata sostanziosa, che aiuterebbe a ridurre i timori sui deficit degli Stati. Perché non essere d’accordo?

Il principale argomento opposto da coloro che sono contrari ad una tassa sulle transazioni finanziarie è che essa sarebbe ingestibile, perché gli operatori troverebbero i modi per aggirarla. Qualcuno anche argomenta che essa non avrebbe alcuna efficacia nel contrastare quei comportamenti socialmente dannosi che sono causa delle nostre ricorrenti crisi. Ma nessuna delle due opinioni resiste ad una attenta disanima [495].

A proposito dell’argomento secondo il quale le transazioni finanziarie non si presterebbero alla tassazione: i commerci moderni sono affari altamente centralizzati. Prendiamo, per esempio, l’originale proposta di Tobin di tassare il commercio sugli scambi esteri. Come si può farlo, laddove coloro che scambiano divise sono sparsi dappertutto nel mondo? La risposta è che, se gli operatori sono dappertutto nel mondo, la maggior parte delle loro transazioni sono localizzate, ovvero i pagamenti sono effettuati presso una singola istituzione che ha sede in Londra. Questa centralizzazione tiene bassi i costi della transazione, la qualcosa determina l’ampio volume di intrallazzi possibile [496]. Tuttavia, questa circostanza rende queste transazioni relativamente facili da identificare e da tassare.

Cosa dire a proposito dell’argomento secondo il quale tassare le transazioni non coglie il problema reale? E’ vero che una tassa sulle transazioni non avrebbe fermato i creditori dal confezionare cattivi mutui, o gli investitori creduloni dall’acquistare azioni tossiche collegate a quei mutui.

Ma i cattivi investimenti non sono tutta la storia della crisi. Ciò che ha trasformato quei cattivi investimenti in una catastrofe è stata l’eccessiva fiducia del sistema finanziario nel denaro a breve termine.

Come hanno dimostrato Gary Gorton ed Andrew Metrick di Yale, nel 2007 il sistema bancario americano è diventato dipendente in modo importante dalle transazioni “repo[497], tramite le quali le istituzioni finanziarie vendono assets agli investitori promettendo di riacquistarle dopo un breve periodo, spesso di un solo giorno. Le perdite nei subprime e negli altri assets hanno scatenato una crisi nel sistema bancario perché quel genere di affari minavano quel sistema, che era diventato una “catena basata sui repo[498]”.

E una tassa sulle transazioni finanziarie, scoraggiando la fiducia sui finanziamenti di tipo ultra-breve, avrebbe reso tale modalità molto meno appetibile. Così, al contrario di quello che sostengono gli scettici, una tassa del genere ci avrebbe aiutato a prevenire la crisi attuale e potrebbe aiutare ad evitare che nel futuro essa possa ripetersi.

Una Tobin tax risolverebbe tutti i nostri problemi? Naturalmente no. Ma essa potrebbe essere parte di un processo di snellimento di un sistema finanziario ipertrofico [499]. Per questo, come per altre questioni, la amministrazione Obama ha bisogno di liberare la sua mente da ogni forma di dipendenza [500] da Wall Street.

 

 


 

The Jobs Imperative

By PAUL KRUGMAN

Published: November 29, 2009

If you’re looking for a job right now, your prospects are terrible. There are six times as many Americans seeking work as there are job openings, and the average duration of unemployment — the time the average job-seeker has spent looking for work — is more than six months, the highest level since the 1930s.

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You might think, then, that doing something about the employment situation would be a top policy priority. But now that total financial collapse has been averted, all the urgency seems to have vanished from policy discussion, replaced by a strange passivity. There’s a pervasive sense in Washington that nothing more can or should be done, that we should just wait for the economic recovery to trickle down to workers.

 

This is wrong and unacceptable.

Yes, the recession is probably over in a technical sense, but that doesn’t mean that full employment is just around the corner. Historically, financial crises have typically been followed not just by severe recessions but by anemic recoveries; it’s usually years before unemployment declines to anything like normal levels. And all indications are that the aftermath of the latest financial crisis is following the usual script. The Federal Reserve, for example, expects unemployment, currently 10.2 percent, to stay above 8 percent — a number that would have been considered disastrous not long ago — until sometime in 2012.

 

 

And the damage from sustained high unemployment will last much longer. The long-term unemployed can lose their skills, and even when the economy recovers they tend to have difficulty finding a job, because they’re regarded as poor risks by potential employers. Meanwhile, students who graduate into a poor labor market start their careers at a huge disadvantage — and pay a price in lower earnings for their whole working lives. Failure to act on unemployment isn’t just cruel, it’s short-sighted.

 

 

So it’s time for an emergency jobs program.

How is a jobs program different from a second stimulus? It’s a matter of priorities. The 2009 Obama stimulus bill was focused on restoring economic growth. It was, in effect, based on the belief that if you build G.D.P., the jobs will come. That strategy might have worked if the stimulus had been big enough — but it wasn’t. And as a matter of political reality, it’s hard to see how the administration could pass a second stimulus big enough to make up for the original shortfall.

 

 

 

So our best hope now is for a somewhat cheaper program that generates more jobs for the buck. Such a program should shy away from measures, like general tax cuts, that at best lead only indirectly to job creation, with many possible disconnects along the way. Instead, it should consist of measures that more or less directly save or add jobs.

 

 

 

One such measure would be another round of aid to beleaguered state and local governments, which have seen their tax receipts plunge and which, unlike the federal government, can’t borrow to cover a temporary shortfall. More aid would help avoid both a drastic worsening of public services (especially education) and the elimination of hundreds of thousands of jobs.

 

Meanwhile, the federal government could provide jobs by … providing jobs. It’s time for at least a small-scale version of the New Deal’s Works Progress Administration, one that would offer relatively low-paying (but much better than nothing) public-service employment. There would be accusations that the government was creating make-work jobs, but the W.P.A. left many solid achievements in its wake. And the key point is that direct public employment can create a lot of jobs at relatively low cost. In a proposal to be released today, the Economic Policy Institute, a progressive think tank, argues that spending $40 billion a year for three years on public-service employment would create a million jobs, which sounds about right.

 

 

 

 

Finally, we can offer businesses direct incentives for employment. It’s probably too late for a job-conserving program, like the highly successful subsidy Germany offered to employers who maintained their work forces. But employers could be encouraged to add workers as the economy expands. The Economic Policy Institute proposes a tax credit for employers who increase their payrolls, which is certainly worth trying.

 

 

All of this would cost money, probably several hundred billion dollars, and raise the budget deficit in the short run. But this has to be weighed against the high cost of inaction in the face of a social and economic emergency.

 

Later this week, President Obama will hold a “jobs summit.” Most of the people I talk to are cynical about the event, and expect the administration to offer no more than symbolic gestures. But it doesn’t have to be that way. Yes, we can create more jobs — and yes, we should.

 

“L’imperativo del lavoro” di Paul Krugman

New York Times, 29 novembre 2009

 

Se proprio di questi tempi state cercando lavoro, le vostre prospettive sono terribili. Ci sono sei americani che cercano lavoro per ogni posto di lavoro disponibile, e la durata media della disoccupazione – il periodo che un disoccupato in cerca di lavoro mediamente spende per la sua ricerca – è superiore ai sei mesi, ovvero il livello più alto dagli anni 30.

Voi potreste pensare, dunque, che fare qualcosa per la situazione occupazionale  sia la principale priorità della politica. Ma ora che un totale collasso finanziario è stato evitato, pare che nel dibattito politico tutta l’urgenza sia svanita, rimpiazzata da una strana passività. C’è a Washington una diffusa sensazione, secondo la quale non si può o non si dovrebbe fare niente di più, ovvero che dovremmo semplicemente aspettare che la ripresa economica, alla fine, produca i suoi effetti sui lavoratori[501].

Questo è sbagliato ed inaccettabile.

E’ vero, la recessione in senso tecnico è probabilmente alle spalle, ma questo non significa che la piena occupazione sia dietro l’angolo. Storicamente, le crisi finanziarie sono state seguite non da dure recessioni, ma da riprese anemiche: normalmente ci vogliono anni perché la disoccupazione scenda a qualcosa di simile ad un livello normale. Tutte le indicazioni dicono che le conseguenze dell’ultima crisi finanziaria stanno seguendo il copione consueto. Ad esempio, la Federal Reserve si attende che la disoccupazione, attualmente al 10,2 per cento, rimanga superiore all’8 per cento sino ad un qualche momento del 2012, un livello che sarebbe stato considerato disastroso non molto tempo fa.

E il danno per un periodo prolungato di alta disoccupazione, durerà molto più a lungo. I disoccupati di lungo periodo possono perdere le loro competenze, e persino quando l’economia riprenderà essi avranno difficoltà nel trovare un lavoro, perché saranno considerati alle stregua di povere incognite[502] da parte di coloro che li dovrebbero assumere. Nel frattempo, gli studenti che si laureano in un mercato del lavoro depresso iniziano le loro carriere con un ampio svantaggio e pagano il prezzo di stipendi più bassi per la loro intera vita lavorativa. Non agire sulla disoccupazione non è soltanto crudele, è miope.

Dunque è tempo di un programma di emergenza per l’occupazione.

Quale è la differenza tra un programma per l’occupazione e una seconda fase di misure di sostegno all’economia? E’ una questione di priorità. La legge di sostegno di Obama del 2009, si concentrava sull’obbiettivo di ristabilire la crescita dell’economia. Essa era basata, nella sostenza, sulla fiducia che se si accresce[503] il PIL, i posti di lavoro vengono di conseguenza. Questa strategia poteva funzionare, se il sostegno fosse stato sufficientemente vasto, ma così non è stato. E per una questione di realismo politico[504], è arduo immaginare come la amministrazione possa varare un secondo programma di sostegno  grande a sufficienza da compensare l’insufficienza originaria.

Così, la nostra massima speranza, a questo punto, è quella di un qualche programma non troppo dispendioso che generi il massimo di posti di lavoro con una modesta spesa[505]. Un tale programma dovrebbe rifuggire da[506] misure quali una riduzione generalizzata delle tasse, che al massimo portano solo indirettamente alla creazione di posti di lavoro, con molte possibili complicazioni di percorso[507]. Dovrebbe, invece, consistere in misure che più o meno direttamente provochino risparmio o aggiunta di posti di lavoro.

Una misura di questa natura dovrebbe essere una nuova serie di aiuti ai governi statali e locali sotto assedio[508], che hanno visto precipitare le loro entrate fiscali e che, diversamente dal governo federale, non possono ricorrere al prestito per coprire un deficit temporaneo. Un maggiore aiuto potrebbe aiutare ad evitare sia un drastico peggioramento dei servizi pubblici (in special modo l’istruzione), che l’eliminazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Nel frattempo, il governo federale dovrebbe organizzare posti di lavoro … occupandosi dei posti di lavoro![509] E’ venuto il tempo per una versione almeno in scala ridotta della New Deal’s Works Progress Admnistration, una soluzione che offrirebbe occupazione nei servizi pubblici con remunerazioni relativamente basse (eppure assai meglio di niente).  Il governo sarebbe accusato di creare posti di lavoro effimeri[510], ma l’esperienza del W.P.A. lasciò molti solidi successi sulla sua strada. E la questione chiave è che la diretta assunzione pubblica può creare un bel po’ di posti di lavoro a costi relativamente bassi. In una proposta che verrà resa pubblica oggi stesso, l’Economic Policy Institute, un gruppo di esperti[511] progressista, stima che spendendo 40 miliardi di dollari all’anno per tre anni in occupazione nei servizi pubblici, si potrebbero creare un milione di posti di lavoro, calcolo che sembra abbastanza corretto.

Infine, si possono offrire incentivi diretti per le assunzioni alle imprese. E’ probabilmente troppo tardi per un programma di conservazione dei posti di lavoro, del genere dei sussidi notevolmente efficaci che la Germania concede agli imprenditori che mentengono le loro forze di lavoro. Ma gli imprenditori potrebbero essere incoraggiati ad assumere nuovo lavoro con la ripresa dell’economia. L’Economic Policy Institute propone un credito d’imposta agli imprenditori che incrementano i dipendenti[512], e questa è una soluzione che sarebbe meritevole provare.

Tutto questo costerebbe, probabilmente svariate centinaia di miliardi di dollari, ed accrescerebbe il deficit di bilancio nel breve termine. Ma questa soluzione deve essere messa sulla bilancia a fronte dell’alto costo dell’inerzia in una condizione di emergenza economica e sociale.

Alla fine di questa settimana, il Presidente Obama terrà un “summit sul lavoro”. Molta gente con cui ho parlato ha reagito con una certo cinismo a questa notizia, e si aspetta che la amministrazione non faccia molto di più che gesti simbolici. Ma la strada non deve essere quella[513]. Possiamo creare occasioni di lavoro e dovremmo farlo sul serio.

 

 


 

 

Reform or Else

By PAUL KRUGMAN

Published: December 3, 2009

Health care reform hangs in the balance. Its fate rests with a handful of “centrist” senators — senators who claim to be mainly worried about whether the proposed legislation is fiscally responsible.

 

But if they’re really concerned with fiscal responsibility, they shouldn’t be worried about what would happen if health reform passes. They should, instead, be worried about what would happen if it doesn’t pass. For America can’t get control of its budget without controlling health care costs — and this is our last, best chance to deal with these costs in a rational way.

 

 

Some background: Long-term fiscal projections for the United States paint a grim picture. Unless there are major policy changes, expenditure will consistently grow faster than revenue, eventually leading to a debt crisis.

 

What’s behind these projections? An aging population, which will raise the cost of Social Security, is part of the story. But the main driver of future deficits is the ever-rising cost of Medicare and Medicaid. If health care costs rise in the future as they have in the past, fiscal catastrophe awaits.

 

 

You might think, given this picture, that extending coverage to those who would otherwise be uninsured would exacerbate the problem. But you’d be wrong, for two reasons.

First, the uninsured in America are, on average, relatively young and healthy; covering them wouldn’t raise overall health care costs very much.

 

 

Second, the proposed health care reform links the expansion of coverage to serious cost-control measures for Medicare. Think of it as a grand bargain: coverage for (almost) everyone, tied to an effort to ensure that health care dollars are well spent.

 

Are we talking about real savings, or just window dressing? Well, the health care economists I respect are seriously impressed by the cost-control measures in the Senate bill, which include efforts to improve incentives for cost-effective care, the use of medical research to guide doctors toward treatments that actually work, and more. This is “the best effort anyone has made,” says Jonathan Gruber of the Massachusetts Institute of Technology. A letter signed by 23 prominent health care experts — including Mark McClellan, who headed Medicare under the Bush administration — declares that the bill’s cost-control measures “will reduce long-term deficits.”

 

 

The fact that we’re seeing the first really serious attempt to control health care costs as part of a bill that tries to cover the uninsured seems to confirm what would-be reformers have been saying for years: The path to cost control runs through universality. We can only tackle out-of-control costs as part of a deal that also provides Americans with the security of guaranteed health care.

 

 

 

That observation in itself should make anyone concerned with fiscal responsibility support this reform. Over the next decade, the Congressional Budget Office has concluded, the proposed legislation would reduce, not increase, the budget deficit. And by giving us a chance, finally, to rein in the ever-growing spending of Medicare, it would greatly improve our long-run fiscal prospects.

 

But there’s another reason failure to pass reform would be devastating — namely, the nature of the opposition.

 

The Republican campaign against health care reform has rested in part on the traditional arguments, arguments that go back to the days when Ronald Reagan was trying to scare Americans into opposing Medicare — denunciations of “socialized medicine,” claims that universal health coverage is the road to tyranny, etc.

 

But in the closing rounds of the health care fight, the G.O.P. has focused more and more on an effort to demonize cost-control efforts. The Senate bill would impose “draconian cuts” on Medicare, says Senator John McCain, who proposed much deeper cuts just last year as part of his presidential campaign. “If you’re a senior and you’re on Medicare, you better be afraid of this bill,” says Senator Tom Coburn.

 

If these tactics work, and health reform fails, think of the message this would convey: It would signal that any effort to deal with the biggest budget problem we face will be successfully played by political opponents as an attack on older Americans. It would be a long time before anyone was willing to take on the challenge again; remember that after the failure of the Clinton effort, it was 16 years before the next try at health reform.

 

 

That’s why anyone who is truly concerned about fiscal policy should be anxious to see health reform succeed. If it fails, the demagogues will have won, and we probably won’t deal with our biggest fiscal problem until we’re forced into action by a nasty debt crisis.

 

So to the centrists still sitting on the fence over health reform: If you care about fiscal responsibility, you better be afraid of what will happen if reform fails.

 

“Riforma, o sono guai [514]” di Paul Krugman

New York Times 5 dicembre 2009

 

La riforma della assistenza sanitaria degli Stati Uniti è in bilico [515]. Il suo destino è nelle mani[516] di una manciata di senatori “centristi”, senatori che affermano di essere soprattutto preoccupati che la legislazione proposta sia finanziariamente[517] responsabile.

Ma, se essi sono davvero interessati alla responsabilità da un punto di vista fiscale, essi non dovrebbero preoccuparsi di cosa accadrebbe se la riforma sanitaria fosse approvata. Piuttosto, essi dovrebbero preoccuparsi di cosa accadrebbe se essa non fosse approvata. Perché l’America non potrà mettere sotto controllo i suoi conti senza controllare i costi della assistenza sanitaria, e questa è la nostra ultima e migliore occasione per fare i conti [518] con questi costi in modo razionale.

Qualche antefatto: le proiezioni fiscali a lungo termine per gli Stati Uniti disegnano un quadro preoccupante. Se non vi saranno cambiamenti politici importanti, le spese cresceranno in modo significativamente più rapido delle entrate, alla fine conducendoci ad una crisi da deficit.

Cosa c’è dietro queste proiezioni? Una popolazione che diventa più anziana, che accrescerà i costi del sistema della sicurezza sociale, è una parte di questa storia. Ma il principale protagonista dei deficit futuri è il costo continuamente in crescita di Medicare e di Medicaid. Se i costi della assistenza sanitaria cresceranno nel futuro come hanno fatto nel passato, ci aspetta una catastrofe fiscale.

Voi potreste pensare, data questa rappresentazione, che estendere la protezione a coloro i quali restebbero altrimenti senza assicurazione renderebbe il problema più acuto. Ma avreste torto, per due ragioni.

In primo luogo, coloro che sono privi di assicurazione in America sono, in media, relativamente giovani e in salute; la loro copertura non accrescerebbe complessivamente i costi della assistenza sanitaria di moltissimo.

In secondo luogo, la proposta di riforma della assistenza sanitaria collega l’espansione della copertura con serie misure di controllo dei costi di Medicare. Consideriamolo come una specie di patto: la copertura per (quasi) tutti, connessa ad uno sforzo per assicurare che i soldi della assistenza sanitaria siano ben spesi.

Stiamo parlando di reali risparmi o solo di fumo negli occhi [519]? Bene: gli economisti dei sistemi sanitari che io stimo sono seriamente impressionati dalle misure di controllo dei costi contenute nella proposta di legge del Senato, che includono sforzi per migliorare gli incentivi  per una assistenza conveniente [520], l’uso della ricerca medica per indirizzare i medici verso trattamenti che effettivamente funzionino, ed altro. Questo è “il migliore tentativo che sia mai stato messo in atto da qualcuno”, secondo Jonathan Gruber del Massachusetts Institute of Technology. In una lettera sottoscritta da 23 massimi esperti di assistenza sanitaria – incluso Mark McClellan, che fu alla testa di Medicare sotto la amministrazione Bush – si afferma che le misure di controllo dei costi contenute nella legge “ridurrano i deficit a lungo termine”.

