Articoli sul NYT

Articoli sul New York Times dal 3 gennaio 2010 al 17 giugno 2010

 

That 1937 Feeling

By PAUL KRUGMAN

Published: January 3, 2010

Here’s what’s coming in economic news: The next employment report could show the economy adding jobs for the first time in two years. The next G.D.P. report is likely to show solid growth in late 2009. There will be lots of bullish commentary — and the calls we’re already hearing for an end to stimulus, for reversing the steps the government and the Federal Reserve took to prop up the economy, will grow even louder.

 

 

But if those calls are heeded, we’ll be repeating the great mistake of 1937, when the Fed and the Roosevelt administration decided that the Great Depression was over, that it was time for the economy to throw away its crutches. Spending was cut back, monetary policy was tightened — and the economy promptly plunged back into the depths.

 

This shouldn’t be happening. Both Ben Bernanke, the Fed chairman, and Christina Romer, who heads President Obama’s Council of Economic Advisers, are scholars of the Great Depression. Ms. Romer has warned explicitly against re-enacting the events of 1937. But those who remember the past sometimes repeat it anyway.

 

As you read the economic news, it will be important to remember, first of all, that blips — occasional good numbers, signifying nothing — are common even when the economy is, in fact, mired in a prolonged slump. In early 2002, for example, initial reports showed the economy growing at a 5.8 percent annual rate. But the unemployment rate kept rising for another year.

 

And in early 1996 preliminary reports showed the Japanese economy growing at an annual rate of more than 12 percent, leading to triumphant proclamations that “the economy has finally entered a phase of self-propelled recovery.” In fact, Japan was only halfway through its lost decade.

 

Such blips are often, in part, statistical illusions. But even more important, they’re usually caused by an “inventory bounce.” When the economy slumps, companies typically find themselves with large stocks of unsold goods. To work off their excess inventories, they slash production; once the excess has been disposed of, they raise production again, which shows up as a burst of growth in G.D.P. Unfortunately, growth caused by an inventory bounce is a one-shot affair unless underlying sources of demand, such as consumer spending and long-term investment, pick up.

 

 

 

Which brings us to the still grim fundamentals of the economic situation.

During the good years of the last decade, such as they were, growth was driven by a housing boom and a consumer spending surge. Neither is coming back. There can’t be a new housing boom while the nation is still strewn with vacant houses and apartments left behind by the previous boom, and consumers — who are $11 trillion poorer than they were before the housing bust — are in no position to return to the buy-now-save-never habits of yore.

 

 

 

What’s left? A boom in business investment would be really helpful right now. But it’s hard to see where such a boom would come from: industry is awash in excess capacity, and commercial rents are plunging in the face of a huge oversupply of office space.

 

 

Can exports come to the rescue? For a while, a falling U.S. trade deficit helped cushion the economic slump. But the deficit is widening again, in part because China and other surplus countries are refusing to let their currencies adjust.

 

So the odds are that any good economic news you hear in the near future will be a blip, not an indication that we’re on our way to sustained recovery. But will policy makers misinterpret the news and repeat the mistakes of 1937? Actually, they already are.

 

The Obama fiscal stimulus plan is expected to have its peak effect on G.D.P. and jobs around the middle of this year, then start fading out. That’s far too early: why withdraw support in the face of continuing mass unemployment? Congress should have enacted a second round of stimulus months ago, when it became clear that the slump was going to be deeper and longer than originally expected. But nothing was done — and the illusory good numbers we’re about to see will probably head off any further possibility of action.

 

 

Meanwhile, all the talk at the Fed is about the need for an “exit strategy” from its efforts to support the economy. One of those efforts, purchases of long-term U.S. government debt, has already come to an end. It’s widely expected that another, purchases of mortgage-backed securities, will end in a few months. This amounts to a monetary tightening, even if the Fed doesn’t raise interest rates directly — and there’s a lot of pressure on Mr. Bernanke to do that too.

 

 

Will the Fed realize, before it’s too late, that the job of fighting the slump isn’t finished? Will Congress do the same? If they don’t, 2010 will be a year that began in false economic hope and ended in grief.

 

“Quel presentimento[1] del 1937”, di Paul Krugman,

New York Times, 3 gennaio 2010

Ecco cosa ci dicono le ultime notizie dell’economia: il prossimo rapporto sull’occupazione potrebbe mostrare un aumento dei posti di lavoro, per la prima volta in due anni. Il prossimo rapporto sul PIL mostra analogamente una solida crescita nell’ultima parte del 2009. Ci saranno un mucchio di commenti ottimistici, e le richieste di por fine alle azioni di intervento pubblico, affinchè il Governo e la Federal Reserve tornino sui loro passi nelle azioni di sostegno all’economia, diventeranno persino più assordanti.

Ma se si darà ascolto a queste richieste, ripeteremo il grande errore del 1937, quando la Fed e la Amministrazione Roosvelt decisero che la Grande Depressione era terminata, che era venuto il tempo per l’economia di buttar via le proprie stampelle[2]. La spesa venne tagliata, si andò ad una stretta della politica monetaria, e in breve tempo l’economia ripiombò nel profondo.

Questo non dovrebbe accadere. Sia Ben Bernanke, Presidente della Fed, che Christina Romer, che è alla testa della Commissione di consulenti economici del Presidente Obama, si sono formati alla scuola della Grande Depressione. La Romer ha esplicitamente messo in guardia contro il ripetersi degli eventi del 1937. Ma coloro che hanno memoria del passato, talvolta in qualche modo lo ripetono.

Se leggete notizie economiche, in primo luogo sarà importante che ricordiate che lievi irregolarità[3] – come occasionali dati privi di significato – sono frequenti anche quando l’economia è, di fatto, impantanata in una prolungata recessione. Nella prima parte del 2002, ad esempio, i rapporti iniziali mostravano una economia in crescita di un 5,8% su base annuale. Ma il tasso di disoccupazione continuò ad alzarsi per un ulteriore anno.

E nella prima parte del 1996 i rapporti preliminari mostravano l’economia giapponese in crescita ad un tasso annuo superiore al 12 %, provocando proclami trionfalistici secondo i quali “l’economia è finalmente entrata in una fase di ripresa auto-sostenuta”. Di fatto, il Giappone era soltanto a metà strada del suo decennio perduto.

Questi scostamenti sono spesso, in parte, delle illusioni statistiche. Ma, ancora più importante, essi sono normalmente causati da “rimbalzi delle scorte[4]”. Quando l’economia è in caduta, tipicamente le imprese si ritrovano con ampi stocks di beni invenduti. Per eliminare[5] i loro eccessi di scorte, esse riducono drasticamente[6] la produzione. Una volta che ci si è liberati degli eccessi[7], esse accrescono di nuovo la produzione, il che produce l’effetto di una improvvisa crescita nel PIL. Sfortunatamente, la crescita provocata da un “rimbalzo delle scorte ” è un evento irripetibile, a meno che non si rimettano in movimento le fondamentali fonti della domanda, quali la spesa dei consumatori e gli investimenti a lungo termine.

Il che ci riporta agli ancora avari fondamentali della situazione economica.

Durante gli anni buoni dell’ultimo decennio, sia pure nei modi in cui lo furono[8], la crescita fu guidata dal boom del settore immobiliare e dalla crescita della spesa per consumi. Né l’uno né l’altra si ripeteranno. Non può esserci un nuovo boom immobiliare nel mentre la nazione è ancora disseminata[9] di case vuote e di appartamenti lasciati a seguito del primo boom, ed i consumatori – che sono più poveri per 11 mila miliardi di dollari di quanto non fossero prima che il settore immobiliare scoppiasse – non sono nelle condizioni di ritornare alle abitudini passate, del genere “compro-subito-e -risparmio-mai”.

C’è qualcosa d’altro?[10] In questo momento un boom di investimenti di impresa sarebbe realmente d’aiuto. Ma è difficile vedere da dove questo boom potrebbe scaturire: l’industria è inondata da eccesso di capacità produttiva e gli affitti nel settore commerciale sono caduti a seguito della ampia sovrabbondanza di spazi nel settore terziario.

Possono salvarci le esportazioni? Per un momento, la diminuizione del deficit commerciale degli Stati Uniti ha aiutato ad attenuare la caduta economica. Ma il deficit sta di nuovo crescendo, in parte perché la Cina ed altri paesi in surplus si rifiutano di lasciar allineare le loro valute.

Così, è assolutamente probabile che ogni buona notizia che voi ascolterete nel prossimo futuro, sarà una irregolarità statistica, non una indicazione che siamo sulla effettiva strada di una ripresa sostenuta. Ma gli operatori politici potranno fraintendere tali notizie e ripetere gli errori del 1937? In effetti, lo fanno già.

Si attende che il piano di sostegno pubblico di Obama abbia un picco di efficacia sul PIL e sull’occupazione attorno alla metà di quest’anno, dopodichè i suoi effetti cominceranno ad attenuersi. E’ assolutamente troppo presto[11]: perché ritirare le azioni di sostegno di fronte alla continuazione di una disoccupazione di massa? Il Congresso avrebbe dovuto deliberare una secondo round delle azioni di sostegno mesi orsono, quando divenne chiaro che la caduta stava diventando più profonda e più lunga di quanto ci si attendeva originariamente. Ma non è stato fatto niente, e le illusorie buone statistiche che stiamo per ricevere, probabilmente, liquideranno[12] ogni ulteriore possibilità di azione.

Nel frattempo, alla Fed è tutto un gran parlare sul bisogno di una “exit strategy” dagli sforzi di supporto dell’economia. Uno di quegli sforzi, gli acquisti del debito a lungo termine degli Stati Uniti, è già prossimo a terminare. E’ ampiamente previsto che un altro, l’acquisto dei titoli garantiti da mutui sulla casa, finisca in pochi mesi. Questo condurrà ad una stretta monetaria, persino se la Fed non innalzerà direttamente i tassi di interesse; e c’è una grande pressione su Bernanke perché agisca anche in quella direzione.

Riuscirà a comprendere la Fed, prima che sia troppo tardi, che la lotta contro la recessione non è terminata? Ci riuscirà il Congresso? Se essi non lo faranno, il 2010 sarà un anno che, cominciato con un falso ottimismo economico, finirà nel dispiacere.

 

 

  


 

Bubbles and the Banks

By PAUL KRUGMAN

Published: January 7, 2010

Health care reform is almost (knock on wood) a done deal. Next up: fixing the financial system. I’ll be writing a lot about financial reform in the weeks ahead. Let me begin by asking a basic question: What should reformers try to accomplish?

 

 

 

A lot of the public debate has been about protecting borrowers. Indeed, a new Consumer Financial Protection Agency to help stop deceptive lending practices is a very good idea. And better consumer protection might have limited the overall size of the housing bubble.

 

 

But consumer protection, while it might have blocked many subprime loans, wouldn’t have prevented the sharply rising rate of delinquency on conventional, plain-vanilla mortgages. And it certainly wouldn’t have prevented the monstrous boom and bust in commercial real estate.

 

Reform, in other words, probably can’t prevent either bad loans or bubbles. But it can do a great deal to ensure that bubbles don’t collapse the financial system when they burst.

 

Bear in mind that the implosion of the 1990s stock bubble, while nasty — households took a $5 trillion hit — didn’t provoke a financial crisis. So what was different about the housing bubble that followed?

 

The short answer is that while the stock bubble created a lot of risk, that risk was fairly widely diffused across the economy. By contrast, the risks created by the housing bubble were strongly concentrated in the financial sector. As a result, the collapse of the housing bubble threatened to bring down the nation’s banks. And banks play a special role in the economy. If they can’t function, the wheels of commerce as a whole grind to a halt.

 

 

Why did the bankers take on so much risk? Because it was in their self-interest to do so. By increasing leverage — that is, by making risky investments with borrowed money — banks could increase their short-term profits. And these short-term profits, in turn, were reflected in immense personal bonuses. If the concentration of risk in the banking sector increased the danger of a systemwide financial crisis, well, that wasn’t the bankers’ problem.

 

Of course, that conflict of interest is the reason we have bank regulation. But in the years before the crisis, the rules were relaxed — and, even more important, regulators failed to expand the rules to cover the growing “shadow” banking system, consisting of institutions like Lehman Brothers that performed banklike functions even though they didn’t offer conventional bank deposits.

 

 

The result was a financial industry that was hugely profitable as long as housing prices were going up — finance accounted for more than a third of total U.S. profits as the bubble was inflating — but was brought to the edge of collapse once the bubble burst. It took government aid on an immense scale, and the promise of even more aid if needed, to pull the industry back from the brink.

 

 

And here’s the thing: Since that aid came with few strings — in particular, no major banks were nationalized even though some clearly wouldn’t have survived without government help — there’s every incentive for bankers to engage in a repeat performance. After all, it’s now clear that they’re living in a heads-they-win, tails-taxpayers-lose world.

 

The test for reform, then, is whether it reduces bankers’ incentives and ability to concentrate risk going forward.

 

Transparency is part of the answer. Before the crisis, hardly anyone realized just how much risk the banks were taking on. More disclosure, especially with regard to complex financial derivatives, would clearly help.

 

Beyond that, an important aspect of reform should be new rules limiting bank leverage. I’ll be delving into proposed legislation in future columns, but here’s what I can say about the financial reform bill the House passed — with zero Republican votes — last month: Its limits on leverage look O.K. Not great, but O.K. It would, however, be all too easy for those rules to get weakened to the point where they wouldn’t do the job. A few tweaks in the fine print and banks would be free to play the same game all over again.

 

 

 

And reform really should take on the financial industry’s compensation practices. If Congress can’t legislate away the financial rewards for excessive risk-taking, it can at least try to tax them.

 

 

Let me conclude with a political note. The main reason for reform is to serve the nation. If we don’t get major financial reform now, we’re laying the foundations for the next crisis. But there are also political reasons to act.

For there’s a populist rage building in this country, and President Obama’s kid-gloves treatment of the bankers has put Democrats on the wrong side of this rage. If Congressional Democrats don’t take a tough line with the banks in the months ahead, they will pay a big price in November.

 

“Bolle e banche”, di Paul Krugman

New York Times 7 gennaio 2010

 

La riforma del sistema americano di assistenza sanitaria è quasi cosa fatta (tocchiamo ferro[13]). Il prossimo provvedimento atteso[14]: le correzioni[15] al sistema finanziario. Scriverò un bel po’ sulla riforma del sistema finanziario, nelle settimane a venire. Lasciate che io cominci col porre la questione di base: che cosa dovrebbero provare ad ottenere i riformatori?

Gran parte del dibattito pubblico ha riguardato la protezione di coloro che hanno preso prestiti. In effetti, una nuova Agenzia per la protezione del consumatore nel settore finanziario, che aiuti a interrompere le pratiche ingannevoli del credito, è davvero una buona idea. Una migliore protezione del consumatore avrebbe potuto limitare la dimensione complessiva della bolla immobiliare.

Ma la protezione del consumatore, nel mentre avrebbe potuto bloccare molti prestiti subprime, non avrebbe potuto prevenire il tasso di delinquenza, aggressivamente crescente, nei convenzionali semplici mutui ipotecari[16]. Né, certamente, avrebbe potuto prevenire il mostruoso boom e fallimento del commercio immobiliare.

In altre parole, probabilmente una riforma non può prevenire né i cattivi prestiti né le bolle. Ma essa può fare moltissimo nel senso di garantire che le bolle non mandino in rovina il sistema finanziario, nel momento in cui scoppiano.

Ricordiamoci che l’implosione della bolla degli stocks azionari degli anni 90, per quanto brutta – le famiglie presero un colpo da 5 mila miliardi di dollari – non provocò una crisi finanziaria. Dunque, quale è stata la differenza con la successiva bolla del settore immobiliare?

La risposta in breve è che, sebbene la bolla azionaria avesse creato un grosso rischio, tale rischio risultò abbastanza[17] diffusamente spalmato nel tessuto economico. Al contrario, i rischi provocati dalla bolla immobiliare erano fortemente concentrati nel settore finanziario. Il risultato è stato che il collasso della bolla immobiliare ha minacciato di abbattere le banche della nazione. E le banche giocano un ruolo particolare nell’economia. Se esse non possono funzionare, gli ingranaggi del commercio nella loro interezza si arrestano[18].

Perché i banchieri si sono accollati un rischio così grande? Perché era nel loro interesse personale[19] comportarsi in tal modo. Incrementando il leverage[20] – ovvero, facendo investimenti rischiosi con denaro a credito – le banche potevano accrescere i loro profitti a breve termine. E questi profitti a breve termine, a loro volta, si traducevano in colossali compensi personali. Il fatto che la concentrazione del rischio nel settore bancario accrescesse il pericolo di una crisi generale del sistema finanziario, ebbene, questo non era un problema dei banchieri.

Naturalmente, quel conflitto di interessi è la ragione per la quale abbiamo una regolazione delle banche. Ma negli anni antecedenti la crisi, quelle regole si erano assai attenuate; ancora più importante, i responsabili dei regolamenti avevano fallito nel tentativo di estendere norme di protezione di un sistema bancario che diventava sempre più “grigio”, per effetto di istituzioni come Leheman Brothers, che mettevano in atto funzioni di tipo bancario sebbene non offrissero convenzionali servizi di deposito bancario.

Il risultato fu un settore finanziario[21]  che aveva realizzato vasti profitti durante la crescita dei prezzi degli immobili – la finanza ha realizzato più di un terzo dei profitti complessivi degli Stati Uniti nel mentre la bolla si stava gonfiando – ma che venne condotto sull’orlo del collasso al momento in cui la bolla scoppiò. C’è voluto un aiuto statale di dimensioni colossali, e la promessa di un aiuto anche più grande se fosse stato necessario, per mettere il settore al riparo dal disastro.

E qua è il punto: dato che quell’aiuto è venuto con poche conseguenze[22] – in particolare, nessuna delle banche maggiori è stata nazionalizzata, sebbene qualcuna tra di esse non avrebbe potuto sopravvivere senza aiuto statale – sussiste[23] un incentivo pieno per i banchieri nel provare a ripetere la prestazione. Dopo tutto, ora hanno chiaro che vivono in un mondo nel quale “testa-vincono – loro; croce-perdono-i-contribuenti”[24].

Il test della riforma, dunque, è se essa saprà ridurre gli incentivi ai banchieri e la loro possibilità di procedere con la concentrazione del rischio.

La trasparenza è una parte della risposta: prima della crisi, nessuno agevolmente comprese esattamente quanto rischio le banche si stessero prendendo. Un maggiore obbligo di informazione[25], specialmente a riguardo dei complicati derivati finanziari, chiaramente aiuterebbe. 

Oltre a ciò, un importante aspetto della riforma dovrebbero essere nuove regole che limitino il leverage delle banche. Andrò più a fondo della legislazione proposta in successivi articoli, ma quello che posso dire a proposito della legge di riforma del settore finanziario approvata il mese scorso dalla Camera – con nessun voto dei repubblicani – è che le limitazioni da essa introdotte sul leverage appaiono accettabili, non grandiose, ma accettabili[26]. Sarebbe, tuttavia, sin troppo facile affievolire queste regole sino al punto di non farle funzionare. Poche leggere modifiche[27] in alcuni dettagli[28] e le banche sarebbero libere di continuare lo stesso gioco all’infinito.

E la riforma dovrebbe davvero farsi carico delle pratiche dei compensi al settore finanziario. Se il Congresso non può immediatamente legiferare sui compensi finanziari nei casi di eccessiva assunzione di rischio, esso potrebbe almeno provare con la tassazione.

Fatemi concludere con una notazione politica. Lo scopo principale della riforma è quello di essere utile alla nazione. Se non possiamo avere una riforma più incisiva adesso, noi stiamo gettando le fondamenta per la prossima crisi. Ma ci sono anche ragioni politiche per farlo.

Perché c’è una rabbia populista che monta in questo paese[29], e il trattamento coi guanti di velluto dei banchieri da parte del Presidente Obama ha messo i democratici in contrasto con questo stato d’animo. Se nei mesi che vengono i Democratici al Congresso non assumeranno una linea dura con le banche, a novembre finiranno col pagare un prezzo salato.  

 


 

Learning From Europe

By PAUL KRUGMAN

Published: January 10, 2010

As health care reform nears the finish line, there is much wailing and rending of garments among conservatives. And I’m not just talking about the tea partiers. Even calmer conservatives have been issuing dire warnings that Obamacare will turn America into a European-style social democracy. And everyone knows that Europe has lost all its economic dynamism.

 

 

Strange to say, however, what everyone knows isn’t true. Europe has its economic troubles; who doesn’t? But the story you hear all the time — of a stagnant economy in which high taxes and generous social benefits have undermined incentives, stalling growth and innovation — bears little resemblance to the surprisingly positive facts. The real lesson from Europe is actually the opposite of what conservatives claim: Europe is an economic success, and that success shows that social democracy works.

 

Actually, Europe’s economic success should be obvious even without statistics. For those Americans who have visited Paris: did it look poor and backward? What about Frankfurt or London? You should always bear in mind that when the question is which to believe — official economic statistics or your own lying eyes — the eyes have it.

 

In any case, the statistics confirm what the eyes see.

It’s true that the U.S. economy has grown faster than that of Europe for the past generation. Since 1980 — when our politics took a sharp turn to the right, while Europe’s didn’t — America’s real G.D.P. has grown, on average, 3 percent per year. Meanwhile, the E.U. 15 — the bloc of 15 countries that were members of the European Union before it was enlarged to include a number of former Communist nations — has grown only 2.2 percent a year. America rules!

 

 

Or maybe not. All this really says is that we’ve had faster population growth. Since 1980, per capita real G.D.P. — which is what matters for living standards — has risen at about the same rate in America and in the E.U. 15: 1.95 percent a year here; 1.83 percent there.

 

What about technology? In the late 1990s you could argue that the revolution in information technology was passing Europe by. But Europe has since caught up in many ways. Broadband, in particular, is just about as widespread in Europe as it is in the United States, and it’s much faster and cheaper.

 

And what about jobs? Here America arguably does better: European unemployment rates are usually substantially higher than the rate here, and the employed fraction of the population lower. But if your vision is of millions of prime-working-age adults sitting idle, living on the dole, think again. In 2008, 80 percent of adults aged 25 to 54 in the E.U. 15 were employed (and 83 percent in France). That’s about the same as in the United States. Europeans are less likely than we are to work when young or old, but is that entirely a bad thing?

 

 

And Europeans are quite productive, too: they work fewer hours, but output per hour in France and Germany is close to U.S. levels.

 

The point isn’t that Europe is utopia. Like the United States, it’s having trouble grappling with the current financial crisis. Like the United States, Europe’s big nations face serious long-run fiscal issues — and like some individual U.S. states, some European countries are teetering on the edge of fiscal crisis. (Sacramento is now the Athens of America — in a bad way.) But taking the longer view, the European economy works; it grows; it’s as dynamic, all in all, as our own.

 

So why do we get such a different picture from many pundits? Because according to the prevailing economic dogma in this country — and I’m talking here about many Democrats as well as essentially all Republicans — European-style social democracy should be an utter disaster. And people tend to see what they want to see.

After all, while reports of Europe’s economic demise are greatly exaggerated, reports of its high taxes and generous benefits aren’t. Taxes in major European nations range from 36 to 44 percent of G.D.P., compared with 28 in the United States. Universal health care is, well, universal. Social expenditure is vastly higher than it is here.

 

 

 

So if there were anything to the economic assumptions that dominate U.S. public discussion — above all, the belief that even modestly higher taxes on the rich and benefits for the less well off would drastically undermine incentives to work, invest and innovate — Europe would be the stagnant, decaying economy of legend. But it isn’t.

 

Europe is often held up as a cautionary tale, a demonstration that if you try to make the economy less brutal, to take better care of your fellow citizens when they’re down on their luck, you end up killing economic progress. But what European experience actually demonstrates is the opposite: social justice and progress can go hand in hand.

 

“Imparare dall’Europa”, di Paul Krugman,

New York Times, 10 gennaio 2010

 

Nel mentre la riforma della assistenza sanitaria si avvicina alla linea d’arrivo, tra i conservatori americani è tutto un piangere ed uno strapparsi le vesti. Non sto solo parlando degli organizzatori dei tea parties. Persino i conservatori più pacati hanno messo in giro[30] terribili ammonimenti, secondo i quali la assistenza di Obama trasformerà l’America in una socialdemocrazia di stile europeo. E tutti sanno che l’Europa ha perso ogni suo dinamismo economico.

Strano a dirsi, tuttavia, ma ciò che tutti sanno non corrisponde al vero. L’Europa ha i suoi problemi economici; chi non li ha? Ma le storie che si sentono di continuo, di una economia stagnante nella quale alte tasse e generosi benefici sociali hanno messo a repentaglio le motivazioni[31], mettendo in stallo crescita ed innovazione, ha poca affinità[32] con fatti sorprendentemente positivi. La lezione reale che viene dall’Europa è nei fatti opposta a quello che i conservatori sostengono: l’Europa è un successo economico, e questo successo dimostra che la socialdemocrazia funziona.

In realtà, il successo economico dell’Europa sarebbe evidente anche senza statistiche. Mi rivolgo a quegli americani che hanno visitato Parigi: vi è sembrata povera e retrograda[33]? Cosa dire di Francoforte e di Londra? Dovreste sempre tenere a mente che quando il problema è a cosa credere – se alle statistiche economiche ufficiali o alla propria vista ingannevole – i propri occhi hanno la precedenza.

In ogni caso, le statistiche confermano quello che gli occhi vedono.

E’ vero che l’economia americana è cresciuta più rapidamente di quella europea, per la passata generazione. Sino al 1980, quando la politica americana conobbe una brusca svolta a destra, mentre in Europa ciò non avvenne, il reale PIL dell’America è cresciuto, in media, di un 3 per cento all’anno. Nel frattempo, l’Europa dei 15 – il blocco dei 15 paesi che erano membri dell’Unione Europea, prima che essa fosse allargata sino ad includere un certo numero di precedenti nazioni comuniste – era cresciuta solo del 2,2 per cento all’anno. L’America domina![34]

Ma forse non è così. Questi dati ci dicono che noi americani abbiamo avuto una crescita più rapida della popolazione. Sino al 1980, il PIL procapite, che è quello che conta per gli standards di vita, è cresciuto all’incirca al medesimo tasso in America e nell’Europa dei 15: 1,95 per cento all’anno qua, 1,83 per cento là.

Che dire della tecnologia? Nell’ultima parte degli anni 90, poteva sembrare che la rivoluzione nelle tecnologie dell’informazione avesse appena toccato l’Europa. Ma da allora l’Europa in molti sensi recuperato. In particolare la banda larga, è quasi altrettanto diffusa[35] in Europa e negli Stati Uniti, ed è molto più veloce e a minor prezzo.

E a proposito del lavoro? In quel caso sembra provato che l’America vada meglio[36]: i tassi di disoccupazione in Europa sono più alti di quanto non siano qua, e la frazione occupata della popolazione più bassa. Ma se vi immaginate milioni di adulti nel pieno dell’età lavorativa[37] che se ne stanno seduti in ozio e vivono di indennità di disoccupazione[38], ricredetevi. Nel 2008 l’80 per cento degli adulti tra i 25 ed i 54 anni erano occupati negli stati dell’Unione Europea (l’83 per cento in Francia). Che è pressappoco la stessa percentuale degli Stati Uniti. E’ meno probabile che gli europei siano al lavoro, rispetto agli americani, quando sono giovani o anziani, ma questa è poi una cosa completamente sbagliata?

E gli europei sono anche del tutto produttivi: essi lavorano meno ore, ma la produzione oraria in Francia ed in Germania è agli stessi livelli degli Stati Uniti.

La questione non è se l’Europa sia la terra di utopia.  Come gli Stati Uniti, essa ha i suoi guai alle prese con la attuale crisi finanziaria. Le grandi nazioni europeee sono dinanzi a serie questioni fiscali di lungo periodo, e come qualche singolo stato americano, un certo numero di nazioni europeee sta barcollando sull’orlo della crisi fiscale (Sacramento è oggi l’Atene americana, in un brutto senso). Ma, considerando il lungo periodo, l’economia europea funziona, cresce, è altrettanto dinamica che la nostra.

Dunque, perché abbiamo descrizioni così diverse da parte di molti esperti? Perché, secondo il dogma prevalente in questa America – e mi riferisco a molti democratici, così come essenzialmente a tutti i repubblicani – la socialdemocrazia di tipo europeo dovrebbe essere un completo disastro. E la gente tende a vedere quello che vuole vedere.

Del resto[39], mentre i rapporti sulla agonia[40] dell’economia europea sono largamente esagerati, quelli sulla sua elevata tassazione e sui generosi benefici sociali non lo sono. Le tasse, nelle maggiori nazioni europeee, oscillano tra il 36 ed il 44 per cento del PIL, a confronto di un 28 per cento degli Stati Uniti. L’assistenza sanitaria universale è, senza dubbio[41], universale. La spesa sociale è considerevolmente più elevata di quanto non sia in America.

Così, se ci fosse qualche sostanza negli assunti economici che dominano il dibattito pubblico negli Stati Uniti – soprattutto, la convinzione che persino tasse modestamente più elevate sui ricchi e qualche beneficio ai meno fortunati[42] metterebbero drasticamente a repentaglio il lavoro, l’investimento e l’innovazione – l’Europa sarebbe la stagnante, decadente economia della quale si favoleggia. Ma non è così.

L’Europa è spesso utilizzata come un racconto edificante[43], a dimostrazione del fatto che se volete rendere l’economia meno brutale e prendervi maggior cura dei vostri concittadini[44] quando su di essi si abbatte la malasorte, finirete con l’uccidere il progresso economico. Ma in realtà ciò che dimostra l’esperienza europea è il contrario: la giustizia sociale e il progresso possono procedere mano nella mano.  

 

 

 

 

 


 

Bankers Without a Clue

By PAUL KRUGMAN

Published: January 14, 2010

The official Financial Crisis Inquiry Commission — the group that aims to hold a modern version of the Pecora hearings of the 1930s, whose investigations set the stage for New Deal bank regulation — began taking testimony on Wednesday. In its first panel, the commission grilled four major financial-industry honchos. What did we learn?

 

 

 

Well, if you were hoping for a Perry Mason moment — a scene in which the witness blurts out: “Yes! I admit it! I did it! And I’m glad!” — the hearing was disappointing. What you got, instead, was witnesses blurting out: “Yes! I admit it! I’m clueless!”

 

 

O.K., not in so many words. But the bankers’ testimony showed a stunning failure, even now, to grasp the nature and extent of the current crisis. And that’s important: It tells us that as Congress and the administration try to reform the financial system, they should ignore advice coming from the supposed wise men of Wall Street, who have no wisdom to offer.

 

Consider what has happened so far: The U.S. economy is still grappling with the consequences of the worst financial crisis since the Great Depression; trillions of dollars of potential income have been lost; the lives of millions have been damaged, in some cases irreparably, by mass unemployment; millions more have seen their savings wiped out; hundreds of thousands, perhaps millions, will lose essential health care because of the combination of job losses and draconian cutbacks by cash-strapped state governments.

 

 

And this disaster was entirely self-inflicted. This isn’t like the stagflation of the 1970s, which had a lot to do with soaring oil prices, which were, in turn, the result of political instability in the Middle East. This time we’re in trouble entirely thanks to the dysfunctional nature of our own financial system. Everyone understands this — everyone, it seems, except the financiers themselves.

 

There were two moments in Wednesday’s hearing that stood out. One was when Jamie Dimon of JPMorgan Chase declared that a financial crisis is something that “happens every five to seven years. We shouldn’t be surprised.” In short, stuff happens, and that’s just part of life.

But the truth is that the United States managed to avoid major financial crises for half a century after the Pecora hearings were held and Congress enacted major banking reforms. It was only after we forgot those lessons, and dismantled effective regulation, that our financial system went back to being dangerously unstable.

 

 

As an aside, it was also startling to hear Mr. Dimon admit that his bank never even considered the possibility of a large decline in home prices, despite widespread warnings that we were in the midst of a monstrous housing bubble.

 

Still, Mr. Dimon’s cluelessness paled beside that of Goldman Sachs’s Lloyd Blankfein, who compared the financial crisis to a hurricane nobody could have predicted. Phil Angelides, the commission’s chairman, was not amused: The financial crisis, he declared, wasn’t an act of God; it resulted from “acts of men and women.”

 

Was Mr. Blankfein just inarticulate? No. He used the same metaphor in his prepared testimony in which he urged Congress not to push too hard for financial reform: “We should resist a response … that is solely designed around protecting us from the 100-year storm.” So this giant financial crisis was just a rare accident, a freak of nature, and we shouldn’t overreact.

 

 

 

But there was nothing accidental about the crisis. From the late 1970s on, the American financial system, freed by deregulation and a political climate in which greed was presumed to be good, spun ever further out of control. There were ever-greater rewards — bonuses beyond the dreams of avarice — for bankers who could generate big short-term profits. And the way to raise those profits was to pile up ever more debt, both by pushing loans on the public and by taking on ever-higher leverage within the financial industry.

 

 

Sooner or later, this runaway system was bound to crash. And if we don’t make fundamental changes, it will happen all over again.

Do the bankers really not understand what happened, or are they just talking their self-interest? No matter. As I said, the important thing looking forward is to stop listening to financiers about financial reform.

 

 

Wall Street executives will tell you that the financial-reform bill the House passed last month would cripple the economy with overregulation (it’s actually quite mild). They’ll insist that the tax on bank debt just proposed by the Obama administration is a crude concession to foolish populism. They’ll warn that action to tax or otherwise rein in financial-industry compensation is destructive and unjustified.

 

 

But what do they know? The answer, as far as I can tell, is: not much.

 

“Banchieri senza un’idea[45]”, di Paul Krugman

New York Times, 14 gennaio 2010

 

Mercoledì, la ufficiale Commissione di Inchiesta sulla Crisi Finanziaria, il gruppo che mira a rappresentare[46] la versione odierna delle udienze della Commissione Pecora degli anni 30 – le cui attività di indagine fornirono il contesto[47] per la regolamentazione del sistema bancario del New Deal – ha iniziato a raccogliere testimonianze. Nel corso della prima sessione, la commissione ha ascoltato[48] quattro dei principali dirigenti[49] del sistema finanziario. Cosa abbiamo appreso?

Bene, se speravate in una situazione alla Perry Mason – una scena nella quale il testimone all’improvviso confessa[50] “Si! L’ammetto! L’ho fatto io e ne vado fiero!” – l’udienza è stata deludente. Quello che abbiamo trovato, piuttosto, sono stati testimoni che hanno dichiarato “Si! Lo confessiamo, siamo degli incapaci!”