 Il fatto che si sia in presenza del primo tentativo effettivamente serio di controllo dei costi della assistenza sanitaria come parte di una legislazione che cerca di dare copertura a coloro che ne sono sprovvisti, sembra confermare ciò che i cosiddetti riformatori hanno sostenuto per anni: la strada di un controllo dei costi passa attraverso un sistema universalistico. Possiamo affrontare i costi fuori controllo soltanto come parte di un patto che al tempo stesso dia agli americani la sicurezza di una assistenza alla salute garantita.

Questa osservazione da sola dovrebbe rendere ognuno interessato alla responsabilità finanziaria che sostiene questa riforma. Il Congressional Budget Office ha alla fine valutato che questa legislazione, lungo il prossimo decennio, ridurrebbe, anziché incrementare il deficit di bilancio. E dandoci la possibilità, finalmente, di  rallentare[521] la spesa sempre in crescita di Medicare, ciò dovrebbe grandemente migliorare le prospettive fiscali di lungo periodo.

Ma c’è un’altra ragione per la quale l’insuccesso nella approvazione della riforma sarebbe devastante, vale a dire la natura dell’opposizione.

La campagna repubblicana contro la riforma della assistenza sanitaria si è basata in parte su argomenti tradizionali, argomenti che ci portano indietro ai giorni nei quali Ronald Reagan cercava di spaventare gli americani opponendosi a Medicare: le denuncie della “medicina socializzata”, gli strepiti secondo i quali la copertura sanitaria universale sarebbe la strada alla tirannia etc.

Ma nelle fasi finali dello scontro sulla assistenza sanitaria, il Partito Repubblicano si è soprattutto concentrato in un tentativo di demonizzazione degli sforzi di controllo dei costi. La legge del Senato imporrebbe “tagli draconiani”, dice il senatore John McCain, che aveva proposto tagli molto più radicali solo l’anno passato, nell’ambito del suo programma presidenziale. “Se tu sei anziano e sei a carico di Medicare, faresti meglio ad aver paura di questa legge”, dice il senatore Tom Coburn.

Se questa tattica funziona e la riforma della sanità fallisce, pensate al messaggio che sarebbe trasmesso: sarebbe il segnale secondo il quale ogni sforzo che ci proponessimo per fare i conti con un bilancio abnorme, sarebbe con successo strumentalizzato dall’opposizione politica come un attacco agli americani più anziani. Passerebbe un tempo interminabile prima che a qualcuno venga voglia nuovamente di misurarsi con quella sfida; ricordate che dopo il fallimento del tentativo di Clinton, ci sono voluti 16 anni prima di un nuovo tentativo di riforma sanitaria.

Questa è la ragione per la quale ognuno che sia sinceramente preoccupato della politica delal finanza pubblica, dovrebbe desiderare un successo della riforma sanitaria. Se essa fallisce, i demagoghi l’avranno vinta e noi probabilmente non ci misureremo con il più grande squilibrio fiscale finché non ci saremo costretti da un orribile crisi da debito.

Dunque, ai “centristi” che ancora restano indecisi [522] sulla riforma della salute: se vi preme la responsabilità di bilancio, fareste bene ad aver paura di ciò che accadrà se la riforma fallisce.     

 

 


 

 

 

 

An Affordable Truth

By PAUL KRUGMAN

Published: December 6, 2009

Maybe I’m naïve, but I’m feeling optimistic about the climate talks starting in Copenhagen on Monday. President Obama now plans to address the conference on its last day, which suggests that the White House expects real progress. It’s also encouraging to see developing countries — including China, the world’s largest emitter of carbon dioxide — agreeing, at least in principle, that they need to be part of the solution.

 

 

 

Of course, if things go well in Copenhagen, the usual suspects will go wild. We’ll hear cries that the whole notion of global warming is a hoax perpetrated by a vast scientific conspiracy, as demonstrated by stolen e-mail messages that show — well, actually all they show is that scientists are human, but never mind. We’ll also, however, hear cries that climate-change policies will destroy jobs and growth.

 

 

 

The truth, however, is that cutting greenhouse gas emissions is affordable as well as essential. Serious studies say that we can achieve sharp reductions in emissions with only a small impact on the economy’s growth. And the depressed economy is no reason to wait — on the contrary, an agreement in Copenhagen would probably help the economy recover.

Why should you believe that cutting emissions is affordable? First, because financial incentives work.

 

Action on climate, if it happens, will take the form of “cap and trade”: businesses won’t be told what to produce or how, but they will have to buy permits to cover their emissions of carbon dioxide and other greenhouse gases. So they’ll be able to increase their profits if they can burn less carbon — and there’s every reason to believe that they’ll be clever and creative about finding ways to do just that.

As a recent study by McKinsey & Company showed, there are many ways to reduce emissions at relatively low cost: improved insulation; more efficient appliances; more fuel-efficient cars and trucks; greater use of solar, wind and nuclear power; and much, much more. And you can be sure that given the right incentives, people would find many tricks the study missed.

 

The truth is that conservatives who predict economic doom if we try to fight climate change are betraying their own principles. They claim to believe that capitalism is infinitely adaptable, that the magic of the marketplace can deal with any problem. But for some reason they insist that cap and trade — a system specifically designed to bring the power of market incentives to bear on environmental problems — can’t work.

 

 

Well, they’re wrong — again. For we’ve been here before.

The acid rain controversy of the 1980s was in many respects a dress rehearsal for today’s fight over climate change. Then as now, right-wing ideologues denied the science. Then as now, industry groups claimed that any attempt to limit emissions would inflict grievous economic harm.

 

 

But in 1990 the United States went ahead anyway with a cap-and-trade system for sulfur dioxide. And guess what. It worked, delivering a sharp reduction in pollution at lower-than-predicted cost.

Curbing greenhouse gases will be a much bigger and more complex task — but we’re likely to be surprised at how easy it is once we get started.

The Congressional Budget Office has estimated that by 2050 the emissions limits in recent proposed legislation would reduce real G.D.P. by between 1 percent and 3.5 percent from what it would otherwise have been. If we split the difference, that says that emissions limits would slow the economy’s annual growth over the next 40 years by around one-twentieth of a percentage point — from 2.37 percent to 2.32 percent.

 

That’s not much. Yet if the acid rain experience is any guide, the true cost is likely to be even lower.

 

Still, should we be starting a project like this when the economy is depressed? Yes, we should — in fact, this is an especially good time to act, because the prospect of climate-change legislation could spur more investment spending.

Consider, for example, the case of investment in office buildings. Right now, with vacancy rates soaring and rents plunging, there’s not much reason to start new buildings. But suppose that a corporation that already owns buildings learns that over the next few years there will be growing incentives to make those buildings more energy-efficient. Then it might well decide to start the retrofitting now, when construction workers are easy to find and material prices are low.

 

 

 

The same logic would apply to many parts of the economy, so that climate change legislation would probably mean more investment over all. And more investment spending is exactly what the economy needs.

 

So let’s hope my optimism about Copenhagen is justified. A deal there would save the planet at a price we can easily afford — and it would actually help us in our current economic predicament.

 

“Una verità conveniente”, di Paul Krugman

New York Times, 6 dicembre 2009

 

Può darsi che sia ingenuo, ma mi sento ottimista riguardo ai colloqui sul clima che prendono le mosse lunedì prossimo a Copenaghen. Si apprende che il Presidente Obama ha programmato di  intervenire ai lavori della Conferenza l’ultimo giorno, la qual cosa fa ritenere che la Casa Bianca attenda un progresso sostanziale. E’ anche incoraggiante constatare che i paesi in via di sviluppo [523] – inclusa la Cina, il più grande produttore di biossido di carbonio al mondo – concordino, almeno in via di principio, con la necessità di essere partecipi della soluzione.

Naturalmente, se le cose andassero bene a Copenaghen, si scateneranno[524] i consueti sospetti. Ci toccherà di ascoltare gli strepiti secondo i quali l’intero concetto di riscaldamento globale è una bufala[525]  perpetrata da una vasta cospirazione di scienziati, come dimostrato dai messaggi e-mail finiti al centro dell’attenzione[526] (in realtà, essi dimostrano che gli scienziati sono uomini come gli altri, ma lasciamo perdere[527]). Sentiremo anche e comunque i lamenti secondo i quali le politiche provocate dal cambiamento climatico distruggeranno lavoro e sviluppo.

La verità, tuttavia, è che il taglio delle emissioni che producono l’effetto serra è al tempo stesso possibile ed indispensabile. Seri studi ci dicono che possiamo ottenere marcate riduzioni soltanto con un piccolo impatto sullo sviluppo dell’economia. E la depressione economica non è un motivo per attendere; al contrario, un accordo a Copenaghen probabilmente aiuterebbe la ripresa economica.

Perché dovreste credere che il taglio delle emissioni è una cosa possibile? Anzitutto, perché gli incentivi finanziari funzionano.

L’azione sul clima, se avrà luogo, avrà la forma del cap-and-trade[528]: alle imprese non verrà prescritto cosa produrre o come, ma esse dovranno acquistare permessi che autorizzano le emissioni di biossido di carbonio o di altri gas ad effetto serra. In questo modo, esse potranno accrescere i loro profitti se sapranno bruciare senza carbone, e ci sono tutte le ragioni per ritenere che saranno intelligenti e creative nel cercare i modi per fare esattamente questo.

Come ha dimostrato un recente studio di McKinsey & Company, ci sono molti modi per ridurre le emissioni e a costi relativamente contenuti: un migliore isolamento; elettrodomestici più efficienti; automobili e camion con carburanti più efficienti; maggiore uso delle energie solari, eoliche e nucleari; e molto, molto altro. E potete star sicuri che una volta concessi gli incentivi giusti, la gente saprebbe trovare molti trucchi di cui si è persa nozione[529].

La verità è che i conservatori che predicono la rovina dell’economia a causa del tentativo di combattere il cambiamento del clima, tradiscono i loro stessi principi. Essi giurano di credere che il capitalismo sia infinitamente adattabile, che la magia del mercato possa fare i conti con ogni genere di problema. Ma per una qualche ragione essi si ostinano a sostenere che il cap-and-trade – un sistema specificamente sperimentato per mettere a frutto il potere degli incentivi di mercato ed incidere sui problemi ambientali – non potrebbe funzionare.

Bene, essi si sbagliano, ancora una volta. Perché è una storia che abbiamo già visto[530].

La controversia sulle piogge acide degli anni 80 fu sotto molti aspetti una prova generale della lotta dei nostri giorni contro il cambiamento climatico. Allora come oggi, gli ideologi della destra negavano la scienza. Allora come oggi, i gruppi industriali sostenevano che ogni tentativo di limitare le emissioni avrebbe inflitto gravi danni all’economia.

Ma negli anni 90 gli Stati Uniti andarono avanti comunque con un meccanismo di cap-and-trade per il biossido di zolfo. E indovinate! Esso funzionò, provocando una sensibile riduzione nell’inquinamento a costi minori di quelli previsti.

Tenere a freno i gas serra sarà un obbiettivo molto più grande e complesso; ma probabilmente saremo sorpresi di quanto sarà facile una volta che saremo partiti.

Il Congressional Budget Office ha stimato che attorno al 2050 i limiti alle emissioni contenuti nella legislazione recentemente proposta provocherebbero una riduzione reale del PIL tra l’1 ed il 3,5% circa, rispetto a ciò che in ogni caso sarebbe avvenuto. Se noi frazioniamo la differenza, questo significa che i limiti alle emissioni rallenteranno la crescita annuale dell’economia nei prossimi 40 anni di circa un dodicesimo di un punto percentuale, dal 2,37% al 2,32%.

Non è granché. Se inoltre il precedente delle piogge acide ha un valore, il costo reale è destinato ad essere probabilmente persino inferiore.

Ancora, dovremmo far partire un progetto come questo ora che l’economia è depressa? Si, dobbiamo. Nei fatti, questo è un periodo particolarmente adatto per agire, perché la prospettiva di una legislazione sul cambiamento climatico stimolerebbe maggiori investimenti.

Consideriamo, per esempio, il caso di investimenti nella costruzione di uffici. Proprio adesso, con le imposte sugli spazi liberi in crescita e gli affitti in caduta libera, non ci sono molte ragioni per costruire nuovi edifici. Ma supponiamo che un’impresa che già possiede edifici apprenda che in per periodo di pochi anni ci sarà una crescita degli incentivi finalizzati a rendere tali edifici più efficienti da un punto di vista energetico. In quel caso essa potrebbe ben decidere di far partire ora i lavori di ristrutturazione, in un periodo nel quale i lavoratori delle costruzioni sono facili da trovare e i prezzi dei materiali sono bassi.

La stessa logica si applicherebbe a molti settori dell’economia, cosicchè la legislazione per il cambiamento climatico probabilmente comportarebbe in primo luogo maggiori investimenti. Esattamente ciò di cui l’economia ha bisogno.

Lasciatemi dunque sperare che il mio ottimismo su Copenaghen sia giustificato. Un accordo metterebbe in salvo il pianeta ad un prezzo che possiamo facilmente sostenere e sarebbe effettivamente di aiuto nella attuale situazione difficile dell’economia.

 

 


 

Bernanke’s Unfinished Mission

By PAUL KRUGMAN

Published: December 10, 2009

Ben Bernanke, the Federal Reserve chairman, recently had some downbeat things to say about our economic prospects. The economy, he warned, “confronts some formidable headwinds.” All we can expect, he said, is “modest economic growth next year — sufficient to bring down the unemployment rate, but at a pace slower than we would like.”

 

Actually, he may have been too optimistic: There’s a good chance that unemployment will rise, not fall, over the next year. But even if it does inch down, one has to ask: Why isn’t the Fed trying to bring it down faster?

 

 

Some background: I don’t think many people grasp just how much job creation we need to climb out of the hole we’re in. You can’t just look at the eight million jobs that America has lost since the recession began, because the nation needs to keep adding jobs — more than 100,000 a month — to keep up with a growing population. And that means that we need really big job gains, month after month, if we want to see America return to anything that feels like full employment.

 

 

 

How big? My back of the envelope calculation says that we need to add around 18 million jobs over the next five years, or 300,000 jobs a month. This puts last week’s employment report, which showed job losses of “only” 11,000 in November, in perspective. It was basically a terrible report, which was reported as good news only because we’ve been down so long that it looks like up to the financial press.

 

 

So if we’re going to have any real good news, someone has to take responsibility for creating a lot of additional jobs. And at this point, that someone almost has to be the Federal Reserve.

 

I don’t mean to absolve the Obama administration of all responsibility. Clearly, the administration proposed a stimulus package that was too small to begin with and was whittled down further by “centrists” in the Senate. And the measures President Obama proposed earlier this week, while they would create a significant number of additional jobs, fall far short of what the economy needs.

 

But while economic analysis says that we should have a large second stimulus, the political reality is that the president — faced with total obstruction from Republicans, while receiving only lukewarm support from some in his own party — probably can’t get enough votes in Congress to do more than tinker at the edges of the employment problem.

The Fed, however, can do more.

 

Mr. Bernanke has received a great deal of credit, and rightly so, for his use of unorthodox strategies to contain the damage after Lehman Brothers failed. But both the Fed’s actions, as measured by its expansion of credit, and Mr. Bernanke’s words suggest that the urgency of late 2008 and early 2009 has given way to a curious mix of complacency and fatalism — a sense that the Fed has done enough now that the financial system has stepped back from the brink, even though its own forecasts predict that unemployment will remain punishingly high for at least the next three years.

The most specific, persuasive case I’ve seen for more Fed action comes from Joseph Gagnon, a former Fed staffer now at the Peterson Institute for International Economics. Basing his analysis on the prior work of none other than Mr. Bernanke himself, in his previous incarnation as an economic researcher, Mr. Gagnon urges the Fed to expand credit by buying a further $2 trillion in assets. Such a program could do a lot to promote faster growth, while having hardly any downside.

 

So why isn’t the Fed doing it? Part of the answer may be political: Ideological opponents of government activism tend to be as critical of the Fed’s credit expansion as they are of the Obama administration’s fiscal stimulus. And this has probably made the Fed reluctant to use its powers to their fullest extent. Meanwhile, a significant number of Fed officials, especially at the regional banks, are obsessed with the fear of 1970s-style inflation, which they see lurking just around the bend even though there’s not a hint of it in the actual data.

 

 

But there’s also, I believe, a question of priorities. The Fed sprang into action when faced with the prospect of wrecked banks; it doesn’t seem equally concerned about the prospect of wrecked lives.

 

And that is what we’re talking about here. The kind of sustained high unemployment envisaged in the Fed’s own forecasts is a recipe for immense human suffering — millions of families losing their savings and their homes, millions of young Americans never getting their working lives properly started because there are no jobs available when they graduate. If we don’t get unemployment down soon, we’ll be paying the price for a generation.

 

So it’s time for the Fed to lose that complacency, shrug off that fatalism and start lending a hand to job creation.

 

“La missione non terminata di Bernanke”, di Paul Krugman

New York Times 10 dicembre 2009

Ben Bernanke, il Presidente della Federal Reserve, di recente ha fatto alcune affermazioni pessimistiche sulle prospettive dell’economia americana. L’economia statunitense, ha ammonito, “si sta misurando con alcune formidabile correnti avverse [531]”. Tutto ciò che possiamo aspettarci, egli ha detto, è “una modesta crescita per il prossimo anno, sufficiente ad abbassare il tasso di disoccupazione, ma ad un ritmo più lento di quanto avremmo desiderato”.

In realtà, egli potrebbe essere stato troppo ottimista: ci sono buone possibilità che la disoccupazione il prossimo anno cresca, anziché scendere. Ma se anche essa scendesse lentamente, uno potrebbe chiedere: perché la Fed non prova a farla calare più rapidamente?

Facciamo un passo indietro: io non credo che molta gente si renda davvero conto [532] di quanta maggiore creazione di lavoro abbiamo bisogno per saltar fuori dalla buca nella quale siamo finiti. Non si deve soltanto guardare agli otto milioni di posti di lavoro che l’America ha perso dal momento in cui la recessione è iniziata, perché la nazione ha bisogno di crare lavoro aggiuntivo, più di centomila posti al mese, per tenere il passo [533] di una popolazione che cresce. E questo significa che abbiamo bisogno di un incremento occupazionale davvero grande, mese dopo mese, se vogliamo veder l’America ritornare a qualcosa che assomigli al pieno impiego.

Secondo un mio calcolo approssimativo [534] noi abbiamo bisogno di 18 milioni di posti di lavoro aggiuntivi nei prossimi cinque anni, ovvero di 300.000 posti di lavoro al mese. Questo dato ridimensiona[535] il rapporto sull’occupazione della settimana scorsa, che mostrava una perdita di “soli” 11.000 posti di lavoro a novembre. Si è trattato di un rapporto davvero terrificante, il cui contenuto è stato presentato come una buona notizia solo perché, essendo scesi in basso per così lungo tempo, è sembrato come una risalita alla stampa finanziaria.

Dunque, se vogliamo davvero qualche buona notizia, bisognerà che qualcuno si prenda la responsabilità di creare le condizioni per un bel po’ di occupazione in più. E, a questo punto, quel qualcuno pare che debba proprio essere la Federal Reserve.

Io non intendo assolvere la amministrazione Obama da ogni responsabilità.  Chiaramente il governo aveva proposto un pacchetto di stimoli che era troppo piccolo per avviare la ripresa e che fu ulteriormente ridotto[536] dai “centristi” al Senato. E le misure che il Presidente Obama ha proposto agli inizi di questa settimana, sebbene produrrebbero un numero significativo di posti di lavoro aggiuntivi, sono lungi dal raggiungere lo scopo [537] che sarebbe necessario all’economia.

Ma, se l’analisi economica dice che servirebbe un consistente secondo stimolo, la realtà politica dice che il Presidente – che fronteggia il totale ostruzionismo dei repubblicani, ricevendo solo un tiepido consenso da una parte del suo stesso partito – probabilmente non ha abbastanza voti per fare di più che arrabattarsi ai margini [538] della questione occupazionale.

La Fed, tuttavia, può fare di più.

Bernanke ha ricevuto una grande quantità di credito, e giustamente, affinchè lo adoperasse con strategie non ortodosse per contenere il danno successivo al fallimento della Leheman Brothers. Ma sia le azioni della Fed, così come sono state cadenzate[539] nelle sue decisioni di espansione del credito, che le parole di Bernanke suggeriscono che una curiosa mescolanza di compiacimento e di fatalismo ha preso il posto dell’ansia della fine del 2008 e degli inizi del 2009. Pare si abbia la sensazione che la Fed ha fatto abbastanza, ora che il sistema finanziario ha fatto un passo indietro dal baratro, a dispetto del fatto che le sue stesse stime prevedono che la disoccupazione rimarrà elevata per almeno i prossimi tre anni.

Il più specifico e persuasivo esempio che ho trovato, a proposito di un maggiore intervento della Fed, è arrivato da Joseph Gagnon, un vecchio componente dello staff della Fed oggi membro del Peterson Institute for International Economics. Basando la sua analisi su un precedente lavoro niente di meno che del medesimo Bernanke, Gagnon propone che la Fed acquisti ulteriori duemila miliardi di dollari in assets. Un programma del genere avrebbe efficacia nel promuovere una crescita più rapida, praticamente senza alcuno svantaggio.

Perché, dunque, la Fed non lo fa? In parte, la risposta può essere di natura politica: chi si oppone ideologicamente all’attivismo del governo tende ad essere altrettanto critico verso l’espansione del credito da parte della Fed che verso gli stimoli della spesa pubblica[540] della amminstrazione Obama. E questo ha probabilmente reso la Fed riluttante ad utilizzare i suoi poteri nella loro massima estensione. Tuttavia, un numero significativo di dirigenti della Fed sono ossessionati dalla paura di una inflazione del genere di quella degli anni 70, che essi vedono nascosta dietro l’angolo[541], anche se non ce n’è alcun sintomo al momento attuale.

Ma c’è anche, io credo, una questione di priorità. La Fed scatta in azione[542] quando è messa dinanzi alla prospettiva della bancarotta di istituti bancari; non sembra proccuparsi nello stesso modo dinanzi alla prospettiva della rovina delle persone.

Ed è di questa che ora si ragiona. Una elevata disoccupazione di un genere così prolungato[543] è una ricetta di sofferenza umana immensa – milioni di famiglie che perdono i loro risparmi e le loro case, milioni di giovani americani che non faranno nella maniera giusta[544] i loro primi passi nella vita lavorativa, perché non ci saranno posti di lavoro disponibili al termine dei loro studi. Se non ridurremo rapidamente la disoccupazione, ne pagheremo il prezzo per una generazione.

Per questo è venuto il tempo che la Fed lasci da parte quel compiacimento, riduca al minimo quel fatalismo[545] e dia una mano nel creare lavoro.

 


 

Disaster and Denial

By PAUL KRUGMAN

Published: December 13, 2009

When I first began writing for The Times, I was naïve about many things. But my biggest misconception was this: I actually believed that influential people could be moved by evidence, that they would change their views if events completely refuted their beliefs.

 

And to be fair, it does happen now and then. I’ve been highly critical of Alan Greenspan over the years (since long before it was fashionable), but give the former Fed chairman credit: he has admitted that he was wrong about the ability of financial markets to police themselves.

 

But he’s a rare case. Just how rare was demonstrated by what happened last Friday in the House of Representatives, when — with the meltdown caused by a runaway financial system still fresh in our minds, and the mass unemployment that meltdown caused still very much in evidence — every single Republican and 27 Democrats voted against a quite modest effort to rein in Wall Street excesses.

 

Let’s recall how we got into our current mess.

America emerged from the Great Depression with a tightly regulated banking system. The regulations worked: the nation was spared major financial crises for almost four decades after World War II. But as the memory of the Depression faded, bankers began to chafe at the restrictions they faced. And politicians, increasingly under the influence of free-market ideology, showed a growing willingness to give bankers what they wanted.

 

 

The first big wave of deregulation took place under Ronald Reagan — and quickly led to disaster, in the form of the savings-and-loan crisis of the 1980s. Taxpayers ended up paying more than 2 percent of G.D.P., the equivalent of around $300 billion today, to clean up the mess.

 

But the proponents of deregulation were undaunted, and in the decade leading up to the current crisis politicians in both parties bought into the notion that New Deal-era restrictions on bankers were nothing but pointless red tape. In a memorable 2003 incident, top bank regulators staged a photo-op in which they used garden shears and a chainsaw to cut up stacks of paper representing regulations.

 

 

 

And the bankers — liberated both by legislation that removed traditional restrictions and by the hands-off attitude of regulators who didn’t believe in regulation — responded by dramatically loosening lending standards. The result was a credit boom and a monstrous real estate bubble, followed by the worst economic slump since the Great Depression. Ironically, the effort to contain the crisis required government intervention on a much larger scale than would have been needed to prevent the crisis in the first place: government rescues of troubled institutions, large-scale lending by the Federal Reserve to the private sector, and so on.

 

Given this history, you might have expected the emergence of a national consensus in favor of restoring more-effective financial regulation, so as to avoid a repeat performance. But you would have been wrong.

Talk to conservatives about the financial crisis and you enter an alternative, bizarro universe in which government bureaucrats, not greedy bankers, caused the meltdown. It’s a universe in which government-sponsored lending agencies triggered the crisis, even though private lenders actually made the vast majority of subprime loans. It’s a universe in which regulators coerced bankers into making loans to unqualified borrowers, even though only one of the top 25 subprime lenders was subject to the regulations in question.

 

 

Oh, and conservatives simply ignore the catastrophe in commercial real estate: in their universe the only bad loans were those made to poor people and members of minority groups, because bad loans to developers of shopping malls and office towers don’t fit the narrative.

In part, the prevalence of this narrative reflects the principle enunciated by Upton Sinclair: “It is difficult to get a man to understand something when his salary depends on his not understanding it.” As Democrats have pointed out, three days before the House vote on banking reform Republican leaders met with more than 100 financial-industry lobbyists to coordinate strategies. But it also reflects the extent to which the modern Republican Party is committed to a bankrupt ideology, one that won’t let it face up to the reality of what happened to the U.S. economy.

 

 

 

So it’s up to the Democrats — and more specifically, since the House has passed its bill, it’s up to “centrist” Democrats in the Senate. Are they willing to learn something from the disaster that has overtaken the U.S. economy, and get behind financial reform?

 

Let’s hope so. For one thing is clear: if politicians refuse to learn from the history of the recent financial crisis, they will condemn all of us to repeat it.

 

“Il rifiuto del disastro[546]”, di Paul Krugman

New York Times, 13 dicembre 2009

 

Quando cominciai a scrivere per The Times, ero sotto molti aspetti ingenuo. Ma il mio più grande equivoco era il seguente: io credevo davvero che le persone influenti sarebbero state cambiate dall’evidenza, che esse avrebbero cambiato i loro punti di vista se i fatti avessero confutato le loro opinioni.

E, ad essere giusti, questo può accadere, ogni tanto[547]. Nel corso degli anni io sono stato molto critico nei confronti di Alan Greenspan (molto tempo prima che andasse di moda), ma riconosco al precedente Presidente della Fed un merito: egli ha ammesso di aver avuto torto a proposito della capacità dei mercati finanziari di vigilare su se stessi.

Ma si tratta di un caso raro. Quanto raro[548] è stato dimostrato da ciò che è accaduto lo scorso venerdì alla Camera dei Rappresentanti dove – con il cataclisma[549] causato da quella sorta di fuggi-fuggi[550] del sistema finanziario ancora fresco nelle nostre teste e la massa di disoccupati provocati da quel cataclisma ancora in grandissima evidenza – ogni singolo repubblicano e 27 democratici hanno votato contro un tentativo piuttosto modesto di mettere sotto controllo gli eccessi di Wall Street.

Consentitemi di ricordare come siamo finiti nell’attuale disordine.

L’America venne fuori dalla Grande Depressione con un sistema finanziario strettamente regolamentato. Le regole funzionavano: alla nazione furono risparmiate crisi finanziarie per quasi quattro decenni, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma la memoria della depressione si affievolì, i banchieri cominciarono a mostrare fastidio per le restrizioni che dovevano sopportare. E i politici, crescentemente influenzati dalle ideologie del libero mercato, mostrarono una volontà crescente di concedere ai banchieri quello che essi rivendicavano.

La prima grande ondata di deregolazioni ebbe luogo sotto Ronald Reagan, e portò subito ad un disastro nella forma della crisi “dei risparmi e dei mutui” degli anni 80. I contribuenti la interruppero pagando più del 2% del PIL per far pulizia di quel disordine, l’equivalente di circa 300 miliardi di dollari attuali.

Ma i proponenti della deregolamentazione non ne furono per niente intimiditi[551] e nel corso del decennio i politici di entrambi gli schieramenti fecero propria[552] la nozione secondo la quale l’era newdealista delle restrizioni ai banchieri era niente altro che inutile burocrazia, con ciò conducendoci alla attuale crisi. In un memorabile episodio[553] del 2003, alcuni massimi dirigenti del sistema di controllo sulle banche inscenarono una foto di gruppo[554] nella quale essi usavano cesoie da giardinaggio e motoseghe per tagliare a pezzetti pile di documenti che rappresentavano i regolamenti bancari.

E i banchieri – messi in libertà per effetto, sia della legislazione che rimosse le tradizionali restrizioni, sia della attitudine all’inazione[555] di regolatori che non credevano nelle regole –  risposero con un clamoroso allentamento degli standards della concessione dei prestiti. Il risultato fu un boom creditizio ed una mostruosa bolla nel settore immobiliare, seguiti dalla peggiore recessione dell’economia dall’epoca della Grande Depressione. Ironia della sorte, lo sforzo per contenere la crisi ha richiesto un intervento statale su scala molto più vasta di ciò che sarebbe stato necessario se si fosse in primo luogo prevenuta la crisi: salvataggi statali dei settori in crisi, prestiti su larga scala al settore privato da parte della Federal Reserve, e così via.

Data questa storia, vi sareste aspettati l’emergere di un consenso nazionale a favore di un ripristino di regole finanziarie più stringenti, così da evitare il ripetersi di prestazioni del genere. Ma avreste avuto torto.

Se si parla con i conservatori della crisi finanziaria, è come si entrasse in un bizzarro universo alternativo, nel quale i burocrati dello stato, e non la grettezza dei banchieri, avrebbe provocato il cataclisma. E’ un universo nel quale le agenzie di credito che godono del sostegno statale avrebbero innescato la crisi, nonostante che le agenzie private attualmente gestiscano la grande maggioranza dei mutui subprime. E’ un universo nel quale lo stato avrebbe costretto i banchieri a concedere mutui a beneficiari che non erano idonei, anche se solo una delle prime 25 agenzie di credito operanti nel settore dei subprime era soggetta a regolamenti del genere.

Del resto, i conservatori semplicemente ignorano la catastrofe del mercato immobiliare: nel loro universo i soli prestiti cattivi sono stati quelli a favore della povera gente e dei componenti di minoranze, perché i cattivi mutui ai costruttori di centri commerciali e di grattacieli[556] per uffici non meritano menzione[557].

In parte la diffusione di questi punti di vista[558] dipende da un principio che fu enunciato da Upton Sinclair: “E’ difficile far capire qualcosa ad una persona, quando il suo salario dipende dal fatto di non comprenderla”. Come i Democratici hanno sottolineato, tre giorni dopo il voto della Camera sulla riforma del settore bancario, i leaders repubblicani si sono incontrati con più di un centinaio di lobbisti del settore finanziario per coordinare le strategie. Ma essa anche riflette la dimensione con la quale il Partito Repubblicano si è impegnato nella bancarotta del proprio sistema di idee; è ciò che non consente ad esso di guardare in faccia alla realtà di quanto è accaduto all’economia degli Stati Uniti[559].

Lo stesso problema riguarda i Democratici[560], e più in particolare, dal momento che la Camera ha approvato il suo testo legislativo, riguarda i democratici “di centro” al Senato. Avranno essi l’intenzione di imparare qualcosa dal disastro che ha travolto[561] l’economia degli Stati Uniti, e sostenere la riforma del sistema finanziario?

Speriamo che vada così. Perché una cosa è chiara: se i politici rifiutano la lezione della storia della recente crisi finanziaria, condanneranno tutti noi alla sua ripetizione.

 

 


 

Pass the Bill

By PAUL KRUGMAN

Published: December 17, 2009

A message to progressives: By all means, hang Senator Joe Lieberman in effigy. Declare that you’re disappointed in and/or disgusted with President Obama. Demand a change in Senate rules that, combined with the Republican strategy of total obstructionism, are in the process of making America ungovernable.

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But meanwhile, pass the health care bill.

Yes, the filibuster-imposed need to get votes from “centrist” senators has led to a bill that falls a long way short of ideal. Worse, some of those senators seem motivated largely by a desire to protect the interests of insurance companies — with the possible exception of Mr. Lieberman, who seems motivated by sheer spite.

 

 

But let’s all take a deep breath, and consider just how much good this bill would do, if passed — and how much better it would be than anything that seemed possible just a few years ago. With all its flaws, the Senate health bill would be the biggest expansion of the social safety net since Medicare, greatly improving the lives of millions. Getting this bill would be much, much better than watching health care reform fail.

 

 

 

At its core, the bill would do two things. First, it would prohibit discrimination by insurance companies on the basis of medical condition or history: Americans could no longer be denied health insurance because of a pre-existing condition, or have their insurance canceled when they get sick. Second, the bill would provide substantial financial aid to those who don’t get insurance through their employers, as well as tax breaks for small employers that do provide insurance.

 

All of this would be paid for in large part with the first serious effort ever to rein in rising health care costs.

 

The result would be a huge increase in the availability and affordability of health insurance, with more than 30 million Americans gaining coverage, and premiums for lower-income and lower-middle-income Americans falling dramatically. That’s an immense change from where we were just a few years ago: remember, not long ago the Bush administration and its allies in Congress successfully blocked even a modest expansion of health care for children.

 

 

Bear in mind also the lessons of history: social insurance programs tend to start out highly imperfect and incomplete, but get better and more comprehensive as the years go by. Thus Social Security originally had huge gaps in coverage — and a majority of African-Americans, in particular, fell through those gaps. But it was improved over time, and it’s now the bedrock of retirement stability for the vast majority of Americans.

 

 

Look, I understand the anger here: supporting this weakened bill feels like giving in to blackmail — because it is. Or to use an even more accurate metaphor suggested by Ezra Klein of The Washington Post, we’re paying a ransom to hostage-takers. Some of us, including a majority of senators, really, really want to cover the uninsured; but to make that happen we need the votes of a handful of senators who see failure of reform as an acceptable outcome, and demand a steep price for their support.

 

 

The question, then, is whether to pay the ransom by giving in to the demands of those senators, accepting a flawed bill, or hang tough and let the hostage — that is, health reform — die.

 

Again, history suggests the answer. Whereas flawed social insurance programs have tended to get better over time, the story of health reform suggests that rejecting an imperfect deal in the hope of eventually getting something better is a recipe for getting nothing at all. Not to put too fine a point on it, America would be in much better shape today if Democrats had cut a deal on health care with Richard Nixon, or if Bill Clinton had cut a deal with moderate Republicans back when they still existed.

 

 

But won’t paying the ransom now encourage more hostage-taking in the future? Maybe. But the next big fight, over the future of the financial system, will be very different. If the usual suspects try to water down financial reform, I say call their bluff: there’s not much to lose, since a merely cosmetic reform, by creating a false sense of security, could well end up being worse than nothing.

 

 

Beyond that, we need to take on the way the Senate works. The filibuster, and the need for 60 votes to end debate, aren’t in the Constitution. They’re a Senate tradition, and that same tradition said that the threat of filibusters should be used sparingly. Well, Republicans have already trashed the second part of the tradition: look at a list of cloture motions over time, and you’ll see that since the G.O.P. lost control of Congress it has pursued obstructionism on a literally unprecedented scale. So it’s time to revise the rules.

 

 

 

But that’s for later. Right now, let’s pass the bill that’s on the table.

 

“Votate quella legge”, di Paul Krugman

New York Times, 17 dicembre 2009

 

Un messaggio ai progressisti: se volete, impiccate in effige[562] il senatore Joe Liberman. Dichiarate che voi siete delusi e/o disgustati del Presidente Obama. Chiedete un cambiamento nei regolamenti del Senato che, in combinazione con la strategia repubblicana di un totale ostruzionismo, sono in procinto di rendere l’America ingovernabile.

Ma intanto votate la legge sulla assistenza sanitaria.

E’ vero: il bisogno di ottenere i voti dei “centristi”, imposto dalla prassi del filibustering, ci ha condotti ad un testo legislativo che è molto lontano dall’ideale[563]. C’è di peggio: alcuni dei senatori sembrano per lo più mossi dal desiderio di proteggere gli interessi delle compagnie assicurative, con la possibile eccezione del Signor Liberman, che sembra motivato da una pura e semplice ripicca[564].

Ma facciamo tutti un respiro profondo, e consideriamo semplicemente quanto bene questa legge farebbe, una volta approvata, e quanto migliore essa sarebbe, rispetto ad ogni altra soluzione che appariva possibile solo pochi anni fa. Con tutti i suoi difetti, la legge sanitaria del Senato corrisponderebbe alla più grande crescita della rete di sicurezza sociale dai tempi di Medicare, e migliorerebbe in modo davvero rilevante la vita a milioni di persone. Incassare questa legge sarà molto, molto meglio che non fare la veglia al fallimento della riforma della assistenza sanitaria.

Nella sostanza, questa legge provocherebbe due effetti. Il primo: essa proibirebbe ogni discriminazione da parte delle compagnie assicurative, sulla base delle condizioni di salute o della storia sanitaria degli assistiti; gli americani non si vedrebbero più negata la assicurazione sanitaria a causa delle loro condizioni preesistenti, o non si vedrebbero concellare la loro assicurazione nel momento in cui si ammalano. Il secondo: la legge assegnerebbe un aiuto finanziario sostanziale a coloro che non sono assicurati per il tramite dei loro imprenditori,  nonché agevolazioni fiscali per i piccoli imprenditori che intendono provvedere alla assicurazione.

Tutto ciò verrebbe pagato in larga parte attraverso il primo serio tentativo mai messo in atto di porre sotto controllo i costi crescenti della assistenza alla salute.

Il risultato sarebbe una vasta crescita di disponibilità e di sostenibilità della assicurazione sulla salute, con più di trenta milioni di americani che otterrebbero protezione, e sostegni ai redditi bassi e medio-bassi che calano in modo drammatico. Questo sarebbe un immenso cambiamento rispetto al punto cui eravamo solo pochi anni fa: ricordiamolo, non molto tempo fa la Amministrazione Bush ed i suoi alleati in Congresso bloccavano persino una modesta espansione della assistenza sanitaria ai bambini.