Va bene, non così chiaro e tondo[51]. Ma la testimonianza dei banchieri ha mostrato una sbalorditiva incapacità, persino a questo punto, ad afferrare la natura e le dimensioni della crisi in corso. E c’è questo di importante: essa ci ha detto che nel momento in cui il Congresso e la Amministrazione provano a riformare il sistema finanziario, essi dovrebbero ignorare il parere dei cosiddetti uomini saggi di Wall Street, dato che non hanno da offrire alcuna saggezza.

Si consideri cosa è accaduto sino a questo punto: l’economia degli Stati Uniti è ancora alle prese[52] con la peggiore crisi finanziaria dall’epoca della Grande Depressione; migliaia di miliardi di dollari di potenziali guadagni sono stati persi; le vite di milioni di persone sono state danneggiate, talora irreparabilmente, da una disoccupazione di massa; altri milioni si sono visti cancellare i propri risparmi; centinaia di migliaia, forse milioni, di persone perderanno il diritto alla assistenza sanitaria di base, per effetto della combinazione del lavoro perso e dei tagli draconiani conseguenti ai bilanci al verde[53] dei governi statali.

E questo disastro è stato interamente auto provocato. Questa non è come la stagflazione degli anni 70, nella quale si dovette fare i conti con i prezzi del petrolio che salirono alle stelle, prezzi che erano, a loro volta, la conseguenza della instabilità politica nel Medio Oriente. Questa volta, siamo finiti nei guai interamente a causa del comportamento anomalo del nostro stesso sistema finanziario. Questo ognuno lo capisce; ognuno, a quanto sembra, ad eccezione degli esperti finanziari.

Ci sono stati due momenti rimarchevoli[54] nella audizione di mercoledì. Uno è stato quando Jamie Dimon della JP Morgan Chase ha dichiarato che la crisi finanziaria “ricorre ogni cinque, sette anni. Non dovremmo esserne sorpresi.” In poche parole, cose che accadono[55], che fanno parte del vivere.

Ma la verità è che gli Stati Uniti si sono impegnati per mezzo secolo ad evitare grandi crisi finanziarie, dal momento in cui si tennero le audizioni della commissione Pecora ed il Congresso deliberò le principali riforme del sistema bancario. E’ stato solo dopo aver dimenticato quelle lezioni e smantellato ogni efficace regolazione, che il nostro sistema finanziario è tornato ad essere pericolosamente instabile.

En passant[56], è stato anche sconvolgente ascoltare Dimon ammettere che la sua banca non aveva mai considerato la possibilità di un declino generale nei prezzi delle abitazioni, nonostante i diffusi ammonimenti secondo i quali eravamo nel bel mezzo di una mostruosa bolla immobiliare.

Ancora, la mancanza di idee del signor Dimon impallidisce al confronto di quella di Lloyd Blankfein della Goldman Sachs, che ha paragonato la crisi finanziaria ad un uragano che non era stato previsto. Phil Angelides, il Presidente della Commissione, non è sembrato che si divertisse: la crisi finanziaria, ha dichiarato, non è stata un atto di Dio; essa è derivata “da atti di uomini e donne”.

Era stato particolarmente infelice[57], il signor Blankfein? No. Egli aveva usato la stessa metafora nella sua meditata testimonianza con la quale aveva sollecitato il Congresso a non spingere con troppa energia per una riforma del sistema finanziario. “Noi dovremmo guardarci da una reazione … che sia esclusivamente destinata a proteggerci dalle tempeste del prossimo secolo”. Dunque, questa gigantesca crisi finanziaria è stata solo un mero accidente, uno scherzo della natura, e noi dovremmo guardarci dal reagire in modo esagerato.

Ma non c’era niente di accidentale nella crisi. Dall’ultima parte degli anni 70 in poi, il sistema finanziario americano, liberato dalla deregulation e da un clima politico secondo il quale l’avidità era stimata un’ottima cosa, aveva preso a girare sempre più fuori controllo[58]. C’erano ricompense sempre più grandi – gratifiche che oltrepassavano ogni cupida fantasia[59] –  per i banchieri che avessero realizzato grandi profitti a breve termine. E il modo di accrescere questi profitti era quello di accumulare persino oltre il dovuto[60], sia spingendo la gente ad indebitarsi[61] che applicando moltiplicatori sempre più elevati all’interno del settore finanziario.

Prima o poi, questo sistema di cui s’era perso il controllo[62] era destinato a schiantarsi. E se non introdurremo sostanziali cambiamenti, di certo accadrà di nuovo.

I banchieri realmente non capiscono quello che è accaduto, o stanno solo chiacchierando dei loro interessi personali? Non importa. Come ho detto, guardando in avanti la cosa importante è smettere di ascoltare gli uomini della finanza sul tema della riforma finanziaria.

I dirigenti di Wall Street vi diranno che la legge di riforma del sistema finanziario che la Camera ha approvato lo scorso mese danneggerebbe l’economia per effetto di una eccessiva regolamentazione (in effetti essa è ancora abbastanza timida). Essi proseguiranno dicendovi che la tassa sul debito bancario appena proposta dalla amministrazione Obama è una vera e propria concessione ad un populismo pazzesco. Vi metteranno in guardia da queste iniziative per tassare o altrimenti per fermare i compensi al sistema finanziario, definendole distruttive ed ingiustificate.

Ma cosa ne sanno? La risposta, per quanto posso testimoniare[63], è che non ne sanno molto. 

 

 


 

What Didn’t Happen

By PAUL KRUGMAN

Published: January 17, 2010

Lately many people have been second-guessing the Obama administration’s political strategy. The conventional wisdom seems to be that President Obama tried to do too much — in particular, that he should have put health care on one side and focused on the economy.

 

I disagree. The Obama administration’s troubles are the result not of excessive ambition, but of policy and political misjudgments. The stimulus was too small; policy toward the banks wasn’t tough enough; and Mr. Obama didn’t do what Ronald Reagan, who also faced a poor economy early in his administration, did — namely, shelter himself from criticism with a narrative that placed the blame on previous administrations.

 

 

About the stimulus: it has surely helped. Without it, unemployment would be much higher than it is. But the administration’s program clearly wasn’t big enough to produce job gains in 2009.

 

Why was the stimulus underpowered? A number of economists (myself included) called for a stimulus substantially bigger than the one the administration ended up proposing. According to The New Yorker’s Ryan Lizza, however, in December 2008 Mr. Obama’s top economic and political advisers concluded that a bigger stimulus was neither economically necessary nor politically feasible.

 

 

Their political judgment may or may not have been correct; their economic judgment obviously wasn’t. Whatever led to this misjudgment, however, it wasn’t failure to focus on the issue: in late 2008 and early 2009 the Obama team was focused on little else. The administration wasn’t distracted; it was just wrong.

 

 

The same can be said about policy toward the banks. Some economists defend the administration’s decision not to take a harder line on banks, arguing that the banks are earning their way back to financial health. But the light-touch approach to the financial industry further entrenched the power of the very institutions that caused the crisis, even as it failed to revive lending: bailed-out banks have been reducing, not increasing, their loan balances. And it has had disastrous political consequences: the administration has placed itself on the wrong side of popular rage over bailouts and bonuses.

 

 

Finally, about that narrative: It’s instructive to compare Mr. Obama’s rhetorical stance on the economy with that of Ronald Reagan. It’s often forgotten now, but unemployment actually soared after Reagan’s 1981 tax cut. Reagan, however, had a ready answer for critics: everything going wrong was the result of the failed policies of the past. In effect, Reagan spent his first few years in office continuing to run against Jimmy Carter.

 

 

Mr. Obama could have done the same — with, I’d argue, considerably more justice. He could have pointed out, repeatedly, that the continuing troubles of America’s economy are the result of a financial crisis that developed under the Bush administration, and was at least in part the result of the Bush administration’s refusal to regulate the banks.

 

 

But he didn’t. Maybe he still dreams of bridging the partisan divide; maybe he fears the ire of pundits who consider blaming your predecessor for current problems uncouth — if you’re a Democrat. (It’s O.K. if you’re a Republican.) Whatever the reason, Mr. Obama has allowed the public to forget, with remarkable speed, that the economy’s troubles didn’t start on his watch.

 

 

So where do complaints of an excessively broad agenda fit into all this? Could the administration have made a midcourse correction on economic policy if it hadn’t been fighting battles on health care? Probably not. One key argument of those pushing for a bigger stimulus plan was that there would be no second chance: if unemployment remained high, they warned, people would conclude that stimulus doesn’t work rather than that we needed a bigger dose. And so it has proved.

 

 

It’s important to remember, also, how important health care reform is to the Democratic base. Some activists have been left disillusioned by the compromises made to get legislation through the Senate — but they would have been even more disillusioned if Democrats had simply punted on the issue.

 

 

And politics should be about more than winning elections. Even if health care reform loses Democrats’ votes (which is questionable), it’s the right thing to do.

 

So what comes next?

At this point Mr. Obama probably can’t do much about job creation. He can, however, push hard on financial reform, and seek to put himself back on the right side of public anger by portraying Republicans as the enemies of reform — which they are.

 

And meanwhile, Democrats have to do whatever it takes to enact a health care bill. Passing such a bill won’t be their political salvation — but not passing a bill would surely be their political doom.

 

“Che cosa non è accaduto”, di Paul Krugman

New York Times 18 gennaio 2010

 

Recentemente in molti si sono esercitati a indovinare la prossima mossa[64] della strategia politica della amministrazione Obama. Il pregiudizio diffuso ritiene che il Presidente Obama abbia cercato di fare troppo, in particolare che avrebbe fatto meglio a mettere da parte la riforma della assistenza sanitaria e concentrarsi sull’economia.

Non sono d’accordo. I guai della amministrazione Obama non sono la conseguenza di una eccessiva anbizione, bensì di una linea politica e di giudizi politici sbagliati[65]. Il programma di sostegno è stato troppo angusto; la politica verso le banche non è stata sufficientemente energica e Obama non ha fatto quello che fece il Presidente Ronald Reagan, il quale anche dovette fronteggiare un’economia depressa agli inizi del suo mandato: cioè, non si è messo al riparo dalle critiche con una ricostruzione dei fatti[66] che chiarisse la colpa delle amministrazioni precedenti.

 A proposito del sostegno all’economia: sicuramente è servito. Senza di esso, la disoccupazione sarebbe molto più alta di quanto non sia. Ma il programma della amministrazione chiaramente non è stato abbastanza vasto da produrre incrementi occupazionali nel 2009.

Perché il programma di sostegno è stato sottoalimentato? Un certo numero di economisti (me compreso) avevano chiesto un programma sostanzialmente più impegnativo di quello che la amministrazione ha finito col proporre. Tuttavia, secondo la ricostruzione fatta da Ryan Lizza del New Yorker, nel dicembre del 2008 i massimi consiglieri economici e politici di Obama arrivarono alla conclusione che un sostegno più ampio non era né economicamente necessario, né politicamente gestibile.

Il loro giudizio politico può essere stato più o meno corretto; evidentemente quello economico non lo era. Qualsiasi motivo avesse portato a quel giudizio sbagliato, tuttavia esso non dipese da un difetto di concentrazione sulla questione[67]; nell’ultima parte del 2008 e nella prima del 2009 il team di Obama era concentrato su poco altro. L’amministrazione non fu distratta; essa fece proprio uno sbaglio .

Lo stesso può essere detto a proposito della politica sul sistema bancario. Alcuni economisti difendono la linea della amministrazione sulle banche, sostenendo che la banche si stanno guadagnando il recupero di condizioni di salute finanziaria. Ma l’approccio morbido[68] al sistema finanziario ha ulteriormente radicato[69] il potere proprio di quegli istituti che hanno provocato la crisi, anche se essi non sono riusciti a rianimare il credito: le banche che hanno usufruito del salvataggio, hanno ridotto, non accresciuto, i prestiti nei loro bilanci. E questo ha provocato conseguenze politiche disastrose: la amministrazione si è collocata sul versante sbagliato, rispetto alla rabbia della gente in materia di salvataggi e di gratifiche.

Infine, a proposito della qualità della comunicazione: è istruttivo un paragone tra la posizione retorica di Obama sulle questioni economiche, e quello di Ronald Reagan. Oggi lo si dimentica spesso, ma la disoccupazione in realtà salì improvvisamente dopo il taglio delle tasse di Reagan nel 1981. Reagan, tuttavia, aveva una risposta pronta per i suoi critici: tutto quello che andava storto era la conseguenza dei fallimenti delle politiche del passato. Di fatto, Reagan utilizzò i primi anni del suo mandato in una polemica continua[70] con Jimmy Carter.

Obama avrebbe potuto fare lo stesso, mi parrebbe, con molto maggiore fondamento. Egli avrebbe potuto mettere costantemente in evidenza quanto i perduranti guai dell’economia americana siano il risultato di una crisi finanziaria che si era sviluppata sotto l’amministrazione Bush; che era almeno in parte la conseguenza del rifiuto di procedere alla regolamentazione del sistema bancario da parte di quella stessa amministrazione.

Ma non l’ha fatto. Può darsi che egli sogni di lanciare un ponte oltre le contrapposizioni partigiane[71]; può darsi che egli tema le ire degli addetti ai lavori, che giudicano rozzo incolpare i propri predecessori per i problemi correnti, almeno nel caso dei democratici (mentre va tutto bene se siete repubblicani). Qualunque sia la ragione, Obama ha permesso che la gente dimenticasse, con sorprendente velocità, che i guai dell’economia non erano cominciati con il suo mandato[72].

Dentro tutto questo, che fondamento possono avere le lamentele relative ad una agenda  eccessivamente ambiziosa[73]? Avrebbe potuto l’amministrazione realizzare una correzione della politica economica a metà del cammino, se non avesse combattuto la battaglia della riforma sanitaria? Probabilmente no. Un argomento chiave di coloro che sollecitavano un programma di sostegno più incisivo, era che non ci sarebbe stata una seconda possibilità: se la disoccupazione resterà elevata, essi avevano ammonito, la gente penserà che il programma di sostegno non ha funzionato, e non che sarebbe stata indispensabile una dose maggiore.  E così si è dimostrato.

E anche importante ricordare quanto sia importante per la base democratica una riforma della assistenza sanitaria. Alcuni attivisti si sono sentiti disillusi dai compromessi messi in atto per far approvare la legislazione al Senato, ma si sarebbero sentiti ancora più ingannati se i democratici si fossero limitati a giocare d’azzardo[74] su tale questione.

E la politica dovrebbe essere qualcosa di più, che non il vincere le elezioni. Persino se la riforma della assistenza sanitaria facesse perdere dei voti ai democratici (il che è opinabile) sarebbe stato giusto farla.

Adesso cosa ci aspetta?

A questo punto, probabilmente Obama non può fare di più, quanto a creazione di posti di lavoro. Egli può, tuttavia, spingere con forza per una riforma del sistema finanziario, e cercare di tornare a piazzarsi dalla parte giusta rispetto alla indignazione della gente, additando i repubblicani[75] come i nemici della riforma, quali in effetti sono.

E nel frattempo i democratici debbono fare tutto ciò che serve alla approvazione di una legge di riforma sanitaria. La approvazione della legge non sarà la loro salvezza politica, ma la non approvazione sarebbe sicuramente il loro fallimento politico.

 

 

 


 

Do the Right Thing

By PAUL KRUGMAN

Published: January 21, 2010

A message to House Democrats: This is your moment of truth. You can do the right thing and pass the Senate health care bill. Or you can look for an easy way out, make excuses and fail the test of history.

 

 

Skip to next paragraphTuesday’s Republican victory in the Massachusetts special election means that Democrats can’t send a modified health care bill back to the Senate. That’s a shame because the bill that would have emerged from House-Senate negotiations would have been better than the bill the Senate has already passed. But the Senate bill is much, much better than nothing. And all that has to happen to make it law is for the House to pass the same bill, and send it to President Obama’s desk.

Right now, Nancy Pelosi, the speaker of the House, says that she doesn’t have the votes to pass the Senate bill. But there is no good alternative.

Some are urging Democrats to scale back their proposals in the hope of gaining Republican support. But anyone who thinks that would work must have spent the past year living on another planet.

 

 

The fact is that the Senate bill is a centrist document, which moderate Republicans should find entirely acceptable. In fact, it’s very similar to the plan Mitt Romney introduced in Massachusetts just a few years ago. Yet it has faced lock-step opposition from the G.O.P., which is determined to prevent Democrats from achieving any successes. Why would this change now that Republicans think they’re on a roll?

 

 

Alternatively, some call for breaking the health care plan into pieces so that the Senate can vote the popular pieces into law. But anyone who thinks that would work hasn’t paid attention to the actual policy issues.

 

 

Think of health care reform as being like a three-legged stool. You would, rightly, ridicule anyone who proposed saving money by leaving off one or two of the legs. Well, those who propose doing only the popular pieces of health care reform deserve the same kind of ridicule. Reform won’t work unless all the essential pieces are in place.

 

 

Suppose, for example, that Congress took the advice of those who want to ban insurance discrimination on the basis of medical history, and stopped there. What would happen next? The answer, as any health care economist will tell you, is that if Congress didn’t simultaneously require that healthy people buy insurance, there would be a “death spiral”: healthier Americans would choose not to buy insurance, leading to high premiums for those who remain, driving out more people, and so on.

 

 

 

And if Congress tried to avoid the death spiral by requiring that healthy Americans buy insurance, it would have to offer financial aid to lower-income families to make that insurance affordable — aid at least as generous as that in the Senate bill. There just isn’t any way to do reform on a smaller scale.

 

So reaching out to Republicans won’t work, and neither will trying to pass only the crowd-pleasing pieces of reform. What about the suggestion that Democrats use reconciliation — the Senate procedure for finalizing budget legislation, which bypasses the filibuster — to enact health reform?

 

 

 

That’s a real option, which may become necessary (and could be used to improve the Senate bill after the fact). But reconciliation, which is basically limited to matters of taxing and spending, probably can’t be used to enact many important aspects of reform. In fact, it’s not even clear if it could be used to ban discrimination based on medical history.

 

 

 

 

Finally, some Democrats want to just give up on the whole thing.

 

That would be an act of utter political folly. It wouldn’t protect Democrats from charges that they voted for “socialist” health care — remember, both houses of Congress have already passed reform. All it would do is solidify the public perception of Democrats as hapless and ineffectual.

 

 

And anyway, politics is supposed to be about achieving something more than your own re-election. America desperately needs health care reform; it would be a betrayal of trust if Democrats fold simply because they hope (wrongly) that this would slightly reduce their losses in the midterm elections.

 

Now, part of Democrats’ problem since Tuesday’s special election has been that they have been waiting in vain for leadership from the White House, where Mr. Obama has conspicuously failed to rise to the occasion.

 

But members of Congress, who were sent to Washington to serve the public, don’t have the right to hide behind the president’s passivity.

Bear in mind that the horrors of health insurance — outrageous premiums, coverage denied to those who need it most and dropped when you actually get sick — will get only worse if reform fails, and insurance companies know that they’re off the hook. And voters will blame politicians who, when they had a chance to do something, made excuses instead.

 

 

Ladies and gentlemen, the nation is waiting. Stop whining, and do what needs to be done.

 

“Fate la cosa giusta”, di Paul Krugman

New York Times, 21 gennaio 2010

 

Un messaggio ai democratici della Camera: questo è il vostro momento della verità. Potete fare la cosa giusta ed approvare al legge di riforma sanitaria del Senato. Oppure potete cercare una qualche facile via d’uscita, accampando qualche scusa ma perdendo l’appuntamento con una occasione storica.

La vittoria dei repubblicani nelle elezioni speciali del Massachussets di giovedi, ha come conseguenza che i democratici non possono rinviare al Senato una legge di riforma sanitaria modificata. E’ un peccato, perché nei negoziati tra i due rami del Congresso si stava delineando un testo certamente migliore di quello già approvato al Senato.  Purtuttavia, il testo del Senato è molto, molto meglio che niente. E ciò che deve accadere perché esso diventi legge è che la Camera lo approvi nella stessa versione, e lo spedisca sul tavolo del Presidente Obama.

Proprio in questo momento, Nancy Pelosi ha affermato che non avrebbe i voti sufficienti per l’approvazione di quel testo; ma non esiste alcuna alternativa ragionevole.

Qualcuno sta suggerendo ai democratici di ridimensionare[76] i loro propositi, nella speranza di ottenere il supporto dei repubblicani. Ma tutti quelli che ritengono che questa soluzione potrebbe funzionare, devono aver passato l’ultimo anno su un altro pianeta.

La sostanza è che il testo del Senato è un documento centrista, che dovrebbe risultare interamente accettabile ai repubblicani moderati. Di fatto, esso è del tutto simile al piano Mitt Romney, che fu introdotto in Massachussetts solo pochi anni orsono. Ciononostante, esso si è dovuto misurare con una opposizione a ranghi serrati[77] da parte del G.O.P.[78], che è determinato ad impedire che i democratici ottengano un qualsiasi successo. Perché ci dovrebbe essere un cambiamento, ora che i repubblicani pensano di essere sulla cresta dell’onda[79]?

In alternativa, qualcuno chiede che il Senato suddivida il programma di assistenza sanitaria, in modo tale che gli aspetti sui quali c’è maggiore consenso possano essere trasformati in legge. Ma, ancora, chi pensa che questo potrebbe funzionare, non ha prestato sufficiente attenzione alle attuali condizioni del confronto politico.

Pensate alla riforma della assistenza sanitaria come se fosse uno sgabello a tre gambe. Voi, giustamente, riterreste ridicola la proposta di chiunque si proponga di risparmiare soldi, rinunciando a una o due di quelle gambe.  Bene, quelli che propongono di realizzare solo gli aspetti della riforma sanitaria sui quali c’è più vasto consenso, sfidano il buonsenso nello stesso modo. La riforma non può funzionare se i suoi aspetti principali non sono disposti nella loro giusta sequenza.

Supponiamo, per esempio, che il Congresso segua il consiglio di coloro che vogliono mettere al bando la discriminazione dei pazienti sulla base della storia clinica da parte del sistema assicurativo, e si fermi lì.  Cosa accadrebbe poi? La risposta, come ogni economista di sistemi sanitari vi dirà, è che se il Congresso non avrà contemporaneamente previsto che la gente che gode di buona salute acquisti una assicurazione, potrebbe esserci una specie di “macabra spirale”: gli americani in buona salute sceglierebbero di non acquistare l’assicurazione, costringendo ad alte polizze tutti quelli che restano e cacciando fuori dal sistema la maggioranza degli utenti[80], con quello che ne consegue[81].

Ma se il Congresso cercasse di evitare tale macabra spirale, prevedendo che gli americani in salute acquistino la copertura assicurativa, esso dovrebbe anche offrire alle famiglie a basso reddito aiuti finanziari che rendano sostenibile tale assicurazione, aiuti altrettanto cospicui di quelli previsti nel testo del Senato. Non c’è proprio nessun modo per realizzare una riforma su una scala ridotta.

Dunque, stabilire una qualche connessione[82] con i repubblicani non funzionerà, e neppure funzionerà far approvare soltanto le parti della riforma che hanno maggiore indice di gradimento[83]. E che cosa dire del suggerimento secondo il quale i democratici potrebbero usare lo strumento della “riconciliazione”[84] – l’istituto utilizzato al Senato per la definizione delle legge di bilancio, che consente di aggirare l’ostruzionismo – al fine di varare al riforma della sanità?

Si tratta di una possibilità reale, che potrebbe diventare necessaria (e potrebbe essere utilizzata per migliorare il testo del Senato, una volta superata questa vicenda). Ma l’istituto della “riconciliazione”, il cui utilizzo è fondamentalmente limitato alle materie della fiscalità e della spesa pubblica, probabilmente non può essere usato per deliberare aspetti importanti della riforma. Di fatto, non è neppure chiaro se esso potrebbe essere utilizzato per mettere al bando la discriminazione basata sulla storia clinica del paziente.

Infine, qualche democratico vorrebbe proprio farla finita per intero con questa storia[85].

Quello sarebbe un gesto di totale follia politica. Non metterebbe al riparo i democratici dall’accusa di aver votato a favore di una assistenza sanitaria “socialista” (ricordiamo che entrambi i rami del Congresso hanno già approvato la riforma). In quel modo, semplicente si consoliderebbe la percezione pubblica secondo la quale i democratici non sono altro che persone improbabili[86] e inefficaci.

E in ogni modo, si suppone che gli uomini politici intendano conseguire qualche risultato maggiore che non la sola personale rielezione. L’America ha un bisogno disperato della riforma della assistenza sanitaria: sarebbe un tradimento della fiducia se i democratici ripiegassero semplicemente nella speranza (infondata) di poter, in questo modo, contenere leggermente le perdite nelle elezioni del mediotermine.

Ora, una parte del problema dei democratici, sino alle elezioni speciali di giovedì scorso, era consistita nel fatto che essi aveva atteso invano una guida dalla Casa Bianca, laddove Obama è stato sostanzialmente incapace di superare la prova.

Ma i membri del Congresso, che sono stati mandati a Washington per servire l’interesse pubblico, non hanno diritto di nascondersi dietro la passività presidenziale.

Tenete a mente che gli orrori delle assicurazioni sulla salute – le polizze oltraggiose, la copertura assistenziale negata a coloro che ne hanno massima necessità oppure tolta nel momento in cui effettivamente ci si ammala – possono solo diventare più grandi, se la riforma fallisce, e le compagnie assicurative cominciano a sentirsi fuori pericolo. Gli elettori daranno il loro biasimo a quei politici che, nel momento in cui avevano una possibilità di fare qualcosa, hanno piuttosto accampato scuse.

Signore e signori, la nazione sta aspettando. E’ l’ora di finirla con i piagnistei e di fare quello che deve essere fatto.

 

 


 

The Bernanke Conundrum

By PAUL KRUGMAN

Published: January 24, 2010

A Republican won in Massachusetts — and suddenly it’s not clear whether the Senate will confirm Ben Bernanke for a second term as Federal Reserve chairman. That’s not as strange as it sounds: Washington has suddenly noticed public rage over economic policies that bailed out big banks but failed to create jobs. And Mr. Bernanke has become a symbol of those policies.

 

 

 

Where do I stand? I deeply admire Mr. Bernanke, both as an economist and for his response to the financial crisis. (Full disclosure: before going to the Fed he headed Princeton’s economics department, and hired me for my current position there.) Yet his critics have a strong case. In the end, I favor his reappointment, but only because rejecting him could make the Fed’s policies worse, not better.

 

 

 

How did we get to the point where that’s the most I can say?

Mr. Bernanke is a superb research economist. And from the spring of 2008 to the spring of 2009 his academic expertise and his policy role meshed perfectly, as he used aggressive, unorthodox tactics to head off a second Great Depression.

 

 

Unfortunately, that’s not the whole story. Before the crisis struck, Mr. Bernanke was very much a conventional, mainstream Fed official, sharing fully in the institution’s complacency. Worse, after the acute phase of the crisis ended he slipped right back into that mainstream. Once again, the Fed is dangerously complacent — and once again, Mr. Bernanke seems to share that complacency.

 

 

Consider two issues: financial reform and unemployment.

Back in July, Mr. Bernanke spoke out against a key reform proposal: the creation of a new consumer financial protection agency. He urged Congress to maintain the current situation, in which protection of consumers from unfair financial practices is the Fed’s responsibility.

 

But here’s the thing: During the run-up to the crisis, as financial abuses proliferated, the Fed did nothing. In particular, it ignored warnings about subprime lending. So it was striking that in his testimony Mr. Bernanke didn’t acknowledge that failure, didn’t explain why it happened, and gave no reason to believe that the Fed would behave differently in the future. His message boiled down to “We know what we’re doing — trust us.”

 

 

As I said, the Fed has returned to a dangerous complacency.

 

And then there’s unemployment. The economy may not have collapsed, but it’s in terrible shape, with job-seekers outnumbering job openings six to one. Nor does Mr. Bernanke expect any quick improvement: last month, while predicting that unemployment will fall, he conceded that the rate of decline will be “slower than we would like.” So what does he propose doing to create jobs?

 

Nothing. Mr. Bernanke has offered no hint that he feels the need to adopt policies that might bring unemployment down faster. Instead, he has responded to suggestions for further Fed action with boilerplate about “the anchoring of inflation expectations.” It’s harsh but true to say that he’s acting as if it’s Mission Accomplished now that the big banks have been rescued.

 

 

What happened here? My sense is that Mr. Bernanke, like so many people who work closely with the financial sector, has ended up seeing the world through bankers’ eyes. The same can be said about Timothy Geithner, the Treasury secretary, and Larry Summers, the Obama administration’s top economist. But they’re not up before the Senate, while Mr. Bernanke is.

 

 

Given that, why not reject Mr. Bernanke? There are other people with the intellectual heft and policy savvy to take on his role: among the possible choices would be my Princeton colleague Alan Blinder, a former Fed vice chairman, and Janet Yellen, the president of the San Francisco Fed.

 

But — and here comes my defense of a Bernanke reappointment — any good alternative for the position would face a bruising fight in the Senate. And choosing a bad alternative would have truly dire consequences for the economy.

Furthermore, policy decisions at the Fed are made by committee vote. And while Mr. Bernanke seems insufficiently concerned about unemployment and too concerned about inflation, many of his colleagues are worse. Replacing him with someone less established, with less ability to sway the internal discussion, could end up strengthening the hands of the inflation hawks and doing even more damage to job creation.

 

That’s not a ringing endorsement, but it’s the best I can do.

 

If Mr. Bernanke is reappointed, he and his colleagues need to realize that what they consider a policy success is actually a policy failure. We have avoided a second Great Depression, but we are facing mass unemployment — unemployment that will blight the lives of millions of Americans — for years to come. And it’s the Fed’s responsibility to do all it can to end that blight.

 

“L’enigma Bernanke”, di Paul Krugman,

New York Times, 24 gennaio 2010

 

Un repubblicano ha vinto le elezioni in Massachussets e all’improvviso non è più chiaro se il Senato confermerà Ben Bernanke come presidente della Federal Reserve per un secondo mandato. E’ una notizia non così strana come può sembrare: Washington ha dovuto constatare tutto a un tratto l’insofferenza della gente per politiche economiche che hanno provocato il salvataggio delle grandi banche, ma hanno fallito nel creare nuovi posti di lavoro. E Bernanke è diventato il simbolo di queste politiche.

Quale è la mia opinione, in questa vicenda?[87]. Io ammiro profondamente Bernanke, sia come economista sia per come ha risposto alla crisi finanziaria (non intendo tacere[88] che, prima di andare alla Fed, egli aveva diretto il Dipartimento di scienze economiche dell’Università di Princeton, e mi aveva chiamato all’incarico che attualmente svolgo in quella struttura).Tuttavia, i suoi critici hanno argomenti non da poco[89]. In ultima analisi, io sono a favore di una sua seconda nomina, solo perché la sua non riconferma farebbe peggiorare le politiche della Fed, anziché migliorarle.

Come siamo arrivati a questo punto, per il quale le parole che ho adoperato sono il massimo che io possa dire in suo favore?[90] 

Bernanke è un superbo ricercatore, in materia economica. E dalla primavera del 2008 a quella del 2009 la sua esperienza economica ed il suo ruolo politico si erano intrecciati[91] perfettamente, nel momento in cui egli utilizzò tecniche aggressive e non ortodosse nel prendere le distanze[92] dal rischio di una seconda Grande Depressione.

Sfortunatamente, la storia non finì a quel punto. Prima che si accendesse la crisi, Bernanke era stato un dirigente Fed molto convenzionale e tradizionale, pienamente partecipe[93] di un clima di compiacenza verso le istituzioni.  La cosa peggiore è che, al momento in cui è stata superata la fase acuta della crisi, egli è tornato ad infilarsi diritto in quello stile convenzionale. Ancora una volta la Fed è divenuta pericolosamente compiacente, ed ancora una volta Bernanke è sembrato condividere quella forma di subalternità.

Si considerino due aspetti: la riforma del sistema finanziario e la disoccupazione.

Nello scorso luglio, Bernanke prese posizione contro la proposta di una riforma fondamentale: la creazione di una nuova agenzia di protezione dei consumatori del sistema finanziario. Egli sollecitò il Congresso a mantenere la attuale situazione, nella quale la protezione dei consumatori dalle pratiche finanziarie sleali è compito della Fed.

Ma qua è il punto: durante il periodo precedente[94] alla crisi, nel momento in cui gli abusi proliferavano, la Fed non aveva detto niente. In particolare, essa era stata del tutto assente nel mettere in guardia contro i cosiddetti mutui subprime. Fu dunque sorprendente il fatto che, nella sua testimonianza, Bernanke si guardasse dal riconoscere quel fallimento, non spiegando perché esso fosse avvenuto e non offrendo alcuna ragione per credere che la Fed si sarebbe comportata diversamente nel futuro. Il suo messaggio si ridusse[95] a questo: “Noi sappiamo cosa stiamo facendo. Credeteci.”

Come ho detto, la Fed era tornata ad una posizione di pericolosa compiacenza.

E poi c’è il tema della disoccupazione. Può darsi che l’economia non sia collassata, ma essa è in una condizione terribile, con un rapporto di sei ad uno tra coloro che cercano lavoro ed i posti di lavoro disponibili. Né Bernanke si aspetta un qualche improvviso miglioramento: il mese scorso, nell’ambito di un ragionamento nel quale preconizzava una caduta della disoccupazione, egli ammise che il tasso di riduzione sarebbe stato “più lento di quanto vorremmo”. Che cosa, dunque, egli propone di fare per creare posti di lavoro?

Niente. Bernanke non ha offerto alcun suggerimento dal quale si possa intendere che egli sente il bisogno di adottare politiche che consentano di ridurre la disoccupazione più rapidamente. Invece, egli ha risposto alle sollecitazioni per una iniziativa ulteriore da parte della Fed secondo lo schema[96] del “restare ancorati alle aspettative di inflazione”. E’ sgradevole[97] ma veritiero affermare che egli si sta comportando sullo stile della “missione compiuta”, ora che le grandi banche hanno ottenuto il salvataggio.

Ma che cosa sta accadendo? La mia sensazione è che Bernanke, come molte altre persone che operano in stretto contatto con il sistema finanziario, abbiano finito col guardare al mondo attraverso gli occhi dei banchieri. Lo stesso potrebbe essere detto di Timothy Geithner, Segretario al Tesoro, e di Larry Summers, il principale consigliere economico della amministrazione Obama. Ma questi non si trovano davanti al giudizio del Senato[98], come nel caso di Bernanke.