Teniamo anche a mente le lezioni della storia: i programmi di assicurazione sociale di solito si avviano in modi assai imperfetti ed incompleti, ma diventano migliori e più esaurienti[565] con il passare degli anni. E’ così che la Sicurezza Sociale ha avuto all’inizio grandi vuoti nei suoi compiti di protezione – e una maggioranza di afroamericani, in particolare,  sono andati in rovina per questi difetti. Ma col tempo essa è migliorata, e su di essa oggi si basa la stabilità dei trattamenti pensionistici della vasta maggioranza degli americani.

Guardate, io, a questo punto[566], comprendo la rabbia: sostenere questa legge difettosa assomiglia ad arrendersi ad un ricatto[567], perché di questo si tratta. Oppure, per usare una metafora ancora più accurata suggerita da Ezra  Klein del Washington Post, è come se stessimo pagando un riscatto a rapitori di ostaggi. Alcuni di noi, compresa una maggioranza di senatori, davvero vogliono la assistenza per i non assicurati[568]; ma perché ciò accada c’è bisogno dei voti di una manciata di senatori che considerano il fallimento della riforma come un risultato accettabile e chiedono un compenso esorbitante[569] per il loro sostegno.

La questione, allora, diventa se pagare il riscatto della resa alle richieste di questi senatori, accettando una legge difettosa, oppure rimanere fermi sulle proprie posizioni[570] e lasciar morire gli ostaggi – in questo caso la riforma della salute.

E’ sempre la storia che ci suggerisce la risposta. Considerato che che i difettosi programmi di assicurazione sociale hanno la tendenza a migliorare col tempo, la storia della riforma sanitaria suggerisce che rigettare un accordo imperfetto nella speranza di ottenere qualcosa di meglio, alla fine è una ricetta per non portare a casa niente. Per dire le cose semplicemente[571], l’America si troverebbe oggi in condizioni migliori se i democratici avessero fatto un accordo sulla riforma della salute con Richard Nixon, oppure se Bill Clinton avesse fatto un accordo con i repubblicani moderati, al tempo in cui ancora esistevano.

Ma pagare il riscatto di oggi, non incoraggerà altre “prese in ostaggio” in futuro? E’ possibile. Ma la prossima grande battaglia, sul futuro del sistema finanziario, sarà molto diversa. Se i ‘soliti ignoti’ [572] provassero ad innacquare la riforma finanziaria, io andrei “a vedere” il loro bluff: non c’è molto da perdere dalla creazione di un falso senso di sicurezza, dato che si tratterebbe di una riforma meramente cosmetica. Finirebbe davvero con l’essere peggio che niente[573].

Oltre ciò, abbiamo bisogno che ci si faccia carico dei lavori del Senato. L’ostruzionismo, e la necessità di 60 voti per chiudere i dibattimenti, non sono nella Costituzione. Si tratta di una tradizione del Senato, e quella stessa tradizione dice che la minaccia dell’ostruzionismo dovrebbe essere adoperata con parsimonia. Bene, i repubblicani hanno ormai buttato nell’immondizia quel secondo aspetto della tradizione: date un’occhiata all’elenco delle mozioni fuori tempo[574], e vedrete che dal momento in cui il Great Old Party ha perso il controllo del Congresso, esso ha perseguito l’ostruzionismo in una misura letteralmente senza precedenti. E’ dunque tempo di rivedere le regole.

Ma questo riguarda il domani. Per adesso, fate in modo che sia approvata la legge che è sul tavolo.

 

 


 

A Dangerous Dysfunction

By PAUL KRUGMAN

Published: December 20, 2009

 

Unless some legislator pulls off a last-minute double-cross, health care reform will pass the Senate this week. Count me among those who consider this an awesome achievement. It’s a seriously flawed bill, we’ll spend years if not decades fixing it, but it’s nonetheless a huge step forward.

 

It was, however, a close-run thing. And the fact that it was such a close thing shows that the Senate — and, therefore, the U.S. government as a whole — has become ominously dysfunctional.

 

After all, Democrats won big last year, running on a platform that put health reform front and center. In any other advanced democracy this would have given them the mandate and the ability to make major changes. But the need for 60 votes to cut off Senate debate and end a filibuster — a requirement that appears nowhere in the Constitution, but is simply a self-imposed rule — turned what should have been a straightforward piece of legislating into a nail-biter. And it gave a handful of wavering senators extraordinary power to shape the bill.

 

Now consider what lies ahead. We need fundamental financial reform. We need to deal with climate change. We need to deal with our long-run budget deficit. What are the chances that we can do all that — or, I’m tempted to say, any of it — if doing anything requires 60 votes in a deeply polarized Senate?

 

 

Some people will say that it has always been this way, and that we’ve managed so far. But it wasn’t always like this. Yes, there were filibusters in the past — most notably by segregationists trying to block civil rights legislation. But the modern system, in which the minority party uses the threat of a filibuster to block every bill it doesn’t like, is a recent creation.

 

The political scientist Barbara Sinclair has done the math. In the 1960s, she finds, “extended-debate-related problems” — threatened or actual filibusters — affected only 8 percent of major legislation. By the 1980s, that had risen to 27 percent. But after Democrats retook control of Congress in 2006 and Republicans found themselves in the minority, it soared to 70 percent.

 

Some conservatives argue that the Senate’s rules didn’t stop former President George W. Bush from getting things done. But this is misleading, on two levels.

 

First, Bush-era Democrats weren’t nearly as determined to frustrate the majority party, at any cost, as Obama-era Republicans. Certainly, Democrats never did anything like what Republicans did last week: G.O.P. senators held up spending for the Defense Department — which was on the verge of running out of money — in an attempt to delay action on health care.

 

 

 

More important, however, Mr. Bush was a buy-now-pay-later president. He pushed through big tax cuts, but never tried to pass spending cuts to make up for the revenue loss. He rushed the nation into war, but never asked Congress to pay for it. He added an expensive drug benefit to Medicare, but left it completely unfunded. Yes, he had legislative victories; but he didn’t show that Congress can make hard choices and act responsibly, because he never asked it to.

 

 

 

So now that hard choices must be made, how can we reform the Senate to make such choices possible?

 

Back in the mid-1990s two senators — Tom Harkin and, believe it or not, Joe Lieberman — introduced a bill to reform Senate procedures. (Management wants me to make it clear that in my last column I wasn’t endorsing inappropriate threats against Mr. Lieberman.) Sixty votes would still be needed to end a filibuster at the beginning of debate, but if that vote failed, another vote could be held a couple of days later requiring only 57 senators, then another, and eventually a simple majority could end debate. Mr. Harkin says that he’s considering reintroducing that proposal, and he should.

 

 

 

But if such legislation is itself blocked by a filibuster — which it almost surely would be — reformers should turn to other options. Remember, the Constitution sets up the Senate as a body with majority — not supermajority — rule. So the rule of 60 can be changed. A Congressional Research Service report from 2005, when a Republican majority was threatening to abolish the filibuster so it could push through Bush judicial nominees, suggests several ways this could happen — for example, through a majority vote changing Senate rules on the first day of a new session.

 

 

 

Nobody should meddle lightly with long-established parliamentary procedure. But our current situation is unprecedented: America is caught between severe problems that must be addressed and a minority party determined to block action on every front. Doing nothing is not an option — not unless you want the nation to sit motionless, with an effectively paralyzed government, waiting for financial, environmental and fiscal crises to strike.

 

“Una disfunzione pericolosa”, di Paul Krgman

New York Times, 20 dicembre 2009

 

A meno che qualche congressista non faccia il doppio gioco all’ultimo minuto[575], la riforma della assistenza sanitaria sarà approvata dal Senato questa settimana.  Io sono tra coloro che la considerano un fantastico successo. E’ una legge seriamente difettosa, occorreranno anni se non decenni per aggiustarla[576], tuttavia si tratta di un grande passo in avanti.

E’ stata, in ogni caso, una vicenda combattutissima[577]. E il fatto che sia stata una battaglia così serrata, mostra che il Senato – e, di conseguenza, il governo degli Stati Uniti nella sua interezza – sono diventati disfunzionali in modo inquietante.

Dopo tutto, i democratici vinsero alla grande l’anno passato, competendo con una piattaforma che aveva il tema della riforma sanitaria al centro e bene in vista[578]. In ogni altra democrazia avanzata, questo avrebbe dato loro il compito e le condizioni per realizzare un grande cambiamento. Ma il bisogno di 60 voti per chiudere il dibattito al Senato e per interrompere il boicottaggio – un requisito che non appare da nessuna parte nella Costituzione, ma è semplicemente una regola assunta autonomamente – ha trasformato  quello che avrebbe dovuto essere un semplice episodio legislativo in una suspense[579]. E ha consegnato ad una manciata di senatori indecisi lo straordinario potere di influenzare la legge.

Consideriamo adesso che cosa ci aspetta[580]. E’ necessaria una riforma strutturale del sistema finanziario. Dobbiamo misurarci con la questione dei cambiamenti climatici. Abbiamo bisogno di fare i conti con il nostro deficit di bilancio a lungo termine. Quali possibilità abbiamo di fare tutte queste cose – o solo qualcuna, sono tentato di dire – se per decidere alcunché sono necessari 60 voti in un Senato profondamente polarizzato?

Qualcuno dirà che è sempre stato così, che è tanto tempo che ci facciamo i conti. Ma non abbiamo avuto sempre situazioni analoghe a questa. E’ vero, ci furono ostruzionismi in passato – il più rilevante quando i segregazionisti carcarono di bloccare la legislazione sui diritti civili. Ma il sistema attuale, nel quale il partito di minoranza usa la minaccia del filibustering per bloccare ogni legge che non sia di suo gradimento, è una creazione recente.

La politologa Barbara Sinclair ha fatto i conti. Essa ha trovato che negli anni 60 “problemi connessi con dibattiti prolungati” – ovvero casi di ostruzionismo minacciato o messo in pratica – interessarono soltanto l’8 per cento della legislazione principale. Negli anni 80 la percentuale salì al 27 per cento. Ma dopo che i Democratici hanno ripreso il controllo del Congresso nel 2006 e che i Repubblicani si sono ritrovati in minoranza, i casi sono volati al 70 per cento.

Qualche conservatore usa l’argomento per il quale i regolamenti del Senato non impediromo al precedente Presidente George W. Bush di fare quello che ha fatto. Ma questo e fuorviante, sotto due aspetti.

In primo luogo, i democratici dell’era Bush erano tutt’altro che determinati ad ostacolare ad ogni costo il partito di maggioranza, come invece lo sono i repubblicani dell’era Obama. Certamente, i democratici non fecero mai niente di simile a quello che hanno fatto i repubblicani la scorsa settimana. I senatori del Great Old Party hanno cercato di impedire il finanziamento del Dipartimento della Difesa, che era sul punto di esaurire le proprie disponibilità, nel tentativo di ritardare la decisione sulla assistenza sanitaria.

Più importante, tuttavia, è il fatto che il signor Bush fosse un presidente del genere di quelli che “comprano – adesso – e – pagano – dopo”. Egli portò a termine[581] grandi sgravi fiscali, ma non cercò mai l’approvazione dei tagli alle spese che compensassero[582] la diminuizione delle entrate. Precipitò la nazione nella guerra, ma non chiese mai al Congresso di pagare per tale scelta. Aggiunse un dispendioso beneficio a Medicare, ma lo lasciò completamente scoperto di fondi. Certo, egli ottenne vittorie sul piano della legislazione; ma non dimostrò mai che il Congresso poteva fare scelte forti ed agire responsabilmente, perché si guardò sempre dal chiederlo.

Dunque, adesso che quelle scelte forti possono essere fatte, come si può riformare il Senato di modo che esso le renda possibili?

In passato, alla metà degli anni 90, due senatori – Tom Harkin e, lo crediate o no, Joe Liberman – presentarono una proposta di legge per riformare le procedure del Senato (a proposito, la Direzione del giornale mi chiede di chiarire che in un mio precedente editoriale io non intendevo fare pubblicità ad inappropriate minacce  contro il signor Liberman[583]). Sessanta voti sarebbero necessari per fermare l’ostruzionismo all’inizio di un dibattito, ma se quella votazione non avesse buon esito, un’altra potrebbe essere tenuta due giorni dopo con la maggioranza di soli 57 senatori, e poi ancora, ed eventualmente  una maggioranza semplice potrebbe chiudere il dibattito. Il signor Harkin ha detto che sta considerando di presentare nuovamente quella proposta, e dovrebbe farlo.

Ma se queste misure fossero esse stesse bloccate dall’ostruzionismo – la qualcosa è quasi sicuro che accadrebbe – i riformatori potrebbero passare ad altre opzioni. Si ricordi che la Costituzione configura il Senato come un organismo con regole di maggioranza, non di maggioranza assoluta. Quindi la regola dei 60 può essere cambiata. Un rapporto del Congressional Research Service del 2005, nel momento in cui una maggioranza repubblicana minacciava l’abolizione dell’ostruzionismo in modo da far accettare le nomine giudiziali di Bush, suggerisce molti modi nei quali questo potrebbe accadere. Ad esempio, attraverso un voto di maggioranza che cambi i regolamenti del Senato il primo giorno di una nuova sessione.

Nessuno dovrebbe armeggiare con leggerezza su procedure parlamentari definite da lungo tempo. Ma la nostra attuale situazione è senza precedenti: l’America è intrappolata[584] tra gravi problemi che devono essere affrontati ed un partito di minoranza determinato a bloccare l’attività su tutti i fronti. Non far niente non è possibile, almeno che non si voglia che la nazione se ne resti immobile, con un governo di fatto paralizzato, in attesa di crisi finanziarie, ambientali e fiscali sulle quali andare a sbattere[585].

 

 


 

Tidings of Comfort

By PAUL KRUGMAN

Published: December 24, 2009

Indulge me while I tell you a story — a near-future version of Charles Dickens’s “A Christmas Carol.” It begins with sad news: young Timothy Cratchit, a k a Tiny Tim, is sick. And his treatment will cost far more than his parents can pay out of pocket.

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Fortunately, our story is set in 2014, and the Cratchits have health insurance. Not from their employer: Ebenezer Scrooge doesn’t do employee benefits. And just a few years earlier they wouldn’t have been able to buy insurance on their own because Tiny Tim has a pre-existing condition, and, anyway, the premiums would have been out of their reach.

 

But reform legislation enacted in 2010 banned insurance discrimination on the basis of medical history and also created a system of subsidies to help families pay for coverage. Even so, insurance doesn’t come cheap — but the Cratchits do have it, and they’re grateful. God bless us, everyone.

 

 

O.K., that was fiction, but there will be millions of real stories like that in the years to come. Imperfect as it is, the legislation that passed the Senate on Thursday and will probably, in a slightly modified version, soon become law will make America a much better country.

So why are so many people complaining? There are three main groups of critics.

 

First, there’s the crazy right, the tea party and death panel people — a lunatic fringe that is no longer a fringe but has moved into the heart of the Republican Party. In the past, there was a general understanding, a sort of implicit clause in the rules of American politics, that major parties would at least pretend to distance themselves from irrational extremists. But those rules are no longer operative. No, Virginia, at this point there is no sanity clause.

 

 

A second strand of opposition comes from what I think of as the Bah Humbug caucus: fiscal scolds who routinely issue sententious warnings about rising debt. By rights, this caucus should find much to like in the Senate health bill, which the Congressional Budget Office says would reduce the deficit, and which — in the judgment of leading health economists — does far more to control costs than anyone has attempted in the past.

 

 

 

 

But, with few exceptions, the fiscal scolds have had nothing good to say about the bill. And in the process they have revealed that their alleged concern about deficits is, well, humbug. As Slate’s Daniel Gross says, what really motivates them is “the haunting fear that someone, somewhere, is receiving social insurance.”

 

Finally, there has been opposition from some progressives who are unhappy with the bill’s limitations. Some would settle for nothing less than a full, Medicare-type, single-payer system. Others had their hearts set on the creation of a public option to compete with private insurers. And there are complaints that the subsidies are inadequate, that many families will still have trouble paying for medical care.

 

Unlike the tea partiers and the humbuggers, disappointed progressives have valid complaints. But those complaints don’t add up to a reason to reject the bill. Yes, it’s a hackneyed phrase, but politics is the art of the possible.

 

The truth is that there isn’t a Congressional majority in favor of anything like single-payer. There is a narrow majority in favor of a plan with a moderately strong public option. The House has passed such a plan. But given the way the Senate rules work, it takes 60 votes to do almost anything. And that fact, combined with total Republican opposition, has placed sharp limits on what can be enacted.

 

If progressives want more, they’ll have to make changing those Senate rules a priority. They’ll also have to work long term on electing a more progressive Congress. But, meanwhile, the bill the Senate has just passed, with a few tweaks — I’d especially like to move the start date up from 2014, if that’s at all possible — is more or less what the Democratic leadership can get.

 

And for all its flaws and limitations, it’s a great achievement. It will provide real, concrete help to tens of millions of Americans and greater security to everyone. And it establishes the principle — even if it falls somewhat short in practice — that all Americans are entitled to essential health care.

 

Many people deserve credit for this moment. What really made it possible was the remarkable emergence of universal health care as a core principle during the Democratic primaries of 2007-2008 — an emergence that, in turn, owed a lot to progressive activism. (For what it’s worth, the reform that’s being passed is closer to Hillary Clinton’s plan than to President Obama’s). This made health reform a must-win for the next president. And it’s actually happening.

 

 

So progressives shouldn’t stop complaining, but they should congratulate themselves on what is, in the end, a big win for them — and for America.

 

“Novelle consolanti[586]”, di Paul Krugman

New York Times, 24 dicembre 2009

 

Consentitemi di narrarvi una storia: una sorta di versione futuristica[587] di “Un canto di Natale[588]” di Charles Dickens. Essa ha inizio con una notizia triste: il giovane Timothy Cratchit , anche noto come Tiny Tim, ha una malattia, e la sua cura costerà ai suoi genitori molto più di quanto essi possano sostenere.

Fortunatamente la nostra storia si svolge nel 2014, ed i Cratchit hanno la assicurazione sanitaria. Non per il tramite del loro imprenditore: Ebenezer Scrooge non fa beneficienza ai propri impiegati. E solo pochi anni prima essi non sarebbero stati nella condizione di pagarsi in proprio la assicurazione perché Tiny Tim aveva avuto dei precedenti e, in ogni caso, l’incremento della polizza sarebbe stato fuori dalle loro possibilità.

Ma la riforma della legislazione promulgata nell’anno 2010 aveva messo al bando la discriminazione assistenziale sulla base della storia clinica degli utenti ed aveva anche creato un sistema di sussidi per aiutare le famiglie a pagare la protezione assicurativa. E tuttavia la assicurazione non era a buon mercato, ma i Cratchit potevano sostenerla, ed erano riconoscenti. Dio ci benedica, tutti senza eccezione[589].

Va bene, questa era una storia inventata, ma ci saranno milioni di storie come questa negli anni avvenire. Pure imperfetta, la legislazione che è stata approvata al Senato giovedì e che diventerà probabilmente legge, in una versione con leggere modifiche, farà dell’America un paese molto migliore.

Perché dunque tanta gente si lamenta? Ci sono tre gruppi di critici.

In primo luogo c’è la destra fuori di testa, il popolo dei tea-party[590] e dei “tribunali della morte”[591], estremisti lunatici che non sono poi così estremi, visto che hanno preso le mosse dal cuore del Partito Repubblicano. Nel passato c’era una intesa generale, una specie di clausola implicita nelle regole della politica americana, secondo la quale i grandi partiti avrebbero alla fine preso le loro distanze dalle frange più irrazionali. Ma queste regole non funzionano più. No, in Virginia, a questo punto, non c’è più alcuna clausola sulla sanità mentale[592].

Un secondo filone di opposizione viene da coloro che la pensano come il raggruppamento che potremmo denominare “Una Fandonia Qualsiasi”[593], quello dei predicatori fiscali che di consuetudine emettono sentenziosi ammonimenti a proposito del debito crescente. A voler essere giusti, questo raggruppamente avrebbe dovuto rimanere assai compiaciuto dalla legge sanitaria del Senato, che, secondo il Congressional Budget Office, potrebbe ridurre il deficit, e che, nel giudizio dei principali economisti di sistemi sanitari, si occupa di controllo dei costi molto di più di quanto nessuno abbia provato a fare in precedenza.

Ma, con poche eccezioni, i predicatori fiscali non hanno trovato niente di buono da dire sulla legge e, nel corso della vicenda, essi hanno messo a nudo che la loro presunta preoccupazione sul deficit è, per l’appunto, una fandonia.  Come scrive Daniel Gross sullo Slate, ciò che realmente li appassiona è “l’ossessiva paura che una persona qualsiasi, in un luogo qualsiasi, riceva assistenza sociale”.

Infine, c’è stata opposizione da parte di alcuni progressisti che sono scontenti per i limiti della legge. Alcuni non si sarebbero accontentati di niente che fosse meno di un sistema con un unico centro di finanziamento[594], del genere di Medicare. Altri facevano il tifo[595] per la creazione di una opzione pubblica che stesse in competizione con le assicurazioni private. Inoltre, ci si lamenta per i sussidi che sono inadeguati, per le molte famiglie che continueranno a far fatica nel pagare le cura mediche.

Diversamente dai partecipanti ai tea-party e dai racconta-frottole, i progressisti scontenti esprimono lamentele non infondate. Ma tutte queste lamentele messe assieme, non costituiscono una ragione per il rifiuto della legge. Mi rendo conto che è una espressione abusata, ma la politica è l’arte del possibile.

La verità è che non c’è una maggioranza congressuale a favore del sistema con un unico centro di finanziamento. C’era una maggioranza risicata a favore di un progetto di opzione pubblica relativamente moderata. La Camera ha approvato una soluzione del genere. Ma, considerato l’effetto dei regolamenti del Senato, ci sarebbero voluti 60 voti per fare qualcosa di analogo. E quella circostanza, combinata con la totale opposizione dei repubblicani, ha posto limiti stretti a ciò che poteva essere deliberato.

Se i progressisti vogliono di più, essi dovranno fare del cambiamento delle regole del Senato una priorità. Essi dovranno anche impegnarsi, nel lungo periodo, per eleggere un Congresso più progressista. Ma nel frattempo, la legge appena approvata dal Senato, con poche modifiche (mi piacerebbe soprattutto che si facesse un passo avanti  sulla data di partenza al 2014, se alla fine ciò sarà possibile) è più o meno quello che la leadership democratica poteva ottenere.

Con tutti i suoi difetti e limiti, questo è un grande avanzamento. Esso fornirà un reale, concreto aiuto a decine di milioni di americani ed una maggiore sicurezza ad ognuno. Viene stabilito il principio – anche se in pratica esso non raggiunge per alcuni aspetti il suo scopo – che ogni americano ha diritto alla assistenza sanitaria essenziale.

Molte persone meritano riconoscenza per questo momento. Ciò che realmente ha reso possibile la legge è stato il fatto che il tema della assistenza sanitaria universale emerse con forza come principio imprescindibile durante le primarie dei Democratici del 2007-2008, una centralità che, a sua volta[596], dipese molto dall’attivismo dei progressisti (per quanto ciò possa valere, la riforma che è stata approvata è più vicina al progetto di Hillary Clinton che non a quello del Presidente Obama). E’ questo che fece diventare la riforma della salute una specie di risultato doveroso[597] per il futuro presidente. Ciò che poi è realmente avvenuto.

Per questo i progressisti dovrebbero smetterla di lamentarsi e dovrebbero, piuttosto, congratularsi con se stessi per quella che, alla fine, è una grande vittoria, loro e dell’America.

 

 


 

The Big Zero

By PAUL KRUGMAN

Published: December 27, 2009

Maybe we knew, at some unconscious, instinctive level, that it would be an era best forgotten. Whatever the reason, we got through the first decade of the new millennium without ever agreeing on what to call it. The aughts? The naughties? Whatever. (Yes, I know that strictly speaking the millennium didn’t begin until 2001. Do we really care?)

 

But from an economic point of view, I’d suggest that we call the decade past the Big Zero. It was a decade in which nothing good happened, and none of the optimistic things we were supposed to believe turned out to be true.

It was a decade with basically zero job creation. O.K., the headline employment number for December 2009 will be slightly higher than that for December 1999, but only slightly. And private-sector employment has actually declined — the first decade on record in which that happened.

 

It was a decade with zero economic gains for the typical family. Actually, even at the height of the alleged “Bush boom,” in 2007, median household income adjusted for inflation was lower than it had been in 1999. And you know what happened next.

 

 

It was a decade of zero gains for homeowners, even if they bought early: right now housing prices, adjusted for inflation, are roughly back to where they were at the beginning of the decade. And for those who bought in the decade’s middle years — when all the serious people ridiculed warnings that housing prices made no sense, that we were in the middle of a gigantic bubble — well, I feel your pain. Almost a quarter of all mortgages in America, and 45 percent of mortgages in Florida, are underwater, with owners owing more than their houses are worth.

 

Last and least for most Americans — but a big deal for retirement accounts, not to mention the talking heads on financial TV — it was a decade of zero gains for stocks, even without taking inflation into account. Remember the excitement when the Dow first topped 10,000, and best-selling books like “Dow 36,000” predicted that the good times would just keep rolling? Well, that was back in 1999. Last week the market closed at 10,520.

 

So there was a whole lot of nothing going on in measures of economic progress or success. Funny how that happened.

 

For as the decade began, there was an overwhelming sense of economic triumphalism in America’s business and political establishments, a belief that we — more than anyone else in the world — knew what we were doing.

Let me quote from a speech that Lawrence Summers, then deputy Treasury secretary (and now the Obama administration’s top economist), gave in 1999. “If you ask why the American financial system succeeds,” he said, “at least my reading of the history would be that there is no innovation more important than that of generally accepted accounting principles: it means that every investor gets to see information presented on a comparable basis; that there is discipline on company managements in the way they report and monitor their activities.” And he went on to declare that there is “an ongoing process that really is what makes our capital market work and work as stably as it does.”

 

 

So here’s what Mr. Summers — and, to be fair, just about everyone in a policy-making position at the time — believed in 1999: America has honest corporate accounting; this lets investors make good decisions, and also forces management to behave responsibly; and the result is a stable, well-functioning financial system.

 

What percentage of all this turned out to be true? Zero.

What was truly impressive about the decade past, however, was our unwillingness, as a nation, to learn from our mistakes.

 

Even as the dot-com bubble deflated, credulous bankers and investors began inflating a new bubble in housing. Even after famous, admired companies like Enron and WorldCom were revealed to have been Potemkin corporations with facades built out of creative accounting, analysts and investors believed banks’ claims about their own financial strength and bought into the hype about investments they didn’t understand. Even after triggering a global economic collapse, and having to be rescued at taxpayers’ expense, bankers wasted no time going right back to the culture of giant bonuses and excessive leverage.

 

 

Then there are the politicians. Even now, it’s hard to get Democrats, President Obama included, to deliver a full-throated critique of the practices that got us into the mess we’re in. And as for the Republicans: now that their policies of tax cuts and deregulation have led us into an economic quagmire, their prescription for recovery is — tax cuts and deregulation.

 

So let’s bid a not at all fond farewell to the Big Zero — the decade in which we achieved nothing and learned nothing. Will the next decade be better? Stay tuned. Oh, and happy New Year.

 

“Il grande Zero”, di Paul Krugman,

New York Times 27 dicembre 2009

 

Può darsi che noi sapessimo, ad un qualche livello inconscio ed istintivo, che sarebbe stata un’epoca di cui era meglio dimenticarsi[598]. Qualunque sia stata la ragione, siamo passati attraverso il primo decennio del nuovo millennio, senza neppure metterci d’accordo su come chiamarlo. Gli anni del Poco? Gli anni del Niente?[599] Pazienza. (E so che in senso stretto il decennio non ha avuto inizio prima del 2001. Cambia qualcosa[600]?).

Da un punto di vista economico, suggerirei di chiamare il decennio trascorso il Grande Zero. E’ stato un decennio nel quale non è successo niente di buono, e nessuna delle cose ottimistiche nelle quali avevamo supposto di credere è risultata essere vera.

E’ stato un decennio con una creazione di lavoro sostanzialmente pari a zero. Nei titoli dei giornali il numero di occupati a dicembre del 2009 figurerà leggermente superiore di quello del dicembre 1999, ma solo leggermente. E l’occupazione del settore privato è effettivamente calata: il primo decennio dagli archivi nel quale è accaduta una cosa del genere.

E’ stato un decennio pari a zero, quanto ad avanzamenti economici della famiglia tipo. Effettivamente, persino al punto più alto del presunto “Bush boom” del 2007, il reddito medio di una famiglia, corretto per l’inflazione, è stato più basso di quanto non fosse stato nel 1999. E sapete cosa è venuto dopo.

E’ stato un decennio di guadagni zero per i proprietari di immobili, persino per quelli che avevano comprato per tempo: i prezzi delle abitazioni di oggi sono pressappoco più bassi[601] di quello che erano all’inizio del decennio. E a quelli che hanno acquistato a metà del decennio – quando tutta la gente per bene si faceva beffe degli ammonimenti secondo i quali quei prezzi delle abitazioni non avevano senso, dato che eravamo nel mezzo di una bolla gigantesca – bene, posso solo dire che capisco la vostra pena. Circa un quarto di tutti i mutui in America, e il 45% nella sola Florida, sono “sott’acqua”[602], ovvero i proprietari sono debitori di somme maggiori del valore delle loro abitazioni.

Infine per molti americani – ad eccezione di un grande affare dei fondi pensione, per non dire dei presentatori[603] delle televisioni finanziarie – è stato un decennio zero nella remunerazione dei capitali azionari, persino se li si calcola senza considerare l’inflazione. Ricordate l’eccitazione quando l’indice Dow raggiunse per la prima volta quota 10.000, ed i best-sellers del tipo “Dow 36.000” predicevano che i tempi buoni avevano appena preso a girare? Bene, questo avveniva nel 1999. La scorsa settimana il mercato ha chiuso a quota 10.520.

E così, per seguitare con le misure del progresso e del successo economico, fu tutto un completo vaniloquio[604]. E’ bizzarro come ciò accadde.

Dal momento in cui ebbe inizio il decennio, ci fu un dilagante sentimento di tronfalismo economico, negli ambienti politici ed affaristici americani: una fede secondo la quale, più di chiunque altro al mondo, noi sapevamo cosa stavamo facendo.

Consentitemi una citazione da un discorso che Lawrence Summers, allora vice Segretario al Tesoro (ed ora, principale economista della amministrazione Obama), tenne nel 1999. “Se voi domandate perché il sistema finanziario americano ha successo”, egli disse, “alla fine, la mia interpretazione dei fatti mi dice che non c’è nessuna innovazione più importante di principi di contabilità generalmente accettati: questo signfica che ogni investitore ha accesso ad un sistema di informazioni comparabili; che c’è scrupolo nei managements delle imprese nei modi di resocontare e monitorare le proprie attività”. Ed egli proseguì dichiarando che era in atto “un processo costante, che è quello che fa funzionare il nostro mercato dei capitali, con la stabilità con la quale esso funziona”.

In queste parole c’è quello che Summers – e, per essere giusti, quasi chiunque fosse in una posizione politicamente rilevante all’epoca – credeva nel 1999: l’America ha una onesta contabilità aziendale; essa consente agli investitori di prendere giuste decisioni ed anche spinge i managements a comportarsi responsabilmente; il risultato è un sistema finanziario stabile e ben funzionante.

Quale percentuale di tutto ciò di è dimostrata veritiera? Zero.

E tuttavia, ciò che è stato veramente impressionante nel decennio passato, è stata la nostra riluttanza, come nazione, ad imparare dai nostri errori.

Persino nel momento in cui scoppiò la bolla dell’informatica[605], banchieri ed investitori creduloni cominciarono e gonfiare la nuova bolla immobiliare. Persino dopo che famose e rispettate società, come Enron e WorldCom, ammisero di essere state come delle corazzate Potemkin[606], con facciate tirate su a forza di finanza creativa, analisti ed investitori prestarono fede ai proclami della banche sulla loro forza finanziaria ed accettarono la pubblicità[607] di investimenti che non si potevano comprendere. Persino dopo che si innescò il collasso economico globale, e dopo essere stati messi in salvataggio con i soldi dei contribuenti, i banchieri non persero tempo nel tornare dritti indietro, alla cultura delle gigantesche liquidazioni e delle speculazioni esagerate[608]

Ci sono poi gli uomini politici. Sino a questo punto è stato difficile trovare democratici, incluso il Presidente Obama, che esprimessero a voce piena una critica[609] delle pratiche che ci hanno condotto al disastro nel quale siamo finiti. Per quanto riguarda poi i repubblicani: ora che le loro politiche del taglio delle tasse e della deregolazione ci hanno condotto in una sorta di incubo economico, la loro ricetta per la ripresa è…taglio delle tasse e deregolazione.

Dunque, lasciamoci alle spalle con un saluto non propriamente caloroso[610] il Grande Zero, il decennio nel quale non siamo migliorati nulla e non abbiamo imparato nulla. Sarà migliore il prossimo decennio? Voi restate in sintonia. E, naturalmente, Buon Anno!  

 

 

 


 

Chinese New Year

By PAUL KRUGMAN

Published: December 31, 2009

 

It’s the season when pundits traditionally make predictions about the year ahead. Mine concerns international economics: I predict that 2010 will be the year of China. And not in a good way.

Actually, the biggest problems with China involve climate change. But today I want to focus on currency policy.

 

China has become a major financial and trade power. But it doesn’t act like other big economies. Instead, it follows a mercantilist policy, keeping its trade surplus artificially high. And in today’s depressed world, that policy is, to put it bluntly, predatory.

 

 

Here’s how it works: Unlike the dollar, the euro or the yen, whose values fluctuate freely, China’s currency is pegged by official policy at about 6.8 yuan to the dollar. At this exchange rate, Chinese manufacturing has a large cost advantage over its rivals, leading to huge trade surpluses.

 

Under normal circumstances, the inflow of dollars from those surpluses would push up the value of China’s currency, unless it was offset by private investors heading the other way. And private investors are trying to get into China, not out of it. But China’s government restricts capital inflows, even as it buys up dollars and parks them abroad, adding to a $2 trillion-plus hoard of foreign exchange reserves.

 

This policy is good for China’s export-oriented state-industrial complex, not so good for Chinese consumers. But what about the rest of us?

In the past, China’s accumulation of foreign reserves, many of which were invested in American bonds, was arguably doing us a favor by keeping interest rates low — although what we did with those low interest rates was mainly to inflate a housing bubble. But right now the world is awash in cheap money, looking for someplace to go. Short-term interest rates are close to zero; long-term interest rates are higher, but only because investors expect the zero-rate policy to end some day. China’s bond purchases make little or no difference.

 

Meanwhile, that trade surplus drains much-needed demand away from a depressed world economy. My back-of-the-envelope calculations suggest that for the next couple of years Chinese mercantilism may end up reducing U.S. employment by around 1.4 million jobs.

 

The Chinese refuse to acknowledge the problem. Recently Wen Jiabao, the prime minister, dismissed foreign complaints: “On one hand, you are asking for the yuan to appreciate, and on the other hand, you are taking all kinds of protectionist measures.” Indeed: other countries are taking (modest) protectionist measures precisely because China refuses to let its currency rise. And more such measures are entirely appropriate.

 

 

Or are they? I usually hear two reasons for not confronting China over its policies. Neither holds water.

First, there’s the claim that we can’t confront the Chinese because they would wreak havoc with the U.S. economy by dumping their hoard of dollars. This is all wrong, and not just because in so doing the Chinese would inflict large losses on themselves. The larger point is that the same forces that make Chinese mercantilism so damaging right now also mean that China has little or no financial leverage.

 

 

Again, right now the world is awash in cheap money. So if China were to start selling dollars, there’s no reason to think it would significantly raise U.S. interest rates. It would probably weaken the dollar against other currencies — but that would be good, not bad, for U.S. competitiveness and employment. So if the Chinese do dump dollars, we should send them a thank-you note.

 

 

Second, there’s the claim that protectionism is always a bad thing, in any circumstances. If that’s what you believe, however, you learned Econ 101 from the wrong people — because when unemployment is high and the government can’t restore full employment, the usual rules don’t apply.

 

 

Let me quote from a classic paper by the late Paul Samuelson, who more or less created modern economics: “With employment less than full … all the debunked mercantilistic arguments” — that is, claims that nations who subsidize their exports effectively steal jobs from other countries — “turn out to be valid.” He then went on to argue that persistently misaligned exchange rates create “genuine problems for free-trade apologetics.” The best answer to these problems is getting exchange rates back to where they ought to be. But that’s exactly what China is refusing to let happen.

 

 

The bottom line is that Chinese mercantilism is a growing problem, and the victims of that mercantilism have little to lose from a trade confrontation. So I’d urge China’s government to reconsider its stubbornness. Otherwise, the very mild protectionism it’s currently complaining about will be the start of something much bigger.

 

“L’anno nuovo della Cina”, di Paul Krugman

New York Times 31 dicembre 2009

 

Questo è il periodo nel quale, per tradizione, gli esperti fanno previsioni sull’anno che viene. Le mie riguardano l’economia internazionale: io predico che il 2010 sarà l’anno della Cina. E non nel senso buono.

In effetti, i più grandi problemi con la Cina riguardano il cambiamento del clima, ma oggi intendo concentrarmi sulla politica monetaria.

La Cina è diventata una delle maggiori potenze finanziarie e commerciali, ma essa non si comporta come le altre grandi economie. A differenza di esse, la Cina persegue una politica mercantilistica, mantenendo il suo surplus commerciale artificialmente alto. E nel mondo depresso di oggi, quella politica è, per dire le cose schiettamente, rapace.

Ecco come funziona: diversamente dal dollaro, dall’euro e dallo yen, i cui valori fluttuano liberamente, la moneta cinese è fissata dalla politica ufficiale, a circa 6,8 yuan al dollaro. A questo tasso di scambio, la produzione menifatturiera cinese ha un ampio vantaggio di costi sui suoi rivali, la qualcosa conduce a grandi surplus commerciali.

In circostanze normali, l’afflusso di dollari derivante da questi surplus  dovrebbe innalzare il valore della moneta cinese, a meno che esso non sia controbilanciato da investitori privati che spingono in un’altra direzione. E gli investitori privati stanno cercando di entrare in Cina, non certo di uscirne. Ma il governo cinese restringe l’afflusso di capitali, acquistando dollari e parcheggiandoli all’estero, in aggiunta ai più di 2 trilioni di dollari di ammontare delle riserve straniere.

Questa politica è ottima per il complesso statale-industriale cinese rivolto all’export, non lo è altrettanto per i consumatori cinesi. Ma quali effetti produce sugli altri?