Considerato tutto ciò, perché non respingere la candidatura di Bernanke? Ci sarebbero altre persone dotate di peso intellettuale e di competenza politica adeguati a quell’incarico: tra le scelte possibili ci sarebbe il mio collega di Princeton Alan Blinder, in passato vicepresidente della Fed, e Janet Yellen, a capo della Fed di San Francisco.

Ma – ed è per questo motivo che sostengo una riconferma di Bernanke – qualsiasi buona alternativa per quell’incarico dovrebbe misurarsi con una dura battaglia in Senato. Di contro, la scelta di una cattiva alternativa avrebbe conseguenze davvero terribili per l’economia.

Inoltre, le decisioni politiche nella Fed sono assunte attraverso votazioni collegiali. E se Bernanke sembra insufficientemente preoccupato dei problemi della disoccupazione e troppo preoccupato per l’inflazione, molti suoi colleghi hanno posizioni peggiori. Rimpiazzarlo con qualcuno meno solido, e con minore abilità nel barcamenarsi[99] nel dibattito interno, potrebbe finire col rafforzare le posizioni[100] dei falchi dell’inflazione, e provocare un danno molto maggiore ad una politica di creazione di nuovi posti di lavoro.

Forse questo non è un sostegno molto caloroso[101], ma è il massimo che posso fare.

Se Bernanke sarà confermato, egli ed i suoi colleghi dovranno intendere che quello che giudicano un successo politico è in realtà un fallimento politico. Abbiamo evitato una seconda Grande depressione, ma dovremo fare i conti, per gli anni avvenire, con una diccupazione di massa, una disoccupazione che porterà al degrado[102] la vita di milioni di americani. Ed è responsabilità della Fed fare tutto quello che è in suo potere per interrompere quel degrado.

 

 

 

 

 


 

March of the Peacocks

By PAUL KRUGMAN

Published: January 28, 2010

Last week, the Center for American Progress, a think tank with close ties to the Obama administration, published an acerbic essay about the difference between true deficit hawks and showy “deficit peacocks.” You can identify deficit peacocks, readers were told, by the way they pretend that our budget problems can be solved with gimmicks like a temporary freeze in nondefense discretionary spending.

 

Skip to next paragraphOne week later, in the State of the Union address, President Obama proposed a temporary freeze in nondefense discretionary spending.

Wait, it gets worse. To justify the freeze, Mr. Obama used language that was almost identical to widely ridiculed remarks early last year by John Boehner, the House minority leader. Boehner then: “American families are tightening their belt, but they don’t see government tightening its belt.” Obama now: “Families across the country are tightening their belts and making tough decisions. The federal government should do the same.”

 

 

What’s going on here? The answer, presumably, is that Mr. Obama’s advisers believed he could score some political points by doing the deficit-peacock strut. I think they were wrong, that he did himself more harm than good. Either way, however, the fact that anyone thought such a dumb policy idea was politically smart is bad news because it’s an indication of the extent to which we’re failing to come to grips with our economic and fiscal problems.

 

 

The nature of America’s troubles is easy to state. We’re in the aftermath of a severe financial crisis, which has led to mass job destruction. The only thing that’s keeping us from sliding into a second Great Depression is deficit spending. And right now we need more of that deficit spending because millions of American lives are being blighted by high unemployment, and the government should be doing everything it can to bring unemployment down.

 

 

In the long run, however, even the U.S. government has to pay its way. And the long-run budget outlook was dire even before the recent surge in the deficit, mainly because of inexorably rising health care costs. Looking ahead, we’re going to have to find a way to run smaller, not larger, deficits.

 

 

How can this apparent conflict between short-run needs and long-run responsibilities be resolved? Intellectually, it’s not hard at all. We should combine actions that create jobs now with other actions that will reduce deficits later. And economic officials in the Obama administration understand that logic: for the past year they have been very clear that their vision involves combining fiscal stimulus to help the economy now with health care reform to help the budget later.

 

 

The sad truth, however, is that our political system doesn’t seem capable of doing what’s necessary.

 

On jobs, it’s now clear that the Obama stimulus wasn’t nearly big enough. No need now to resolve the question of whether the administration should or could have sought a bigger package early last year. Either way, the point is that the boost from the stimulus will start to fade out in around six months, yet we’re still facing years of mass unemployment. The latest projections from the Congressional Budget Office say that the average unemployment rate next year will be only slightly lower than the current, disastrous, 10 percent.

 

 

Yet there is little sentiment in Congress for any major new job-creation efforts.

Meanwhile, health care reform faces a troubled outlook. Congressional Democrats may yet manage to pass a bill; they’ll be committing political suicide if they don’t. But there’s no question that Republicans were very successful at demonizing the plan. And, crucially, what they demonized most effectively were the cost-control efforts: modest, totally reasonable measures to ensure that Medicare dollars are spent wisely became evil “death panels.”

 

 

 

 

So if health reform fails, you can forget about any serious effort to rein in rising Medicare costs. And even if it succeeds, many politicians will have learned a hard lesson: you don’t get any credit for doing the fiscally responsible thing. It’s better, for the sake of your career, to just pretend that you’re fiscally responsible — that is, to be a deficit peacock.

 

 

 

So we’re paralyzed in the face of mass unemployment and out-of-control health care costs. Don’t blame Mr. Obama. There’s only so much one man can do, even if he sits in the White House. Blame our political culture instead, a culture that rewards hypocrisy and irresponsibility rather than serious efforts to solve America’s problems. And blame the filibuster, under which 41 senators can make the country ungovernable, if they choose — and they have so chosen.

 

 

 

I’m sorry to say this, but the state of the union — not the speech, but the thing itself — isn’t looking very good.

 

“La marcia dei pavoni”, di Paul Krugman.

New York Times, 28 gennaio 2010

 

La scorsa settimana, il Center for American Progress, un gruppo di intellettuali con stretti legami con la amministrazione Obama, ha pubblicato un acido[103] saggio a proposito delle differenze tra i falchi del deficit e gli effimeri[104] “pavoni del deficit”. Potete identificare i “pavoni del deficit”, i lettori sono avvertiti, dal modo in cui essi pretendono di risolvere i nostri problemi finanziari, con trovate[105] quali il temporaneo raffreddamento delle spese discrezionali nei settori diversi da quello della difesa.

Una settimana prima, il Presidente Obama aveva proposto un congelamento temporaneo delle spese discrezionali in quei settori.

Un po’ di pazienza, perché c’è di peggio[106]. Per giustificare il congelamento, Obama ha usato un linguaggio quasi identico alle osservazioni che vennero avanzate l’anno scorso da John Boehner, rappresentante della minoranza alla Camera, osservazioni che suscitarono una diffusa ironia. Allora Boehner disse: “Le famiglie americane stanno stringendo la cinghia, ma non vedono il governo degli Stati Uniti fare altrettanto”. Oggi Obama dice: “Le famiglie in tutta l’America stanno stringendo la cinghia e prendendo dure decisioni. Il governo federale dovrebbe fare lo stesso”.

Come si spiega tutto ciò? Posso presumere che i consiglieri di Obama abbiano ritenuto che egli avrebbe portato a casa un qualche vantaggio politico[107], atteggiandosi alla stregua dei “pavoni del deficit”[108]. Penso che essi sbaglino, e che Obama si procuri in tal modo più danni che vantaggi. In ogni modo, tuttavia, il fatto che qualcuno abbia ritenuto che un’idea così sciocca della politica fosse un gesto di furbizia, è una cattiva notizia perché indica quanto stiamo cadendo in basso nel fare i conti con i nostri problemi economici e fiscali.

La natura dei guai dell’America può essere definita in modo semplice. Noi siamo dinanzi alle ripercussioni di una gravissima crisi finanziaria, che ha comportato una distruzione massiccia di posti di lavoro. L’unico modo che abbiamo per evitare di scivolare in una seconda Grande Depressione, è la spesa pubblica in deficit. E in questo momento noi abbiamo bisogno di una maggiore spesa pubblica, perché le vite di milioni di americani stanno subendo il degrado di una disoccupazione elevata, e il governo dovrebbe fare tutto ciò che è in suo potere per spingere la disoccupazione in basso.

Nel lungo periodo, tuttavia, anche il governo degli Stati Uniti dovrà pagare la propria parte[109]. Le prospettive di lungo periodo del bilancio erano terribili anche prima del recente incremento del deficit, principalmente per effetto della crescita inesorabile dei costi della assistenza sanitaria. Guardando avanti, noi dovremo trovare un modo per ridurre il deficit, non certo per ampliarlo.

Come può essere risolta questa apparente contraddizione tra i bisogni dell’immediato e le responsabilità a più lungo termine? Noi dovremmo combinare azioni che creino occupazione oggi, con altre azioni che riducano il deficit domani. I responsabili economici della amministrazione Obama sono ben consapevoli di questa logica: nell’anno passato essi hanno chiarito con precisione che la loro visione suppone di combinare il sostegno della spesa pubblica per aiutare oggi l’economia, con una riforma della assistenza sanitaria per risanare i bilanci domani.

La triste verità, tuttavia, è che il nostro sistema politico non sembra capace di fare quello che è necessario.

Per quanto riguarda l’occupazione, oggi è chiaro che il programma di sostegno di Obama non è stato neanche lontanamente sufficiente. Non serve oggi porsi il problema se la amministrazione avrebbe dovuto o potuto decidere un complesso di azioni più vasto, agli inizi dell’anno passato. In ogni modo, il punto è che la spinta proveniente dal programma di sostegno comincerà ad affievolirsi tra circa sei mesi, nel mentre noi avremo dinanzi ancora anni di disoccupazione massiccia. Le ultime proiezioni del Congressional Budget Office dicono che il prossimo anno il tasso medio di disoccupazione sarà solo leggermente più basso dell’attuale, disastroso 10 per cento.

Eppure è scarsa la sensibilità del Congresso verso azioni più energiche di creazione di nuovi posti di lavoro.

Nel frattempo, la riforma della assistenza sanitaria è alle prese con una prospettiva complicata. I democratici al Congresso possono ancora gestire una approvazione del testo legislativo: se non lo facessero si renderebbero responsabili di un suicidio politico. Ma non c’è dubbio che i repubblicani hanno ottenuto un notevole successo nel demonizzare la proposta. E ciò che è fondamentale è che essi hanno demonizzato soprattutto i tentativi di controllo dei costi: misure modeste ed interamente ragionevoli, tese ad assicurare che i dollari di Medicare fossero spesi con saggezza, sono state fatte passare alla stregua di malvagi “tribunali della morte”.

In questo modo, se la riforma sanitaria fallisce, vi potete scordare ogni serio sforzo di ridurre la crescita dei costi di Medicare. E, persino se essa avesse successo, molti uomini politici riterranno di aver appreso una lezione sgradevole: non si può ottenere alcun riconoscimento[110] con la adozione di soluzioni ispirate al senso di responsabilità nella spesa pubblica. E’ meglio, al fine di procurarsi vantaggi nella carriera politica, limitarsi a far finta[111] di essere responsabili in materia di spesa pubblica: ovvero, è meglio diventare “pavoni del deficit”.

In questo modo noi saremo paralizzati di fronte ad una disoccupazione di massa ed all’uscita di controllo dei costi della assistenza sanitaria. Né si può dare la colpa ad Obama. Non è così grande quello che un uomo può fare da solo[112], persino se è ospite della Casa Bianca. Possiamo invece dar colpa alla nostra cultura politica, una cultura che premia l’ipocrisia e l’irresponsabilità, piuttosto che il tentativo serio di risolvere i problemi dell’America. E possiamo dar colpa all’ostruzionismo, per effetto del quale 41 senatori possono rendere il paese ingovernabile, una volta che lo decidono (ed è quello che essi hanno deciso).

Sono spiacente di dover dire queste cose, ma lo stato dell’unione – non il discorso, ma la cosa in sé – non è davvero esaltante.  

 

 

 

 


 

Good and Boring

By PAUL KRUGMAN

Published: January 31, 2010

In times of crisis, good news is no news. Iceland’s meltdown made headlines; the remarkable stability of Canada’s banks, not so much.

Yet as the world’s attention shifts from financial rescue to financial reform, the quiet success stories deserve at least as much attention as the spectacular failures. We need to learn from those countries that evidently did it right. And leading that list is our neighbor to the north. Right now, Canada is a very important role model.

 

Yes, I know, Canada is supposed to be dull. The New Republic famously pronounced “Worthwhile Canadian Initiative” (from a Times Op-Ed column in the ’80s) the world’s most boring headline. But I’ve always considered Canada fascinating, precisely because it’s similar to the United States in many but not all ways. The point is that when Canadian and U.S. experience diverge, it’s a very good bet that policy differences, rather than differences in culture or economic structure, are responsible for that divergence.

 

And anyway, when it comes to banking, boring is good.

First, some background. Over the past decade the United States and Canada faced the same global environment. Both were confronted with the same flood of cheap goods and cheap money from Asia. Economists in both countries cheerfully declared that the era of severe recessions was over.

 

But when things fell apart, the consequences were very different here and there. In the United States, mortgage defaults soared, some major financial institutions collapsed, and others survived only thanks to huge government bailouts. In Canada, none of that happened. What did the Canadians do differently?

 

It wasn’t interest rate policy. Many commentators have blamed the Federal Reserve for the financial crisis, claiming that the Fed created a disastrous bubble by keeping interest rates too low for too long. But Canadian interest rates have tracked U.S. rates quite closely, so it seems that low rates aren’t enough by themselves to produce a financial crisis.

 

 

Canada’s experience also seems to refute the view, forcefully pushed by Paul Volcker, the formidable former Fed chairman, that the roots of our crisis lay in the scale and scope of our financial institutions — in the existence of banks that were “too big to fail.” For in Canada essentially all the banks are too big to fail: just five banking groups dominate the financial scene.

 

 

On the other hand, Canada’s experience does seem to support the views of people like Elizabeth Warren, the head of the Congressional panel overseeing the bank bailout, who place much of the blame for the crisis on failure to protect consumers from deceptive lending. Canada has an independent Financial Consumer Agency, and it has sharply restricted subprime-type lending.

 

 

Above all, Canada’s experience seems to support those who say that the way to keep banking safe is to keep it boring — that is, to limit the extent to which banks can take on risk. The United States used to have a boring banking system, but Reagan-era deregulation made things dangerously interesting. Canada, by contrast, has maintained a happy tedium.

 

 

More specifically, Canada has been much stricter about limiting banks’ leverage, the extent to which they can rely on borrowed funds. It has also limited the process of securitization, in which banks package and resell claims on their loans outstanding — a process that was supposed to help banks reduce their risk by spreading it, but has turned out in practice to be a way for banks to make ever-bigger wagers with other people’s money.

 

 

There’s no question that in recent years these restrictions meant fewer opportunities for bankers to come up with clever ideas than would have been available if Canada had emulated America’s deregulatory zeal. But that, it turns out, was all to the good.

 

So what are the chances that the United States will learn from Canada’s success?

 

Actually, the financial reform bill that the House of Representatives passed in December would significantly Canadianize the U.S. system. It would create an independent Consumer Financial Protection Agency, it would establish limits on leverage, and it would limit securitization by requiring that lenders hold on to some of their loans.

 

 

But prospects for a comparable bill getting the 60 votes now needed to push anything through the Senate are doubtful. Republicans are clearly dead set against any significant financial reform — not a single Republican voted for the House bill — and some Democrats are ambivalent, too.

 

 

So there’s a good chance that we’ll do nothing, or nothing much, to prevent future banking crises. But it won’t be because we don’t know what to do: we’ve got a clear example of how to keep banking safe sitting right next door.

 

“Quando noioso è sinonimo di buono[113]”, di Paul Krugman.

New York Times, 31 gennaio 2010

In tempi di crisi, una buona notizia non è una notizia. Il disastro[114] dell’Islanda è su tutti i titoli dei giornali; la sorprendente stabilità delle banche del Canada, non altrettanto.

Nel momento in cui l’attenzione mondiale si sposta dal salvataggio alla riforma dei sistemi finanziari, le storie con un tranquillo finale di successo meriterebbero almeno altrettanta attenzione dei fallimenti spettacolari. Noi abbiamo bisogno di imparare da quei paesi che, con tutta evidenza, hanno fatto le cose giuste. I cima a quella lista, ci stanno i nostri vicini del nord. Di questi tempi, il Canada è un modello di regolazione molto importante.

So bene che il Canada passa per essere un paese monotono[115]. The New Repubblic dichiarò, con una espressione ineffabile, la “Lodevole iniziativa del Canada”, un editoriale del Times  degli anni 80,  il titolo di giornale più noioso al mondo[116]. Eppure, io considero sempre il Canada molto affascinante, proprio perché esso è simile all’America, da tanti punti di vista, ma non da tutti. Il fatto è che quando l’esperienza del Canada diverge da quella degli Stati Uniti, è molto facile arguire che una differenza politica, piuttosto che culturale o di struttura economica, sia all’origine di tale divergenza.

E, in ogni caso, quando si ragiona di banche, “noioso” è sinonimo di ottima cosa.

Anzitutto, facciamo un passo indietro. Nel corso dell’ultimo decennio, gli Stati Uniti ed il Canada si sono misurati con il medesimo contesto globale. Entrambi si sono confrontati con una analoga ondata di beni e di denaro a buon mercato proveniente dall’Asia. In entrambi i paesi gli economisti allegramente dichiaravano che l’epoca delle severe recessioni era alle nostre spalle.

Ma al momento in cui tutto questo è andato a pezzi, nei due paesi le conseguenze sono state assai diverse. Negli Stati Uniti l’insolvenza dei mutui è salita alle stelle, alcuni dei principali istituti finanziari hanno conosciuto il collasso, ed altri sono sopravvissuti grazie ai generosi salvataggi della mano pubblica. In Canada non è accaduto niente del genere. Che cosa hanno fatto i canadesi, di così diverso?

Non è dipeso dalla politica dei tassi di interesse. Molti commentatori hanno dato alla Federal Reserve la responsabilità della crisi finanziaria, affermando che la Fed avrebbe generato una bolla disastrosa, mantenendo i tassi di interesse troppo bassi per troppo lungo tempo. Ma i tassi di interesse canadesi hanno pedissequamente seguito le tracce di quelli statunitensi, la qual cosa fa ritenere che i bassi tassi da soli non erano sufficienti a produrre la crisi finanziaria.

L’esperienza del Canada sembra anche confutare il punto di vista sostenuto con forza da Paul Volker, il formidabile precedente Presidente della Fed, secondo il quale le radici della nostra crisi risiederebbero nella dimensioni e nel raggio di azione[117] dei nostri istituti finanziari, ovvero nell’esistenza di banche “troppo grandi per fallire”. Sennonché in Canada praticamente tutte le banche sono troppo grandi per fallire: appena cinque gruppi bancari dominano la scena finanziaria.

D’altra parte, l’esperienza del Canada sembra dare ragione alle tesi di personalità come Elisabeth Warren, che è alla testa del gruppo di lavoro del Congresso incaricato della sorveglianza sui salvataggi delle banche, la quale attribuisce molta responsabilità per la crisi al fallimento di ogni forma di protezione dei consumatori da forme di credito ingannevoli. Il Canada ha una indipendente Agenzia per gli utenti del sistema finanziario, ed essa ha severamente limitato le operazioni del genere dei mutui  subprime.

In fin dei conti, l’esperienza del Canada sembra offrire argomenti a coloro che sostengono che il modo per mantenere le banche in condizioni di sicurezza è proprio quello di conservarle in condizioni di monotonia[118], ovvero di mettere un limite alla loro possibilità di assumere rischi. Gli Stati Uniti erano abituati ad un sistema bancario noioso, ma la deregolazione dell’era Reagan rese le cose pericolosamente attraenti. Il Canada, all’inverso, si è mantenuto in condizioni di felice monotonia.

In modo più specifico, il Canada è stato molto più severo nel porre dei limiti al leverage bancario, ovvero alla misura nella quale esso può disporre di fondi presi in prestito. Esso ha anche posto dei limiti al processo di securitization[119], attraverso il quale le banche impacchettano e rivendono i loro diritti sui mutui pendenti; un meccanismo che si era supposto aiutasse la banche a ridurre il proprio rischio spalmandolo in più direzioni, ma che in pratica si è risolto in un incentivo alle banche a fare scommesse ancora più ardite, con il denaro degli altri.

Non c’è dubbio che queste restrizioni, negli anni recenti, hanno significato minori opportunità per i banchieri di venirsene fuori con idee geniali, rispetto a quelle che sarebbero state disponibili se il Canada avesse imitato lo zelo “deregolativo” degli Stati Uniti. Ma ora ci si accorge che tutto questo era a fin di bene[120].

Quali sono, dunque, le possibilità per gli Stati Uniti di imparare qualcosa dai successi del Canada?

In realtà, il testo di riforma finanziaria che la Camera dei Rappresentanti ha approvato lo scorso dicembre, avrebbe l’effetto di “canadizzare” in modo significativo il sistema americano. Esso darebbe vita ad una Agenzia per la Protezione dell’Utente del Sistema Finanziario, stabilirebbe limiti sul leverage, così come limiterebbe la securitization imponendo agli istituti di credito di tenersi una parte dei loro mutui[121].

Sennonché c’è da dubitare sulla possibilità che un testo legislativo analogo a quello in questione possa ottenere i 60 voti che ora sono necessari per far passare qualsisi legge al Senato. I repubblicani sono chiaramente inflessibili[122] nel contrastare qualsiasi significativa riforma finanziaria – il testo approvato alla Camera non ha ottenuto il voto di nessun repubblicano – e, in aggiunta, qualche democratico ha posizioni ambigue.

In questo modo c’è una buona possibilità che non si faccia niente, o molto poco, per prevenire future crisi nel sistema bancario. Ma questo non avverrà perché non sappiamo cosa fare: abbiamo fornito un chiaro esempio di come si possa rendere sicuro il sistema bancario semplicemente standosene seduti sulla porta accanto[123].  

 

 


 

Fiscal Scare Tactics

By PAUL KRUGMAN

Published: February 4, 2010

These days it’s hard to pick up a newspaper or turn on a news program without encountering stern warnings about the federal budget deficit. The deficit threatens economic recovery, we’re told; it puts American economic stability at risk; it will undermine our influence in the world. These claims generally aren’t stated as opinions, as views held by some analysts but disputed by others. Instead, they’re reported as if they were facts, plain and simple.

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Yet they aren’t facts. Many economists take a much calmer view of budget deficits than anything you’ll see on TV. Nor do investors seem unduly concerned: U.S. government bonds continue to find ready buyers, even at historically low interest rates. The long-run budget outlook is problematic, but short-term deficits aren’t — and even the long-term outlook is much less frightening than the public is being led to believe.

 

 

 

So why the sudden ubiquity of deficit scare stories? It isn’t being driven by any actual news. It has been obvious for at least a year that the U.S. government would face an extended period of large deficits, and projections of those deficits haven’t changed much since last summer. Yet the drumbeat of dire fiscal warnings has grown vastly louder.

 

 

To me — and I’m not alone in this — the sudden outbreak of deficit hysteria brings back memories of the groupthink that took hold during the run-up to the Iraq war. Now, as then, dubious allegations, not backed by hard evidence, are being reported as if they have been established beyond a shadow of a doubt. Now, as then, much of the political and media establishments have bought into the notion that we must take drastic action quickly, even though there hasn’t been any new information to justify this sudden urgency. Now, as then, those who challenge the prevailing narrative, no matter how strong their case and no matter how solid their background, are being marginalized.

 

 

And fear-mongering on the deficit may end up doing as much harm as the fear-mongering on weapons of mass destruction.

 

Let’s talk for a moment about budget reality. Contrary to what you often hear, the large deficit the federal government is running right now isn’t the result of runaway spending growth. Instead, well more than half of the deficit was caused by the ongoing economic crisis, which has led to a plunge in tax receipts, required federal bailouts of financial institutions, and been met — appropriately — with temporary measures to stimulate growth and support employment.

 

 

The point is that running big deficits in the face of the worst economic slump since the 1930s is actually the right thing to do. If anything, deficits should be bigger than they are because the government should be doing more than it is to create jobs.

 

True, there is a longer-term budget problem. Even a full economic recovery wouldn’t balance the budget, and it probably wouldn’t even reduce the deficit to a permanently sustainable level. So once the economic crisis is past, the U.S. government will have to increase its revenue and control its costs. And in the long run there’s no way to make the budget math work unless something is done about health care costs.

 

 

But there’s no reason to panic about budget prospects for the next few years, or even for the next decade. Consider, for example, what the latest budget proposal from the Obama administration says about interest payments on federal debt; according to the projections, a decade from now they’ll have risen to 3.5 percent of G.D.P. How scary is that? It’s about the same as interest costs under the first President Bush.

 

Why, then, all the hysteria? The answer is politics.

The main difference between last summer, when we were mostly (and appropriately) taking deficits in stride, and the current sense of panic is that deficit fear-mongering has become a key part of Republican political strategy, doing double duty: it damages President Obama’s image even as it cripples his policy agenda. And if the hypocrisy is breathtaking — politicians who voted for budget-busting tax cuts posing as apostles of fiscal rectitude, politicians demonizing attempts to rein in Medicare costs one day (death panels!), then denouncing excessive government spending the next — well, what else is new?

 

 

 

 

The trouble, however, is that it’s apparently hard for many people to tell the difference between cynical posturing and serious economic argument. And that is having tragic consequences.

For the fact is that thanks to deficit hysteria, Washington now has its priorities all wrong: all the talk is about how to shave a few billion dollars off government spending, while there’s hardly any willingness to tackle mass unemployment. Policy is headed in the wrong direction — and millions of Americans will pay the price.

 

“Prove di panico fiscale[124]”, di Paul Krugman,

New York Times 4 febbraio 2010

 

Di questi tempi è difficile sfogliare un giornale o accendere un notiziario televisivo senza imbattersi in severi ammonimenti sul deficit del bilancio federale. Il deficit minaccia la ripresa economica, ci viene detto; esso mette a rischio la stabilità economica dell’America e metterà a repentaglio la nostra influenza nel mondo. Queste affermazioni generalmente non sono presentate come opinioni, come i punti di vista di alcuni esperti, che altri esperti mettono in discussione; vengono riportate come se fossero puramente e semplicemente fatti.

Eppure non sono fatti. Molti economisti hanno un punto di vista molto più cauto sui deficit di bilancio, rispetto a tutto quello che si può ascoltare alla televisione. Né gli investitori sembrano eccessivamente preoccupati: i bonds del governo degli Stati Uniti continuano a trovare acquirenti disponibili, persino con tassi di interesse tra i più bassi della storia. La prospettiva del bilancio sul lungo periodo è problematica, ma i deficit nel breve termine non lo sono altrettanto, ed anche la prospettiva di lungo periodo non è così spaventosa come la gente è indotta a credere.

Dunque, perché l’improvvisa ubiquità di queste storie terrificanti sul deficit? Essa non è stata provocata da alcuna effettiva novità. Da almeno un anno era stato considerato ovvio che il governo degli Stati Uniti avrebbe dovuto fronteggiare un prolungato periodo di ampi deficit, e le proiezioni di questi deficit non si sono per niente modificate dalla scorsa estate. E tuttavia il frastuono[125] di queste terribili profezie fiscali è diventato assordante[126].

A me – e in questo non sono solo – l’esplosione di questa improvvisa isteria del deficit mi riporta indietro ai ricordi di quel “pensiero unico”[127] che prese piede durante il periodo precedente alla guerra in Iraq. Ora come allora, teoremi dubbi[128], non sostenuti da alcuna evidenza, vengono annunciati come se avessero fondamento senza alcuna ombra di dubbio. Ora come allora, una gran parte dei poteri politici e mediatici hanno fatto propria[129] la nozione secondo la quale occorre rapidamente mettere in atto drastiche iniziative, sebbene non sia intervenuta alcuna novità che giustifichi tale improvvisa urgenza. Ora come allora, coloro che sfidano quel pensiero unico[130] vengono ridotti ai margini, senza curarsi di quanto siano forti le loro argomentazioni e di quanto sia solida la loro logica[131].

E questi “seminatori di paura[132]” sul deficit, alla fine, possono fare altrettanto danno di quello che fecero i “seminatori di paura” sulle armi di distruzione di massa.

Ragioniamo per un momento sui dati reali del bilancio. Contrariamente a quanto si sente spesso dire, il ragguardevole deficit del governo federale che si manifesta in questo periodo non è la conseguenza di una crescita della spesa pubblica sfuggita al controllo[133]. Invece, ben più della metà del deficit è stata causata dalla crisi economica in corso, che ha provocato la caduta delle entrate fiscali, ha reso necessari i salvataggi federali degli istituti finanziari, ed è stata contrastata – in modo appropriato – con misure temporanee per stimolare la crescita e sostenere l’occupazione.

Il punto è che sostenere[134] elevati deficit di fronte alla recessione econmica è, dagli anni trenta, l’unica cosa giusta da fare. Semmai, il deficit avrebbe dovuto essere più grande di quello che è, perché il governo avrebbe dovuto fare di più di quello che fa per creare nuovi posti di lavoro.

E’ vero, c’è il problema della tenuta del bilancio nel lungo periodo. Persino una piena ripresa economica non rimetterebbe in equilibrio il bilancio, e probabilmente neanche ridurrebbe il deficit ad un livello alla lunga sostenibile. Così, una volta che la crisi economica sarà alle nostre spalle, il governo degli Stati Uniti dovrà accrescere le sue entrate e tenere sotto controllo le sue spese. E, nel lungo periodo, non ci sarà modo di ottenere che i conti del bilancio tornino[135], senza fare qualcosa in materia di costi della assistenza sanitaria.

Ma non c’è alcuna ragione di seminare il panico sulle prospettive dei prossimi anni, ed anche del prossimo decennio. Si consideri, ad esempio, cosa dice l’ultima proposta di bilancio della amministrazione Obama a proposito del pagamento degli interessi sul debito federale: secondo le proiezioni, di qua ad un decennio esse saranno salite al  3,5 per cento del PIL. Questo sarebbe grosso modo lo stesso costo degli interessi che si ebbe sotto il primo presidente Bush.

Da dove viene, dunque, tutta questa isteria? Viene dalla politica, non ci può essere altra risposta.

La principale differenza con la scorsa estate, quando accettammo assai agevolmente[136] e giustamente il deficit, nonché la attuale sensazione di panico, consistono nel fatto che “seminare la paura” in materia di deficit è diventata la parte cruciale della strategia politica repubblicana, realizzando così un doppio servizio: si provoca un danno all’immagine del Presidente Obama e, al tempo stesso, si boicotta la sua agenda politica. E, se anche si dà prova di una ipocrisia sbalorditiva[137] – penso ai politici che espressero consenso a tagli alle tasse che fanno saltare il bilancio[138], presentandosi come apostoli della rettitudine fiscale; oppure penso ai politici che un giorno demonizzano gli sforzi per controllare i costi di Medicare (i “tribunali della morte”!) e che denunciano le spese eccessive del governo il giorno successivo – ebbene, che c’è di nuovo?

Il guaio, tuttavia, è che sembra che stia diventando difficile per molti capire la differenza tra atteggiamenti demagogici e seri argomenti economici. E questo sta provocando conseguenze tragiche.

La conseguenza è che grazie alla psicosi del deficit, oggi Washington sceglie priorità del tutto insensate: tutto il dibattito verte su come tagliare pochi miliardi di dollari dalla spesa federale, mentre appare remota ogni volontà ad affrontare la disoccupazione di massa con spirito positivo. La politica si indirizza nella direzione sbagliata e milioni di americani si preparano a pagarne il conto.  

 

 


 

America Is Not Yet Lost

By PAUL KRUGMAN

Published: February 7, 2010

 

We’ve always known that America’s reign as the world’s greatest nation would eventually end. But most of us imagined that our downfall, when it came, would be something grand and tragic.

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What we’re getting instead is less a tragedy than a deadly farce. Instead of fraying under the strain of imperial overstretch, we’re paralyzed by procedure. Instead of re-enacting the decline and fall of Rome, we’re re-enacting the dissolution of 18th-century Poland.

 

A brief history lesson: In the 17th and 18th centuries, the Polish legislature, the Sejm, operated on the unanimity principle: any member could nullify legislation by shouting “I do not allow!” This made the nation largely ungovernable, and neighboring regimes began hacking off pieces of its territory. By 1795 Poland had disappeared, not to re-emerge for more than a century.

 

 

Today, the U.S. Senate seems determined to make the Sejm look good by comparison.

 

Last week, after nine months, the Senate finally approved Martha Johnson to head the General Services Administration, which runs government buildings and purchases supplies. It’s an essentially nonpolitical position, and nobody questioned Ms. Johnson’s qualifications: she was approved by a vote of 94 to 2. But Senator Christopher Bond, Republican of Missouri, had put a “hold” on her appointment to pressure the government into approving a building project in Kansas City.

 

 

This dubious achievement may have inspired Senator Richard Shelby, Republican of Alabama. In any case, Mr. Shelby has now placed a hold on all outstanding Obama administration nominations — about 70 high-level government positions — until his state gets a tanker contract and a counterterrorism center.

 

 

What gives individual senators this kind of power? Much of the Senate’s business relies on unanimous consent: it’s difficult to get anything done unless everyone agrees on procedure. And a tradition has grown up under which senators, in return for not gumming up everything, get the right to block nominees they don’t like.

 

In the past, holds were used sparingly. That’s because, as a Congressional Research Service report on the practice says, the Senate used to be ruled by “traditions of comity, courtesy, reciprocity, and accommodation.” But that was then. Rules that used to be workable have become crippling now that one of the nation’s major political parties has descended into nihilism, seeing no harm — in fact, political dividends — in making the nation ungovernable.

 

 

 

How bad is it? It’s so bad that I miss Newt Gingrich.

 

Readers may recall that in 1995 Mr. Gingrich, then speaker of the House, cut off the federal government’s funding and forced a temporary government shutdown. It was ugly and extreme, but at least Mr. Gingrich had specific demands: he wanted Bill Clinton to agree to sharp cuts in Medicare.

 

 

Today, by contrast, the Republican leaders refuse to offer any specific proposals. They inveigh against the deficit — and last month their senators voted in lockstep against any increase in the federal debt limit, a move that would have precipitated another government shutdown if Democrats hadn’t had 60 votes. But they also denounce anything that might actually reduce the deficit, including, ironically, any effort to spend Medicare funds more wisely.