Nel passato l’accumulazione cinese di riserve estere, molte delle quali erano investite in bonds degli Stati Uniti, presumibilmente ci faceva un favore mantenendo bassi i tassi di interesse, sebbene ciò che noi facemmo con quei tassi di interesse bassi fu principalmente di gonfiare la bolla immobiliare. Ma adesso il mondo è inondato di denaro a buon mercato, alla ricerca di un qualsiasi utilizzo[611]. I tassi di interesse a breve termine sono vicini allo zero; quelli a lungo termine sono più alti, ma soltanto perché gli investitori si attendono che la politica del tasso zero, prima o poi, abbia termine. Gli acquisti di bonds da parte della Cina, fanno poca o nessuna differenza.

Intanto, quel surplus commerciale prosciuga[612] una economia mondiale depressa di una domanda della quale ci sarebbe molto bisogno[613].  Miei calcoli su un brogliaccio, mi dicono che nei prossimi due anni il mercantilismo cinese potrebbe arrivare a ridurre[614] l’occupazione degli Stati Uniti di circa 1,4 milioni di posti di lavoro.

I cinesi rifiutano di prendere atto del problema. Recentemente Wen Jiabao, il primo ministro, ha rigettato le lamentele degli altri paesi: “Da una parte voi chiedete l’apprezzamento dello Yuan, dall’altra state prendendo ogni genere di misura protezionista”. Per la verità, altri paesi stanno prendendo (modeste) misure protezionistiche proprio perché la Cina rifiuta di far salire la propria valuta. Per di più queste misure sono interamente appropriate.

Lo sono davvero?[615] Di solito si sentono due ragioni per le quali non si dovrebbe contrastare la Cina sulle sue politiche, e nessuna delle due regge alla critica[616].

In primo luogo c’è la affermazione secondo la quale noi non potremmo contrastare i cinesi dato che essi potrebbero scombussolare[617] l’economia americana con la vendita sottocosto[618] delle loro riserve di dollari. Essa è del tutto sbagliata, e non solo perché comportandosi così i cinesi infliggerebbero grandi perdite a se stessi. In senso più ampio, le stesse cause che rendono in questo momento il mercantilismo cinese così dannoso, comportano anche[619] che essa abbia poca o nessuna influenza finanziaria[620].

Lo ripeto: in questo momento il mondo è inondato di denaro a buon mercato. Così, se la Cina cominciasse a vendere dollari, non ci sarebbe alcuna ragione per pensare che questo accrescerebbe in modo significativo i tassi di interesse negli Stati Uniti. Una tale azione probabilmente indebolirebbe il dollaro nel confronto con le altre valute; ma per la competitività e il mercato del lavoro americani quella sarebbe una cosa buona, piuttosto che cattiva.  Così, se i cinesi si disfacessero dei dollari, noi dovremmo mandar loro una nota di ringraziamento.

In secondo luogo, c’è la affermazione secondo la quale il protezionismo sarebbe, in ogni circostanza, una cosa negativa. Se è questo che voi pensate, voi avete imparato “Econ 101[621]” dalle persone sbagliate; perché quando la disoccupazione è elevata e il governo non può ristabilire condizioni di piena occupazione, non si applicano le regole usuali.

Consentitemi una citazione da una pagina classica di Paul Samuelson, che più o meno è il creatore dell’economia moderna: “Al di sotto della piena occupazione … tutti i deprecati[622] argomenti mercantilistici” – si riferisce all’affermazione secondo il quale quelle nazioni che sussidiano le esportazioni, in effetti rubano posti di lavoro ad altri paesi –  “risultano essere validi”. Egli, prosegue poi argomentando che tassi di scambio persistentemente incongrui[623] “creano veri problemi agli apologeti del libero mercato”. La migliore risposta a questi problemi è quella di riportare i tassi di scambio al punto in cui dovrebbero stare. Ma questo è proprio quello che la Cina si rifiuta di lasciar accadere.

La morale della favola è che il mercantilismo cinese è un problema crescente, e le vittime di questo mercantilismo hanno poco da perdere da uno scontro commerciale. Per questo, è urgente che il governo cinese riconsideri la sua ostinazione. Altrimenti il più timido dei protezionismi, cioè la attuale tendenza a lamentarsi, sarà l’inizio di qualcosa di molto più grande.

 



[1] Skewed incentives. Lett. “incentivi devianti”.

[2] You pretty much had things nailed down. Lett. “voi avevate cose abbastanza (ben) fissate/(ben) inchiodate”.

[3] A global run on the  system.

[4] Havoc.

[5] Compagnia Assicurativa del Deposito Federale.

[6] Good stuff. Lett. “Buona roba”.

[7] Didn’t hold on… Lett. “Non si è tenuto stretto a ..

[8] Sold off.

[9] Tellingly. Da “telling”, “efficace, energico, espressivo, eloquente”.

[10] About addressing. “To address” significa anche “concentrarsi, impegnarsi”.

[11] Punts on the question of  how to keep it from  happening all over again. Lett. “punta sul tema di come esso si astenga dall’accadere ancora dappertutto”.

[12] And even as it stands. Una possibile traduzione letterale è:  “e nello stesso momento in cui ciò resta valido”.

[13] Needs to come down. Lett. “ha bisogno di crollare addosso”.

[14] Are determined to party like it’s 1993. “Party” può essere un verbo, come in questo caso, con il significato di “divertirsi in modo estremo e senza restrizioni, indulgere nel piacere”. In questo caso, inoltre, potrebbe esserci un riferimento alla  frase di una canzone di Prince”tonight I’m gonna  party like it’s 1999”.

[15] Spoilers.

[16] They overwhelmingly favor precisely the Democratic plans.

[17] I use scare quotes. Lett. “Io utilizzo virgolette di sgomento”.

[18] Balking democrats. Lett. “democratici che si impennano, che si tirano indietro”.

[19] Or by carrying out a bait-and-switch. Lett. “o mettendo in atto un prodotto-civetta”.

[20] For the record. Lett. “per l’archivio”.

[21] Was a deal-breaker. “Deal-breaker” significa quella condizione o mentalità che fa saltare ogni possibilità di accordo. Si usa anche “deal-killer”.

[22] At the end of the day, the public plan wins the day. Lett. “Alla fine del giorno, il piano pubblico vince la giornata”. E’ una espressione idiomatica che non potrebbe essere tradotta letteralmente in italiano, anche se il senso è chiaro.

[23] Medical-industrial complex. Penso che si possa tradurre “medical” con “assicurativo” ed “industrial” con “farmaceutico”.

[24] Relatively conservatives Democrats.

[25] Kingmakers.

[26] The Policy Wonk

[27] Is a joy to behold. Lett. “è una gioia a vedersi”

[28] Post-partisan.

[29] Where on display.

[30] He waffled. Lett. “si è agitato, ha fluttuato, ha ondeggiato”.

[31] Linee di discrimine.

[32] And that’s exactly how it’s playing out. Lett. “E quello è esattamente il modo in cui si sta interpretando sino in fondo”.

[33] E’ una traduzione relativamente libera della espressione: “The point is that if you are making big policy changes,the final form of policy has to be good enough to do the job”. 

[34] Reform isn’t worth having.

[35] We really, really don’t want.

[36] Boilerplate. Stranissima parola, che orginalmente significa “lamiera per caldaie”, ma ha acquisito un significato generale di “modello, schema che può essere riprodotto all’infinito etc.” (probabilmente il percorso è stato: “lamiera”, “sagoma”, “modelli di sagome” e così via). In questo caso ha il senso aggiuntivo di “modello abusato, stereotipo”.

[37] Have to hang tough.

[38] To stay on track. Lett. “stare sul solco, sulla traccia, sul binario”.

[39] Yes, the perfect is the enemy of the good, but so is the not-good-enough-to-work.

[40] Deniers.

[41] I could’nt help thinking. “To help” può avere il significato di “fare a meno di”.

[42] The grim turn taken by. Lett. “la triste/torva/sinistra svolta presa da ..”.

[43] Clear and present.

[44] Well, sometimes even the most authoritative analyses get the things wrong.

[45] Disreputable. Lett. “malfamato, disonorevole”.

[46] Perpetrated.

[47] Cabal.

[48] Made a point of misrepresenting…  Lett. “hanno considerato importante del travisamento…”.

[49] Isn’t politics as usual?

[50] Let’s do the math.

[51] We’re … in the hole.

[52] And the deeper the hole gets, the harder it will be to dig ourselves out.

[53] Ouright. Lett. “aperto, franco, completo, intero”.

[54] Lost decade, anyone? Lett. “Decennio perso, qualcuno?”. Suppongo che quel “qualcuno?” sia un modo familiare per significare “qualcuno ricorda?”.

[55] A great deal of misery

[56] Neither do I. Lett. “neanch’io”.

[57] Depressingly familiar

[58] Is being undone. Più lett. “stanno per essere rese incompiute”

[59] To ramp up. Lett. “arrampicarsi”, ma anche “scatenarsi, fare il diavolo a quattro”.

[60] Unconstrained. Lett. “non costretti”.

[61] Are playing a distinctly unhelpful role. Lett. “stanno giocando un ruolo distintamente non collaborativo”.

[62] Displaces. Lett, “sposta, rimuove, sosituisce, soppianta”

[63] The stakes.

[64] Your political people. Lett. “il (t)suo popolo politico”.

[65] “HELP is on the way”. HELP è la denominazione delle cinque principali proposte di riforma sociale  della amministrazione Obama.”On the way”, lett., “sulla strada”.

[66] “scored”. Significa: “segnare i punti, dare il voto”.

[67] Health, Education, Labor and Pensions (HELP).

[68] downbeat

[69] Passed on. Lett. “fatti passare a carico”

[70] Putting these observations together.

[71] What sounds at first like a daunting prospect

[72] Now, about those specifics

[73] That would limit premiums as a share of income

[74] That looms so large

[75] Is now within reach. Lett. “è ora sotto il tiro”

[76] Who have been holding up reform. Lett. “che hanno sostenuto la riforma”. L’aggiunta del “pure” nella traduzione, serve ad eliminare un apparente contraddittorieta del testo. In realtà, il senso è che quei senatori la hanno sostenuta “lamentandosi”.   

[77] Will get the centrists on board

[78]Or at least get them to vote for cloture”. “Cloture” è una espressione di origine francese che nel linguaggio parlamentare americano significa “regola per limitare o interrompere il dibattito in un corpo deliberativo”.

[79] A.M.A. = American Medical Association

[80] killed

[81] We’re right on the cusp. Lett. “Siamo proprio sulla cuspide”, ma anche “orlo, soglia etc.”.

[82] Will be on the way. Lett. “sarà sulla strada”.

[83] Garden-variety. Significa “insignificante, banale, ordinario” (lett. “varietà da giardino”).

[84] Fiscal stimulus. In queste traduzioni traduciamo “stimulus” con “sostegno, programma di sostegno”. Inoltre, il termine “fiscal” non è sempre traducibile con “fiscale, attinente alle tasse”; spesso ha il significato di qualcosa che “attiene alla finanza pubblica”.

[85]The politics of  fiscal policy are very different from the politics of monetary policy”. Ovvero: le politiche della spesa pubblica di competenza governativa, sono molto diverse dalle politiche monetarie di competenza della Fed.

[86] Bitter and unrelenting.

[87] Have treated.

[88] Walked back Mr. Biden’s admission. “To walk back” significa lett. “tornare a piedi”.

[89] Whiff. Lett. “zaffata, odore”

[90] Attitude.

[91] What Mr. Obama needs to do is  level …

[92] Race relations. Può darsi che il riferimento sia alle “relazioni razziali” all’interno degli USA, come alle “relazioni tra i popoli”. 

[93] Creep up on.

[94] A bit at a time. Lett. “un po’ alla volta”.

[95] What it takes to head off. “To head off” = deviare, stornare, prevenire.

[96] Are sitting still. In questo caso “still” è aggettivo, “Fermo, immobile”.

[97] A slow-motion human and social disaster.

[98] If the consensus of the economic experts is grim.”Grim” significa “arcigno, scuro, torvo”. Lo interpreto nel senso della “malavoglia” perché mi pare questo il contrasto che si vuole indicare con il pessimismo terribile degli esperti dell’ambiente. Pututtavia, si tratta di “consensus” in entrambi i casi.

[99] Leading, ovvero “che guidano”.

[100] A creeping threat rather than..  Lett. “una minaccia strisciante piuttosto/preferibilmente/ più facilmente che…”

[101] Inspiring. Lett. “ispirato”

[102] Faces steep odds. Lett. “fa i conti con una ripida, scoscesa  probabilità”

[103] Supply-siders

[104] Climate-change-deniers

[105] Is very good at what it does.

[106] Slicing, dicing and repackaging. Lett. “fare a fette, tagliare a dadini e rimpacchettare”.

[107] Delivered. Significa anche “compiuto, portato a termine”.

[108] With a straight face. Lett. “con la faccia seria”.

[109] unsellable

[110] Goldman didn’t believe its own hype.

[111] Goldman made profits by  playing the rest of us as suckers.

[112] Highfliers. Lett. “coloro che mirano, volano in alto”.

[113] To steer. Significa: “guidare, manovrare, dirigere, dirigersi, rivolgersi”

[114] Have skewed. Lett. “hanno deviato”

[115] To parse. Generalmente “analizzare”, più precisamente “fare l’analisi logica, o grammaticale”.

[116] Competing claims.

[117] Goldman very much included. Lett. “Goldman moltissimo inclusa”

[118] Financial backstop

[119] Are still in  the drawing-board stage. “Drawing-board” è il “tavolo di disegno”.

[120] A few years down the road. Lett. “pochi anni giù nella strada”.

[121] Si tratta del nome che è stato dato ad un specifica crisi bancaria di quel periodo.

[122] Financial superstars

[123] Costs and compassion. “Compassion” è una espressione frequente nel linguaggio politico americano, con una gradazione di significato un po’ diversa da “compassione”, più simile ad “umanità, atteggiamento umano”.

[124] Panned. “To pan” ha il significato familiare di “criticare severamente”.

[125] Shame on them.

[126] Impressive command

[127] After all, you just go to an emergency room. Il senso poggia sul significato che in questo caso si intende dare a “just” (proprio, esattamente, appena, solo etc.).

[128] Fee-for-service. Lett. “tariffe per il servizio”.

[129] A dress rehearsal

[130] Would-be

[131] Will skyrocket

[132] Coalizione del Cane Blu.

[133] Nel testo questo viene semplicemente definito come il pilastro dei “mandates”. Nel linguaggio tecnico del dibattito sulla legge, il “mandato” (ovvero, la responsabilità, ciò a cui si è ‘delegati’) indica ciò a cui devono attenersi le imprese e gli utenti.

[134] Cost savings elsewhere. Lett. “risparmi sui costi altrove”.

[135] Boils down to worrying. “To boil down” significa “ridurre all’essenziale, condensare, concentrare”

[136] And it’s tempting to stop right there, and cry foul. “Cry foul” ha il significato di “gridare allo scandalo”: lett. “gridare osceno”.

[137] And causing the cost of subsidies to balloon. “Balloon” significa “pallone, mongolfiera” e “to balloon” significa “gonfiare, gonfiarsi come un pallone”.

[138] Lett. “Centro per una politica reattiva (oppure: sensibile)”. Una associazione culturale e di ricerca.

[139] Some commitment. “Commitment” significa “coinvolgimento, adesione, impegno”, ma in una misura maggiore che non nel verbo “to involve”.

[140] Knock away: Lett. “abbattere via”.

[141] Wasn’t having any of it. Lett. “non era in possesso di niente di ciò”.

[142] A radical step.

[143] Our system works at all. Lett. “il nostro sistema minimamente funziona”. Cioè, il sensodi “at all”  non è “dopotutto” (“after all”), ma “in una misura minima, modesta”, che in un italiano familiare può essere tradotto  “in qualche modo”.

[144] Left to their own devices. Lett. “lasciati alla loro immaginazione”.

[145] Horror stories are  legion.

[146] “underwriting”. E’ una espressione tecnica che definisce varie attività, tra le quali quella della condizioni della “sottoscrizione”, che a loro volta dipendono da una valutazione/quotazione delle condizioni di salute di chi si vuole assicurare.

[147] “single payer”: Lett. “pagatore unico”.

[148] But time and chance happen to us all. Lett: “Ma il tempo e il caso toccano a noi tutti”.

[149] Wind-eyed socialist.

[150] Never have, never will

[151] It’s as american as, well, Medicare.

[152] Rewarding bad actors. Lett. “Ricompensando i cattivi attori”. La chiave del titolo è contenuta nella frase finale, che peraltro autorizza a interpretare “bad actors” ne senso di “coloro che non svolgono bene la loro funzione sociale”.

[153] Fleecing. Lett. “tosare”.

[154] High-fliers

[155] What are taxpayers supposed to think when these welfare cases cut nine-figure paycheks? (Paychek = assegno dello stipendio).

[156] Ahead of the summer driving season.

[157] Raise money. Lett. “ad aumentare soldi”.

[158] Outsmarting. “To outsmart” = essere più furbo, vincere con l’astuzia

[159] Uses up

[160] Run-of-the-mill. E’ una espressione idiomatica che significa “comune, quotidiano, ordinario”. Lett. “il giro del mulino”.

[161] For pay packages of wide range.

[162] Supersized incomes

[163] The big bucks go to bad actors. Lett. “Le grandi somme (di dollari) vanno ai cattivi attori”. Vedi 1.

[164] Speak his mind.

[165] Have been drowning out. “Drown out” significa “impossibilitato ad ascoltare (o a parlare) per il tanto chiasso”.

[166] To play down.

[167] The mob aspect. Lett. “L’aspetto di folla, di banda, di gentaglia”.

[168] Portrayed. Lett. “descritti, ritratti”

[169] Astroturfing è una parola inglese che descrive la pratica di creare un apparente ed artificiale consenso attorno ad un’idea o ad un prodotto (il termine ha una spiegazione  in opposizione a “grass-roots”, che significa “popolare”, ma letteralmente “che ha radici nell’erba”. Di contro, “astroturf” è la denominazione del “campo sintetico”, e dunque è il contrario di “autentico, popolare” e sta a significare “artificiale”). L’Astroturfing avviene tramite campagne organizzate e pensate in modo da apparire del tutto spontanee. Pratiche di questo genere sono state spesso individuate nella propaganda politica e nelle campagne di marketing e non di rado prevedono il reclutamento di persone pagate per produrre false impressioni positive.

 

[170] E’ il nome della prima associazione. Traducibile con “fabbrica della libertà”.

 

[171] Conservatori per i diritti del paziente.

[172] You can’t make this stuff up. “To make up” può anche significare “riconciliarsi, fare la pace”; “this stuff” significa anche “questa roba”. Lett. “Voi non potete fare la pace con questa roba”.

[173] Florida-style rent-a-mobs. Lett. “lo stile della Florida di prendere in affitto le folle”.

[174] Birther. Effettivamente “nativi” venivano definiti gli americani nati in America, con l’eccezione naturalmente degl indiani, di contro ai flussi imponenti degli immgigrati europei.

[175] Big Governament. Non mi pare che esista, in italiano, una espressione utilizzabile per esprimere il concetto keynesiano di un periodo di “grandi azioni statali” per l’economia. Merita di essere un neologismo.  

[176] Once. Lett. “una volta che …”

[177] Trend lines

[178] Are way down. Ovvero: “siono molto giù”, similmente a “way behind”, “molto indietro”.

[179] Has stepped in

[180]didn’t take an hands-off[180] attitude”. Hand-off è, nel rugby,  il passaggio della palla ad un compagno. In questo caso: stare con le mani in mano, passare il problema ad altri.

 

[181] Last and probably least.

[182] But by no means trivial.

[183] Deliberate efforts.

[184] To pump up. Lett. “per gonfiare”.

[185]And aren’t you glad that right now the government is being run by people that don’t hate governmment?”

[186] It boils down. Lett. “esso si condensa”.