 

 

And with the national G.O.P. having abdicated any responsibility for making things work, it’s only natural that individual senators should feel free to take the nation hostage until they get their pet projects funded.

The truth is that given the state of American politics, the way the Senate works is no longer consistent with a functioning government. Senators themselves should recognize this fact and push through changes in those rules, including eliminating or at least limiting the filibuster. This is something they could and should do, by majority vote, on the first day of the next Senate session.

 

Don’t hold your breath. As it is, Democrats don’t even seem able to score political points by highlighting their opponents’ obstructionism.

 

It should be a simple message (and it should have been the central message in Massachusetts): a vote for a Republican, no matter what you think of him as a person, is a vote for paralysis. But by now, we know how the Obama administration deals with those who would destroy it: it goes straight for the capillaries. Sure enough, Robert Gibbs, the White House press secretary, accused Mr. Shelby of “silliness.” Yep, that will really resonate with voters.

 

 

 

After the dissolution of Poland, a Polish officer serving under Napoleon penned a song that eventually — after the country’s post-World War I resurrection — became the country’s national anthem. It begins, “Poland is not yet lost.”

 

Well, America is not yet lost. But the Senate is working on it.

 

“L’America non è ancora perduta”, di Paul Krugman

New York Times 7 febbraio 2010

      

Abbiamo sempre saputo che il predominio dell’America come la nazione più potente del mondo, un giorno avrebbe avuto fine. Ma la maggior parte di noi si aspettava che il declino, quando fosse arrivato, sarebbe stato grande e tragico.

Quella a cui stiamo assistendo, invece, piuttosto che una tragedia, è una farsa mortificante[139]. Piuttosto che finire logorati dalle tensioni di un impero che ha tirato troppo la corda[140], siamo paralizzati dalle procedure. Piuttosto che una riedizione del declino e della caduta di Roma, siamo alla riedizione della dissoluzione della Polonia nel XVIII secolo.

Una breve lezione di storia: nei secoli XVII e XVIII, la Assemblea legislativa polacca, il Sejm [141], operava sulla base del principio della unaninimità: ogni componente poteva annullare un provvedimento legislativo pronunciando ad alta voce le parole “Io non lo permetto!”  Questo rese la nazione ampiamente ingovernabile, e i regimi confinanti cominciarono a ritagliarsi[142] pezzi del suo territorio. Attorno al 1795 la Polonia era scomparsa, e non riemerse se non più di un secolo dopo.

Oggi, il Senato degli Stati Uniti sembra deciso a far fare al nostro Sejm una bella figura, come nel paragone.

La scorsa settimana, dopo nove mesi, il Senato ha finalmente nominato Martha Johnson alla guida della General Services Administration, che si occupa degli edifici governativi e degli acquisti dei rifornimenti. Si tratta di una funzione essenziale priva di ogni connotato politico, e nessuno metteva in discussione le credenziali della signora Johnson: la sua candidatura è stata approvata con 94 voti favorevoli e 2 contrari. Ma il Senatore Chistopher Bond, un repubblicano del Missouri, aveva tenuto in stallo[143] la sua nomina nel tentativo di costringere il governo ad approvare un progetto su un edificio a Kansas City.

La dubbia fortuna di questo precedente potrebbe aver ispirato il Senatore Richard Shelby, un repubblicano dell’Alabama. Comunque sia, adesso il signor Shelby ha bloccato tutte le nomine in corso di definizione della amministrazione Obama – all’incirca 70 posizioni dirigenziali di alto livello – finchè il suo Stato non avrà ottenuto una contratto per una nave-cisterna ed un centro antiterrorismo.

Cos’è che che consegna ai singoli senatori questo genere di potere? Gran parte degli affari del Senato si basano su decisioni all’unanimità: è difficile andare in fondo a qualcosa[144] se tutti non concordano sulla procedura. E ha preso corpo una tradizione secondo la quale i senatori, perché non blocchino ogni provvedimento, hanno diritto a fermare le nomine che non sono di loro gradimento.

In passato, questo potere di ‘tenere in stallo’ veniva usato con moderazione. Questo perché, come si afferma in un rapporto del Congressional Resarch Service a proposito di tale pratica, il Senato era abituato ad essere regolato da “tradizioni di armonia, di cortesia, di reciproco rispetto e di ricerca dell’intesa”. Ma questo avveniva una volta. Regole che un tempo funzionavano sono diventate devastanti, ora che uno dei grandi partiti politici della nazione si è calato in una sorta di nichilismo, ovvero nel ritenere che non ci sia niente di male nel rendere il paese ingovernabile, ed anzi che questo comporti un vantaggio politico[145].

Quanto è cattiva questa novità? Ebbene, è così cattiva che io sento la mancanza[146] di Newt Gingrich.

I lettori ricorderanno che nel 1995 il signor Gingrich, allora speaker della Camera, tagliò i fondi del governo federale e provocò un blocco temporaneo delle funzioni governative. Fu una procedura sgradevole ed estrema, ma almeno Gingrich aveva delle richieste specifiche: egli voleva che Bill Clinton acconsentisse a tagli severi su Medicare.

Oggi, al contrario, i repubblicani si rifiutano di mettere sul tavolo qualsiasi specifica proposta. Essi inveiscono contro il deficit: lo scorso mese i loro senatori hanno votato a ranghi compatti contro ogni aumento del limite del debito federale,  una mossa che avrebbe potuto provocare un altro blocco di ogni funzione governativa, se i democratici non avessero avuto 60 voti. Ma, al tempo stesso, essi denunciano qualsiasi proposta che può comportare una riduzione del deficit, incluso, e questo è comico, ogni sforzo per spendere i fondi di Medicare con maggiore oculatezza.

Ora, dato che il G.O.P. ha abdicato da ogni responsabilità nel fare in modo che le cose funzionino, è semplicemente naturale che singoli senatori si sentano liberi di tenere in ostaggio il paese intero finchè non ottengono il finanziamento dei loro progetti prediletti.

La verità è che, date le condizioni della politica americana, il modo in cui il Senato lavora è ormai in contrasto con il funzionamento del governo. Gli stessi senatori dovrebbero riconoscere questo dato di fatto, e mettere in atto quei cambiamenti nelle loro regole, che eliminino o almeno limitino il filibustering. Questo è qualcosa che potrebbero e dovrebbero fare, con un voto di maggioranza, al primo giorno della prossima sessione del Senato.

Ma non trattenete il respiro. Per come vanno le cose, non sembra che i Democratici siano capaci nemmeno di realizzare quel minimo risultato politico che consisterebbe nel mettere sotto i riflettori[147] l’ostruzionismo dei loro oppositori.

Dovrebbe essere inviato un messaggio semplice (ed esso avrebbe dovuto essere inviato come il messaggio principale nel Massachusetts): un voto per un repubblicano, a prescindere da quello che si pensa di lui come individuo, è un voto per la paralisi. Ma per adesso, sappiamo come la amministrazione Obama si confronta con coloro che intendono distruggerla: si potrebbe dire che essa procede diritta lungo tutti i meandri[148]. Infatti, Robert Gibbs, segretario dell’ufficio stampa della Casa Bianca, ha accusato il signor Shelby di “impulsività[149]”. Suvvia[150], questo si che avrà risonanza tra gli elettori!

Dopo la dissoluzione della Polonia, un ufficiale polacco al servizio di Napoleone compose una canzone che alla fine – dopo la resurrezione del paese al termine della Prima Guerra Mondiale – divenne l’inno nazionale. Essa comincia con le parole: “La Polonia non è ancora perduta”.

Ebbene, l’America non è ancora perduta. Ma il Senato ci sta lavorando.

 

 


 

Republicans and Medicare

By PAUL KRUGMAN

Published: February 11, 2010

“Don’t cut Medicare. The reform bills passed by the House and Senate cut Medicare by approximately $500 billion. This is wrong.” So declared Newt Gingrich, the former speaker of the House, in a recent op-ed article written with John Goodman, the president of the National Center for Policy Analysis.

And irony died.

Now, Mr. Gingrich was just repeating the current party line. Furious denunciations of any effort to seek cost savings in Medicare — death panels! — have been central to Republican efforts to demonize health reform. What’s amazing, however, is that they’re getting away with it.

 

Why is this amazing? It’s not just the fact that Republicans are now posing as staunch defenders of a program they have hated ever since the days when Ronald Reagan warned that Medicare would destroy America’s freedom. Nor is it even the fact that, as House speaker, Mr. Gingrich personally tried to ram through deep cuts in Medicare — and, in 1995, went so far as to shut down the federal government in an attempt to bully Bill Clinton into accepting those cuts.

 

 

After all, you could explain this about-face by supposing that Republicans have had a change of heart, that they have finally realized just how much good Medicare does. And if you believe that, I’ve got some mortgage-backed securities you might want to buy.

 

No, what’s truly mind-boggling is this: Even as Republicans denounce modest proposals to rein in Medicare’s rising costs, they are, themselves, seeking to dismantle the whole program. And the process of dismantling would begin with spending cuts of about $650 billion over the next decade. Math is hard, but I do believe that’s more than the roughly $400 billion (not $500 billion) in Medicare savings projected for the Democratic health bills.

 

What I’m talking about here is the “Roadmap for America’s Future,” the budget plan recently released by Representative Paul Ryan, the ranking Republican member of the House Budget Committee. Other leading Republicans have been bobbing and weaving on the official status of this proposal, but it’s pretty clear that Mr. Ryan’s vision does, in fact, represent what the G.O.P. would try to do if it returns to power.

 

The broad picture that emerges from the “roadmap” is of an economic agenda that hasn’t changed one iota in response to the economic failures of the Bush years. In particular, Mr. Ryan offers a plan for Social Security privatization that is basically identical to the Bush proposals of five years ago.

But what’s really worth noting, given the way the G.O.P. has campaigned against health care reform, is what Mr. Ryan proposes doing with and to Medicare.

 

In the Ryan proposal, nobody currently under the age of 55 would be covered by Medicare as it now exists. Instead, people would receive vouchers and be told to buy their own insurance. And even this new, privatized version of Medicare would erode over time because the value of these vouchers would almost surely lag ever further behind the actual cost of health insurance. By the time Americans now in their 20s or 30s reached the age of eligibility, there wouldn’t be much of a Medicare program left.

 

 

But what about those who already are covered by Medicare, or will enter the program over the next decade? You’re safe, says the roadmap; you’ll still be eligible for traditional Medicare. Except, that is, for the fact that the plan “strengthens the current program with changes such as income-relating drug benefit premiums to ensure long-term sustainability.”

 

 

If this sounds like deliberately confusing gobbledygook, that’s because it is. Fortunately, the Congressional Budget Office, which has done an evaluation of the roadmap, offers a translation: “Some higher-income enrollees would pay higher premiums, and some program payments would be reduced.” In short, there would be Medicare cuts.

 

And it’s possible to back out the size of those cuts from the budget office analysis, which compares the Ryan proposal with a “baseline” representing current policy. As I’ve already said, the total over the next decade comes to about $650 billion — substantially bigger than the Medicare savings in the Democratic bills.

The bottom line, then, is that the crusade against health reform has relied, crucially, on utter hypocrisy: Republicans who hate Medicare, tried to slash Medicare in the past, and still aim to dismantle the program over time, have been scoring political points by denouncing proposals for modest cost savings — savings that are substantially smaller than the spending cuts buried in their own proposals.

 

 

And if Democrats don’t get their act together and push the almost-completed reform across the goal line, this breathtaking act of staggering hypocrisy will succeed.

 

“I Repubblicani e Medicare”, di Paul Krugman,

New York Times 11 febbraio 2010

“Non tagliate Medicare. I testi di riforma approvati alla Camera ed al Senato operano tagli su Medicare per circa 500 milardi di dollari. Questo è sbagliato.” Così si è espresso Newt Gingrich, il precedente speaker della Camera, in un recente articolo scritto assieme a John Goodman, il presidente del National Centre of Policy Analysis.

Davvero, l’ironia è morta.

E’ vero che il signor Gingrich ha soltanto ribadito quella che è la attuale posizione del Partito. Sono state centrali, negli sforzi dei Repubblicani di demonizzare la riforma sanitaria – i famosi “tribunali della morte”! – le furiose denunce di ogni tentativo di cercare di contenere i costi di Medicare. Quello che è incredibile, tuttavia, è che la stanno facendo franca[151].

Perché è incredibile? Non si tratta solo del fatto che i repubblicani oggi si presentano come gli strenui difensori di un programma che hanno sempre aborrito, sin dai giorni nei quali Ronald Reagan ammoniva che Medicare avrebbe distrutto la libertà americana. E non si tratta neppure del fatto che il signor Gingrich personalmente  avesse provato a far passare a tutti i costi[152] tagli profondi a Medicare, arrivando al punto, nel 1995, di bloccare il governo federale nel tentativo di indurre con la prepotenza Bill Clinton ad accettare quei tagli.

Dopotutto, voi potreste spiegare questo voltafaccia supponendo che il sentimento dei Repubblicani sia cambiato, che essi alla fine abbiano compreso quanto sia grande il beneficio prodotto da Medicare. Se credete a questo, del resto, mi sono procurato alcuni titoli garantiti dai mutui per la casa[153] che potreste voler acquistare …

No, quello che è veramente sbalorditivo[154] è questo: anche se si scagliano contro modesti propositi di mettere sotto controllo i costi crescenti di Medicare, contemporaneamente i Repubblicani medesimi stanno cercando di smantellare per intero quel programma. E il processo di smantellamento prenderebbe le mosse con un taglio di spesa di 650 miliardi di dollari per il prossimo decennio. La matematica è dura, ma io credo che questo sia assai di più dei pressappoco 400 miliardi (e non 500) di risparmi previsti dai Democratici nei testi legislativi sulla  sanità.

Quello di cui sto parlando è il “Road-map[155] for America’s future”, il piano finanziario recentemente esposto dal deputato Paul Ryan, che è il componente di spicco tra i Repubblicani nell’ambito della Commissione Bilancio della Camera. Altri dirigenti repubblicani hanno molto oscillato[156] nel confermare l’ufficialità di questa proposta, ma è abbastanza chiaro che la visione di Ryan rappresenta quello che i Repubblicani, nei fatti, cercherebbero di fare se tornassero al potere. 

L’ampio disegno che emerge dalla strategia tracciata è coerente[157] con una agenda economica che non è cambiata di una virgola rispetto alle risposte fallimentari degli anni di Bush. In particolare, Ryan presenta un piano per la privatizzazione della Sicurezza Sociale che è fondamentalmente identico alle proposte di Bush di cinque anni fa.

Ma quello che veramente conta, dato il modo in cui i Repubblicani hanno orchestrato la loro campagna contro la riforma della assistenza sanitaria, è quello che Ryan propone di fare di Medicare.

Nella proposta di Ryan, nessuno attualmente al di sotto dei 55 anni, diversamente da oggi, verrebbe assistito da  Medicare. Invece, le persone riceverebbero dei vouchers[158] e sarebbero chiamate ad acquistarsi le loro coperture assicurative.  E persino questa nuova versione privatizzata di Medicare sarebbe erosa col tempo, giacchè il valore di questi vouchers resterebbe sempre, quasi sicuramente,  indietro anche rispetto ai  costi attuali della assicurazione sanitaria. Quando gli americani che oggi hanno 20 o 30 anni avessero raggiunto l’età idonea[159], non ci sarebbe rimasto granchè del programma di Medicare.

Ma che cosa accadrebbe a coloro che sono già assistiti da Medicare, o che entreranno nel programma nel corso del prossimo decennio? Dovete stare tranquilli, dice la “road-map”; voi resterete idonei alla tradizionale assistenza di Medicare. Per meglio dire, ad eccezione del fatto che la proposta: “rafforzerebbe gli attuali programmi con cambiamenti quali polizze in relazione al reddito per l’indennità sui farmaci, in modo da assicurare la sostenibilità di lungo periodo”.

Questa sembra effettivamente una espressione ‘ostrogota[160]’ deliberatamente usata per confondere le idee. Fortunatamente il Congressional Budget Office, che ha fatto alcune stime sulla “road-map”, ci offre la seguente traduzione: “Una parte degli iscritti con redditi più elevati[161]  pagherebbero polizze più elevate ed alcuni programmi di spesa verrebbero ridotti”. In poche parole, ci sarebbero i tagli a Medicare.

Dalle analisi del Budget Office, che confronta la proposta di Ryan con il metro di misura dell’attuale costo della assistenza[162],  è anche possibile ricostruire la dimensione di questi tagli. Come ho già detto, il totale riferito al prossimo decennio sarebbe circa di 650 miliardi di dollari; una cifra sostanzialmente più alta dei risparmi che i testi legislativi dei Democratici prevedono per Medicare.

La morale della favola[163], dunque, è che questa crociata contro la riforma sanitaria si basa su una totale ipocrisia: i Repubblicani che odiano Medicare, che hanno tentato di ridurlo drasticamente nel passato e che ancora si propongono di smantellarlo nel tempo, stanno realizzando alcuni vantaggi politici con la denuncia delle proposte a favore di modesti risparmi nei costi, risparmi che sono peraltro sostanzialmente minori dei tagli di spesa  contenuti nelle loro stesse proposte.

E se i Democratici non porteranno avanti uniti le loro proposte e non spingeranno questa riforma “quasi intera” alla linea d’arrivo, questo atto stupefacente[164]  di sbalorditiva ipocrisia finirà con l’avere successo.

 

 

   

 


 

The Making of a Euromess

By PAUL KRUGMAN

Published: February 14, 2010

 

Lately, financial news has been dominated by reports from Greece and other nations on the European periphery. And rightly so.

But I’ve been troubled by reporting that focuses almost exclusively on European debts and deficits, conveying the impression that it’s all about government profligacy — and feeding into the narrative of our own deficit hawks, who want to slash spending even in the face of mass unemployment, and hold Greece up as an object lesson of what will happen if we don’t.

 

 

 

For the truth is that lack of fiscal discipline isn’t the whole, or even the main, source of Europe’s troubles — not even in Greece, whose government was indeed irresponsible (and hid its irresponsibility with creative accounting).

 

No, the real story behind the euromess lies not in the profligacy of politicians but in the arrogance of elites — specifically, the policy elites who pushed Europe into adopting a single currency well before the continent was ready for such an experiment.

 

Consider the case of Spain, which on the eve of the crisis appeared to be a model fiscal citizen. Its debts were low — 43 percent of G.D.P. in 2007, compared with 66 percent in Germany. It was running budget surpluses. And it had exemplary bank regulation.

 

But with its warm weather and beaches, Spain was also the Florida of Europe — and like Florida, it experienced a huge housing boom. The financing for this boom came largely from outside the country: there were giant inflows of capital from the rest of Europe, Germany in particular.

 

The result was rapid growth combined with significant inflation: between 2000 and 2008, the prices of goods and services produced in Spain rose by 35 percent, compared with a rise of only 10 percent in Germany. Thanks to rising costs, Spanish exports became increasingly uncompetitive, but job growth stayed strong thanks to the housing boom.

 

Then the bubble burst. Spanish unemployment soared, and the budget went into deep deficit. But the flood of red ink — which was caused partly by the way the slump depressed revenues and partly by emergency spending to limit the slump’s human costs — was a result, not a cause, of Spain’s problems.

 

 

And there’s not much that Spain’s government can do to make things better. The nation’s core economic problem is that costs and prices have gotten out of line with those in the rest of Europe. If Spain still had its old currency, the peseta, it could remedy that problem quickly through devaluation — by, say, reducing the value of a peseta by 20 percent against other European currencies. But Spain no longer has its own money, which means that it can regain competitiveness only through a slow, grinding process of deflation.

Now, if Spain were an American state rather than a European country, things wouldn’t be so bad. For one thing, costs and prices wouldn’t have gotten so far out of line: Florida, which among other things was freely able to attract workers from other states and keep labor costs down, never experienced anything like Spain’s relative inflation. For another, Spain would be receiving a lot of automatic support in the crisis: Florida’s housing boom has gone bust, but Washington keeps sending the Social Security and Medicare checks.

 

 

But Spain isn’t an American state, and as a result it’s in deep trouble. Greece, of course, is in even deeper trouble, because the Greeks, unlike the Spaniards, actually were fiscally irresponsible. Greece, however, has a small economy, whose troubles matter mainly because they’re spilling over to much bigger economies, like Spain’s. So the inflexibility of the euro, not deficit spending, lies at the heart of the crisis.

 

 

None of this should come as a big surprise. Long before the euro came into being, economists warned that Europe wasn’t ready for a single currency. But these warnings were ignored, and the crisis came.

 

Now what? A breakup of the euro is very nearly unthinkable, as a sheer matter of practicality. As Berkeley’s Barry Eichengreen puts it, an attempt to reintroduce a national currency would trigger “the mother of all financial crises.” So the only way out is forward: to make the euro work, Europe needs to move much further toward political union, so that European nations start to function more like American states.

 

But that’s not going to happen anytime soon. What we’ll probably see over the next few years is a painful process of muddling through: bailouts accompanied by demands for savage austerity, all against a background of very high unemployment, perpetuated by the grinding deflation I already mentioned.

 

It’s an ugly picture. But it’s important to understand the nature of Europe’s fatal flaw. Yes, some governments were irresponsible; but the fundamental problem was hubris, the arrogant belief that Europe could make a single currency work despite strong reasons to believe that it wasn’t ready.

 

“La causa dei guai dell’Euro[165]”, di Paul Krugman

New York Times 14 febbraio

 

Ultimamente le notizie finanziarie sono state dominate, comprensibilmente, dai resoconti dalla Grecia e delle altre nazioni della periferia dell’Europa.

Eppure, io sono rimasto infastidito da resoconti che mettevano a fuoco quasi esclusivamente i debiti ed il deficit dell’Europa, con l’effetto di trasmettere l’impressione che tutto si risolvesse nella sregolatezza[166] di quei governi, ed alimentando gli argomenti dei “falchi” del deficit casalinghi, che vorrebbero una riduzione drastica della spesa pubblica anche dinanzi ad una disoccupazione di massa, e mostrano il caso della Grecia alla stregua di un oggetto di insegnamento di quello che ci potrà accadere se non procediamo in quel senso.

Per la verità, quella mancanza di disciplina finanziaria non è l’intera causa dei guai dell’Europa, e neanche la principale, neppure in Grecia, i cui governi sono stati sicuramente irresponsabili (e hanno nascosto la loro irresponsabilità con forme di contabilità creativa).

No, la storia reale che sta dietro il disordine europeo non risiede nella sregolatezza dei governi, quanto piuttosto nella superbia dei gruppi dirigenti, particolarmente di quei gruppi dirigenti politici che spinsero l’Europa ad adottare un’unica valuta molto prima che il continente fosse pronto per un tale esperimento.

Si consideri l’esempio della Spagna, che nell’epoca della crisi era sembrata, dal punto di vista finanziario, un modello di comportamento finanziario. I suoi debiti erano bassi, il 43 per cento del PIL nel 2007, contro il 66 per cento della Germania; presentava avanzi di amministrazione ed aveva un’ottima regolamentazione bancaria.

Ma con il suo clima caldo e le sue spiagge, la Spagna era anche la Florida dell’Europa, e come la Florida, conobbe un grande boom immobiliare. Il finanziamento di questo boom proveniva in larga parte dall’esterno della nazione: ci furono giganteschi flussi di capitali dal resto dell’Europa, dalla Germania in particolare.

Il risultato fu una rapida crescita combinata con una inflazione significativa: tra il 2000 ed il 2008 i prezzi dei beni e dei servizi prodotti in Spagna salirono all’incirca del 35 per cento, mentre in Germania non superarono una crescita del 10 per cento. Per effetto della crescita dei costi, le esportazioni spagnole divennero sempre meno competitive, ma la crescita dell’occupazione rimaneva forte grazie al boom immobiliare.

Ad un certo punto la bolla è scoppiata. La disoccupazione spagnola è cresciuta, ed il bilancio è finito in un deficit profondo. Ma il dilagare del debito[167]– che si è prodotto in parte per effetto dei redditi falcidiati dalla depressione e in parte per una spesa pubblica di emergenza, finalizzata a limitare i costi umani della depressione – è stato un risultato, non una causa, dei problemi della Spagna.

E il governo spagnolo non poteva fare granché per rendere le cose migliori. Il problema economico centrale del paese è stato che costi e prezzi si sono disallineati da quelli del resto dell’Europa. Se la Spagna avesse avuto la sua vecchia valuta, la peseta, avrebbe rimediato a quel problema attraverso una rapida svalutazione, riducendo, diciamo, del 20 per cento il valore della peseta rispetto a quello delle altre monete europee. Ma la Spagna non ha più una propria moneta, il che significa che può riguadagnare competitività solo attraverso un lento ed doloroso processo di deflazione[168].

Ora, se la Spagna fosse stata uno Stato americano, anziché una nazione europea, non sarebbe andata così male. Da una parte, i costi ed i prezzi non avrebbero avuto quello scarto: la Florida, che tra le altre cose è stata liberamente nelle condizioni di attrarre lavoratori dagli altri Stati dell’Ameriva e di fasi carico dei relativi costi del lavoro, non avrebbe mai conosciuto un’esperienza di inflazione relativa simile a quella della Spagna. Per un altro aspetto, la Spagna avrebbe ricevuto una quantità di sostegni automatici nella crisi: il boom immobliare della Florida è scoppiato anch’esso, ma Washington ha continuato a pagare per la Sicurezza Sociale e per Medicare.

Ma la Spagna non è uno Stato americano e, di conseguenza, si trova in guai seri. La Grecia, naturalmente, è in guai anche maggiori, perché i Greci, diversamente dagli Spagnoli, davvero hanno avuto una condotta finanziaria irresponsabile. La Grecia, tuttavia, ha una piccola economia, ed i suoi guai non contano quanto quelli della Spagna, principalmente perché si riversano[169] su economie molto più grandi. Al cuore della crisi sta dunque l’inflessibilità dell’euro, non il deficit della spesa pubblica.

Non c’è niente che dovrebbe provocare una grande sorpresa. Molto prima che l’euro nascesse, gli economisti avevano messo in guardia sul fatto che l’Europa non fosse pronta ad una moneta unica. Ma questi ammonimenti furono ignorati, e la crisi è arrivata.

E adesso che fare? Una rimessa in causa[170] dell’euro non è neanche lontanamente pensabile, per un mera questione di praticabilità. Come ha notato da Berkeley Barry Eichegreen, il tentativo di reintrodurre monete nazionali sarebbe come la “madre di tutte le crisi finanziarie”. Dunque, l’unica via d’uscita è in avanti: per fare in modo che l’euro funzioni, l’Europa ha bisogno di procedere con molta determinazione verso l’unione politica, in modo tale che le nazioni europee comincino ad assumere funzioni paragonabili agli Stati americani.

Ma questo non è destinato ad avvenire comunque in breve tempo. Nei prossimi anni assisteremo probabilmente ad un faticoso processo di accomodamenti[171]: salvataggi accompagnati dalla richiesta di forme di austerità selvaggia, il tutto su uno sfondo di disoccupazione assai elevata, resa costante da quella dolorosa deflazione di cui ho già detto.

E’ un quadro sgradevole. Ma è importante riconoscere la natura del difetto fatale dell’Europa. E’ vero, qualche governo si è comportato in modo irresponsabile; ma il problema fondamentale è stato in quella sorta di supponenza[172], di arrogante persuasione secondo la quale l’Europa avrebbe potuto funzionare con una valuta unica, a dispetto delle ragioni che  facevano ritenere che non fosse pronta.

 

 

 

 


 

California Death Spiral

By PAUL KRUGMAN

Published: February 18, 2010

Health insurance premiums are surging — and conservatives fear that the spectacle will reinvigorate the push for reform. On the Fox Business Network, a host chided a vice president of WellPoint, which has told California customers to expect huge rate increases: “You handed the politicians red meat at a time when health care is being discussed. You gave it to them!”

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Indeed. Sky-high rate increases make a powerful case for action. And they show, in particular, that we need comprehensive, guaranteed coverage — which is exactly what Democrats are trying to accomplish.

 

Here’s the story: About 800,000 people in California who buy insurance on the individual market — as opposed to getting it through their employers — are covered by Anthem Blue Cross, a WellPoint subsidiary. These are the people who were recently told to expect dramatic rate increases, in some cases as high as 39 percent.

 

 

Why the huge increase? It’s not profiteering, says WellPoint, which claims instead (without using the term) that it’s facing a classic insurance death spiral.

 

Bear in mind that private health insurance only works if insurers can sell policies to both sick and healthy customers. If too many healthy people decide that they’d rather take their chances and remain uninsured, the risk pool deteriorates, forcing insurers to raise premiums. This, in turn, leads more healthy people to drop coverage, worsening the risk pool even further, and so on.

 

 

Now, what WellPoint claims is that it has been forced to raise premiums because of “challenging economic times”: cash-strapped Californians have been dropping their policies or shifting into less-comprehensive plans. Those retaining coverage tend to be people with high current medical expenses. And the result, says the company, is a drastically worsening risk pool: in effect, a death spiral.

 

 

So the rate increases, WellPoint insists, aren’t its fault: “Other individual market insurers are facing the same dynamics and are being forced to take similar actions.” Indeed, a report released Thursday by the department of Health and Human Services shows that there have been steep actual or proposed increases in rates by a number of insurers.

 

But here’s the thing: suppose that we posit, provisionally, that the insurers aren’t the main villains in this story. Even so, California’s death spiral makes nonsense of all the main arguments against comprehensive health reform.

 

For example, some claim that health costs would fall dramatically if only insurance companies were allowed to sell policies across state lines. But California is already a huge market, with much more insurance competition than in other states; unfortunately, insurers compete mainly by trying to excel in the art of denying coverage to those who need it most. And competition hasn’t averted a death spiral. So why would creating a national market make things better?

 

 

More broadly, conservatives would have you believe that health insurance suffers from too much government interference. In fact, the real point of the push to allow interstate sales is that it would set off a race to the bottom, effectively eliminating state regulation. But California’s individual insurance market is already notable for its lack of regulation, certainly as compared with states like New York — yet the market is collapsing anyway.

 

 

Finally, there have been calls for minimalist health reform that would ban discrimination on the basis of pre-existing conditions and stop there. It’s a popular idea, but as every health economist knows, it’s also nonsense. For a ban on medical discrimination would lead to higher premiums for the healthy, and would, therefore, cause more and bigger death spirals.

 

 

 

So California’s woes show that conservative prescriptions for health reform just won’t work.

What would work? By all means, let’s ban discrimination on the basis of medical history — but we also have to keep healthy people in the risk pool, which means requiring that people purchase insurance. This, in turn, requires substantial aid to lower-income Americans so that they can afford coverage.

 

 

And if you put all of that together, you end up with something very much like the health reform bills that have already passed both the House and the Senate.

 

What about claims that these bills would force Americans into the clutches of greedy insurance companies? Well, the main answer is stronger regulation; but it would also be a very good idea, politically as well as substantively, for the Senate to use reconciliation to put the public option back into its bill.

 

But the main point is this: California’s death spiral is a reminder that our health care system is unraveling, and that inaction isn’t an option. Congress and the president need to make reform happen — now.

 

“La spirale della mortalità in California”, di Paul Krugman

New York Times 18 febbraio 2010

C’è un’impennata in corso sui premi per l’assicurazione sulla salute, e i conservatori temono che lo spettacolo darà vigore alla spinta per la riforma. Su Fox Businness network , un conduttore ha rimproverato aspramente[173] un vicepresidente di WellPoint, che aveva informato gli utenti della California di aspettarsi forti incrementi delle tariffe: “Voi avete servito un bel piatto[174] ai politici, nel momento in cui l’assistenza sanitaria è in discussione. Gli avete fatto proprio un bel favore!”.

In effetti, le tariffe che schizzano al cielo costituiscono un potente argomento per l’azione legislativa[175], e mostrano, in particolare, che c’è bisogno di una copertura assistenziale complessiva e garantita; il che è per l’appunto quello che i Democratici stanno cercando di ottenere.

Questa è la storia: le circa 800.000 persone, in California, che acquistano copertura assicurativa sul mercato individuale – in alternativa a quelli che la ottengono per il tramite delle loro imprese – sono sotto la copertura di Anthem Blue Cross e, in seconda istanza, di WellPoint. Questa è la gente alla quale di recente è stato detto di prepararsi ad incrementi esorbitanti delle tariffe, in qualche caso sino al 39 per cento.

Perché incrementi così elevati? Non per aumentare i profitti, dice WellPoint, secondo la quale si tratta piuttosto di fronteggiare una classica spirale assicurativa della mortalità, sia pure senza usare questo termine.

Tenete presente che le assicurazioni sanitarie private funzionano solo se gli assicuratori possono vendere polizze sia agli utenti ammalati che a quelli in salute. Se un numero troppo elevato di persone in salute decidono di sfruttare le loro possibilità e di rimanere senza assicurazione, il fondo comune dei rischi[176] si deteriora, costringendo gli assicuratori ad innalzare i premi. Questo, a sua volta, induce altre persone in salute a rinunciare alla copertura, peggiorando ancora di più la voce dei rischi, e così via.

Ora, quello che WellPoint sostiene è di essere stata costretta ad alzare le sue polizze per effetto “del momento economico impegnativo”: i californiani a corto di denaro hanno dovuto rinunciare alle loro polizze, oppure  hanno deciso di spostarsi su programmi assicurativi meno comprensivi. Quelli che mantengono la copertura sono di solito persone con spese mediche costantemente elevate. E il risultato, dice la compagnia, è un peggioramento del fondo comune dei rischi: il che equivale ad una spirale della mortalità.

Per questo la crescita delle tariffe, insiste WellPoint, non è un proprio difetto: “Altri assicuratori sul mercato individuale stanno fronteggiando le stesse dinamiche e sono costretti ad assumere decisioni simili”. Difatti, un rapporto rilasciato giovedi dal Dipartimento della Salute e dei Servizi alla Persona mostra che ci sono stati incrementi esorbitanti, già messi in atto o proposti, da parte di numerose assocurazioni.

Ma qua è il punto: ammettiamo pure[177], in via provvisoria, che gli assicuratori non siano i principali cattivi in questa storia. Anche così, la spirale della mortalità in California rende privi di senso tutti gli argomenti principali che sono stati usati contro una riforma generale della sanità.