[187] Repubblican death trip. Traduzione un po’ libera. Lett. “Il passo falso della morte dei repubblicani”. 

[188] Bring themselves to declare accusations inequivocally false.

[189] eagerly

[190] Wild rumor manifactured

[191] Will shuffle

[192] Voluntary end-od-life counseling. L’espressione “end-of-life counseling” nei dizionari viene tradotta con il termine italiano “cure terminali”. Preferisco “trattamenti”, perché mi pare che in questo caso si tratti più di “staccare la spina” – per utilizzare un’altra simpatica espressione della campagna repubblicana – che non di un altro genere di cure, peraltro  dispendiose e “compassionevoli”. 

[193] “nuts”. Ovvero: “da pazzi, da rincoglioniti”.

[194] peddlers

[195] “advance directives”. L’espressione “anticipazione”(anziché l’incomprensibile “avanzamento”)  è forte, ma in fondo è realistica.

[196] “in the event that you are incapacitated or comatose”. Lett. sarebbe “nel caso che voi foste incapacitati o in coma”. Data la “sensibilità” italiana al tema, ricorro ad una espressione più estrema.

[197] Has been flat-out despicable

[198] Outpouring. Lett. “scarico, emissione, scolo, fontana”

[199] A deer-in-the-headlights quality.

[200] Can’t wrap their minds around that … Lett. “non hanno potuto avvolgere la loro menti…”

[201] As they keep expecting the nonsense. Lett. “come se continuassero ad aspettare il controsenso”.

[202] Blooper. “Errore imbarazzante”

[203] Dystopian. “Distopia” è un termine tecnico che significa “la dislocazione di un viscere o di un tessuto fuori dalla sua normale sede”. In americano ha acquisito il significato generale di una “società caratterizzata da miseria umana, squallore e oppressione”.

[204] Screamers. Da “to stream”, “strillare, urlare”.

[205] Lederhosen wearing holey-cheese eaters. “Lederhosen” sono i tipici calzoni corti con bretelle bavaresi; “holey-cheese” è il formaggio con i buchi.

[206] A hellhole socialist. Lett. “un abisso infernale socialista”.

[207] To Swissify America. Lett. “per ‘elvetizzare’ l’America”.

[208] Straightforward.

[209] Stands in the way

[210] Medical-industrial. “Industrial” significa anche settore finanziario, in questo caso più precisamente assicurativo.

[211]Gullibility”. Definizione di “WorldReference.com”: “tendenza a credere con troppa faciloneria e conseguentemente ad essere ingannati”.

[212] backlash

[213] proxy

[214] Anything short of true  single-payer. Lett. “Ogni cosa (più) corta di un vero pagatore unico”.

[215] Settled some of those qualms. Lett. “Calmava alcuni di quegli scrupoli/rimorsi/nausee”.

[216] “the inspiring figure progressives thought they had elected”. Il riferimento è al Presidente Obama, “ispirata personalità” che le persone progressiste “pensavano di aver eletto”.

[217] Comes across.

[218] “Bending the curve”. Lett. “flettendo la curva”. Si tratta di una terminologia tecnicistica (il riferimento è alla curva ‘gaussiana’), che tra l’altro viene usata nella valutazione dei punteggi di classi scolastiche. Forse è anche utilizzata in alcune valutazioni di economia sanitaria.

[219] On such fraught questions. “Fraught” = “pieno di, denso”.

[220] Kid-gloves tratment. Lett “trattamento con i guanti di capretto”.

[221] Have been punked. “Punk”, stando ai dizionari, è uno dei tanti aggettivi-sostantivi dei quali si fa un uso verbale. Può significare “miserabile, pessimo, orribile, da quattro soldi”, oppure “sciocchezza, stupidaggine, cosa senza valore”, oppure, in americano “teppista, vagabondo, giovinastro”.

[222] Feeds the death panel smear

[223] That he can be rolled. Tra i vari significati possibili, nella sua forma passiva, “To be rolled” può essere tradotto con: “essere arrotolati, essere ruzzolati, essere portati, essere dondolati”etc.

[224] Took their trust for granted

[225] Have gained traction

[226] Leaving the private sector to its own devices. Lett. “lasciare il settore privato ai suoi propri trucchi, espedienti”.

[227] Dramatically. Che significa, oltre che “drammatico”, anche “teatrale”, nel senso di “spettacolare”.

[228] In the thrall. Lett. “nella schiavitù, nella subordinazione”

[229] The heedless self-interests.Lett. “gli incuranti propri interessi”.

[230] But it’s much the same

[231] Losing steam. Lett. “vapore che si perde”

[232] Infusions. Lett. “infusioni, afflussi”.

[233] Roadblock. Lett. “blocco stradale”

[234] Bully pulpit. Lett. “il pulpito prepotente, bullesco”. Espressione curiosa, che però ha anche un preciso significato costituzionale, perché indica il requisito presidenziale del “parlare agli americani”.

[235] That’s irinic, in a way.

[236] For better or for worse

[237] That fell flat. Lett. “Che ha fatto fiasco”

[238] We would be better off. “To be off” significa “andare via”.

[239] Stck. Tra l’altro: “impantanato, incastrato, arenato, bloccato”.

[240] We’re incurring

[241] By looking the ratio

[242] Wich is, well, Italy. Si tratta di intuire se quel “well” abbia un significato ottimistico (traducibile con “bene, evviva”), ovvero pessimistico. “Per l’appunto” propende per la seconda interpretazione, in connessione con il fatto che si sta parlando di “governi deboli”.

[243] Are successufully demagogued. “Demagogue” nel vocabolario è un sostantivo, ma in americano corrente può diventare un verbo, per giunta transitivo!

[244] “pull the plug on grandma”. Si è trattato di un aspetto della campagna della destra americana contro la riforma, accusata anche di costringere, per effetto delle misure di contenimento dei costi,alla morte precoce dei vecchi (decisa da burocratici “tribunali della morte”!). 

[245] Si tratta di una espressione diventata famosa, che utilizzò Bill Clinton nel corso di un dibattito nel quale si era spazientito per  interlocutori che si ostinavano a non capire una spiegazione.

[246] Missing Richard Nixon. Lett. “ Lo scomparso, l’introvabile Richard Nixon”.

[247] Balked at doing back .

[248] Warped.

[249] Corporate cash.

[250] I wonder. “To wonder” significa “meravigliarsi” ma anche “chiedersi”.

[251] Oversee rates.

[252] Ensure adequate disclosure. “Disclosure” significa “rivelazione”, quindi “informazione, trasparenza”.

[253]So what happened to the days, when ..”. Lett. “Cosa e cadduto, dunque, a quei giorni, quando ..”

[254] Linchpin.

[255] Unleash misleading ads.

[256] Grass-roots. Significa “di base, popolare”, riferito a movimenti etc.Lett.: qualcosa che ha radici nell’erba.

[257] Bottom-line. Che significa sia “morale della favola” che “profitti”.

[258] A political behemoth.

[259] What it comes down to it is the money.

[260]Gantlet”, in effetti, è una forma intraducibile di punizione che una volta veniva adoperata, consistente nel far passare il ‘condannato’ in mezzo a due fila di individui che lo colpivano con colpi di bastone o di frusta.

[261]Actually turning this country around ..”. Lett. “In realtà riportare indietro questo paese ..”.

[262] A siege warfare.

[263] Entrenched.

[264] “Baucus and the threshold”. Si intende, come chiarisce il testo, della “soglia” di un testo di riforma sanitaria accettabile.

[265] How bad does a bill have to be to make it too bad to vote for?

[266] Isn’t here quite. Lett. “non è qua abbastanza”.

[267] As it stands. Lett. “Come sta in piedi, come si trova”.

[268]Reformers are going to have to make some hard choices about the degree ofi disappointment they’re willing to live with”. E’ un complicato giro di parole che alla lettera significa: “I riformatori stanno per procurarsi quache forte scelta a proposito del grado di delusione con il quale sono disponibili a convivere”.

[269] A single- payer system.

[270] To cajole and coerce. Lett. “A persuadere con le lusinghe ed a coercire”.

[271] If we where starting from scratch (scratch = unghia, nonnulla, zero).

[272] “employer mandate”. Lett. “mandato del datore di lavoro”.

[273] Gets too clever.In questo caso il senso, tra gli infiniiti  possibili, di “to get” è simile ad “ottenere”

[274]Simple pay-or-play rule”. L’espressione “pay-or-play” è stata frequentemente utilizzata dai giornali per definire l’alternativa tra il pagare la copertura assicurativa direttamente, o il partecipare ai costi di una assicurazione “qualificata” che si paga il lavoratore, come spiegato nel capoverso precedente. Non è facile capire il senso in cui si utilizza il secondo termine (to play = giocare). La traduzione propone una corrispondenza piena al meccanismo sopra descritto.

[275] Fixing this. To fix significa, “fissare”, ma anche “riparare, aggiustare”, nonché “preparare, fare da mangiare”.

[276] Progressives should and will walk away. Lett. “i progressisti dovrebbero andarsene e se ne andranno”.

[277] Reform or bust. To bust significa “far scoppiare, far fallire, rovinare” (“bust” come aggettivo significa “rotto”, come sostantivo “busto”).

[278] Some restraint.

[279] Paycheks. Che significa “assegno della paga, salario, stipendio”; ma è chiaro che qua non ci si riferisce al trattamento degli impiegati.

[280] Deploying : “dispiegando”.

[281] To take on. Lett. “accollarsi”, ma ha poi significati variabili in relazione ai contesti.

[282] Credit where credit is due. Lett. “Credito dove è atteso credito”. Dalle fasi seguenti, si evince che l’espressione è lo spot utilizzato dalle lobbies contro la riforma finanziaria.

[283] In a nutshell. Lett. “in un guscio di noce”.

[284] Taking down. Lett. “portando giù”.

[285] Claw back.

[286] Soundness.

[287] To cap executive.

[288]Quarterback” è una posizione nello schieramento della squadra di football americano, occupata dal giocatore che ha la responsabilità delle offensive e dei rilanci, ed ha anche,  in pratica, le funzioni di capitano.

[289]Populistic stance”. Traduco “posizione così popolare”, perché in Italiano il termine “populistico” ha un significato apertamente negativo, mentre in americano ha una sfumatura leggermente più ‘pragmatica’. Questo, del resto, è il concetto attorno al quale ruotano  questi due capoversi.

[290] Populism. Vedi la nota precedente.

[291] You can make case. “To make one’s case” significa “sostenere la propria tesi”.

[292]  Cap-and-trade = letteralmente; “soglia/limite di emissione-e-commercio”. In sostanza, un meccanismo per il quale esistono limiti il cui rispetto comporta l’ottenimento di riconoscimenti o licenze, che possono essere reinvestiti od anche venduti ad altre aziende. Si può guadagnare partendo  da tecnologie virtuose o comprare, partendo da tecnologie più arretrate.  

 

[293] Sticking point = Punto di arresto, punto morto.

[294] Usual suspects.Vedi pag. …

[295] Is wearing thin. Wearing, come perticipio presente di “to wear” significa “indossare” ed anche “logorarsi”. Wearing ha anche, come aggettivo, il significato di “fastidioso” (ma, con l’aggettivo “thin”, dovrebbe essere usato nella forma avverbiale, dove è preferito “fastidiously” o “irritatingly” o “painstakingly”).

[296] Deniers.

[297] Auctioneer.

[298] In their own way. Lett. “nel loro senso proprio”

[299] But it won’t cost all that much either.

[300] Make a dent.

[301] Trumps. Lett. “suonare la fanfara, suonare la grancassa, vincere”.

[302] We’re hurtling.

[303] Delusional raving.

[304] Cranks.

[305] Feedback loops: Lett. “I circoli della retrozione”.

[306] Far more carbon locked in the permafrost.

[307] Gifted with the ability.

[308] Cursed with the inability.

[309] Dust Bowl. E’ una espressione che ha un preciso significato geografico (ma può significare anche “contadino del Texas”). Lett. “conca polverosa”.

[310] Choking dust.

[311] Obligatory disclaimer. “Disclaimer” è un termine principalmente di uso giuridico, che significa “liberatoria, esonero di responsabilità”. In questo contesto se ne fa un uso ironico, riferito alla obbligata autocensura con la quale, di questi tempi, si dà notizia di eventi atmosferici sconfortanti, negando ‘per il momento’ ogni nesso con il fenomeno del riscaldamento globale.

[312] “Political and policy concern”. Letteralmente sarebbe: “preoccupazione politica e della politica”. La differente intensità dei due termini,  però, è desumibile  da espressioni quali “policy science”, che significa “sciense strategiche”.  

[313] 90 gradi Fharehneit, che corrispondono a circa 32 gradi Celsius.

[314] Wobbles. “Traballii”.

[315] It would shuffle the economic deck.

[316] Vested interests. “Vested intest” = “interesse acquisito”. “Vested interests” = “poteri forti”.

[317] Has extolled. Lett. “ha lodato”.

[318] At the back burner. Espressione idiomatica che si usa per indicare qualcosa che viene rimandato. Lett. “al fornello di fondo”.

[319] “Movers and shakers”, espressione idiomatica particolarmente riferita al mondo politico o affaristico.

[320] When it comes to ..

[321] I keep hearing. Lett. “Continuo a sentire”

[322] Gruppo dei consiglieri economici della amministrazione.

[323] scarring

[324] Blighted. Lett. “fatte avvizzire”.

[325] Dollars and cents implications.

[326] Going to waste. Lett. “che vanno in scarto, in spreco”.

[327] The path of output.” Il sentiero/ la traiettoria del risultato/del profitto”

[328] Beleauguered.

[329] Offset.

[330] Upfront costs. Lett. “I costi anticipati”.

[331] “Is a hard sell politically”. Lett. “E’ una difficile vendita, politicamente”. Ma “to sell”, oltre che “vendere”, significa anche “fare accettare, convincere”.

[332] of a bratty.

[333] Spite. Lett. “dispetto” (che è una traduzione accettabile sulla vicenda dei festeggiamenti per le mancate Olimpiadi,ma un po’ debole per le questioni più serie che vengono ora introdotte).

[334] 401(k) e una voce del Codice delle Entrate degli Stati Uniti, che definisce uno speciale programma previdenziale alimentato da risparmi dei lavoratori trattenuti dal fisco. 

[335] Ruthless, che significa più propriamente “spietato, crudele”.

[336] Scorched-earth tactics.

[337]Was a party to murder”. “Party”, oltre che “partito, gruppo, festa, pattuglia etc.”, può significare anche “persona”. Quindi, la traduzione potrebbe essere anche: “fosse una persona da uccidere”. Ma. in un’altra occasione, ho trovato un riferimento ad accuse inverosimili ai Clinton, di far parte di una accolita addirittura di assassini. Scelgo questa seconda possibilità, attenuando il “to murder” in “criminale”.

[338] Shut down federal governament. Lett “chiuse il governo federale”.

[339] To bully.

[340] No longer buys. “To buy”, oltre che acquistare,può  significare “abboccare, bersi”.

[341] Big Government.

[342] Paeans.

[343] Will seize at hand any club. “Club” non significa solo “gruppo di persone”, ma anche “clava”.

[344] A slow-motion erosion.

[345] “by the penny-wise, pound-foolish behavior”. Lett. “da una condotta ‘saggia con il penny e folle con la sterlina’ ”. Espressione idiomatica generalmente usata per definire una condotta finanziaria illogica ed imprudente.

[346]Across the board”

[347] Mundane measures.

[348] Creaking.

[349] on stripping much of …

[350]As a result, education is on the chopping block”. Lett. “Come risultato, l’educazione è finita sul ceppo (per la decapitazione)”.

[351]La Gazzetta dell’Educazione Superiore”: una rivista.

[352] The plight

[353] Community college. In America l’espressione indica appunto gli istituti per la formazione professionale, mentre in Inghilterra è una scuola professionale di educazione per gli adulti.

[354] Stepping stone

[355] “to undo the sins of February”. Lett. “sfare i peccati di febbraio”.

[356] “We don’t have to call it a stimulus”. “Stimulus” è il nome convenzionale che si è dato al programma di sostegno dell’economia di Obama.

[357] Wasting asset.

[358] “Went off gold”. Lett. “se ne andarono (dall’) oro”.

[359] The fear is subsiding

[360] Tighter money. Lett. “una moneta più stretta”.

[361] So as non to step on. “To step on something”, significa “calpestare qualcosa”; “to step on gas” significa  accelerare.

[362] “Standard policy rules of thumb”. “Rules of thumb”, che letteralmente significa “regole del pollice”, sta per “regole generali, consuete”.

[363] “Should be left on hold”. Lett. “dovrebbero essere lasciati sulla presa”.

[364] Want to pull the trigger on rates.

[365] “lies behind these itchy trigger fingers”. Lett. “giaccia dietro queste dita con il prurito sul grilletto”.

[366]A hatchet job so bad it’s good”. In Americano “hatchet job” (lavoro di accetta) significa: aspra critica, attacco malevolo.

[367] “ads” significa “inserzioni pubblicitarie”.

[368] Progetti per l’assicurazione sanitaria in America.

[369] News organisations.

[370] A strong individual mandate.Vedi nota a pag. ….

[371] “… threw every … argument at the wall”. Lett “ha tirato ogni … argomento al muro”.

[372] “Stands … on its head”:  una specie di posizione yoga, stare a testa in giù.

[373] Health exchanges

[374] Definitely.

[375] “Boded ill”.

[376] Silenced.

[377] You guessed it.

[378] They followed a softly, softly policy.

[379]When all of  Wall Street was on the ropes”. Lett. “Quando ogni cosa di Wall Street era sulle corde”.

[380] “Wheeler-dealer”, Ha un significato, di solito, più forte: “trafficone, intrallazzatore”.

[381] A figment.

[382] Accountant’s imaginations.

[383] We are looking at pay-back from the real economy.

[384] “Main Street” significa “la via principale” ed è sinonimo della “economia reale”; contrapposto a “Wall Street”, l’economia finanziaria.

[385]To stand in the way” = “ostacolare, stare in mezzo, stare tra i piedi”

[386] Disconnect. Significa propriamente “disconnettere”

[387] Outrageous.

[388] The subtext.

[389] “Enforced that target”. Lett. “fanno  rispettare quello’obbiettivo, quello scopo”

[390] By volatile flows of hot money.

[391] “wasn’t too far out of balance” = lett. (far out significa: incredibile, fantastico) “non era troppo fantastica quanto a equilibrio”

[392] “asset-buying spree” = lett. “baldoria, abbuffata di acquisti di assets”

[393] Setting the stage.

[394] “Doomsaying”. Ovvero: “predicatori di sventura”

[395] “have started putting their money to work elsewhere”.

[396]  pegged

[397] “is in effect engineering a large devaluation instead” (“engineering” significa più propriamente “architettando”, ma in questo caso il senso non è quello di una progettazione, ma di una svalutazione in atto).

[398] “beggar-thy-neighbor policies”. Vedi nota a pag. …

[399] “teabaggers” (coloro che usano bustine da tè). Il riferimento è ai cosiddetti “tea parties”, ovvero alle manifestazioni organizzate dai repubblicani contro la riforma e i suoi costi fiscali, ispirandosi assai retoricamente alla rivolta con la quale abbe inizio a Boston la Guerra di Indipendenza.

[400] Altro argomento propagandistico degli oppositori della riforma, secondo il quale essa toglierebbe agli americani la “libertà” delle cure ed i burocrati statali si sostituirebbero ai medici di fiducia, decidendo della vita e della morte dei pazienti in specifici “panels” (giurie, tribunali).

[401] To chivy. Equivalente a: torturare , molestare, provocare.

[402] Rube Goldberg  (Reube Garret Lucias Goldberg, noto come ‘Rube’) era un autore di fumetti americano, nato nel 1883 e morto nel 1970. Nei suoi fumetti compariva una sua invenzione – la “Rube Goldberg machine” – consistente in un complicato oggetto tecnologico, una macchina industriale, che aveva lo scopo di produrre prestazioni semplicissime. Nel 1931 il ‘Merriam-Webster Dictionary” incluse il suo nome, con il significato di una procedura per complicare le cose semplici.

[403]Tremendous”, che però significa solo “enorme, formidabile”.

[404] Key finding.

[405] State’s physicians.

[406] “long-standing employer mandate”. Lett. “un mandato alle imprese di vecchia data”.

[407] “Regulators ride hedr on insurers”. Lett. “controllori che sorvegliano il gregge sugli assicuratori”

[408] “and fend off charges”.

[409] il mandato o delega individuale, corrisponde a quella parte del mercato assicurativo che si basa sull’acquisto della assicurazione da parte dei singoli, in alternativa ad una procedura di acquisto da parte dei datori di lavoro. In sostanza, su di esso gravano gran parte delle innovazioni della riforma, che, anziché ampliare un sistema di tipo pubblicistico, ha imposto un sistema di chiare regole pubbliche – e di indennizzi ai cittadini – alle assicurazioni private. 

[410] “overblown”, che, in questo contesto, può significare sia “sfiorite” (superate) che “artificiose” (prive di reale fondamento).

[411]“ … not with a bang, but with a whimper …”. “Bang”  significa “botta, fragore”; “Whimper” significa “piagnucolio, mugolio”

[412] To the House floor

[413] “… each player has to decide if  he or she is going to help …” (lett. “ogni giocatore deve decisidere se lui o lei intendono aiutare …”)

[414] Falls far short. Lett. “Manca di gran lunga l’obbiettivo”.

[415]Have reconcilied themselves”. “To reconcile” significa “riconciliare”, ma “to reconcile oneself to …” significa “rassegnarsi a …”.

[416] “Medium-strenght”. Lett. “di media forza”.

[417] Have to make up their minds.

[418] “…for doing things it doesn’t and for not  doing things it does”.

[419]Allegedly mssing”. Lett. “a quanto si dice scomparse”

[420] “Naysayers”, ovvero “coloro che dicono sempre no”.

[421] “To take a good hard look in  the mirror”. Lett. “prendersi un buono sguardo severo nello specchio”.

[422] Will build over time.

[423] As opposed to its level.

[424] Takes up the baton.

[425] An era of sound-bite politics.

[426] But can we afford to do more?

[427] Never catching up.

[428] Even in a narrow fiscal sense.

[429] The headline numbers.

[430] O.K., I know I’m being impractical.

[431] Start rumbling soon. “To rumble” = borbottare, brontolare, rombare.

[432] For the sake = per il bene di

[433]Tended, if anything to go democratic” = lett. “Hanno teso, semmai, a diventare democratici”.

[434] Thay turn on whomever currently holds  office

[435] To take flier = lett. “di prendere un volantino”. Espressione curiosa, ma al momento non vedo altra soluzione.

[436] Hunkered down.

[437] Runs as follows = lett. “Funzione come segue”

[438] A strategy of benign neglect

[439] May haunt. “To haunt” significa” frequentare”, ma anche “perseguitare”(probabilmente per effetto della espressione secondo la quale, ad esempio, “una casa è frequentata (perseguitata) dai fantasmi”.

[440] Pending. Lett. “in sospeso”

[441] Billed. “To bill” = addebitare, fatturare, promuovere, pubblicizzare

[442] Conjures up images = lett. ha fatto apprire immagini

[443] “… that the G.O.P. has beeen taken over by the people it used to exploit” = lett. “che il G.O.P. è stato rilevato dalla gente che esso sfrutta”

[444] Sounds familiar?

[445] By catering. “To cate (to)r” = “provvedere a, venire incontro alle esigenze di, soddisfare”

[446] Ran on

[447] Something snapped

[448] Top-down menagement = lett. “a gestire le grandi cose come i dettagli”

[449] With the likes of = lett. con i simili a

[450] Media figure

[451]Feed base’s frenzy” = lett. “alimentano la frenesia della base”

[452] Restraints

[453] Claim the mantle = lett.” rivendicare il mantello”

[454] Rump party. “Rump”, oltre che “natiche, culatta, codrione, troncone, moncone” significa anche “piccolo gruppo ridotto”. Inoltre, il “Rump Parliament” era il “Parlamento dimezzato”, all’epoca in cui Cromwell espulse i Presbiteriani, nel 1648.

[455] Takeover

[456] Il titolo è. “Free to lose”, lett. “Liberi di lasciare”. Come si comprende nell’articolo, il riferimento è alla pratica americana della mobilità del lavoro.

[457] Just può significare “Proprio, esattamente, precisamente”

[458] The philosophy behind jobs policies.

[459] Grow it. “To grow” transitivo significa “far crescere”.

[460] Questo è il nome di uno specifico piano per la creazione di posti di lavoro del periodo roosveltiano.

[461] “Short-time work scheme”

[462] “If only a stopgap”. “ Stopgap” significa “tappabuco”. Mi pare più adatta l’espressione italiana desunta dal linguaggio delle dipendenze.

[463] There is something to be said for

[464] “American-style ‘free to lose’ labor markets”

[465] At will

[466] To be in the cards = essere probabile

[467]Hot money” significa sia “denaro che scotta” che “capitali vaganti”

[468] Carried out

[469]Beggar-thy-neighbor devaluation”. Espressione idiomatica praticamente  intraducibile (è anche un giuoco di carte tra bambini), che indica “una azione o una politica consistente nel far guadagnare un gruppo a danno di un altro gruppo”. Il contesto chiarisce che si tratta di una iniziativa che è stata assunta specificamente nei riguardi del dollaro.

[470]Fiscal stimulus”. Nel linguaggio economico americano, in questo caso, “fiscal”  ha il significato di una iniziativa economica realizzata con l’utilizzo delle entrate fiscali, ovvero con la spesa pubblica. Non ha, invece, in questo caso, il significato di un sostegno ottenuto con una riduzione delle tasse, misura non presente nel programma di Obama.

[471] Attendant

[472] To abate = affievolirsi

[473] To picture

[474] To shy away from = rifuggire da

[475] Play-it-safe approach = approccio (del tipo) giocare sul sicuro, senza rischi

[476] Letteralmente = scambi di morosità creditizia. Il credit default swap (CDS) è uno swap che ha la funzione di trasferire l’esposizione creditizia di prodotti a reddito fisso tra le parti. È il derivato creditizio più usato. È un accordo tra un acquirente ed un venditore per mezzo del quale il compratore paga un premio periodico a fronte di un pagamento da parte del venditore in occasione di un evento relativo ad un credito (come ad esempio il fallimento del debitore) cui il contratto è riferito. Il CDS viene spesso utilizzato con la funzione di polizza assicurativa o copertura per il sottoscrittore di un’obbligazione. Tipicamente la durata di un CDS è di cinque anni e sebbene sia un derivato scambiato sul mercato over-the-counter (non regolamentato) è possibile stabilire qualsiasi durata.

 

[477] Hollowness = l’attributo del vuoto, ovvero vuotaggine (non compare sul dizionario)

[478] Haircut = taglio dei capelli

[479] They ended up doing so at 100 cents on the dollar= essi finirono col farlo a cento centesimi a dollaro.

[480] A lot of ill will (un bel po’ di malevolenza)

[481] Kid gloves = guanti di capretto

[482] Have hobbled (normalmente “to hobble” è intransitivo = zoppicare)

[483] Inauguration

[484] Double-dip recession. “Double-dip” si dice di qualcosa che si ripete due volte nell’ambito di uno stesso ciclo.

[485] Espressione assai singolare: Has the bully pulpit = lett. “ha il pulpito prepotente, ‘dei bulli’”

[486] Any day now (come “any time now” significa “in qualsiasi  momento”)

[487] Spikes. Punte (anche spighe)

[488] Any time soon

[489] Must be set (“set” ha anche il possibile significato di “fissare, stabilire”)

[490] Inflessibili = dead set

[491] To pick up on = far notare, fare delle critiche su

[492] To float = (anche) diffondere

[493] Disruptive significa sia dirompente che indisciplinato. Sostantivizzato, si può tradurre: fattore di disordine, turbolenza.

[494] Churning = agitare, scuotere con violenza, montare per fare il burro.

[495] But neither claim stands up to scrutiny.

[496] Intrallazzo = wheeling and dealing

[497] Repo, da” repossession”.All’origine si tratta di vendite di beni- ad esempio automobili – che vengono ripresi in possesso dal venditore, nel caso in cui l’acquirente sia moroso con le rate. Applicate ad oggetti finanziari, si tratta soprattutto di un impegno dell’acquirente a rientrare in possesso degli assets in breve termine.  

[498] Run on repo. “Run” può signficare, come sostantivo, anche: sequela, sfilza.

[499] Bloated = letteralmente,  rigonfio.

[500]Thrall” può essere tradotto con: soggiogamento, servitù mentale, fascinazione, dipendenza psichica.

[501] Trickle down significa “colare giù”. Il senso della frase è: ‘produrre effetti molto lentamente’.

[502] Poor risks

[503] Build, che non significo solo “costruire”, ma anche “crescere”, “aumentare”

[504] As a matter of political reality

[505] More jobs for the buck. Analogia con l’espressione idiomatica: “a lot of bang for your buck” (“il massimo risultato per (in realazione a)  il vostro portafoglio”)

[506] Should shy away from.

[507] With many possible disconnects along the way

[508] Beleaguered. “Accerchiato,assediato,  tormentato”

[509] La frase si basa sull’effetto dell’utilizzo dello stesso verbo (“to provide”) sia per “organizzare, fornire” che per “occuparsi, provvedere a”

[510] Make-work jobs. “Make-work” è espressione simile a “busywork”, che significa “piccola occupazione, lavoretto”.

[511] Think tank

[512] Payrolls. Lett. “libri paga”

[513] But it doesn’t have to be that way

[514] Or else = o guai, altrimenti guai, o sono guai

[515] To hang in the balance = essere in bilico

[516] To rest (with) = restare, toccare  (the decison rests with you = la decisione resta a te)

[517] Spesso traduciamo espressioni come “fiscal, fiscally” con “finanziario, finanziariamente”, giacchè indicano, nel linguaggio economico statunitense, tutto quello che attiene alla spesa pubblica o agli equilibri finanziari pubblici.

[518] To deal with = fare i conti con

[519] Window dressing =(addobbo per vetrine),  fumo negli occhi

[520] Cost-effective = conveniente, efficace dal punto di vista dei costi, produttiva

[521] To rein in = controllare, fermare, rallentare.

[522] To sit on the fence = stare, sedere, restare indecisi

[523] (sic)” developing countries”. Nel caso della Cina è forse una espressione un po’ datata!

[524] Go wild = lasciarsi andare, agire senza freni, darsi alla pazza gioia, scatenarsi.

[525] Hoax = scherzo, falso allarme, bufala

[526] Stole the show = essere al centro dell’attenzione

[527] But never mind = ma non importa, ma lasciamo perdere

[528] Cap-and-trade = letteralmente; “soglia/limite di emissione-e-commercio”. In sostanza, un meccanismo per il quale esistono limiti il cui rispetto comporta l’ottenimento di riconoscimenti o licenze, che possono essere reinvestiti od anche venduti ad altre aziende. Si può guadagnare partendo  da tecnologie virtuose o comprare, partendo da tecnologie più arretrate. 

[529] Così traduco, con un po’ di fantasia,  l’espressione “many tricks the study missed” : molti trucchi (di cui) è perso lo studio.

[530] For we’ve been here before = perché siamo stati qua in precedenza,

[531] Headwind = vento contrario

[532] To grasp = afferrare

[533] To keep up = tenere su, persistere, reggere

[534] Traduco così l’espressione “My back of the envelope calculation says …”. Letteralmente: “Il mio calcolo sul retro della busta dice ..”.

[535] To put in prespective = ridimensionare

[536] Whittled down

[537] To fall far short = essere lontane dalla sufficienza, essere lontane dal raggiungere lo scopo

[538] To tinker at the edges = armeggiare ai bordi

[539] As measured

[540] Nel linguaggio economico americano, ,l’utilizzo dello stimolo della  spesa pubblica viene definito “fiscal stimolus”, non intendendo con ciò misure di carattere fiscale, bensì’ misure prodotte con i mezzi ottenuti dalle entrate fiscali’.

[541] Wich they see lurking just around the bend = che essi vedono nascosta proprio nei pressi della curva

[542] To spring into action = saltare, balzare in azione

[543] The kind of sustained high unemployment

[544] Properly = correttamente, nella maniera giusta

[545] To shrug off = minimizzare

[546] Disaster and denial = letteralmente, “Disastro e smentita”.

[547] Now and then

[548] Just how rare

[549] Meltdown =letteralmente:  fusione del nocciolo

[550] To runaway = scappare, fuggire

[551] Where undaunted = furono imperterriti

[552] To buy into = accettare

[553] Incident = incidente, avvenimento, episodio

[554] Stage a photo-op.

[555] Hands-off = passivo, inattivo, che delega le responsabilità, che non interviene

[556] Commercial malls and office tower

[557] Don’t fit the narrative = letteralmente: non sono adatti al racconto

[558] The prevalence of this narrative

[559] One that won’t let it face up of what happened to the U.S. economy

[560] So it’s up the Democrats = letteralmente:” Così (o anche: più o meno) accade ai Democratici”

[561] That has overtaken = letteralmente: che ha scavalcato, sorpassato

[562] Hang può significare appendere, come impiccare. L’articolo successivo, nel quale il giornale è costretto a scusarsi, fa comprendere che si era trattato effettivamente di immagini nelle quali il sen. Lieberman andava al patibolo!.

[563] That falls a long way short of  ideal = letteralmente: “che è lontano da raggiungere lo scopo ideale”

[564] By sheer spite = da puro dispetto

[565] Comprehensive = vasto, aperto di imente, intelligente, esauriente

[566] I understand anger here

[567] Giving in to blackmail

[568] Really, really want to cover the uninsured

[569] And demand a steep price

[570] Or hang tough

[571] Il testo è: “Not to put too fine a point on it” e, letteralmente, potrebbe significare “Per non puntare/scommettere  un senso troppo sottile su ciò”; da lì la traduzione proposta. Ma espressioni come “to put on”, “fine” e “point” hanno significati multipli. 

[572] The usual suspects. Lett. “i soliti sospettati”.

[573] Could well end up being worse than nothing. (altra traduzioneun po’  problematica. Immagino che sia implicito un soggetto del tipo “accettare il ricatto …”),

[574] In realtà l’espressione intera è: “cloture motions over time”. Senonché “cloture” è una espressione totalmente sconosciuta in inglese. Forse gergo parlamentare americano. A meno che non si tratti del francese “cloture”, nel qual caso si potrebbe tradurre “mozioni di chiusura a tempo scaduto”.  

[575] Pulls-off a last minute double-cross

[576] To fix it

[577] A close-run thing

[578] Front and center

[579] Nail-biter. Da nailbiting = mangiarsi le unghie. Si dice, ad esempio di films di genere “suspense”, nel corso dei quali ci si mangia le unghie.

[580] What lies ahead = cosa sta davanti, cosa c’è in serbo.

[581] He pushed through. “To push through”  ha anche il significato di “fare accettare”

[582] Ricompensare, compensare = to make up for

[583] Vedi precedente articolo.

[584] Is caught

[585] To strike.

[586] Tidings of comfort. Tidings = non si usa nell’inglese moderno; equivale a “nuova” (Good tidings = buone nuove). Quanto a “comfort” può significare sia “benessere” che “consolazione”.

[587] A near-future version

[588]A Christmas’s Carol”

[589] God bless us, everyone.

[590] Nei mesi passati la destra americana ha organizzato in molte città menifestazioni denominate “tea party”, in ossequio alla ribellione contro la tassazione del tè decisa dagli inglesi, all’origine della guerra di indipendenza.

[591] I “tribunali  della morte” (“death panel”) erano, nei mesi scorsi, un altro argomento della destra, secondo il quale in una sanità statalizzata giurie di medici e di burocrati avrebbero deciso la sorte degli individui.

[592] La “sanity clause” è una clausola che può essere inserita in documenti legali di varia natura, specificando che quel documento non ha valore nel caso che si dimostri che uno dei contraenti non è sano di mente. La espressione, però, divenne particolarmente famosa a seguito di un film dei Fratelli Marx, nel quale Chico spiega a Groucho le complicazioni di un atto legale e afferma che in esso è naturalmente contenuta anche la “sanity clause”, al che Groucho risponde: “Non puoi prendermi per scemo! Non c’è nessuna clausola di salute mentale!”. Successivamente è diventata anche il titolo di una canzone (e, mi pare, di un complesso).

[593] “Bah Humbug caucus”.  Letteralmente:”La cricca di Fandonia Bah”, ove “bah” è  traducibile nel senso della improvvisazione, della genericità, del pretesto. Anche in questo caso, il termine deriva da una espressione di Ebenezer Scrooge ne libro di Dickens, con la quale egli si riferisce al Natale, definendolo come una frode (“Christmas? Bah! Hambug!”). 

[594] Single-payer system

[595] Others had their hearts set

[596] In turn

[597] Must-win = (letteralmente) vittoria doverosa

[598] It would be an era best forgotten (sarebbe stata un’era meglio dimenticata)

[599] Aughts? Naughties? (si tratta di due sinonimi che hanno più o meno lo stesso significato: “zero, niente, nulla etc.”). Secondo il dizionario, “aught” nasce “per confusione” con “naught”.

[600] Do we really care? = (lett.) ci interessa davvero, ce ne frega qualcosa?

[601]Roughly back”.  Può significare “bruscamente indietro” come “pressappoco indietro” (che sembra più realistico)

[602] “Underwater”, che credo sia propriamente una espressione del gergo bancario.

[603] Talking heads = mezzi busto

[604]There was a whole lot of nothing” = (Lett.) “Ci fu un intero mucchio di nulla”

[605] Dot-com bubble. Dot-com significa “la parsona/la azienda  che  opera su Internet”

[606] In realtà è scritto “Potemkin corporations”. Il che significa che probabilmente, negli USA, “Potemkin” è di per sé sinonimo di qualcosa che non sta in piedi, essendo essi insensibili ad ogni mito bolscevico.

[607] And bought into hype

[608] Impreciso, per il tecnicismo “excessive leverage” (eccessivo ricorso alla leva).

[609] To deliver a full-throat critique

[610] So let’s a bid a not at all fond farewell

[611] Looking for someplace to go = lett. “cercando un qualche posto in cui andare” (“someplace” equivale a una versione informale di” somewhere”)

[612] Prosciugare = to drain away

[613] Much- needed demand

[614] End up reducing. Anche = finire col ridurre

[615]Or are they?”. Lett. “Ovvero,  lo sono?”

[616] Neither holds water. Lett. “Nessuna delle due tiene- contiene  l’acqua”. To hold water può significare  “sopportare le critiche”, anche nel senso di “resistere”..

[617] To wreak havoc = scombussolare

[618] By dumping

[619] Also mean

[620] Financial leverage. In termini finanziari,” leverage” significa azione di leva, di moltiplicazione. Ma, genericamente, significa anche “influenza”, che è in questo contesto il termine  più appopriato.

[621]Econ 101” è un esame di economia di  livello universitario

[622] Debunked = ridicolizzati

[623] Misaligned = disallineati

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