Ad esempio, qualcuno ha sostenuto che il costi della sanità si ridurrebbero in modo spettacolare[178] soltanto se si consentisse alle compagnie assicurative di vendere le polizze al di là dei confini statali. Ma la California è già un mercato assai vasto, con una competizione tra le assicurazioni molto più vigorosa degli altri Stati; sfortunatamente gli assicuratori competono principalmente nel cercare di eccellere nell’arte del negare la protezione a coloro che ne hanno maggiore bisogno. Quel genere di competizione non ha evitato la spirale della mortalità. Perché, dunque, la creazione di un mercato nazionale dovrebbe rendere le cose migliori?

In termini più generali, i conservatori vorrebbero farvi credere che le assicurazioni sanitarie soffrono di troppa interferenza governativa. Di fatto, il motivo reale per il quale si spinge verso un mercato interstatale è che in quel modo esploderebbe una gara senza esclusione di colpi[179], in pratica eliminando ogni regolamentazione statale. Ma il mercato delle assicurazioni individuali della California è già considerevole per la sua mancanza di regolamenti, lo è senza alcun dubbio se paragonato ad altri Stati come New York, e tuttavia quel mercato è collassato comunque.

Infine, ci sono state prese di posizione a favore di una riforma sanitaria minimalistica, che dovrebbe mettere al bando le discriminazioni sulla base delle preesistenti condizioni e fermarsi lì. E’ un’idea popolare, ma come sa ogni economista di sistemi sanitari, è anche un nonsenso. Perché l’esclusione di ogni discriminazione sulle cure mediche porterebbe a premi più elevati per coloro che sono in salute, e, di conseguenza, provocherebbe una maggiore e più grande spirale della mortalità.

Dunque, le disgrazie della California  dimostrano che le ricette dei conservatori per una riforma sanitaria semplicemente non funzionerebbero.

Cos’è che potrebbe funzionare? Certamente, poniamo fine alla discriminazione sulla base della storia clinica degli utenti, ma dobbiamo anche includere la popolazione in salute nel fondo comune dei rischi, il che significa che abbiamo bisogno che la gente compri le assicurazioni. Il che, a sua volta, richiede aiuti sostanziali agli americani con redditi bassi, di modo che essi possano permettersi la copertura.

Se mettete assieme tutte queste cose, quello che viene fuori assomiglierà moltissimo alle proposte di riforma sanitaria che sono state approvate sia dalla Camera che dal Senato.

Cosa dire infine delle prese di posizione secondo le quali quelle proposte costringerebbero gli americani in balia[180] delle avide compagnie assicurative?  La migliore risposta sta in regole più forti; ma potrebbe essere un’idea molto buona, sia in termini politici  sia per gli effetti sostanziali, se il Senato usasse la procedura di riconciliazione per riportare l’opzione pubblica dentro il suo testo legislativo.

Ma il punto principale resta questo: la spirale della mortalità della California è un promemoria che ci dice che il nostro sistema della assistenza sanitaria deve essere liberato dalle sue contraddizioni[181], e che l’inazione non è una soluzione possibile. A questo punto, il Congresso ed il Presidente debbono trovare la strada per la riforma.

 

 

 

  


 

The Bankruptcy Boys

By PAUL KRUGMAN

Published: February 21, 2010

O.K., the beast is starving. Now what? That’s the question confronting Republicans. But they’re refusing to answer, or even to engage in any serious discussion about what to do.

 

For readers who don’t know what I’m talking about: ever since Reagan, the G.O.P. has been run by people who want a much smaller government. In the famous words of the activist Grover Norquist, conservatives want to get the government “down to the size where we can drown it in the bathtub.”

 

But there has always been a political problem with this agenda. Voters may say that they oppose big government, but the programs that actually dominate federal spending — Medicare, Medicaid and Social Security — are very popular. So how can the public be persuaded to accept large spending cuts?

 

The conservative answer, which evolved in the late 1970s, would be dubbed “starving the beast” during the Reagan years. The idea — propounded by many members of the conservative intelligentsia, from Alan Greenspan to Irving Kristol — was basically that sympathetic politicians should engage in a game of bait and switch. Rather than proposing unpopular spending cuts, Republicans would push through popular tax cuts, with the deliberate intention of worsening the government’s fiscal position. Spending cuts could then be sold as a necessity rather than a choice, the only way to eliminate an unsustainable budget deficit.

 

And the deficit came. True, more than half of this year’s budget deficit is the result of the Great Recession, which has both depressed revenues and required a temporary surge in spending to contain the damage. But even when the crisis is over, the budget will remain deeply in the red, largely as a result of Bush-era tax cuts (and Bush-era unfunded wars). And the combination of an aging population and rising medical costs will, unless something is done, lead to explosive debt growth after 2020.

 

 

So the beast is starving, as planned. It should be time, then, for conservatives to explain which parts of the beast they want to cut. And President Obama has, in effect, invited them to do just that, by calling for a bipartisan deficit commission.

 

Many progressives were deeply worried by this proposal, fearing that it would turn into a kind of Trojan horse — in particular, that the commission would end up reviving the long-standing Republican goal of gutting Social Security. But they needn’t have worried: Senate Republicans overwhelmingly voted against legislation that would have created a commission with some actual power, and it is unlikely that anything meaningful will come from the much weaker commission Mr. Obama established by executive order.

 

Why are Republicans reluctant to sit down and talk? Because they would then be forced to put up or shut up. Since they’re adamantly opposed to reducing the deficit with tax increases, they would have to explain what spending they want to cut. And guess what? After three decades of preparing the ground for this moment, they’re still not willing to do that.

 

 

In fact, conservatives have backed away from spending cuts they themselves proposed in the past. In the 1990s, for example, Republicans in Congress tried to force through sharp cuts in Medicare. But now they have made opposition to any effort to spend Medicare funds more wisely the core of their campaign against health care reform (death panels!). And presidential hopefuls say things like this, from Gov. Tim Pawlenty of Minnesota: “I don’t think anybody’s gonna go back now and say, Let’s abolish, or reduce, Medicare and Medicaid.”

 

 

What about Social Security? Five years ago the Bush administration proposed limiting future payments to upper- and middle-income workers, in effect means-testing retirement benefits. But in December, The Wall Street Journal’s editorial page denounced any such means-testing, because “middle- and upper-middle-class (i.e., G.O.P.) voters would get less than they were promised in return for a lifetime of payroll taxes.” (Hmm. Since when do conservatives openly admit that the G.O.P. is the party of the affluent?)

 

 

At this point, then, Republicans insist that the deficit must be eliminated, but they’re not willing either to raise taxes or to support cuts in any major government programs. And they’re not willing to participate in serious bipartisan discussions, either, because that might force them to explain their plan — and there isn’t any plan, except to regain power.

 

But there is a kind of logic to the current Republican position: in effect, the party is doubling down on starve-the-beast. Depriving the government of revenue, it turns out, wasn’t enough to push politicians into dismantling the welfare state. So now the de facto strategy is to oppose any responsible action until we are in the midst of a fiscal catastrophe. You read it here first.

 

“I ragazzi della bancarotta”, di Paul Krugman

New York Times 21 febbraio 2010

Abbiamo capito, la belva è affamata[182]. E allora, che fare? Questa è la domanda da porre ai repubblicani. Senonché essi si rifiutano di rispondere, ed anche di impegnarsi un un qualsiasi sensato confronto su cosa debba essere fatto.

Per i lettori che non sanno di cosa sto parlando: dall’epoca di Reagan, il G.O.P. è stato diretto da gente che voleva ridurre ai minimi termini le funzioni di governo. Secondo la famosa espressione dell’attivista Grover Norquist, i conservatori vorrebbero che il governo “si riducesse a dimensioni tali da poterlo affogare nella vasca da bagno”[183].

Ma questi propositi si sono sempre dovuti misurare con un problema politico. Gli elettori possono dire che si oppongono a governi ingombranti[184], ma i programmi che in effetti dominano la spesa federale – Medicare, Medicaid e Social Security – sono molto popolari. Come si fa, dunque, a persuadere i cittadini a tagliare le spese?

La riposta dei conservatori, che si sviluppò sin dalla fine degli anni 70, fu definita, durante gli anni di Reagan, “affamare la belva”. L’idea – proposta da vari componenti dell’intellighentzia conservatrice, da Alan Greenspan a Irving Cristol – era fondamentalmente quella di utilizzare politici che ispiravano simpatia in una specie di gioco di adescamento[185]. Piuttosto che proporre tagli impopolari alle spese, i Repubblicani sarebbero passati attraverso popolari tagli alle tasse, con la deliberata intenzione di peggiorare la posizione fiscale del governo. I tagli alle spese sarebbero poi stati fatti passare[186] come una necessità, anziché come una scelta, l’unico modo per eliminare un deficit di bilancio insostenibile.

E il deficit arrivò. E’ vero, più della metà del deficit del bilancio di quest’anno è la conseguenza della Grande Recessione, che ha da una parte depresso le entrate e dall’altra richiesto una temporanea crescita della spesa per contenere il danno. Ma anche quando la crisi sarà superata, il bilancio resterà profondamente in rosso, in gran parte come risultato dei tagli fiscali dell’era Bush (e delle guerre finanziate senza copertura di bilancio[187] dell’era Bush). E la combinazione di una popolazione sempre più anziana e di spese sanitarie crescenti porterà, se non viene fatto qualcosa, ad una crescita esplosiva del debito dopo il 2020.

In tal modo la belva è stata affamata, come previsto. Per i conservatori, dunque, dovrebbe essere venuto il tempo di spiegare quali parti della belva intendono tagliare. E il Presidente Obama, convocandoli ad una commissione bipartisan sul deficit, in effetti, li ha invitati proprio a quel chiarimento.

Molti progressisti sono rimasti seriamente preoccupati da questa proposta, nel timore che essa possa trasformarsi in una specie di “cavallo di Troia”; in particolare, che la commissione possa finire per rivitalizzare l’antico proposito dei repubblicani, di uno svuotamento[188] di Social security. Ma non è il caso che si preoccupino: i Repubblicani al Senato votarono in modo schiacciante contro una legge che avrebbe potuto dar vita ad una commissione con qualche effettivo potere, ed è improbabile che venga fuori qualcosa di significativo da una commissione molto più debole istituita per effetto di una ordinanza esecutiva di Obama[189].

Perché i Repubblicani sono riluttanti a sedersi ed a discutere? Perché, a quel punto, essi sarebbero costretti a fare una proposta o a tacere[190]. Sin dal momento in cui si rifiutarono categoricamente di ridurre il deficit attraverso aumenti delle tasse, essi avrebbero dovuto spiegare come intendevano tagliare le spese. Indovinate un po’[191]? Dopo tre decenni nel corso dei quali hanno preparato il terreno per questo momento, non sono ancora pronti a farlo.

Di fatto, i conservatori sono tornati indietro rispetto ai tagli delle spese che essi stessi avevano proposto in passato. Nel 1990, ad esempio, i Repubblicani provarono a far accettare al Congresso tagli severi a Medicare. Ma oggi essi hanno fatto dell’opposizione ad ogni sforzo per una spesa più oculata su Medicare, il cuore della loro battaglia contro la riforma dell’assistenza sanitaria (i tribunali della morte!) E quelli tra loro che hanno ambizioni presidenziali[192], come il Governatore del Minnesota Tim Pawlenty, fanno affermazioni di questo genere: “Io non credo che qualcuno abbia ora voglia di tornare indietro[193] e di dire, aboliamo, o riduciamo, Medicare e Medicaid”.

Che dire, infine della Sicurezza Sociale? Cinque anni fa l’amministrazione Bush propose di porre un limite ai versamenti futuri per i lavoratori con redditi medio alti, in effetti un modo per accertare[194] le indennità previdenziali. Ma in dicembre, la pagina editoriale del Wall Street Journal si schierava contro accertamenti del genere, perché “gli elettori della classe media e medio-alta (cioè il G.O.P.) otterrebbero meno di quanto non gli era stato promesso, in cambio di una vita di contributi fiscali[195]” (ma guarda un po’! Da quando i conservatori ammettono apertamente che il G.O.P. è il partito dei benestanti?)

A questo punto, dunque, i Repubblicani insistono perché il deficit sia eliminato, ma non intendono né alzare le tasse, né sostenere tagli alle spese in alcun principale programma governativo. E non hanno neanche voglia di impegnarsi in un serio confronto bipartizan, perché in quel modo sarebbero costretti a spiegare il loro piano, mentre non esiste alcun piano, ad eccezione di quello della riconquista del potere.

C’è qua un buon esempio della logica della attuale posizione politica dei Repubblicani: in effetti, per quel partito si tratta di una riedizione della tattica dell’ “affamare la belva”. Si è dimostrato che diminuire le entrate governative non è sufficiente a indurre i politici a smantellare lo stato del welfare. Così, adesso la strategia è diventata, nei fatti, quella di opporsi ad ogni legislazione responsabile, finchè non ci troveremo nel bel mezzo di una catastrofe fiscale. Non potrete dire che non l’avevamo previsto![196]  

 

 

 

  


 

Afflicting the Afflicted

By PAUL KRUGMAN

Published: February 25, 2010

If we’re lucky, Thursday’s summit will turn out to have been the last act in the great health reform debate, the prologue to passage of an imperfect but nonetheless history-making bill. If so, the debate will have ended as it began: with Democrats offering moderate plans that draw heavily on past Republican ideas, and Republicans responding with slander and misdirection.

 

Nobody really expected anything different. But what was nonetheless revealing about the meeting was the fact that Republicans — who had weeks to prepare for this particular event, and have been campaigning against reform for a year — didn’t bother making a case that could withstand even minimal fact-checking.

 

It was obvious how things would go as soon as the first Republican speaker, Senator Lamar Alexander, delivered his remarks. He was presumably chosen because he’s folksy and likable and could make his party’s position sound reasonable. But right off the bat he delivered a whopper, asserting that under the Democratic plan, “for millions of Americans, premiums will go up.”

 

 

Wow. I guess you could say that he wasn’t technically lying, since the Congressional Budget Office analysis of the Senate Democrats’ plan does say that average payments for insurance would go up. But it also makes it clear that this would happen only because people would buy more and better coverage. The “price of a given amount of insurance coverage” would fall, not rise — and the actual cost to many Americans would fall sharply thanks to federal aid.

 

 

His fib on premiums was quickly followed by a fib on process. Democrats, having already passed a health bill with 60 votes in the Senate, now plan to use a simple majority vote to modify some of the numbers, a process known as reconciliation. Mr. Alexander declared that reconciliation has “never been used for something like this.” Well, I don’t know what “like this” means, but reconciliation has, in fact, been used for previous health reforms — and was used to push through both of the Bush tax cuts at a budget cost of $1.8 trillion, twice the bill for health reform.

 

 

What really struck me about the meeting, however, was the inability of Republicans to explain how they propose dealing with the issue that, rightly, is at the emotional center of much health care debate: the plight of Americans who suffer from pre-existing medical conditions. In other advanced countries, everyone gets essential care whatever their medical history. But in America, a bout of cancer, an inherited genetic disorder, or even, in some states, having been a victim of domestic violence can make you uninsurable, and thus make adequate health care unaffordable.

 

 

 

One of the great virtues of the Democratic plan is that it would finally put an end to this unacceptable case of American exceptionalism. But what’s the Republican answer? Mr. Alexander was strangely inarticulate on the matter, saying only that “House Republicans have some ideas about how my friend in Tullahoma can continue to afford insurance for his wife who has had breast cancer.” He offered no clue about what those ideas might be.

 

 

In reality, House Republicans don’t have anything to offer to Americans with troubled medical histories. On the contrary, their big idea — allowing unrestricted competition across state lines — would lead to a race to the bottom. The states with the weakest regulations — for example, those that allow insurance companies to deny coverage to victims of domestic violence — would set the standards for the nation as a whole. The result would be to afflict the afflicted, to make the lives of Americans with pre-existing conditions even harder.

Don’t take my word for it. Look at the Congressional Budget Office analysis of the House G.O.P. plan. That analysis is discreetly worded, with the budget office declaring somewhat obscurely that while the number of uninsured Americans wouldn’t change much, “the pool of people without health insurance would end up being less healthy, on average, than under current law.” But here’s the translation: While some people would gain insurance, the people losing insurance would be those who need it most. Under the Republican plan, the American health care system would become even more brutal than it is now.

 

 

So what did we learn from the summit? What I took away was the arrogance that the success of things like the death-panel smear has obviously engendered in Republican politicians. At this point they obviously believe that they can blandly make utterly misleading assertions, saying things that can be easily refuted, and pay no price. And they may well be right.

 

 

But Democrats can have the last laugh. All they have to do — and they have the power to do it — is finish the job, and enact health reform.

 

“Affliggere gli afflitti[197]”, di Paul Krugman

New York Times 25 febbraio 2010

 

Se siamo fortunati, il confronto di giovedì risulterà come l’ultimo atto del grande dibattito sulla riforma sanitaria, il prologo della successiva approvazione di una legge imperfetta ma nondimeno storica. Se sarà così, il dibattito sarà finito come era cominciato: con i Democratici che offrono progetti moderati che ricalcano passate idee dei Repubblicani, ed i Repubblicani che rispondono con calunnie e depistaggi[198].

Nessuno si aspettava effettivamente niente di diverso. Ma ciò che è stato tuttavia rivelatore in quel dibattito è il fatto che i Republicani – che avevano avuto settimane per prepararsi a quell’evento, e per un anno si erano impegnati un una campagna contro la riforma – non si sono dati pena di sostenere una tesi che reggesse ad una sia pur minima verifica nei fatti[199].

Era ovvio come sarebbe andata sin dal momento in cui il primo oratore repubblicano, il Senatore Lamar Alexander, ha presentato le proprie osservazioni. Presumibilmente era stato scelto in quanto persona alla buona e gradevole, e dunque capace di far apparire la posizione del suo partito ragionevole. Sennonché, subito alla prima battuta[200], se ne è uscito con una balla[201], asserendo che con il piano dei Democratici “saliranno i premi assicurativi per milioni di americani”.

Caspita! Suppongo che mi voi direte che, in senso tecnico, egli non stava mentendo, dal momento che le analisi del Congressional Budget Office sostengono che i contributi assicurativi medi, a seguito del programma del democratici, saliranno. Sennonché esse chiariscono anche che questo potrà accadere solo in conseguenza del fatto che la gente potrà scegliere di acquistare maggiore e migliore copertura assicurativa. Il “prezzo di una quantità definita di copertura assicurativa” scenderebbe, anziché salire, e il costo effettivo per molti americani scenderebbe in modo sensibile, per effetto degli aiuti statali.

La sua frottola sui premi è stata immediatamente seguita da un’altra frottola sulle procedure. I Democratici, avendo già approvato un testo di legge sanitaria con 60 voti al Senato, adesso prevedono di utilizzare il voto a maggioranza semplice per modificare qualche numero, una procedura conosciuta come “riconciliazione”. Alexander ha sostenuto che la “riconciliazione” non è stata “mai utilizzata per cose di questo genere”. Bene, io non so cosa si intenda con “cose di questo genere”, ma la riconciliazione è stata utilizzata in precedenti riforme sanitarie, e fu utilizzata per far passare entrambi gli sgravi fiscali di Bush con un costo di bilancio di 1,8 miliardi di dollari, due volte quello previsto dalla legge di riforma sanitaria.

Ciò che realmente mi ha colpito nel corso del confronto, tuttavia, è stata l’incapacità dei Repubblicani di spiegare in che modo essi si misurano con la questione che, giustamente, appassiona più di tutte, al centro di gran parte della discussione sulla riforma sanitaria: la triste condizione degli americani che sono in sofferenza per effetto della loro precedente storia clinica. Negli altri paesi avanzati, ognuno ottiene l’assistenza essenziale, qualunque siano i suoi precedenti sanitari. Ma in America, se si è affetti da una malattia oncologica, o da un disordine genetico ereditario, o persino, in qualche Stato, se si è rimasti vittime di violenze domestiche, non si è più idonei ad essere assicurati, e di conseguenza una assistenza sanitaria adeguata diventa insostenibile.

Uno dei grandi meriti del programma dei Democratici, consiste nel fatto che esso metterebbe finalmente la parola fine a questa “eccezione” americana. Ma quale è la risposta dei Repubblicani? Su questo aspetto, Alexander è diventato singolarmente inespressivo, dicendoci soltanto che “i repubblicani della Camera hanno qualche idea affinché il mio amico di Tullahoma, la cui moglie ha avuto un cancro al seno, possa continuare a permettersi una assicurazione”. Non ci ha fornito alcun indizio di quali idee possa trattarsi.

In realtà, i repubblicani della Camera non hanno niente da offrire agli americani che patiscono per i loro precedenti sanitari. Al contrario, la loro grande idea – consentire una competizione senza le restrizioni dei confini statali – porterebbe la concorrenza alle sue estreme conseguenze. Gli Stati con le regolamentazioni più deboli – ad esempio, quelli nei quali è negata la copertura alle vittime di violenze domestiche – fornirebbero gli standars per la nazione intera. Il risultato sarebbe quello di affliggere gli afflitti, rendendo ancora più dura la vita agli americani con precedenti problemi sanitari.

Non prendete le mie parole per ora colato[202]. Andate a vedere l’analisi del Congressional Budget Office a proposito del programma del G.O.P. della Camera. In un documento redatto con espressioni discrete[203], il Budget Office afferma piuttosto oscuramente che mentre il numero degli americani non assicurati non cambierebbe di molto, “il gruppo delle persone prive di assicurazione sanitaria finirebbe con l’essere in condizioni di salute peggiori[204] che non con la legislazione attuale”. Ma ecco qua la traduzione: mentre alcuni guadagnerebbero l’assicurazione, la perderebbero proprio quelli che ne hanno il massimo bisogno. Con il programma repubblicano, il sistema sanitario americani diventerenne persino più brutale di quanto non sia oggi.

Che cose, dunque, abbiamo imparato da quel confronto? Quello che io ne ho tratto è che il successo di argomenti calunniosi come quello dei ‘tribunali della morte’, ha naturalmente prodotto nei politici repubblicani un bel po’ di arroganza. A questo punto essi si sentono ovviamente autorizzati a mettere in giro ulteriori affermazioni mistificanti, dicendo cose che potrebbero facilmente essere confutate, senza essere chiamati a pagarne alcun prezzo. E può darsi benissimo che non abbiano torto.

Ma i Democratici potrebbero ridere per ultimi[205]. Tutto quello che devono fare – ed hanno il potere di farlo – è di portare a termine il lavoro, e di varare la riforma sanitaria.

 

 

 


 

Financial Reform Endgame

By PAUL KRUGMAN

Published: February 28, 2010

So here’s the situation. We’ve been through the second-worst financial crisis in the history of the world, and we’ve barely begun to recover: 29 million Americans either can’t find jobs or can’t find full-time work. Yet all momentum for serious banking reform has been lost. The question now seems to be whether we’ll get a watered-down bill or no bill at all. And I hate to say this, but the second option is starting to look preferable.

 

The problem, not too surprisingly, lies in the Senate, and mainly, though not entirely, with Republicans. The House has already passed a fairly strong reform bill, more or less along the lines proposed by the Obama administration, and the Senate could probably do the same if it operated on the principle of majority rule. But it doesn’t — and when you combine near-universal Republican opposition to serious reform with the wavering of some Democrats, prospects look bleak.

 

 

How did we get to this point? And should reform advocates accept the compromises that might yet produce some kind of bill?

 

Many opponents of the House version of banking reform present their position as one of principle. House Republicans, offering their alternative proposal, claimed that they would end banking excesses by introducing “market discipline” — basically, by promising not to rescue banks in the future.

 

 

 

But that’s a fantasy. For one thing, governments always, when push comes to shove, end up rescuing key financial institutions in a crisis. And more broadly, relying on the magic of the market to keep banks safe has always been a path to disaster. Even Adam Smith knew that: he may have been the father of free-market economics, but he argued that bank regulation was as necessary as fire codes on urban buildings, and called for a ban on high-risk, high-interest lending, the 18th-century version of subprime. And the lesson has been confirmed again and again, from the Panic of 1873 to Iceland today.

 

 

 

 

I suspect that even Republicans, in their hearts, understand the need for real reform. But their strategy of opposing anything the Obama administration proposes, coupled with the lure of financial-industry dollars — back in December top Republican leaders huddled with bank lobbyists to coordinate their campaigns against reform — has trumped all other considerations.

 

 

That said, some Republicans might, just possibly, be persuaded to sign on to a much-weakened version of reform — in particular, one that eliminates a key plank of the Obama administration’s proposals, the creation of a strong, independent agency protecting consumers. Should Democrats accept such a watered-down reform?

 

I say no.

There are times when even a highly imperfect reform is much better than nothing; this is very much the case for health care. But financial reform is different. An imperfect health care bill can be revised in the light of experience, and if Democrats pass the current plan there will be steady pressure to make it better. A weak financial reform, by contrast, wouldn’t be tested until the next big crisis. All it would do is create a false sense of security and a fig leaf for politicians opposed to any serious action — then fail in the clinch.

 

 

 

Better, then, to take a stand, and put the enemies of reform on the spot. And by all means let’s highlight the dispute over a proposed Consumer Financial Protection Agency.

 

There’s no question that consumers need much better protection. The late Edward Gramlich — a Federal Reserve official who tried in vain to get Alan Greenspan to act against predatory lending — summarized the case perfectly back in 2007: “Why are the most risky loan products sold to the least sophisticated borrowers? The question answers itself — the least sophisticated borrowers are probably duped into taking these products.”

 

 

Is it important that this protection be provided by an independent agency? It must be, or lobbyists wouldn’t be campaigning so hard to prevent that agency’s creation.

 

And it’s not hard to see why. Some have argued that the job of protecting consumers can and should be done either by the Fed or — as in one compromise that at this point seems unlikely — by a unit within the Treasury Department. But remember, not that long ago Mr. Greenspan was Fed chairman and John Snow was Treasury secretary. Case closed. The only way consumers will be protected under future antiregulation administrations — and believe me, given the power of the financial lobby, there will be such administrations — is if there’s an agency whose whole reason for being is to police bank abuses.

 

 

In summary, then, it’s time to draw a line in the sand. No reform, coupled with a campaign to name and shame the people responsible, is better than a cosmetic reform that just covers up failure to act.

 

“Riforma finanziaria, fine dei giochi” di Paul Krugman,

New York Times 28 febbraio 2010

Siamo, dunque, a questo punto. Abbiamo attraversato la seconda peggiore crisi finanziaria della storia del mondo, ed abbiamo appena cominciato a venirne fuori; 29 milioni di americani non trovano lavoro, tantomeno a tempo pieno. Tuttavia, ogni spinta per un seria riforma del sistema bancario si è spenta. L’alternativa ad oggi sembra essere tra l’avere una legge annacquata o non avere nessuna legge. E mi dispiace dirlo, ma la seconda possibilità comincia ad apparire preferibile.

Il problema, il che non è poi troppo sorprendente, sta nel Senato e principalmente, sebbene non per intero, nei Repubblicani. La Camera ha già approvato un testo di riforma discretamente impegnativo, più o meno lungo le direttrici proposte dalla amministrazione Obama, ed il Senato potrebbe probabilmente fare lo stesso, se operasse sulla base della regola maggioritaria. Ma così non è, e se voi mettete assieme l’opposizione quasi integrale dei Repubblicani ad ogni seria riforma ed i tentennamenti di qualche democratico, le prospettive appaiono desolanti.

Come siamo arrivati a questo punto? Inoltre: dovrebbero i sostenitori della riforma accettare il compromesso che potrebbe ancora derivare da una proposta legislativa qualsiasi?

Molti oppositori alla riforma del sistema bancario approvata dalla Camera, presentano la loro posizione come una questione di principio[206]. I Repubblicani alla Camera, illustrando la loro proposta alternativa, hanno argomentato che essi porrebbero fine agli eccessi del sistema bancario fondamentalmente con la “disciplina di mercato”, ovvero escludendo d’ora in avanti ogni forma di salvataggio delle banche.

 

Ma si tratta di una fantasia. Da una parte, i governi, quando sono spinti dalla forza delle cose[207], finiscono sempre con il salvare, nel corso di una crisi, le istituzioni finanziarie principali. E, più in generale, contare sulla magia del mercato per conservare le banche in condizioni di sicurezza, è sempre stata la strada per ottenere disastri. Persino Adam Smith ne era ben consapevole: egli può essere stato il padre dell’economia del libero mercato, ma intuiva che la regolazione delle banche era necessaria come le regole antiincendio nei palazzi cittadini, e prese posizione a favore della messa al bando delle operazioni ad alto rischio e dei prestiti ad elevati interessi, ovvero delle versioni dei subprimes del XVIII secolo. E quella lezione è stata confermata decine e decine di volte, dal “panico” del 1873 all’Islanda dei nostri giorni.

Io ho il sospetto che anche i Repubblicani, in coscienza, siano consapevoli della necessità di una riforma effettiva. Ma la loro strategia dell’opporsi ad ogni proposta della amministrazione Obama, congiunta alla lusinga dei dollari provenienti del settore finanziario – nel passato mese di dicembre i massimi leaders repubblicani si sono ritrovati[208] con i lobbisti del sistema bancario per coordinare le loro campagne contro la riforma – l’hanno avuta vinta su ogni considerazione di altro genere.

Ciò detto, qualche repubblicano potrebbe, in linea teorica[209], a consentire con una versione assai affievolita di riforma; in particolare, una soluzione che elimini l’asse portante[210] delle proposte della amministrazione Obama, la creazione di una forte ed indipendente Agenzia incaricata della protezione dei consumatori. Dovrebbero i Democratici accettare una versione talmente annacquata della riforma?

Io dico di no.

Ci sono momenti nei quali persino una riforma assai imperfetta è meglio di niente; questo è esattamente il caso della assistenza sanitaria. Ma la riforma del settore finanziario è un’altra questione. Una riforma della assistenza sanitaria può essere sempre rivista alla luce dell’esperienza, e se i Democratici approvano il programma proposto, potranno poi fare pressioni con insistenza per migliorarlo. Una riforma debole del sistema finanziario, al contrario, non sarebbe sottoposta a verifica se non al momento della prossima grande crisi. Tutto quello che essa determinerebbe sarebbe un senso di falsa sicurezza ed una foglia di fico per i politici che si oppongono ad ogni seria iniziativa, dopo di che si chiuderebbero in “clinch[211].

Meglio, allora, prendere una pausa ed indicare a tutti le responsabilità dei nemici della riforma. E in tutti i modi fare in modo che si accenda il dibattito sulla proposta della Agenzia per la tutela dei consumatori dei servizi finanziari.

Non c’è dubbio sul fatto che i consumatori abbiano assoluto bisogno di una tutela maggiore. Da ultimo Edward Gramlich – un dirigente della Federal Reserve che aveva provato invano a sollecitare Alan Greenspan ad agire contro le modalità ingannevoli nella concessione dei prestiti – aveva sintetizzato il caso alla perfezione nel 2007 “Perché i prodotti finanziari più rischiosi vengono venduti agli acquirenti meno sofisticati? La domanda ha una risposta facile[212]: gli acquirenti meno sofisticati con tutta probabilità sono indotti con l’inganno a prendere questi prodotti”.

E’ così importante che questa protezione sia fornita da una agenzia indipendente? Deve essere così, altrimenti i lobbisti non si impegnerebbero in una campagna così accesa per impedire la istituzione di una agenzia del genere.

E non è difficile capire perché. Qualcuno ha ipotizzato che quella funzione di protezione dei consumatori potrebbe essere svolta sia dalla Fed, sia, con un compromesso che a questo punto appare improbabile, da una unità all’interno del Dipartimento del Tesoro. Ma ricordiamoci che non molto tempo fa Greenspan era Presidente della Fed e John Snow era Segretario al Tesoro. Con loro, si sarebbe detto, caso chiuso! Il solo modo nel quale i consumatori potranno essere protetti in futuro, sotto amministrazioni ostili alla regolamentazione – e credetemi, dato il potere delle lobbies  finanziarie, ci saranno amministrazioni del genere – può consistere in una agenzia la cui unica ragione di esistenza sia la sorveglianza contro gli abusi delle banche.

In sintesi, dunque, è tempo di tirare una riga sulla sabbia. Nessuna riforma, assieme ad una campagna che incolpi il responsabile per nome e cognome[213], è una soluzione migliore che non una riforma cosmetica, che appena  maschererebbe il fallimento della legislazione[214]

 

 

 


 

Senator Bunning’s Universe

By PAUL KRUGMAN

Published: March 4, 2010

So the Bunning blockade is over. For days, Senator Jim Bunning of Kentucky exploited Senate rules to block a one-month extension of unemployment benefits. In the end, he gave in, although not soon enough to prevent an interruption of payments to around 100,000 workers.

 

But while the blockade is over, its lessons remain. Some of those lessons involve the spectacular dysfunctionality of the Senate. What I want to focus on right now, however, is the incredible gap that has opened up between the parties. Today, Democrats and Republicans live in different universes, both intellectually and morally.

Take the question of helping the unemployed in the middle of a deep slump. What Democrats believe is what textbook economics says: that when the economy is deeply depressed, extending unemployment benefits not only helps those in need, it also reduces unemployment. That’s because the economy’s problem right now is lack of sufficient demand, and cash-strapped unemployed workers are likely to spend their benefits. In fact, the Congressional Budget Office says that aid to the unemployed is one of the most effective forms of economic stimulus, as measured by jobs created per dollar of outlay.

 

 

But that’s not how Republicans see it. Here’s what Senator Jon Kyl of Arizona, the second-ranking Republican in the Senate, had to say when defending Mr. Bunning’s position (although not joining his blockade): unemployment relief “doesn’t create new jobs. In fact, if anything, continuing to pay people unemployment compensation is a disincentive for them to seek new work.”

 

In Mr. Kyl’s view, then, what we really need to worry about right now — with more than five unemployed workers for every job opening, and long-term unemployment at its highest level since the Great Depression — is whether we’re reducing the incentive of the unemployed to find jobs. To me, that’s a bizarre point of view — but then, I don’t live in Mr. Kyl’s universe.

 

And the difference between the two universes isn’t just intellectual, it’s also moral.

 

Bill Clinton famously told a suffering constituent, “I feel your pain.” But the thing is, he did and does — while many other politicians clearly don’t. Or perhaps it would be fairer to say that the parties feel the pain of different people.

 

 

During the debate over unemployment benefits, Senator Jeff Merkley, a Democrat of Oregon, made a plea for action on behalf of those in need. In response, Mr. Bunning blurted out an expletive. That was undignified — but not that different, in substance, from the position of leading Republicans.

Consider, in particular, the position that Mr. Kyl has taken on a proposed bill that would extend unemployment benefits and health insurance subsidies for the jobless for the rest of the year. Republicans will block that bill, said Mr. Kyl, unless they get a “path forward fairly soon” on the estate tax.

 

 

Now, the House has already passed a bill that, by exempting the assets of couples up to $7 million, would leave 99.75 percent of estates tax-free. But that doesn’t seem to be enough for Mr. Kyl; he’s willing to hold up desperately needed aid to the unemployed on behalf of the remaining 0.25 percent. That’s a very clear statement of priorities.

 

 

So, as I said, the parties now live in different universes, both intellectually and morally. We can ask how that happened; there, too, the parties live in different worlds. Republicans would say that it’s because Democrats have moved sharply left: a Republican National Committee fund-raising plan acquired by Politico suggests motivating donors by promising to “save the country from trending toward socialism.” I’d say that it’s because Republicans have moved hard to the right, furiously rejecting ideas they used to support. Indeed, the Obama health care plan strongly resembles past G.O.P. plans. But again, I don’t live in their universe.

 

 

 

More important, however, what are the implications of this total divergence in views?

 

The answer, of course, is that bipartisanship is now a foolish dream. How can the parties agree on policy when they have utterly different visions of how the economy works, when one party feels for the unemployed, while the other weeps over affluent victims of the “death tax”?

 

 

Which brings us to the central political issue right now: health care reform. If Congress enacts reform in the next few weeks — and the odds are growing that it will — it will do so without any Republican votes. Some people will decry this, insisting that President Obama should have tried harder to gain bipartisan support. But that isn’t going to happen, on health care or anything else, for years to come.

 

 

Someday, somehow, we as a nation will once again find ourselves living on the same planet. But for now, we aren’t. And that’s just the way it is.

 

“L’universo del Senatore Bunning”, di Paul Krugman

New York Times 4 marzo 2010

E così l’ostruzionismo del Senatore Bunning è superato. Per giorni, il Senatore Bunning del Kentucky, ha sfruttato le regole del Senato per bloccare l’estensione di un mese delle indennità di disoccupazione. Alla fine si è arreso, sebbene non in tempo utile per impedire l’interruzione dei pagamenti a circa 100.000 operai.

Ma, mentre l’ostruzionismo è superato, i suoi insegnamenti rimangono. Alcuni di essi riguardano la spettacolare disfunzionalità del Senato. Ciononostante, in questo momento intendo concentrarmi sull’incredibile abisso che si è aperto tra i due Partiti. Oggi, Democratici e Repubblicani è come se vivessero in due distinti universi, sia intellettualmente che moralmente.

Prendiamo l’aspetto dell’aiuto ai disoccupati nel corso di una crisi profonda. Quello in cui i Democratici credono è quanto sta scritto nei testi di economia: ovvero che quando l’economia è profondamente depressa, l’estensione dei benefici di disoccupazione non solo aiuta chi ne ha bisogno, ma anche riduce la disoccupazione. Ciò dipende dal fatto che il problema attuale dell’economia è la mancanza di una sufficiente domanda, ed è del tutto probabile che i lavoratori privi di risorse spendano quelle indennità. Infatti, il Congressional Budget Office ci dice che l’aiuto ai disoccupati è una delle più efficaci forme di sostegno all’economia, misurata in posti di lavoro che si creano per ogni dollaro messo a disposizione.

Ma non è così che i Repubblicani la vedono. Ecco qua cosa ha detto il Senatore Jon Kyl dell’Arizona, il secondo per importanza tra i repubblicani del Senato, a difesa della posizione del signor Bunning (al cui ostruzionismo non ha però aderito): il soccorso ai disoccupati “non crea nuovi posti di lavoro. Di fatto, continuare a pagare compensi di disoccupazione alla gente è semmai un disincentivo nei loro confronti a cercare un nuovo lavoro”.

Dal punto di vista di Kyl, dunque, quello di cui dovremmo effettivamente preoccuparci in questo momento – quando abbiamo più di cinque lavoratori disoccupati per ogni posto di lavoro disponibile e una disoccupazione di lungo termine ai suoi livelli più alti dalla Grande Depressione – consisterebbe nel fatto che stiamo riducendo l’incentivo a cercar lavoro tra i disoccupati. Secondo me si tratta di un punto di vista bizzarro, e dunque io non vivo nello stesso mondo del signor Kyl.

E la differenza tra quei due universi non è solo intellettuale, è anche morale.

E’ rimasta famosa l’espressione che Bill Clinton adoperò nei confronti di un elettore in condizioni di sofferenza: “Io condivido la tua pena”. Ma il fatto è che egli era in quello stato d’animo e lo sarebbe tuttora[215], mentre molti altri uomini politici non lo sono affatto. O forse sarebbe più onesto dire che i partiti condividono le pene di parti differenti del popolo.

Durante il dibattito sulle indennità di disoccupazione, il Senatore Jeff Merkley, un democratico dell’Oregon, ha lanciato un appello accorato a fare qualcosa in nome di coloro che ne hanno bisogno. Per tutta risposta, Bunning se ne è venuto fuori[216] con una imprecazione. E’ stato poco dignitoso, ma non così distante, nella sostanza, dalla posizione dei dirigenti repubblicani.

Considerate, in particolare, la posizione che Kyl ha assunto a proposito di una proposta di legge che avrebbe esteso sino al resto dell’anno le indennità di disoccupazione ed i sussidi per la assicurazione sanitaria ai lavoratori disoccupati. I repubblicani bloccheranno quel provvedimento, ha detto Kyl, a meno che essi non ottengano “abbastanza presto un via libera” a quello relativo alle tasse sugli immobili.

Ora, la Camera ha già approvato un testo legislativo che, esentando i patrimoni delle coppie sino a 7 milioni di dollari, lascierebbe il 99,75 per cento degli immobili liberi da tasse. Ma questo non pare abbastanza al signor Kyl: egli sta cercando disperatamente di resistere all’aiuto necessario ai disoccupati per conto di quel restante 0,25 per cento. Si tratta di una definizione delle priorità chiarissima.

Dunque, come ho detto, i partiti oggi vivono in due universi separati, sia intellettualmente che moralmente. Possiamo chiederci in che modo sia successo; nel qual caso[217], per altro, si deve considerare che i partiti vivono anche in due diversi vocabolari[218]. I Repubblicani direbbero che ciò è dipeso dal fatto che i Democratici si sono spostati bruscamente a sinistra; un programma di raccolta di fondi del Repubblican National Committee acquisito dalla rivista Politico suggerisce ai donatori una motivazione con la promessa di “salvare il paese da una deriva socialista[219]”. Io avrei detto che questo è successo perché i Repubblicani si sono spostati nettamente a destra, rigettando con rabbia idee che erano abituati a sostenere. Difatti, il programma di assistenza sanitaria di Obama assomiglia fortemente a passati programmi del G.O.P. Ma, di nuovo, io non vivo nel loro universo.

E’ più importante, tuttavia, stabilire quali implicazioni abbia questa totale divergenza di punti di vista.

La risposta, naturalmente, è che l’idea di una politica basata su compromessi tra le due parti è diventata, in queste condizioni, un sogno sciocco. Come possono i partiti trovare un accordo politico, se hanno visioni completamente diverse su come funziona l’economia, con un partito che si sente vicino alle pene dei disoccupati, mentre l’altro si strappa le vesti per le vittime benestanti della “tassa sulla morte”?

Il che ci riporta alla questione politica centrale del momento: la riforma della assistenza sanitaria. Se il Congresso varerà una riforma nelle prossime poche settimane – e le probabilità che accada sono crescenti – ciò avverrà senza il concorso di alcun voto repubblicano. Qualcuno sminuirà[220] questo risultato, insistendo che il Presidente Obama avrebbe dovuto provare con più impegno a guadagnare l’adesione di entrambe le parti. Ma questo non sarà nell’ordine delle cose, per la assistenza sanitaria come per ogni altra questione, per gli anni avvenire.

Un giorno, in qualche modo, noi come nazione ci riscopriremo a vivere sullo stesso pianeta. Ma per adesso non è così. E questo è quello che conta[221].  

 

 

 

  


 

An Irish Mirror

By PAUL KRUGMAN

Published: March 7, 2010

Everyone has a theory about the financial crisis. These theories range from the absurd to the plausible — from claims that liberal Democrats somehow forced banks to lend to the undeserving poor (even though Republicans controlled Congress) to the belief that exotic financial instruments fostered confusion and fraud. But what do we really know?

 

Well, in a way the sheer scale of the crisis — the way it affected much, though not all, of the world — is helpful, for research if nothing else. We can look at countries that avoided the worst, like Canada, and ask what they did right — such as limiting leverage, protecting consumers and, above all, avoiding getting caught up in an ideology that denies any need for regulation. We can also look at countries whose financial institutions and policies seemed very different from those in the United States, yet which cracked up just as badly, and try to discern common causes.

 

So let’s talk about Ireland.

 

As a new research paper by the Irish economists Gregory Connor, Thomas Flavin and Brian O’Kelly points out, “Almost all the apparent causal factors of the U.S. crisis are missing in the Irish case,” and vice versa. Yet the shape of Ireland’s crisis was very similar: a huge real estate bubble — prices rose more in Dublin than in Los Angeles or Miami — followed by a severe banking bust that was contained only via an expensive bailout.

 

Ireland had none of the American right’s favorite villains: there was no Community Reinvestment Act, no Fannie Mae or Freddie Mac. More surprising, perhaps, was the unimportance of exotic finance: Ireland’s bust wasn’t a tale of collateralized debt obligations and credit default swaps; it was an old-fashioned, plain-vanilla case of excess, in which banks made big loans to questionable borrowers, and taxpayers ended up holding the bag.

 

 

So what did we have in common? The authors of the new study suggest four “ ‘deep’ causal factors.”

 

First, there was irrational exuberance: in both countries buyers and lenders convinced themselves that real estate prices, although sky-high by historical standards, would continue to rise.

 

Second, there was a huge inflow of cheap money. In America’s case, much of the cheap money came from China; in Ireland’s case, it came mainly from the rest of the euro zone, where Germany became a gigantic capital exporter.

 

Third, key players had an incentive to take big risks, because it was heads they win, tails someone else loses. In Ireland this moral hazard was largely personal: “Rogue-bank heads retired with their large fortunes intact.” There was a lot of this in the United States, too: as Harvard’s Lucian Bebchuk and others have pointed out, top executives at failed U.S. financial companies received billions in “performance related” pay before their firms went belly-up.

 

 

 

 

But the most striking similarity between Ireland and America was “regulatory imprudence”: the people charged with keeping banks safe didn’t do their jobs. In Ireland, regulators looked the other way in part because the country was trying to attract foreign business, in part because of cronyism: bankers and property developers had close ties to the ruling party.

 

 

There was a lot of that here too, but the bigger issue was ideology. Actually, the authors of the Irish paper get this wrong, stressing the way U.S. politicians celebrated the ideal of homeownership; yes, they made speeches along those lines, but this didn’t have much effect on lenders’ incentives.

 

 

What really mattered was free-market fundamentalism. This is what led Ronald Reagan to declare that deregulation would solve the problems of thrift institutions — the actual result was huge losses, followed by a gigantic taxpayer bailout — and Alan Greenspan to insist that the proliferation of derivatives had actually strengthened the financial system. It was largely thanks to this ideology that regulators ignored the mounting risks.

 

 

So what can we learn from the way Ireland had a U.S.-type financial crisis with very different institutions? Mainly, that we have to focus as much on the regulators as on the regulations. By all means, let’s limit both leverage and the use of securitization — which were part of what Canada did right. But such measures won’t matter unless they’re enforced by people who see it as their duty to say no to powerful bankers.

 

 

 

 

 

That’s why we need an independent agency protecting financial consumers — again, something Canada did right — rather than leaving the job to agencies that have other priorities. And beyond that, we need a sea change in attitudes, a recognition that letting bankers do what they want is a recipe for disaster. If that doesn’t happen, we will have failed to learn from recent history — and we’ll be doomed to repeat it.

 

“Uno specchio irlandese”, di Paul Krugman

New York Times 7 marzo 2010

 

Ognuno ha una sua teoria sulla crisi finanziaria. Queste teorie spaziono tra l’assurdo ed il plausibile – dalle tesi  secondo le quali i Democratici liberal hanno costretto le banche a dare prestiti ai poveri immeritevoli (anche se i Repubblicani controllavano il Congresso), al convincimento che esotici strumenti finanziari abbiano prodotto[222] confusione e frode. Ma cosa effettivamente conosciamo?

Bene, in un certo senso la vastità della crisi – il modo in cui essa ha interessato una gran parte del mondo, anche se non tutto – è d’aiuto, se non altro nella ricerca. Noi possiamo guardare ai paesi che hanno evitato il peggio, come il Canada, e chiederci cosa avessero fatto di giusto – come la limitazione dell’effetto leva nella attività bancaria, la protezione degli utenti e, soprattutto, l’aver evitato di arrivare a sposare una ideologia[223] fondata sulla negazione di ogni bisogno di regolazione. Possiamo anche guardare a quei paesi le cui istituzioni e le cui politiche finanziarie sono apparse differenti da quelle degli Stati Uniti, e che tuttavia sono precipitati nella crisi con la stessa intensità, e provare a individuare le cause comuni.

Parliamo, dunque, dell’Irlanda.

Come un recente saggio degli economisti irlandesi Gregory Connor, Thomas Flavin e Brian O’Kelly sottolinea “Quasi tutti i fattori che in apparenza hanno provocato la crisi negli Stati Uniti sono introvabili[224] nel caso dell’Irlanda”, e viceversa.  Tuttavia, la forma della crisi irlandese è stata molto simile: una vasta bolla immobiliare – i prezzi sono cresciuti a Dublino più che a Los Angeles o a Miami – seguita da una grave esplosione degli equilibri bancari, che è stata contenuta solo attraverso un dispendioso salvataggio.

Gl Irlandesi non avevano nessuno dei ‘cattivi soggetti’ che ricorrono negli argomenti della destra americana[225]: non c’era nessuna legge per gli investimenti nelle comunità, nessun Fannie Mae o Freddie Mac[226].  Ancora più sorprendente, forse, era la scarsa importanza della finanza esotica: il crollo dell’Irlanda non è stata una storia di obbligazioni collegate al debito[227] e di scambi di morosità creditizie[228]; si è trattato di un tradizionale e perfino banale caso[229] di eccessi, nel quale le banche hanno concesso grandi prestiti a creditori discutibili e, alla fine, i contribuenti hanno pagato il conto[230].

Che cosa avevamo, dunque, in comune? Gli autori del recente studio suggeriscono quattro “fattori scatenanti, che hanno agito nel profondo”.

Il primo: c’era una esuberanza irrazionale. In entrambi i paesi coloro che acquistavano e coloro che concedevano i prestiti si erano persuasi che i prezzi del settore immobiliare, per quanto saliti alle stelle rispetto agli standars tradizionali, avrebbero continuato a crescere.

Il secondo: c’era stata un’ampia immissione di denaro a buon prezzo. In America, una gran parte del denaro a buon mercato proveniva dalla Cina; nel caso dell’Irlanda, proveniva principalmente dal resto della zona euro, dove la Germania era diventata un gigantesco esportatore di capitali.

Il terzo: gli attori principali avevano un incentivo ad assumere grandi rischi, perché vigeva la regola secondo la quale se veniva “testa” loro vincevano, se veniva “croce” qualcun altro perdeva. In Irlanda questa specie di morale basata sull’azzardo[231] era penetrata ampiamente nei comportamenti degli individui: “dirigenti di istituti bancari disonesti si sono portati via intatte grandi fortune”. C’è stato un mucchio di questi casi anche negli Stati Uniti: come Lucian Bebchuck ed altri dell’Università di Harvard hanno sottolineato, i massimi dirigenti di compagnie finanziarie statunitensi hanno ricevuto miliardi in stipendi “correlati a prestazioni”, sino ad un momento prima della bancarotta delle loro imprese[232].

Ma la somiglianza più stringente tra L’Irlanda e l’America è stata “una imprudenza delle regole”: la gente che aveva il compito di rendere le banche sicure, non ha fatto il proprio mestiere. In Irlanda i responsabili della vigilanza guardavano altrove, in parte perchè  il paese era impegnato ad attrarre uomini d’affari stranieri, in parte per semplice cinismo: i banchieri e gli imprenditori dell’edilizia avevano legami stretti con il partito al governo.

C’è stato molto del genere anche qua da noi, ma il problema più grande è stato di natura ideologica. In realtà, a questo proposito gli autori del saggio irlandese si sbagliano, insistendo sul modo in cui i politici americani hanno enfatizzato l’idea della casa in proprietà; è vero, essi si sono espressi in molti modi in quella direzione, ma non è stato questo l’aspetto decisivo nell’incentivare chi ha concesso i prestiti.

Il fattore realmente determinante è stata l’ideologia del libero mercato. E’ questo che permise a Ronald Reagan di dichiarare che la deregulation avrebbe risolto i problemi delle istituzioni dell’economia – il risultato effettivo è stato quello di enormi perdite seguite dal gigantesco salvataggio dei contribuenti – ed ad Alan Greenspan di insistere sul fatto che la proliferazione dei derivati[233]  avrebbe effettivamente rafforzato il sistema economico. E’ stato in gran parte in virtù di questa ideologia che gli organi di vigilanza hanno ignorato i rischi crescenti.

Dunque, quale lezione si può trarre dal fatto che l’Irlanda ha conosciuto una crisi del genere di quella statunitense, pur avendo istituzioni molto diverse? Soprattutto, che bisogna concentrare l’attenzione sul funzionamento delle funzioni di vigilanza nello stesso modo che sulle sue regole. In ogni caso, si devono limitare sia le attività di “leva finanziaria[234] che l’uso della cosiddetta “securitizzazione[235]” – che sono gli aspetti sui quali il Canada ha fatto le cose giuste. Ma misure del genere non saranno sufficienti se non saranno rafforzate da persone che le considerano come espressione del loro diritto di non consentire con lo strapotere dei banchieri[236].

Ecco perché abbiamo bisogno di una agenzia indipendente che protegga i consumatori del sistema finanziario – altra cosa che il Canada ha fatto giustamente – piuttosto che lasciare tale funzione ad uffici che hanno priorità diverse. E, oltre a ciò, abbiamo bisogno di un mare di cambiamenti nelle nostre abitudini, a cominciare dal riconoscimento che lasciar fare ai banchieri quello che vogliono è una ricetta per il disastro. Se questo non accade, noi non avremo appreso niente dalla recente lezione della storia, e saremo condannati a ripeterla.

 

 

 


 

Health Reform Myths

By PAUL KRUGMAN

Published: March 11, 2010

Health reform is back from the dead. Many Democrats have realized that their electoral prospects will be better if they can point to a real accomplishment. Polling on reform — which was never as negative as portrayed — shows signs of improving. And I’ve been really impressed by the passion and energy of this guy Barack Obama. Where was he last year?

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But reform still has to run a gantlet of misinformation and outright lies. So let me address three big myths about the proposed reform, myths that are believed by many people who consider themselves well-informed, but who have actually fallen for deceptive spin.

 

The first of these myths, which has been all over the airwaves lately, is the claim that President Obama is proposing a government takeover of one-sixth of the economy, the share of G.D.P. currently spent on health.

 

Well, if having the government regulate and subsidize health insurance is a “takeover,” that takeover happened long ago. Medicare, Medicaid, and other government programs already pay for almost half of American health care, while private insurance pays for barely more than a third (the rest is mostly out-of-pocket expenses). And the great bulk of that private insurance is provided via employee plans, which are both subsidized with tax exemptions and tightly regulated.

 

 

 

The only part of health care in which there isn’t already a lot of federal intervention is the market in which individuals who can’t get employment-based coverage buy their own insurance. And that market, in case you hadn’t noticed, is a disaster — no coverage for people with pre-existing medical conditions, coverage dropped when you get sick, and huge premium increases in the middle of an economic crisis. It’s this sector, plus the plight of Americans with no insurance at all, that reform aims to fix. What’s wrong with that?

 

 

 

The second myth is that the proposed reform does nothing to control costs. To support this claim, critics point to reports by the Medicare actuary, who predicts that total national health spending would be slightly higher in 2019 with reform than without it.

 

 

Even if this prediction were correct, it points to a pretty good bargain. The actuary’s assessment of the Senate bill, for example, finds that it would raise total health care spending by less than 1 percent, while extending coverage to 34 million Americans who would otherwise be uninsured. That’s a large expansion in coverage at an essentially trivial cost.

 

And it gets better as we go further into the future: the Congressional Budget Office has just concluded, in a new report, that the arithmetic of reform will look better in its second decade than it did in its first.

 

Furthermore, there’s good reason to believe that all such estimates are too pessimistic. There are many cost-saving efforts in the proposed reform, but nobody knows how well any one of these efforts will work. And as a result, official estimates don’t give the plan much credit for any of them. What the actuary and the budget office do is a bit like looking at an oil company’s prospecting efforts, concluding that any individual test hole it drills will probably come up dry, and predicting as a consequence that the company won’t find any oil at all — when the odds are, in fact, that some of the test holes will pan out, and produce big payoffs. Realistically, health reform is likely to do much better at controlling costs than any of the official projections suggest.

 

 

 

Which brings me to the third myth: that health reform is fiscally irresponsible. How can people say this given Congressional Budget Office predictions — which, as I’ve already argued, are probably too pessimistic — that reform would actually reduce the deficit? Critics argue that we should ignore what’s actually in the legislation; when cost control actually starts to bite on Medicare, they insist, Congress will back down.

 

 

But this isn’t an argument against Obamacare, it’s a declaration that we can’t control Medicare costs no matter what. And it also flies in the face of history: contrary to legend, past efforts to limit Medicare spending have in fact “stuck,” rather than being withdrawn in the face of political pressure.

 

 

So what’s the reality of the proposed reform? Compared with the Platonic ideal of reform, Obamacare comes up short. If the votes were there, I would much prefer to see Medicare for all.

 

For a real piece of passable legislation, however, it looks very good. It wouldn’t transform our health care system; in fact, Americans whose jobs come with health coverage would see little effect. But it would make a huge difference to the less fortunate among us, even as it would do more to control costs than anything we’ve done before.

 

This is a reasonable, responsible plan. Don’t let anyone tell you otherwise.

 

“I miti della riforma sanitaria” di Paul Krugman

New York Times 11 marzo 2010

La riforma sanitaria è resuscitata[237]. Molti democratici hanno compreso che le loro prospettive elettorali saranno migliori se essi la potranno presentare come una effettiva realizzazione[238]. I sondaggi sulla riforma – che non sono mai stati così negativi come sono stati descritti – mostrano segni di miglioramento. Ed io sono stato realmente impressionato dall’energia e dalla passione di quel personaggio[239] che risponde al nome di Barack Obama. Ma dov’era l’anno passato?

Eppure la riforma deve ancora passare in mezzo alle forche caudine[240] della disinformazione e delle aperte menzogne. Lasciate dunque che mi occupi di tre grandi miti a proposito della riforma proposta, miti nei quali crede molta gente che si ritiene bene informata, ma che in realtà è cascata in ingannevoli ritornelli[241].

Il primo di quei miti, che recentemente è andato in onda in tutti i modi[242], è l’argomento secondo il quale il Presidente Obama avrebbe il proposito di stabilire un controllo statale su un sesto dell’economia nazionale, la parte del PIL che attualmente si spende per la sanità.

Bene, se il fatto che il governo regoli e sussidi l’assicurazione sanitaria è una “presa di controllo”, allora si tratta di un fenomeno antico. Medicare, Medicaid ed altri programmi governativi già pagano l’assistenza sanitaria per quasi la metà degli americani, mentre le assicurazioni private pagano per poco più di un terzo (il resto è costituito soprattutto da spese di tasca propria). E la gran parte del contributo delle assicurazioni private è fornito attraverso i programmi per i lavoratori dipendenti, che sono destinatari di sussidi sia per effetto di esenzioni fiscali che per effetto di stringenti regolamentazioni.

La sola parte della assistenza sanitaria nella quale non c’è ancora un cospicuo intervento federale è il mercato nel quale gli individui singoli che non possono ottenere la copertura assicurativa a carico delle imprese, acquistano da soli la propria assicurazione. E quel mercato, nel caso che non ve ne foste accorti, è un disastro: nessuna copertura per le persone con preesistenti problemi di salute, copertura assicurativa ritirata nel momento in cui ci si ammala ed ampi incrementi dei premi nel bel mezzo di una  crisi economica. E’ in questo settore, in aggiunta alla piaga[243] degli americani che sono del tutto sprovvisti di assicurazione, che la riforma si propone di porre rimedio[244]. Cosa c’è di sbagliato in tutto questo?

Il secondo mito è che la riforma proposta non farebbe niente per la riduzione dei costi. Per sostenere questo argomento, i critici sottolineano i rapporti delle analisi attuariali di Medicare, che prevedono che nell’anno 2019 la spesa globale nazionale sarà leggermente maggiore in vigenza della riforma di quanto non lo sarebbe senza di essa.

Persino se questa previsione fosse corretta, essa indicherebbe un affare piuttosto buono. L’accertamento attuariale della proposta di legge del Senato, ad esempio, evidenzia che la spesa totale per la assistenza sanitaria crescerebbe di meno dell’uno per cento, nel mentre si estenderebbe la copertura a 34 milioni di americani che, altrimenti, ne sarebbero sprovvisti. Si tratta di una notevole crescita della copertura, ad un costo sostanzialmente modesto.

E andrà meglio più che andremo in avanti: il Congressional Budget Office, in un nuovo rapporto, è appena giunto alla conclusione che i numeri della riforma saranno migliori nel secondo decennio di quanto non siano stati nel primo.

Inoltre, c’è una buona ragione per credere che tutte queste stime siano troppo pessimistiche. Nella riforma proposta sono previste molte azioni per risparmiare i costi, ma nessuno sa con quanta efficacia ognuno di questi sforzi funzionerà. Per di più, le stime ufficiali non danno al programma un particolare credito per nessuna di queste azioni. Il modo in cui i calcoli attuariali ed il Budget Office si comportano assomiglia un po’ al modo in cui si valutano le attività di ricerca di una compagnia petrolifera, stabilendo che ogni singolo esperimento di trivellazione risulterà inefficace, e prevedendo di conseguenza che la compagnia non troverà alcuna materia prima; nel mentre, nei fatti, è probabile che qualche test di trivellazione abbia successo e che produca notevoli risultati economici. Realisticamente, è probabile che la riforma sanitaria produca risultati di controllo dei costi molto migliori di quanto viene indicato da ogni stima ufficiale.

La qual cosa mi porta al terzo mito: quello dell’irresponsabilità fiscale della riforma sanitaria. Come possono alcuni sostenere questa tesi, considerato che le stime del Congressional Budget Office – che, come ho appena supposto, sono troppo pessimistiche – prevedono che la riforma ridurrebbe il deficit? I critici ipotizzano che noi dovremmo ignorare quello che è effettivamente contenuto nella legislazione; quando il controllo dei costi realmente comincerà a produrre effetti[245] su Medicare, essi insistono, il Congresso ne prenderà atto[246].

Ma questo non è un argomento contro la riforma di Obama, è piuttosto una dichiarazione che equivale a sostenere che non si potranno controllare i costi di Medicare qualsiasi cosa si faccia. Il che va anche contro la storia: contrariamente alla leggenda, gli sforzi fatti in passato per controllare i costi di Medicare, hanno nei fatti lasciato il segno[247], ben di più che lo starsene chiusi in se stessi a subire le pressioni politiche[248].

Qual è dunque la verità della riforma proposta? Confrontata con l’ideale platonico della riforma, l’assistenza di Obama sta un po’ stretta[249]. Se ci fossero i voti, io preferirei di molto una soluzione del tipo Medicare per tutti.

Tuttavia, come un pezzo di una legislazione praticabile, essa appare molto buona. Essa non trasformerebbe il nostro sistema di assistenza sanitaria: gli Americani che hanno una copertura sanitaria sul posto di lavoro, vedrebbero un effetto modesto. Ma essa farebbe una grande differenza per quelli tra noi che sono meno fortunati, anche se provocherebbe un controllo dei costi maggiore di ogni altra soluzione praticata in precedenza.

Si tratta di un piano ragionevole e responsabile. Non consentite a nessuno di raccontarlo in modo diverso.

 

 


 

Taking On China

By PAUL KRUGMAN

Published: March 14, 2010

Tensions are rising over Chinese economic policy, and rightly so: China’s policy of keeping its currency, the renminbi, undervalued has become a significant drag on global economic recovery. Something must be done.

 

To give you a sense of the problem: Widespread complaints that China was manipulating its currency — selling renminbi and buying foreign currencies, so as to keep the renminbi weak and China’s exports artificially competitive — began around 2003. At that point China was adding about $10 billion a month to its reserves, and in 2003 it ran an overall surplus on its current account — a broad measure of the trade balance — of $46 billion.

 

 

Today, China is adding more than $30 billion a month to its $2.4 trillion hoard of reserves. The International Monetary Fund expects China to have a 2010 current surplus of more than $450 billion — 10 times the 2003 figure. This is the most distortionary exchange rate policy any major nation has ever followed.

 

 

And it’s a policy that seriously damages the rest of the world. Most of the world’s large economies are stuck in a liquidity trap — deeply depressed, but unable to generate a recovery by cutting interest rates because the relevant rates are already near zero. China, by engineering an unwarranted trade surplus, is in effect imposing an anti-stimulus on these economies, which they can’t offset.

 

 

 

So how should we respond? First of all, the U.S. Treasury Department must stop fudging and obfuscating.

Twice a year, by law, Treasury must issue a report identifying nations that “manipulate the rate of exchange between their currency and the United States dollar for purposes of preventing effective balance of payments adjustments or gaining unfair competitive advantage in international trade.” The law’s intent is clear: the report should be a factual determination, not a policy statement. In practice, however, Treasury has been both unwilling to take action on the renminbi and unwilling to do what the law requires, namely explain to Congress why it isn’t taking action. Instead, it has spent the past six or seven years pretending not to see the obvious.

 

 

 

Will the next report, due April 15, continue this tradition? Stay tuned.

 

If Treasury does find Chinese currency manipulation, then what? Here, we have to get past a common misunderstanding: the view that the Chinese have us over a barrel, because we don’t dare provoke China into dumping its dollar assets.

 

 

 

What you have to ask is, What would happen if China tried to sell a large share of its U.S. assets? Would interest rates soar? Short-term U.S. interest rates wouldn’t change: they’re being kept near zero by the Fed, which won’t raise rates until the unemployment rate comes down. Long-term rates might rise slightly, but they’re mainly determined by market expectations of future short-term rates. Also, the Fed could offset any interest-rate impact of a Chinese pullback by expanding its own purchases of long-term bonds.

 

 

It’s true that if China dumped its U.S. assets the value of the dollar would fall against other major currencies, such as the euro. But that would be a good thing for the United States, since it would make our goods more competitive and reduce our trade deficit. On the other hand, it would be a bad thing for China, which would suffer large losses on its dollar holdings. In short, right now America has China over a barrel, not the other way around.

 

So we have no reason to fear China. But what should we do?

Some still argue that we must reason gently with China, not confront it. But we’ve been reasoning with China for years, as its surplus ballooned, and gotten nowhere: on Sunday Wen Jiabao, the Chinese prime minister, declared — absurdly — that his nation’s currency is not undervalued. (The Peterson Institute for International Economics estimates that the renminbi is undervalued by between 20 and 40 percent.) And Mr. Wen accused other nations of doing what China actually does, seeking to weaken their currencies “just for the purposes of increasing their own exports.”

 

But if sweet reason won’t work, what’s the alternative? In 1971 the United States dealt with a similar but much less severe problem of foreign undervaluation by imposing a temporary 10 percent surcharge on imports, which was removed a few months later after Germany, Japan and other nations raised the dollar value of their currencies. At this point, it’s hard to see China changing its policies unless faced with the threat of similar action — except that this time the surcharge would have to be much larger, say 25 percent.

 

 

 

I don’t propose this turn to policy hardball lightly. But Chinese currency policy is adding materially to the world’s economic problems at a time when those problems are already very severe. It’s time to take a stand.

 

“Occuparsi della Cina” di Paul Krugman

New York Times 14 marzo 2010

 

Le tensioni a proposito della politica economica cinese stanno crescendo, ed è inevitabile: la politica cinese di mantenere la propria valuta, il renminbi, al di sotto del suo valore, è diventata un ostacolo[250] significativo alla ripresa economica globale. Occorre fare qualcosa.

Per darvi le dimensioni del problema: lamentele diffuse sul fatto che la Cina stia intervenendo artificiosamente sulla sua moneta – vendendo renminbi ed acquistando valute straniere, in modo tale da mantenere debole il renminbi e competitive oltre misura le esportazioni cinesi – sono cominciate attorno al 2003. In quel momento la Cina stava aggiungendo circa 10 miliardi di dollari al mese alle sue riserve, e nel 2003 questo provocò un surplus complessivo[251] di 46 miliardi di dollari sul suo conto corrente[252], un indicatore generale della bilancia commerciale.

Oggi, la Cina sta aggiungendo più di 30 miliardi di dollari al mese ai 2 mila e 400 miliardi di dollari della sua provvista di riserve valutarie. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che la Cina avrà nel 2010 un surplus corrente di più di 450 miliardi di dollari – dieci volte il dato del 2003. Si tratta della politica del tasso di scambio più distorcente che nessun paese abbia mai praticato.

Ed è una politica che danneggia seriamente il resto del mondo. Gran parte delle più importanti economie del mondo sono incastrate in una specie di trappola della liquidità: sono profondamente depresse, ma non possono generare ripresa attraverso il taglio dei tassi di interesse, dato che i tassi effettivi[253] sono già prossimi allo zero. La Cina, realizzando arificiosamente[254] un surplus commerciale ingiustificato, di fatto provoca un impedimento alle politiche economiche di sostegno alla ripresa[255], che  queste economie non possono in alcun modo compensare.

Dunque, come dovremmo rispondere? In primo luogo, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti dovrebbe smetterla di glissare e di confondere le carte[256].

Due volte all’anno, per legge, il Tesoro è tenuto a pubblicare un rapporto con il quale vengono identificate le nazioni che “manipolano il tasso di scambio tra le loro monete e il dollaro statunitense, con il proposito di impedire sostanziali aggiustamenti nella bilancia dei pagamenti o di acquisire un ingiustificato vantaggio competitivo nel commercio internazionale”. L’intento della legge è chiaro: il rapporto dovrebbe essere una determinazione basata sui fatti, non una dichiarazione politica. In pratica, tuttavia, il Tesoro ha mostrato poca voglia sia nell’assumere una iniziativa nei confronti del renminbi sia nel fare quello che la legge richiede, ovvero spiegare per filo e per segno[257] al Congresso perché ritiene di non assumere tale iniziativa. Invece, esso ha trascorso gli ultimi sei o sette anni pretendendo di non vedere ciò che è evidente.

Il prossimo rapporto, atteso per il 15 di aprile, continuerà questa tradizione? Aspettiamo e vedremo[258].

Se il Tesoro non riconosce alcuna manipolazione valutaria da parte dei cinesi, di cos’altro mai si può trattare[259]? A questo proposito, dobbiamo metterci alle spalle[260] un equivoco frequente: l’opinione secondo la quale i cinesi ci avrebbero messi con le spalle al muro[261],  ragione per la quale noi non osiamo provocare la Cina a fare una politica di dumping delle sue riserve di dollari.

Quello che dovete chiedervi è: che cosa accadrebbe se la Cina provasse a vendete una larga parte dei suoi assets statunitensi? Si innalzerebbero i tassi di interesse? I tassi di interesse a breve termine dell’America non cambierebbero: essi sono stati portati in prossimità dello zero dalla Fed, che non vuole che i tassi salgano finchè non scenderà l’indice della disoccupazione. I tassi di interesse a lungo termine potrebbero salire leggermente, ma essi sono principalmente determinati dalle aspettative del mercato sui futuri tassi a breve termine. Inoltre, la Fed potrebbe bilanciare ogni impatto sui tassi di interesse derivante dal passo indietro della Cina attraverso una espansione dei propri acquisti in obbligazioni a lungo termine.

E’ vero che se la Cina mettesse in vendita sottocosto il suoi assets statunitensi, il valore del dollaro cadrebbe rispetto ad altre principali valute, come l’euro. Ma questo sarebbe un buon risultato per gli Stati Uniti, dato che renderebbe i nostri prodotti più competitivi e ridurrebbe il nostro deficit commerciale. D’altra parte, sarebbe un cattivo affare per la Cina, che subirebbe grandi perdite nelle riserve di dollari in suo possesso. In poche parole, sino a questo punto è l’America che tiene la Cina con le spalle al muro, non l’opposto[262].

Dunque, non abbiamo alcuna ragione di temere la Cina. Ma cosa dovremmo fare?

Qualcuno sostiene ancora che dobbiamo diplomaticamente far ragionare la Cina[263], piuttosto che contrastarla. Ma sono anni che cerchiamo di farla ragionare, mentre i suoi surplus sono saliti alle stelle, e non abbiamo ottenuto niente. Domenica, Wen Jiabao, il Primo Ministro cinese, ha assurdamente dichiarato che la moneta del suo paese non è sottovalutata (il Peterson Institute for International Economics stima che il renminbi sia sottovalutato tra il 20 ed il 40 per cento). E il signor Wen ha accusato altre nazioni di fare quello che effettivamente sta facendo la Cina, cercando di indebolire le loro valute “con la precisa intenzione di accrescere le proprie esportazioni”.

Ma se ragionare con pacatezza non funziona, quale è l’alternativa? Nel 1971 gli Stati Uniti dovettero fare i conti con un simile problema di sottovalutazione di valute estere, anche se di dimensioni assai più modeste, imponendo un provvisorio sovraccarico sulle importazioni, che fu rimosso alcuni mesi dopo, allorché Germania, Giappone ed altri paesi accrebbero il valore delle loro valute rispetto al dollaro[264]. A questo punto, è difficile immaginare che la Cina modifichi la propria politica senza che sia costretta a confrontarsi con la minaccia di una iniziativa del genere, con la differenza che questa volta il sovraccarico dovrebbe essere assai più cospicuo, diciamo del 25 per cento.

Io non propongo questa svolta politica con supponente incoscienza[265]. Ma la politica valutaria cinese si somma in modo molto sostanziale[266] ai problemi economici globali in un momento nel quale quei problemi sono già molto ardui. E’ venuto il tempo di prendere una posizione.

 

 

 

 

 


 

Why We Reform

By PAUL KRUGMAN

Published: March 18, 2010

One way or another, the fate of health care reform is going to be decided in the next few days. If House Democratic leaders find 216 votes, reform will almost immediately become the law of the land. If they don’t, reform may well be put off for many years — possibly a decade or more.

 

So this seems like a good time to revisit the reasons we need this reform, imperfect as it is.

As it happens, Reuters published an investigative report this week that powerfully illustrates the vileness of our current system. The report concerns the insurer Fortis, now part of Assurant Health, which turns out to have had a systematic policy of revoking its clients’ policies when they got sick. In particular, according to the Reuters report, it targeted every single policyholder who contracted H.I.V., looking for any excuse, no matter how flimsy, for cancellation. In the case that brought all this to light, Assurant Health used an obviously misdated handwritten note by a nurse, who wrote “2001” instead of “2002,” to claim that the infection was a pre-existing condition that the client had failed to declare, and revoked his policy.

 

 

 

This was illegal, and the company must have known it: the South Carolina Supreme Court, after upholding a decision granting large damages to the wronged policyholder, concluded that the company had been systematically concealing its actions when withdrawing coverage, not just in this case, but across the board.

 

 

But this is much more than a law enforcement issue. For one thing, it’s an example those who castigate President Obama for “demonizing” insurance companies should consider. The truth, widely documented, is that behavior like Assurant Health’s is widespread for a simple reason: it pays. A House committee estimated that Assurant made $150 million in profits between 2003 and 2007 by canceling coverage of people who thought they had insurance, a sum that dwarfs the fine the court imposed in this particular case. It’s not demonizing insurers to describe what they actually do.

 

 

 

Beyond that, this is a story that could happen only in America. In every other advanced nation, insurance coverage is available to everyone regardless of medical history. Our system is unique in its cruelty.

 

And one more thing: employment-based health insurance, which is already regulated in a way that mostly prevents this kind of abuse, is unraveling. Less than half of workers at small businesses were covered last year, down from 58 percent a decade ago. This means that in the absence of reform, an ever-growing number of Americans will be at the mercy of the likes of Assurant Health.

 

 

So what’s the answer? Americans overwhelmingly favor guaranteeing coverage to those with pre-existing conditions — but you can’t do that without pursuing broad-based reform. To make insurance affordable, you have to keep currently healthy people in the risk pool, which means requiring that everyone or almost everyone buy coverage. You can’t do that without financial aid to lower-income Americans so that they can pay the premiums. So you end up with a tripartite policy: elimination of medical discrimination, mandated coverage, and premium subsidies.

 

 

 

 

Or to put it another way, you end up with something like the health care plan Mitt Romney introduced in Massachusetts in 2006, and the very similar plan the House either will or won’t pass in the next few days. Comprehensive reform is the only way forward.

Can we afford this? Yes, says the Congressional Budget Office, which on Thursday concluded that the proposed legislation would reduce the deficit by $138 billion in its first decade and half of 1 percent of G.D.P., amounting to around $1.2 trillion, in its second decade.

 

But shouldn’t we be focused on controlling costs rather than extending coverage? Actually, the proposed reform does more to control health care costs than any previous legislation, paying for expanded coverage by reducing the rate at which Medicare costs will grow, substantially improving Medicare’s long-run financing along the way. And this combination of broader coverage and cost control is no accident: It has long been clear to health-policy experts that these concerns go hand in hand. The United States is the only advanced nation without universal health care, and it also has by far the world’s highest health care costs.

 

 

 

 

Can you imagine a better reform? Sure. If Harry Truman had managed to add health care to Social Security back in 1947, we’d have a better, cheaper system than the one whose fate now hangs in the balance. But an ideal plan isn’t on the table. And what is on the table, ready to go, is legislation that is fiscally responsible, takes major steps toward dealing with rising health care costs, and would make us a better, fairer, more decent nation.

 

All it will take to make this happen is for a handful of on-the-fence House members to do the right thing. Here’s hoping.

 

“Perché facciamo la riforma”, di Paul Krugman

New York Times 18 marzo 2010

In un modo o nell’altro, il destino della riforma sarà deciso nei prossimi pochi giorni. Se i dirigenti democratici alla Camera troveranno 216 voti, la riforma diventerà in breve tempo la legge in vigore nel paese. Se ciò non accadrà, la riforma potrà essere messa da parte per molti anni, probabilmente un decennio o più.

Sembra dunque un buon momento per rivisitare le ragioni per le quali abbiamo bisogno di questa riforma, per quanto imperfetta essa sia.

In coincidenza con quanto accade[267], Reuters ha pubblicato questa settimana  una indagine che mostra in modo vivido le nefandezze del sistema attuale. L’indagine riguarda l’assicurazione Fortis, ora parte di Assurant Health, che risulta aver praticato una politica sistematica di revoca delle proprie polizze nel momento in cui i propri clienti si sono ammalati. In particolare, secondo l’indagine di Reuters, essa ha preso di mira ogni detentore di polizza che avesse contratto l’H.I.V., cercando ogni scusa, non importa quanto fragile, per procedere alla cancellazione. Nel caso che ha portato tutto ciò alla luce, Assurant Health ha utilizzato un banale errore di datazione nella nota scritta a mano da un infermiere, il quale aveva indicato l’anno 2001 al posto del 2002, per sostenere che l’infezione era una condizione clinica preesistente che il cliente aveva omesso di dichiarare, ed ha revocato la sua polizza.

Era una procedura illegale, e la compagnia era tenuta a saperlo: la Corte Suprema della Carolina del Sud, dopo aver sostenuto che il comportamento posto in essere aveva provocato gravi e ingiustificati danni agli assicurati[268], aveva concluso che la compagnia aveva, non solo in quel caso,  sistematicamente a a tutti i livelli tenute nascoste le sue procedure al momento del ritiro dell’assicurazione.

Si tratta di qualcosa di molto peggio che non una mera questione di applicazione di una legge. Da una parte, è un esempio su cui dovrebbero riflettere coloro che rimproverano il Presidente Obama per aver “demonizzato” le compagnie assicuratrici. La verità ampiamente documentata è che un comportamento come quello di Assurant Health è generalizzato, per la semplice ragione che fa fare affari.  Una commissione della Camera ha stimato che Assurant Health ha realizzato profitti per 150 milioni di dollari tra il 2003 ed il 2007, cancellando la copertura a persone che pensavano di essere assicurate, una somma che supera di gran lunga la multa[269] che la Corte ha deciso per questo caso. Descrivere quello che accade nella realtà, non è demonizzare le assicurazioni.

Oltre a ciò, si tratta di una storia che potrebbe avvenire solo in America. In ogni altra nazione avanzata, la copertura assicurativa è a disposizione di tutti a prescindere dalle singole storie cliniche. Quanto a crudeltà, il nostro sistema è unico.

Un aspetto ulteriore: la assicurazione sanitaria basata sulle imprese, la quale è già regolata in modi che impediscono, nella gran parte dei casi, abusi di questo genere, non è risolutiva[270]. Meno della metà dei lavoratori delle piccole imprese avevano quel genere di copertura l’anno passato, una percentuale inferiore al 58 per cento di dieci anni fa. Questo significa che, in assenza della riforma, un numero sempre crescente di americani sarà alla mercè di soggetti simili ad Assurant Health.

Dunque, come si risponde a tutto ciò? Gli americani sono favorevoli, in una percentuale schiacciante, a garantire la copertura assicurativa a coloro che hanno presistenti problemi sanitari,  ma questo non si può ottenere se non si persegue una riforma che poggi su una base più ampia. Perché ognuno possa permettersi la assicurazione, è necessario trattenere tutte le persone che sono al momento in condizioni di salute dentro il fondo rischi, il che significa che tutti o quasi tutti devono acquistare la assicurazione. E non si può ottenere questo risultato senza un aiuto finanziario alle famiglie con redditi più bassi, in modo che essi possano pagare i premi. Si può, dunque, venirne a capo con una strategia in tre direzioni: eliminazione delle discriminazioni sanitarie, obbligo di copertura assicurativa e sussidi per pagare i premi.

O, per dirla altrimenti, si può venirne a capo con qualcosa di simile al programma di assistenza sanitaria che Mitt Romney ha introdotto nel Massachusetts nel 2006, e con il programma che la Camera approverà o non approverà nei prossimi giorni. Una riforma che comprenda tutti quegli aspetti è l’unico modo per andre avanti.

Possiamo permettercelo? Si, afferma il Congressional Budget Office, che è arrivato giovedì alla conclusione che la riforma proposta ridurrebbe il deficit di 138 miliardi di dollari nel primo decennio e di mezzo punto di PIL nel secondo decennio, corrispondente a circa 1.200 miliardi di dollari.

Ma non dovremmo concentrarci sulla riduzione dei costi, piuttosto che sulla estensione della copertura assicurativa? In realtà, la riforma proposta fa più di ogni precedente legislazione quanto a controllo dei costi pagando l’espansione della copertura attraverso una riduzione del tasso di crescita dei costi di Medicare, nella sostanza migliorando l’equilibrio finanziario a lungo termine di Medicare lungo il percorso. E questa combinazione di una copertura più ampia e di un controllo dei costi, non è casuale: da tanto tempo è chiaro agli esperti di politica sanitaria che questi due aspetti debbono procedere mano nella mano. Gli Stati Uniti sono l’unica nazione avanzata senza una copertura sanitaria universale, nel contempo hanno i costi di assistenza sanitaria di gran lunga più alti al mondo.

Si potrebbe immaginare una riforma migliore? Sicuro. Se Harry Truman avesse operato in modo da integrare l’assistenza sanitaria dentro il sistema della Sicurezza Sociale nel lontano 1947, avremmo un sistema migliore e più economico di quello il cui destino è oggi in ballo[271]. Ma un piano ideale non è sul tavolo. E’ sul tavolo, pronta a funzionare, una legislazione finanziariamente responsabile, che ci fa avanzare nella direzione di fronteggiare i costi crescenti della assistenza sanitaria, e che ci farebbe diventare una nazione migliore, più giusta e più decente.

Tutto ciò che occorre perché questo accada è che una manciata di componenti indecisi della Camera faccia la cosa giusta. Questa è la speranza.

 

 


 

Fear Strikes Out

By PAUL KRUGMAN

Published: March 21, 2010

The day before Sunday’s health care vote, President Obama gave an unscripted talk to House Democrats. Near the end, he spoke about why his party should pass reform: “Every once in a while a moment comes where you have a chance to vindicate all those best hopes that you had about yourself, about this country, where you have a chance to make good on those promises that you made … And this is the time to make true on that promise. We are not bound to win, but we are bound to be true. We are not bound to succeed, but we are bound to let whatever light we have shine.”

 

 

 

And on the other side, here’s what Newt Gingrich, the Republican former speaker of the House — a man celebrated by many in his party as an intellectual leader — had to say: If Democrats pass health reform, “They will have destroyed their party much as Lyndon Johnson shattered the Democratic Party for 40 years” by passing civil rights legislation.

 

 

I’d argue that Mr. Gingrich is wrong about that: proposals to guarantee health insurance are often controversial before they go into effect — Ronald Reagan famously argued that Medicare would mean the end of American freedom — but always popular once enacted.

 

But that’s not the point I want to make today. Instead, I want you to consider the contrast: on one side, the closing argument was an appeal to our better angels, urging politicians to do what is right, even if it hurts their careers; on the other side, callous cynicism. Think about what it means to condemn health reform by comparing it to the Civil Rights Act. Who in modern America would say that L.B.J. did the wrong thing by pushing for racial equality? (Actually, we know who: the people at the Tea Party protest who hurled racial epithets at Democratic members of Congress on the eve of the vote.)

 

 

And that cynicism has been the hallmark of the whole campaign against reform.

Yes, a few conservative policy intellectuals, after making a show of thinking hard about the issues, claimed to be disturbed by reform’s fiscal implications (but were strangely unmoved by the clean bill of fiscal health from the Congressional Budget Office) or to want stronger action on costs (even though this reform does more to tackle health care costs than any previous legislation). For the most part, however, opponents of reform didn’t even pretend to engage with the reality either of the existing health care system or of the moderate, centrist plan — very close in outline to the reform Mitt Romney introduced in Massachusetts — that Democrats were proposing.

 

 

 

Instead, the emotional core of opposition to reform was blatant fear-mongering, unconstrained either by the facts or by any sense of decency.

 

It wasn’t just the death panel smear. It was racial hate-mongering, like a piece in Investor’s Business Daily declaring that health reform is “affirmative action on steroids, deciding everything from who becomes a doctor to who gets treatment on the basis of skin color.” It was wild claims about abortion funding. It was the insistence that there is something tyrannical about giving young working Americans the assurance that health care will be available when they need it, an assurance that older Americans have enjoyed ever since Lyndon Johnson — whom Mr. Gingrich considers a failed president — pushed Medicare through over the howls of conservatives.

 

 

 

And let’s be clear: the campaign of fear hasn’t been carried out by a radical fringe, unconnected to the Republican establishment. On the contrary, that establishment has been involved and approving all the way. Politicians like Sarah Palin — who was, let us remember, the G.O.P.’s vice-presidential candidate — eagerly spread the death panel lie, and supposedly reasonable, moderate politicians like Senator Chuck Grassley refused to say that it was untrue. On the eve of the big vote, Republican members of Congress warned that “freedom dies a little bit today” and accused Democrats of “totalitarian tactics,” which I believe means the process known as “voting.”

 

 

 

Without question, the campaign of fear was effective: health reform went from being highly popular to wide disapproval, although the numbers have been improving lately. But the question was, would it actually be enough to block reform?

 

And the answer is no. The Democrats have done it. The House has passed the Senate version of health reform, and an improved version will be achieved through reconciliation.

This is, of course, a political victory for President Obama, and a triumph for Nancy Pelosi, the House speaker. But it is also a victory for America’s soul. In the end, a vicious, unprincipled fear offensive failed to block reform. This time, fear struck out.

 

“La paura non ha funzionato” di Paul Krugman

New York Times 21 marzo 2010

Alla vigilia del voto di domenica sulla assistenza sanitaria, il Presidente Obama ha rivolto un discorso improvvisato[272] ai Democratici della Camera. Verso la fine, egli ha parlato delle ragioni per le quali il suo partito dovrebbe approvare la riforma: “Per ognuno, una volta ogni tanto, viene il momento di giustificare[273] tutte quelle grandi speranze che ha nutrito per se stesso, per il suo paese, un momento nel quale ha la possibilità di avere un successo per le promesse che ha fatto … Questo è il tempo di avverare[274] quella promessa. Noi non abbiamo il dovere[275] di vincere, abbiamo il dovere di essere coerenti con noi stessi. Non siamo obbligati a riportare un successo, ma siamo tenuti a tenere accesa quella luce che ci portiamo dentro[276]”.

Sull’altro versante, ecco quello che ha ritenuto di affermare Newt Gingrich, il repubblicano che era stato il precedente speaker alla Camera – un individuo celebrato da molti come un dirigente di notevoli doti intellettuali : se i democratici approveranno la riforma sanitaria “essi provocheranno la distruzione del loro Partito, nello stesso modo in cui Lyndon Johnson mandò in frantumi il Partito Democratico per 40 anni” con la approvazione della legislazione sui diritti civili.

Io suppongo che, in questo, il signor Gingrich  abbia torto: le proposte per garantire l’assistenza sanitaria sono spesso controverse prima di essere deliberate – Ronald Reagan usò il celebre argomento secondo il quale Medicare avrebbe significato la fine della liberta americana – ma diventano sempre popolari una volta che producono i loro effetti.

Ma non è questo il punto che mi interessa sottolineare oggi. Vorrei, piuttosto, che consideraste il contrasto: da una parte, l’argomento di chiusura è stato un appello ai principi morali[277], che dovrebbero spingere gli uomini politici a fare quello che è giusto, anche se è in contrasto con le loro carriere; dall’altra parte, un inveterato cinismo[278].  Considerate che cosa significhi condannare la riforma sanitaria paragonandola alla legge sui Diritti Civili. Chi potrebbe sostenere, nell’America di oggi, che Lyndon B. Johnson fece la cosa sbagliata, allorché spinse per l’eguaglianza razziale? (In realtà, sappiamo chi: la gente della protesta del Tea Party, che al momento delle votazioni scagliava epiteti razzisti contro i democratici del Congresso).

Quel cinismo è stato il marchio di garanzia dell’intera campagna contro la riforma.

E’ vero, un gruppo sparuto di intellettuali conservatori, dopo aver dato spettacolo con ragionamenti arditi sui temi sul tappeto, si è lamentato per le preoccupazioni connesse alle conseguenze finanziarie della riforma (pur rimanendo stranamente impassibili dinanzi alla chiara certificazione di buon equilibrio finanziario[279] pronunciata dal Congressional Budget Office) oppure ha sollecitato una azione più efficace sui costi (anche se questa riforma affronta più efficacemente la questione dei costi della assistenza sanitaria rispetto a ogni legislazione precedente). In massima parte, tuttavia, gli oppositori della riforma non hanno neanche provato a misurarsi né con la realtà del sistema di assistenza sanitaria oggi vigente, né con quella del programma moderato e centrista che è stato proposto dai Democratici – assai allineato, quest’ultimo, alla riforma che Mitt Romney aveva introdotto in Massachusetts.

Piuttosto, la sostanza demagogica della opposizione alla riforma si è concentrata su un allarmismo sfacciato, a prescindere dai fatti ed anche da un qualsiasi senso della decenza.

Non sono state soltanto le calunnie sui cosiddetti ‘tribunali della morte’.  Si è cercato di seminare odio razziale, come nel caso di un articolo sull’ Investor’s Business Daily che definiva la riforma sanitaria come “una specie di azione positiva all’ennesima potenza[280], nella quale tutto viene deciso sulla base del colore della pelle di coloro che si rivolgono ad un dottore per ottenere un trattamento”. Sono state le furibonde pretese a proposito del finanziamento degli aborti. E’ stata l’insistenza secondo la quale c’era qualcosa di tirannico nel dare ai giovani lavoratori americani la garanzia che l’assistenza sanitaria sarebbe stata sostenibile nel momento in cui ne avessero avuto bisogno, una garanzia di cui gli americani più anziani avevano goduto sin dal momento i cui Lyndon Johnson – che Gingrich considera un Presidente fallito – fece approvare Medicare in mezzo alle urla dei conservatori.

E diciamolo con chiarezza: la campagna di paura non è stata messa in atto da una frangia estremista, che non aveva alcun rapporto con il gruppo dirigente repubblicano. Al contrario, quel gruppo dirigente è stato coinvolto ed ha approvato in tutti i modi. Politici come Sarah Pelin – che era stata, ricordiamolo, la candidata del G.O.P. alla vicepresidenza – hanno diffuso con entusiasmo le bugie sui ‘tribunali della morte’, e politici moderati come il Senatore Chuck Grassley, che passavano per persone ragionevoli[281], si sono rifiutati di riconoscere che si trattava di falsità. Al momento della votazione decisiva, repubblicani membri del Congresso hanno ammonito che “un pezzo di libertà oggi sarebbe morta” ed hanno accusato i democratici di “tattiche totalitarie”, con il che credo si riferissero a quella procedura altrimenti nota con il termine di “votazione”.

Senza dubbio, la campagna di paura è stata efficace: la riforma sanitaria è passata da un’alta popolarità ad una ampia disapprovazione, nonostante che di recente i consensi fossero tornati a crescere. Ma la questione era se tutto questo sarebbe bastato realmente a fermare la riforma.

E la risposta è stata: no. I Democratici ce l’hanno fatta. La Camera ha approvato la riforma sanitaria nella versione del Senato, ed una versione migliorata sarà ottenuta attraverso l’istituto della ‘riconciliazione’.

Questa è, naturalmente, una vittoria politica del Presidente Obama ed un trionfo della speaker della Camera Nancy Pelosi. Ma è anche una vittoria dell’anima dell’America. Alla fine l’offensiva della paura, brutale e senza principi, non è riuscita a fermare la riforma. La paura, questa volta, non ha funzionato[282]

 

 


 

Going to Extreme

By PAUL KRUGMAN

Published: March 25, 2010

I admit it: I had fun watching right-wingers go wild as health reform finally became law. But a few days later, it doesn’t seem quite as entertaining — and not just because of the wave of vandalism and threats aimed at Democratic lawmakers. For if you care about America’s future, you can’t be happy as extremists take full control of one of our two great political parties.

 

 

To be sure, it was enjoyable watching Representative Devin Nunes, a Republican of California, warn that by passing health reform, Democrats “will finally lay the cornerstone of their socialist utopia on the backs of the American people.” Gosh, that sounds uncomfortable. And it’s been a hoot watching Mitt Romney squirm as he tries to distance himself from a plan that, as he knows full well, is nearly identical to the reform he himself pushed through as governor of Massachusetts. His best shot was declaring that enacting reform was an “unconscionable abuse of power,” a “historic usurpation of the legislative process” — presumably because the legislative process isn’t supposed to include things like “votes” in which the majority prevails.

 

 

A side observation: one Republican talking point has been that Democrats had no right to pass a bill facing overwhelming public disapproval. As it happens, the Constitution says nothing about opinion polls trumping the right and duty of elected officials to make decisions based on what they perceive as the merits. But in any case, the message from the polls is much more ambiguous than opponents of reform claim: While many Americans disapprove of Obamacare, a significant number do so because they feel that it doesn’t go far enough. And a Gallup poll taken after health reform’s enactment showed the public, by a modest but significant margin, seeming pleased that it passed.

 

 

 

 

But back to the main theme. What has been really striking has been the eliminationist rhetoric of the G.O.P., coming not from some radical fringe but from the party’s leaders. John Boehner, the House minority leader, declared that the passage of health reform was “Armageddon.” The Republican National Committee put out a fund-raising appeal that included a picture of Nancy Pelosi, the speaker of the House, surrounded by flames, while the committee’s chairman declared that it was time to put Ms. Pelosi on “the firing line.” And Sarah Palin put out a map literally putting Democratic lawmakers in the cross hairs of a rifle sight.

 

 

 

All of this goes far beyond politics as usual. Democrats had a lot of harsh things to say about former President George W. Bush — but you’ll search in vain for anything comparably menacing, anything that even hinted at an appeal to violence, from members of Congress, let alone senior party officials.

 

 

No, to find anything like what we’re seeing now you have to go back to the last time a Democrat was president. Like President Obama, Bill Clinton faced a G.O.P. that denied his legitimacy — Dick Armey, the second-ranking House Republican (and now a Tea Party leader) referred to him as “your president.” Threats were common: President Clinton, declared Senator Jesse Helms of North Carolina, “better watch out if he comes down here. He’d better have a bodyguard.” (Helms later expressed regrets over the remark — but only after a media firestorm.) And once they controlled Congress, Republicans tried to govern as if they held the White House, too, eventually shutting down the federal government in an attempt to bully Mr. Clinton into submission.

 

 

 

 

Mr. Obama seems to have sincerely believed that he would face a different reception. And he made a real try at bipartisanship, nearly losing his chance at health reform by frittering away months in a vain attempt to get a few Republicans on board. At this point, however, it’s clear that any Democratic president will face total opposition from a Republican Party that is completely dominated by right-wing extremists.

 

 

For today’s G.O.P. is, fully and finally, the party of Ronald Reagan — not Reagan the pragmatic politician, who could and did strike deals with Democrats, but Reagan the antigovernment fanatic, who warned that Medicare would destroy American freedom. It’s a party that sees modest efforts to improve Americans’ economic and health security not merely as unwise, but as monstrous. It’s a party in which paranoid fantasies about the other side — Obama is a socialist, Democrats have totalitarian ambitions — are mainstream. And, as a result, it’s a party that fundamentally doesn’t accept anyone else’s right to govern.

 

 

 

In the short run, Republican extremism may be good for Democrats, to the extent that it prompts a voter backlash. But in the long run, it’s a very bad thing for America. We need to have two reasonable, rational parties in this country. And right now we don’t.

 

“La deriva estremista” di Paul Krugman

New York Times 25 marzo 2010

 

Lo confesso: mi sono divertito guardando gli esponenti della destra infuriarsi nel mentre la riforma sanitaria diventava legge. Ma pochi giorni dopo, la faccenda non mi sembra più così divertente: e non solo a causa dell’ondata di vandalismo e di minacce che si è indirizzata contro i congressisti democratici. Se si ha a cuore il futuro dell’America, non si può essere contenti che gli estremisti prendano il pieno controllo di uno dei due grandi partiti politici.

Certo, è stato ineffabile ascoltare il deputato Devin Nunes, un repubblicano della California, ammonire che con la approvazione della riforma sanitaria i Democratici “finalmente collocheranno la pietra angolare della loro utopia socialista sulle spalle del popolo americano”. Caspita, sembra proprio sconfortante! Ed era uno spasso osservare le contorsioni[283] di Mitt Romney nel cercare di prendere le distanze da un piano che, come egli sa benissimo, è praticamente identico alla riforma che lui stesso fece approvare come Governatore del Massachusetts. Il suo colpo migliore è stato nel momento in cui ha dichiarato che deliberare la riforma sarebbe stato “un esorbitante[284] abuso di potere”, “una storica usurpazione del procedimento legislativo” – presumibilmente perché il procedimento legislativo non si suppone che includa oggetti come le “votazioni”, nella quali una maggioranza prevale.

Una osservazione di passaggio: nelle parole di un repubblicano è stato sottolineato che i Democratici non avrebbero avuto diritto ad approvare una proposta di legge contro la schiacciante disapprovazione dei cittadini. Ora, anche se così fosse[285], la Costituzione  non dice niente sul fatto che i sondaggi di opinione prevalgano[286] sul diritto e sul dovere delle assemblee elettive di prendere quelle decisioni che esse ritengono meritevoli. Ma in ogni caso, l’orientamento che emerge dai sondaggi è molto più ambiguo di quanto ritengano gli oppositori della riforma: se molti americani disapprovano la ‘assistenza di Obama’, un numero significativo lo spiega con il fatto che essa non produrrebbe effetti sufficienti[287]. Inoltre, un sondaggio Gallup successivo alla approvazione della riforma sanitaria ha mostrato che, con un margine modesto ma significativo, i cittadini sembrano aver condiviso la sua approvazione[288].

Ma torniamo alla questione principale. Ciò che è risultato davvero impressionante[289] è stata quella che potremmo definire la ‘retorica minatoria[290]’ del G.O.P., proveniente non da quache frangia radicale, ma dai dirigenti del Partito. John Boehner, dirigente della minoranza alla Camera, ha dichiarato che la approvazione della riforma sarebbe stata una “Armageddon”[291]. Il Republican National Committee ha reso noto un appello per una raccolta di fondi nel quale era inclusa una vignetta di Nancy Pelosi, la speaker della Camera, circondata dalle fiamme, nel mentre il Presidente del Comitato dichiarava che era venuto il tempo di mettere la signora Pelosi “sulla linea del fuoco”.  E Sarah Pelin ha mostrato uno schizzo nel quale senza mezzi termini legislatori democratici finiscono nel reticolo del mirino di un fucile.

Tutto questo va molto oltre le consuetudini della politica. I Democratici avevano una infinità di dure critiche da rivolgere al precedente Presidente George W. Bush, ma cerchereste invano qualche minaccia paragonabile, o persino qualcosa che contenga un accenno di appello alla violenza, da parte di semplici membri del Congresso, per non dire dei dirigenti del Partito più accorti.

No, per trovare qualcosa di simile a ciò che stiamo vedendo oggi, si deve tornare all’ultima volta nella quale vi fu un democratico alla Presidenza. Come il Presidente Obama, Bill Clinton si dovette misurare con un partito Repubblicano che gli negava legittimazione; Dick Armey, seconda carica dei repubblicani alla Camera ed oggi dirigente del movimento del Tea Party, si riferìva a lui con il termine “il vostro Presidente”. Le minacce erano frequenti: il Senatore Jesse Helms, del Nord Carolina, dichiarò che il Presidente Clinton “deve stare bene in guardia se viene qua da noi. Farebbe meglio ad avere una guardia del corpo” (Helms successivamente si rammaricò per quella dichiarazione, ma solo dopo aver provocato una tempesta sui media). E al momento in cui essi presero il controllo del Congresso, i Repubblicani cercarono di governare come se si fossero anche impadroniti della Casa Bianca, alla fine impedendo ogni attività al governo federale[292], nel tentativo di sottomettere Clinton con la prepotenza[293].

Sembra che Obama avesse sinceramente creduto di poter trovare una diversa accoglienza. Ed egli ha condotto un reale tentativo di superamento delle faziosità di partito, sprecando mesi nel vano tentativo di portare una manciata di repubblicani attorno ad un tavolo, sino al rischio di perdere l’opportunità di una riforma sanitaria. A questo punto, tuttavia, è chiaro che ogni Presidente democratico si dovrà misurare con l’opposizione totale di un Partito Repubblicano che è dominato dall’estrema destra.

 Alla fine, ai giorni nostri, il G.O.P. è diventato interamente il partito di Ronald Reagan – non il Reagan politico pragmatico, che poteva trovare e di fatto trovava accordi con i Democratici[294], ma il Reagan fanatico dell’ ‘antigoverno’, per il quale Medicare avrebbe distrutto il sistema americano delle libertà. Esso è un Partito per il quale modesti sforzi per migliorare le condizioni economiche e la sicurezza sanitaria degli americani non sono semplicemente un’imprudenza, ma una mostruosità. Esso è un Partito nel quale le fantasie paranoidi sull’avversario – Obama che è un socialista, i Democratici che hanno ambizioni totalitarie – sono le teorie più in voga[295]. In conclusione, esso è un partito che fondamentalmente non può accettare niente altro che la destra al governo del paese.

Nel breve termine, l’estremismo dei repubblicani potrebbe portare vantaggio ai democratici, nella misura in cui può provocare un rigetto da parte degli elettori. Ma, nel lungo periodo, esso è una sfortuna per l’America. Abbiamo bisogno, in questo paese, di due partiti capaci di ragionare e  ragionevoli. Al momento, la destra non è in quelle condizioni.

 

 


 

Punks and Plutocrats

By PAUL KRUGMAN

Published: March 28, 2010

Health reform is the law of the land. Next up: financial reform. But will it happen? The White House is optimistic, because it believes that Republicans won’t want to be cast as allies of Wall Street. I’m not so sure. The key question is how many senators believe that they can get away with claiming that war is peace, slavery is freedom, and regulating big banks is doing those big banks a favor.

 

 

Some background: we used to have a workable system for avoiding financial crises, resting on a combination of government guarantees and regulation. On one side, bank deposits were insured, preventing a recurrence of the immense bank runs that were a central cause of the Great Depression. On the other side, banks were tightly regulated, so that they didn’t take advantage of government guarantees by running excessive risks.

 

From 1980 or so onward, however, that system gradually broke down, partly because of bank deregulation, but mainly because of the rise of “shadow banking”: institutions and practices — like financing long-term investments with overnight borrowing — that recreated the risks of old-fashioned banking but weren’t covered either by guarantees or by regulation. The result, by 2007, was a financial system as vulnerable to severe crisis as the system of 1930. And the crisis came.

 

Now what? We have already, in effect, recreated New Deal-type guarantees: as the financial system plunged into crisis, the government stepped in to rescue troubled financial companies, so as to avoid a complete collapse. And you should bear in mind that the biggest bailouts took place under a conservative Republican administration, which claimed to believe deeply in free markets. There’s every reason to believe that this will be the rule from now on: when push comes to shove, no matter who is in power, the financial sector will be bailed out. In effect, debts of shadow banks, like deposits at conventional banks, now have a government guarantee.

 

The only question now is whether the financial industry will pay a price for this privilege, whether Wall Street will be obliged to behave responsibly in return for government backing. And who could be against that?

Well, how about John Boehner, the House minority leader? Recently Mr. Boehner gave a talk to bankers in which he encouraged them to balk efforts by Congress to impose stricter regulation. “Don’t let those little punk staffers take advantage of you, and stand up for yourselves,” he urged — where by “taking advantage” he meant imposing some conditions on the industry in return for government backing.

 

 

Barney Frank, the chairman of the House Financial Services Committee, promptly had “Little Punk Staffer” buttons made up and distributed to Congressional aides.

 

But Mr. Boehner isn’t the problem: Mr. Frank has already shepherded fairly strong financial reform through the House. Instead, the question is what will happen in the Senate.

In the Senate, the legislation on the table was crafted by Senator Chris Dodd of Connecticut. It’s significantly weaker than the Frank bill, and needs to be made stronger, a topic I’ll discuss in future columns. But no bill will become law if Senate Republicans stand in the way of reform.

But won’t opponents of reform fear being cast as allies of the bad guys (which they are)? Maybe not. Back in January, Frank Luntz, the G.O.P. strategist, circulated a memo on how to oppose financial reform. His key idea was that Republicans should claim that up is down — that reform legislation is a “big bank bailout bill,” rather than a set of restrictions on the banks.

 

 

Sure enough, a few days ago Senator Richard Shelby of Alabama, in a letter attacking the Dodd bill, claimed that an essential part of reform — tougher oversight of large, systemically important financial companies — is actually a bailout, because “The market will view these firms as being ‘too big to fail’ and implicitly backed by the government.” Um, senator, the market already views those firms as having implicit government backing, because they do: whatever people like Mr. Shelby may say now, in any future crisis those firms will be rescued, whichever party is in power.

 

 

 

The only question is whether we’re going to regulate bankers so that they don’t abuse the privilege of government backing. And it’s that regulation — not future bailouts — that reform opponents are trying to block.

 

So it’s the punks versus the plutocrats — those who want to rein in runaway banks, and bankers who want the freedom to put the economy at risk, freedom enhanced by the knowledge that taxpayers will bail them out in a crisis. Whatever they say, the fact is that people like Mr. Shelby are on the side of the plutocrats; the American people should be on the side of the punks, who are trying to protect their interests.

 

“Gente da due soldi e plutocrati” di Paul Krugman

New York Times 28 marzo 2010

La riforma sanitaria è legge dello Stato[296]. Il prossimo passo[297]: la riforma della finanza. Ma sarà cosi? Alla Casa Bianca si è ottimisti, perché si pensa che i Repubblicani non vorranno fare la parte[298] degli alleati di Wall Street. Io non sono così sicuro. La questione principale è quanti saranno i Senatori che credono di potersene venir fuori con la pretesa che regolare le grandi banche sarebbe fare un favore a quelle grandi banche medesime, nella stessa maniera nella quale la guerra è pace o la schiavitù è libertà.

Facciamo qualche passo indietro: noi eravamo abituati ad un sistema funzionante di prevenzione delle crisi finanziarie, che si basava sulla combinazione di garanzie e di regole governative. Da una parte, i depositi bancari erano assicurati, prevenendo così gli immensi assalti agli sportelli[299] che furono una causa centrale della Grande Depressione. Dall’altra, le banche avevano regolamenti stringenti, in modo tale che non potessero avvantaggiarsi delle garanzie governative per correre rischi esagerati.

Circa dal 1980 in poi, tuttavia, quel sistema venne gradualmente smantellato, in parte per effetto della deregolamentazione delle banche, ma principalmente a seguito della crescita del fenomeno delle “banche ombra”: istituti e pratiche – quali il finanziamento a lungo termine di investimenti mediante prestiti a brevissimo termine[300] – che ricrearono il rischio delle banche d’un tempo, senza essere coperte da garanzie e da regole. Il risultato, nel 2007, fu un sistema finanziario altrettanto esposto a gravi crisi quale era stato quello degli anni 30. E la crisi è venuta.

E adesso? Abbiamo già ricostituito, in effetti, le garanzie sul modello del New Deal: appena il sistema finanziario è precipitato nella crisi, il governo è intervenuto sugli istituti finanziari in sofferenza, per evitare un completo collasso. E ricorderete che i più grandi salvataggi avvennero sotto una amministrazione conservatrice repubblicana, che aveva proclamato di credere sino in fondo nei liberi mercati. Ci sono tutte le ragioni per ritenere che questa d’ora in poi sarà la regola: quando ce ne sarà il bisogno[301], chiunque sia al governo, il settore finanziario sarà messo in salvo. In effetti, i debiti della banche ombra, allo stesso modo dei depositi presso le banche tradizionali, ora godono di garanzie governative.

La questione residua, adesso, è se il settore finanziario pagherà un prezzo per questo privilegio, se Wall Street sarà obbligata a comportarsi responsabilmente in cambio del sostegno governativo. E chi potrebbe opporsi?

Ebbene, che ne direste di John Boehner[302], il dirigente della minoranza alla Camera? Di recente il signor Boehner ha avuto una conversazione con i banchieri nel corso della quale li ha incoraggiati ad ostacolare i tentativi del Congresso di imporre regole più stringenti. “Non consentite che questi funzionari da due soldi[303] si approfittino di voi ed anzitutto difendetevi con le vostre forze[304]”, li ha spronati – dove con l’espressione “si approfittino[305]” egli intendeva riferirsi a qualche condizione messa in capo al settore finanziario in cambio del sostegno governativo.

Barney Frank, il presidente della Commissione Servizi finanziari della Camera, si è prontamente inventato degli stemmini con su scritto “Piccolo funzionario da due soldi” e li ha distribuiti agli assistenti del Congresso.

Ma il problema non è il signor Boehner: Frank ha già portato in porto alla Camera la riforma finanziaria con discreta sicurezza[306]. Invece, il problema è cosa accadrà al Senato.

Al Senato, il testo legislativo in esame è stato allestito dal Senatore Chris Dodd del Connecticut. Quel testo è significativamente più debole di quello di Frank, ed ha bisogno di maggiore efficacia, tema del quale mi occuperò in articoli successivi. Ma nessuna proposta diventerà legge se i Repubblicani del Senato si metteranno di traverso alla riforma.

Ma non avranno paura, gli oppositori della riforma, di fare la parte degli alleati di tali soggetti inaffidabili[307] (quali del resto sono)? Può darsi di no. Lo scorso gennaio, Frank Luntz, lo stratega repubblicano, mise in circolazione un promemoria sui modi nei quali opporsi alla riforma finanziaria. La sua idea chiave era che i repubblicani avrebbero dovuto rivendicare che il mondo procede a testa in giù[308]: ovvero che la proposta di legge è un “salvataggio delle grandi banche”, invece che un complesso di restrizioni sulle banche.

Infatti, pochi giorni fa il Senatore Richard Shelby dell’Alabama, in un lettera nella quale attaccava la proposta Dodd, protestava che una parte essenziale della riforma – la sorveglianza più rigorosa nei confronti delle grandi imprese finanziarie che rivestono una importanza sistemica[309] – altro non era se non un salvataggio, giacché “il mercato considererà questa imprese come ‘troppo grandi per fallire’ e implicitamente sostenute dal governo”. Ahimè, Senatore, il mercato già considera che queste imprese godono dell’implicito sostegno del governo: qualsiasi cosa dicano a questo punto persone come il Senatore Shelby, in una qualche crisi futura queste società saranno salvate, qualsiasi partito sia al potere.

L’unica questione è se ci stiamo indirizzando verso la definizione di regole verso i banchieri, in modo tale che essi non abusino del sostegno governativo. E sono queste regole – non i salvataggi futuri – che gli oppositori della riforma stanno cercando di bloccare.

In questo consiste il contrasto tra i “funzionari da due soldi” ed i plutocrati: ovvero tra coloro che vogliono impedire che le banche vadano a briglia sciolta[310], ed i banchieri che vogliono la libertà di mettere a rischio l’economia, libertà rafforzata dalla consapevolezza che i contribuenti li metteranno in salvo in caso di crisi. Qualsiasi cosa dicano, la sostenza è che persone come il signor Shelby stanno dalla parte dei plutocrati, mentre il popolo americano dovrebbe stare dalla parte di quei funzionari da due soldi, che stanno cercando di proteggere i loro interessi.

 

 


 

 

Financial Reform 101

By PAUL KRUGMAN

Published: April 1, 2010

Let’s face it: Financial reform is a hard issue to follow. It’s not like health reform, which was fairly straightforward once you cut through the nonsense. Reasonable people can and do disagree about exactly what we should do to avert another banking crisis.

 

So here’s a brief guide to the debate — and an explanation of my own position.

 

Leave on one side those who don’t really want any reform at all, a group that includes most Republican members of Congress. Whatever such people may say, they will always find reasons to say no to any actual proposal to rein in runaway bankers.

 

Even among those who really do want reform, however, there’s a major debate about what’s really essential. One side — exemplified by Paul Volcker, the redoubtable former Federal Reserve chairman — sees limiting the size and scope of the biggest banks as the core issue in reform. The other side — a group that includes yours truly — disagrees, and argues that the important thing is to regulate what banks do, not how big they get.

 

 

It’s easy to see where concerns about banks that are “too big to fail” come from. In the face of financial crisis, the U.S. government provided cash and guarantees to financial institutions whose failure, it feared, might bring down the whole system. And the rescue operation was mainly focused on a handful of big players: A.I.G., Citigroup, Bank of America, and so on.

 

This rescue was necessary, but it put taxpayers on the hook for potentially large losses. And it also established a dangerous precedent: big financial institutions, we now know, will be bailed out in times of crisis. And this, it’s argued, will encourage even riskier behavior in the future, since executives at big banks will know that it’s heads they win, tails taxpayers lose.

 

 

The solution, say people like Mr. Volcker, is to break big financial institutions into units that aren’t too big to fail, making future bailouts unnecessary and restoring market discipline.

It’s a convincing-sounding argument, but I’m one of those people who doesn’t buy it.

Here’s how I see it. Breaking up big banks wouldn’t really solve our problems, because it’s perfectly possible to have a financial crisis that mainly takes the form of a run on smaller institutions. In fact, that’s precisely what happened in the 1930s, when most of the banks that collapsed were relatively small — small enough that the Federal Reserve believed that it was O.K. to let them fail. As it turned out, the Fed was dead wrong: the wave of small-bank failures was a catastrophe for the wider economy.

 

 

The same would be true today. Breaking up big financial institutions wouldn’t prevent future crises, nor would it eliminate the need for bailouts when those crises happen. The next bailout wouldn’t be concentrated on a few big companies — but it would be a bailout all the same. I don’t have any love for financial giants, but I just don’t believe that breaking them up solves the key problem.

 

 

 

So what’s the alternative to breaking up big financial institutions? The answer, I’d argue, is to update and extend old-fashioned bank regulation.

 

After all, the U.S. banking system had a long period of stability after World War II, based on a combination of deposit insurance, which eliminated the threat of bank runs, and strict regulation of bank balance sheets, including both limits on risky lending and limits on leverage, the extent to which banks were allowed to finance investments with borrowed funds. And Canada — whose financial system is dominated by a handful of big banks, but which maintained effective regulation — has weathered the current crisis notably well.

 

 

 

What ended the era of U.S. stability was the rise of “shadow banking”: institutions that carried out banking functions but operated without a safety net and with minimal regulation. In particular, many businesses began parking their cash, not in bank deposits, but in “repo” — overnight loans to the likes of Lehman Brothers. Unfortunately, repo wasn’t protected and regulated like old-fashioned banking, so it was vulnerable to a pre-1930s-type crisis of confidence. And that, in a nutshell, is what went wrong in 2007-2008.

 

 

So why not update traditional regulation to encompass the shadow banks? We already have an implicit form of deposit insurance: It’s clear that creditors of shadow banks will be bailed out in time of crisis. What we need now are two things: (a) regulators need the authority to seize failing shadow banks, the way the Federal Deposit Insurance Corporation already has the authority to seize failing conventional banks, and (b) there have to be prudential limits on shadow banks, above all limits on their leverage.

 

 

 

Does the reform legislation currently on the table do what’s needed? Well, it’s a step in the right direction — but it’s not a big enough step. I’ll explain why in a future column.

 

“La riforma finanziaria 101” di Paul Krugman

New York Times 1 aprile 2010

 

Teniamolo a mente[311]: la riforma finanziaria è una questione complessa da seguire. Non è come la riforma sanitaria, che era abbastanza semplice, una volta superate le illogicità[312]. Persone ragionevoli possono non trovarsi d’accordo, e in effetti così accade[313], su cosa fare esattamente per evitare che si ripeta una crisi bancaria.

Dunque, questa è una breve guida al dibattito, nonché una spiegazione della mia posizione personale.

Lasciamo da parte quelli che in realtà non vogliono in alcun modo una riforma, gruppo che include gran parte dei membri repubblicani del Congresso. Qualsiasi cosa dicano costoro, troveranno sempre ragioni per opporsi ad ogni concreta proposta che abbia l’obbiettivo di tenere le redini di banchieri fuori controllo.

Tuttavia, persino tra coloro che vogliono effettivamente una riforma, c’è un grande dibattito su cosa sia concretamente essenziale. Un gruppo – impersonato da Paul Volcker, il rispettato precedente Presidente della Federal Reserve – considera che delimitare le dimensioni e le finalità delle banche più grandi sia la questione cruciale della riforma. Un altro gruppo – che include il sottoscritto – è in disaccordo, e considera che la cosa importante sia regolare quello che le banche fanno, a prescindere da quanto siano grandi.

E’ facile constatare da dove vengano le preoccupazioni per le banche “troppo grandi per fallire[314]”. Di fronte alla crisi finanziaria, il governo statunitense ha fornito liquidità e garanzie a quegli istituti finanziari il cui fallimento si temeva avrebbe abbattuto l’intero sistema. In tal modo, l’operazione di salvataggio si è concentrata su una manciata di soggetti più grandi: A.I.G., Citigroup, Bank of America e così via.

Questo salvataggio era indispensabile, ma ha messo in croce i contribuenti[315] con perdite potenzialmente pesanti. Ed ha anche stabilito un precedente pericoloso: adesso sappiamo che i grandi istituti finanziari, in tempi di crisi, saranno messi al riparo. E questo, si può supporre, incoraggerà comportamenti persino più azzardati nel futuro, dal momento in cui i dirigenti della grandi banche sapranno che se viene croce vincono loro, se viene testa comunque perdono i contribuenti.

La soluzione, sostengono persone come Volcker, è costringere i grandi istituti finanziari entro unità[316] che abbiano dimensioni non troppo grandi per fallire, rendendo futuri salvataggi non più necessari e ristabilendo la disciplina dei mercati.

E’ un argomento che suona convincente, ma io sono tra coloro che non ci credono[317].

Ecco come la vedo. Rendere impossibili[318] banche di grandi dimensioni non risolverebbe effettivamente i nostri problemi, giacchè è perfettamente possibile avere crisi finanziarie che abbiano principalmente la caratteristica di riguardare gli istituti più piccoli[319]. Nel fatti, questo è precisamente quello che accadde negli anni 30, quando gran parte delle banche che crollarono erano relativamente piccole, talmente piccole che la Federal Rserve ritenne che non ci fosse niente di male a lasciarle fallire. La Fed, come risultò, fece uno sbaglio assoluto[320]: l’ondata di fallimenti delle piccole banche diventò una catastrofe per l’intera economia.

Lo stesso potrebbe accadere oggi. Rendere impossibili istituti finanziari di grandi dimensioni non metterebbe al riparo da crisi future, né eliminerebbe il bisogno di interventi di emergenza una volta che quelle crisi avessero luogo. Il prossimo intervento di emergenza non sarebbe concentrato su alcune grandi società, ma sarebbe purtuttavia un salvataggio. Io non ho nessuna passione per i giganti della finanza, ma non credo proprio che renderli impossibili risolva il nostro problema cruciale.

Quale è dunque l’alternativa a rendere impossibili le grandi dimensioni degli istituti finanziari? Io credo che la risposta sia quella di aggiornare ed estendere le regolazioni bancarie tradizionali.

Dopo tutto, il sistema bancario statunitense ha avuto un lungo periodo di stabilità all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, basato su una combinazione di depositi assicurativi, con i quali si eliminava la minaccia di una concatenazione di crisi bancarie[321], e su una stringente regolamentazione dei bilanci delle banche, che includeva sia i limiti alla assunzione di rischi che i limiti alle pratiche di leverage, ovvero alla misura in cui era consentito alle banche di finanziare investimenti con fondi presi a prestito. E il Canada – il cui sistema finanziario è dominato da un pugno di grandi banche, ma che ha mantenuto una effettiva regolamentazione – ha resistito con rimarchevole efficacia alla crisi attuale.

Quello che ha portato alla fine l’epoca della stabilità statunitense è stata la crescita delle “banche ombra”: istituti che svolgevano funzioni bancarie ma operavano senza una rete di sicurezza e con una regolamentazione minima. In particolare, molti uomini d’affari cominciarono a parcheggiare la loro liquidità non in depositi bancari, ma in “repo” – prestiti a brevissimo termine[322] del genere di quelli di Lehman Brothers. Sfortunatamente, i “repo” non erano protetti e regolati come prodotti bancari tradizionali, ed erano dunque vulnerabili da una crisi di sfiducia come quella che precedette gli anni 30. Ed è questo, in poche parole, che è andato storto nel 2007-2008.

Cosa ci impedisce, dunque, di aggiornare la regolamentazione tradizionale sino a ricomprendervi le banche ombra? Abbiamo già una forma implicita di deposito assicurativo: è chiaro che i clienti delle banche ombra avranno il loro paracadute in tempi di crisi. A questo punto, ciò di cui abbiamo bisogno sono due cose: a) che coloro che vigilano abbiano l’autorità di confiscare le banche ombra in via di fallimento, nello stesso modo in cui la Federal Deposit Insurance Corporation ha già l’autorità di confiscare la banche tradizionali che falliscono, b) che siano applicati limiti di prudenza alle banche ombra, soprattutto limiti alla loro attività di leverage.

Risponde a queste esigenze la legislazione che è attualmente sul tavolo? Ebbene, essa è un passo nella direzione giusta, ma non un passo sufficiente. Spiegherò le ragioni in un articolo successivo.

 

 


 

 

Making Financial Reform Fool-Resistant

By PAUL KRUGMAN

Published: April 4, 2010

The White House is confident that a financial regulatory reform bill will soon pass the Senate. I’m not so sure, given the opposition of Republican leaders to any real reform. But in any case, how good is the legislation on the table, the bill put together by Senator Chris Dodd of Connecticut?

 

Not good enough. It’s a good-faith effort to do what needs to be done, but it would create a system highly dependent on the wisdom and good intentions of government officials. And as the history of the last decade demonstrates, trusting in the quality of officials can be dangerous to the economy’s health.

Now, it’s impossible to devise a truly foolproof regulatory regime — anyone who believes otherwise is underestimating the power of foolishness. But you can try to create a system that’s relatively fool-resistant. Unfortunately, the Dodd bill doesn’t do that.

 

As I argued in my last column, while the problem of “too big to fail” has gotten most of the attention — and while big banks deserve all the opprobrium they’re getting — the core problem with our financial system isn’t the size of the largest financial institutions. It is, instead, the fact that the current system doesn’t limit risky behavior by “shadow banks,” institutions — like Lehman Brothers — that carry out banking functions, that are perfectly capable of creating a banking crisis, but, because they issue debt rather than taking deposits, face minimal oversight.

 

 

 

The Dodd bill tries to fill this gaping hole in the system by letting federal regulators impose “strict rules for capital, leverage, liquidity, risk management and other requirements as companies grow in size and complexity.” It also gives regulators the power to seize troubled financial firms — and it requires that large, complex firms submit “funeral plans” that make it relatively easy to shut them down.

 

 

 

 

That’s all good. In effect, it gives shadow banking something like the regulatory regime we already have for conventional banking.

But what will actually be in those “strict rules” for capital, liquidity, and so on? The bill doesn’t say. Instead, everything is left at the discretion of the Financial Stability Oversight Council, a sort of interagency task force including the chairman of the Federal Reserve, the Treasury secretary, the comptroller of the currency and the heads of five other federal agencies.

 

Mike Konczal of the Roosevelt Institute, whose blog has become essential reading for anyone interested in financial reform, has pointed out what’s wrong with this: just consider who would have been on that council in 2005, which was probably the peak year for irresponsible lending.

 

Well, in 2005 the chairman of the Fed was Alan Greenspan, who dismissed warnings about the housing bubble — and who asserted in October 2005 that “increasingly complex financial instruments have contributed to the development of a far more flexible, efficient, and hence resilient financial system.”

Meanwhile, the secretary of the Treasury was John Snow, who … actually, I don’t think anyone remembers anything about Mr. Snow, other than the fact that Karl Rove treated him like an errand boy.

The comptroller of the currency was John Dugan, who still holds the office. He was recently the subject of a profile in The Times, which noted his habit of blocking efforts by states to crack down on abusive consumer lending, on the grounds that he, not the states, has authority over national banks — except that he himself almost never acts to protect consumers.

 

 

 

Oh, and on the subject of consumer protection: the Dodd bill creates a more or less independent agency to protect consumers against abusive lending, albeit one housed at the Fed. That’s a good thing. But it gives the oversight council the ability to override the agency’s recommendations.

 

 

The point is that the Dodd bill would give an administration determined to rein in runaway finance the tools it needs to do the job. But it wouldn’t do much to stiffen the spine of a less determined administration. On the contrary, it would make it easy for future regulators to look the other way as another bubble inflated.

 

So what the legislation needs are explicit rules, rules that would force action even by regulators who don’t especially want to do their jobs. There should, for example, be a preset maximum level of allowable leverage — the financial reform that has already passed the House sets this at 15 to 1, and the Senate should follow suit. There should be hard rules determining when regulators have to seize a troubled financial firm. There should be no-exception rules requiring that complex financial derivatives be traded transparently. And so on.

 

 

 

 

 

I know that getting such things into the bill would be hard politically: as financial reform legislation moves to the floor of the Senate, there will be pressure to make it weaker, not stronger, in the hope of attracting Republican votes. But I would urge Senate leaders and the Obama administration not to settle for a weak bill, just so that they can claim to have passed financial reform. We need reform with a fighting chance of actually working.

 

“Per una riforma del sistema finanziario a prova di pazzi[323]” di Paul Krugman

New York Times 4 aprile 2010

 

La Casa Bianca ha fiducia che la proposta di legge di riforma delle regole del sistema finanziario sarà presto approvata dal Senato. Io non ne sono così sicuro, considerata l’opposizione dei dirigenti repubblicani ad una qualsiasi effettiva riforma. Ma, in ogni caso, si può ritenere buona la legge che è sul tavolo, ovvero la proposta avanzata dal Senatore Chris Dodd del Connecticut?

Non abbastanza. Si tratta di un tentativo in buona fede di fare quello che è necessario, ma esso creerebbe un sistema altamente dipendente dalla saggezza e dalle buone intenzioni dei dirigenti dello Stato. E come la storia dell’ultimo decennio sta a dimostrare, aver fede nella qualità dei dirigenti può essere pericoloso per la salute dell’economia.

Ora, è impossibile congegnare un regime di regole effettivamente di facile funzionamento e chiunque la pensi diversamente sottovaluta il potere della stupidità umana. Ma si può provare a creare un sistema che sia in una certa misura a prova di pazzi. Sfortunatamente, non è questo il risultato della proposta di legge di Dodd.

Come ho sostenuto nel mio ultimo articolo, se la cosiddetta questione del “troppo grandi per fallire” ha attirato gran parte della attenzione – e se le grandi banche si meritano tutta la riprovazione cui sono andate incontro – tuttavia la questione centrale del nostro sistema finanziario non è quella delle dimensioni degli istituti finanziari più importanti. La questione centrale è piuttosto il fatto che il sistema attuale non pone limiti al comportamento arrischiato delle “banche ombra”, ovvero di quegli istituti, del genere di Lehman Brothers, che svolgono funzioni bancarie, che sono perfettamente nelle condizioni di innescare una crisi nel sistema bancario, ma che debbono fare i conti con il piccolo particolare[324] che deriva loro dall’assumere debiti senza disporre di depositi.

La proposta di legge di Dodd cerca di rimediare a questo buco[325] nel sistema consentendo alla vigilanza federale di imporre “regole stringenti sui capitali, sul leverage, sulla liquidità, sulla assunzione di rischi e su altri requisiti nel momento in cui le società crescono in dimensioni ed in complessità”. Inoltre, essa consegna agli organi di vigilanza il potere di mettere sotto sequestro[326] imprese finanziarie in difficoltà, richiedendo che le imprese di una certa ampiezza e complessità si sottomettano a “clausole di dissolvenza[327]” in modo tale che sia relativamente agevole chiudere le loro attività.

Tutto questo va bene e, in effetti fornisce al sistema bancario ombra una regime regolamentare simile a quello che già esiste per il sistema bancario convenzionale.

Ma che cosa effettivamente sarà contenuto in queste “regole stringenti” in materia di capitali, liquidità e quant’altro, la proposta di legge non lo dice. Tutto è, invece, riservato alla discrezione del Financial Stability Oversight Council[328], una sorta di task force di più agenzie che include il Presidente della Federal Reserve, il Segretario al Tesoro, l’autorità addetta al controllo della liquidità ed i capi di altre cinque agenzie federali.

Mike Konczal, del Roosvelt Institute, la lettura del cui blog è diventata essenziale per chiunque sia interessato alla riforma finanziaria, ha messo in evidenza cosa ci sia di sbagliato in tutto ciò: si consideri semplicemente chi avrebbe fatto parte di questo Consiglio nel 2005, anno che fu probabilmente il picco dei crediti irresponsabili.

Ebbene, nel 2005 Presidente della Federal Reserve era Alan Greenspan, che trascurò ogni ammonimento sulla bolla immobiliare ed affermò, nell’ottobre del 2005, che “strumenti finanziari di crescente complessità hanno contribuito allo sviluppo di un sistema finanziario molto più flessibile, efficiente e di conseguenza elastico[329]”.

In quel periodo, il Segretario al Tesoro era John Snow, che … in effetti non credo che nessuno ricordi alcunché del signor Snow, se non il fatto che Karl Rove lo trattava come un galoppino[330].

L’autorità addetta al controllo della liquidità era John Dugan, che ancora mantiene quell’ufficio. Egli è stato di recente fatto oggetto di un ‘profilo’ su The Times, nel quale è stata segnalata la sua reiterata abitudine a bloccare ogni sforzo al livello degli Stati per un giro di vite sulle forme di credito lesive degli utenti[331], sulla base della considerazione che l’autorità competente sulle banche nazionali sarebbe lui stesso e non gli Stati, sennonché egli per suo conto quasi mai assume iniziative di tutela dei consumatori.

Ed infine, proprio a proposito della tutela dei consumatori: la proposta di legge Dodd dà vita ad una agenzia più o meno indipendente per proteggere gli utenti dal credito lesivo, benché collocata nell’ambito della Fed[332]. Si tratta di una buona cosa, non fosse per il fatto che la proposta consegna al Consiglio per la Vigilanza il potere discrezionale di non tenere di conto[333] delle segnalazioni dell’agenzia.

Il fatto è che la proposta di legge Dodd fornirebbe, ad una amministrazione determinata a mettere le redini su una finanza incontrollata, gli strumenti necessari a svolgere il proprio compito. Ma essa non raddrizzerebbe certo la spina dorsale di una amministrazione più tiepida[334]. Al contrario, essa renderebbe facile ai futuri responsabili della vigilanza girare la testa altrove, nel mentre una bolla finanziaria sta gonfiando.

Dunque, ciò di cui la legislazione ha bisogno sono regole esplicite, regole che costringano ad agire anche quegli organismi di vigilanza che non avessero nessuna voglia particolare di svolgere la propria funzione. Ci dovrebbe essere, ad esempio, un livello massimo regolato in precedenza di leverage ammissibile – la riforma del sistema finanziario già approvata alla Camera lo stabilisce in un rapporto di 15 ad 1, ed il Senato dovrebbe fare lo stesso[335]. Dovrebbero esserci regole rigide che stabiliscano quando gli organi di vigilanza devono procedere alla messa sotto sequestro di una società finanziaria in difficoltà. Dovrebbero esserci regole che prevedano senza alcuna eccezione che i complicati prodotti finanziari derivativi[336] siano commerciati con trasparenza. E così via.

So che inserire concetti del genere nella legislazione sarebbe politicamente ardito: nel momento in cui la legislazione per la riforma del sistema finanziario arriverà all’aula[337] del Senato, ci sarà una pressione per renderla più debole e non certo più forte, nella speranza di attrarre i voti repubblicani. Ma io raccomanderei ai dirigenti del Senato ed alla amministrazione Obama di non accontentarsi di una proposta debole, solo per poter vantare di aver fatto approvare una riforma. Quello che serve è una riforma che abbia  buone probabilità[338] di funzionare per davvero.

 

 

  


 

Learning From Greece

By PAUL KRUGMAN

Published: April 8, 2010

The debt crisis in Greece is approaching the point of no return. As prospects for a rescue plan seem to be fading, largely thanks to German obduracy, nervous investors have driven interest rates on Greek government bonds sky-high, sharply raising the country’s borrowing costs. This will push Greece even deeper into debt, further undermining confidence. At this point it’s hard to see how the nation can escape from this death spiral into default.

 

It’s a terrible story, and clearly an object lesson for the rest of us. But an object lesson in what, exactly?

 

Yes, Greece is paying the price for past fiscal irresponsibility. Yet that’s by no means the whole story. The Greek tragedy also illustrates the extreme danger posed by a deflationary monetary policy. And that’s a lesson one hopes American policy makers will take to heart.

The key thing to understand about Greece’s predicament is that it’s not just a matter of excessive debt. Greece’s public debt, at 113 percent of G.D.P., is indeed high, but other countries have dealt with similar levels of debt without crisis. For example, in 1946, the United States, having just emerged from World War II, had federal debt equal to 122 percent of G.D.P. Yet investors were relaxed, and rightly so: Over the next decade the ratio of U.S. debt to G.D.P. was cut nearly in half, easing any concerns people might have had about our ability to pay what we owed. And debt as a percentage of G.D.P. continued to fall in the decades that followed, hitting a low of 33 percent in 1981.

 

 

 

 

 

So how did the U.S. government manage to pay off its wartime debt? Actually, it didn’t. At the end of 1946, the federal government owed $271 billion; by the end of 1956 that figure had risen slightly, to $274 billion. The ratio of debt to G.D.P. fell not because debt went down, but because G.D.P. went up, roughly doubling in dollar terms over the course of a decade. The rise in G.D.P. in dollar terms was almost equally the result of economic growth and inflation, with both real G.D.P. and the overall level of prices rising about 40 percent from 1946 to 1956.

 

 

Unfortunately, Greece can’t expect a similar performance. Why? Because of the euro.

 

Until recently, being a member of the euro zone seemed like a good thing for Greece, bringing with it cheap loans and large inflows of capital. But those capital inflows also led to inflation — and when the music stopped, Greece found itself with costs and prices way out of line with Europe’s big economies. Over time, Greek prices will have to come back down. And that means that unlike postwar America, which inflated away part of its debt, Greece will see its debt burden worsened by deflation.

 

That’s not all. Deflation is a painful process, which invariably takes a toll on growth and employment. So Greece won’t grow its way out of debt. On the contrary, it will have to deal with its debt in the face of an economy that’s stagnant at best.

 

So the only way Greece could tame its debt problem would be with savage spending cuts and tax increases, measures that would themselves worsen the unemployment rate. No wonder, then, that bond markets are losing confidence, and pushing the situation to the brink.

 

 

What can be done? The hope was that other European countries would strike a deal, guaranteeing Greek debt in return for a commitment to harsh fiscal austerity. That might have worked. But without German support, such a deal won’t happen.

Greece could alleviate some of its problems by leaving the euro, and devaluing. But it’s hard to see how Greece could do that without triggering a catastrophic run on its banking system. Indeed, worried depositors have already begun pulling cash out of Greek banks. There are no good answers here — actually, no nonterrible answers.

 

But what are the lessons for America? Of course, we should be fiscally responsible. What that means, however, is taking on the big long-term issues, above all health costs — not grandstanding and penny-pinching over short-term spending to help a distressed economy.

 

Equally important, however, we need to steer clear of deflation, or even excessively low inflation. Unlike Greece, we’re not stuck with someone else’s currency. But as Japan has demonstrated, even countries with their own currencies can get stuck in a deflationary trap.

 

What worries me most about the U.S. situation right now is the rising clamor from inflation hawks, who want the Fed to raise rates (and the federal government to pull back from stimulus) even though employment has barely started to recover. If they get their way, they’ll perpetuate mass unemployment. But that’s not all. America’s public debt will be manageable if we eventually return to vigorous growth and moderate inflation. But if the tight-money people prevail, that won’t happen — and all bets will be off.

 

“Imparare dalla Grecia” di Paul Krugman

New York Times 8 aprile 2010

 

La crisi del debito in Grecia sta arrivando al punto di non ritorno. Mentre le prospettive di un piano di salvaaggio sembra che stiano svanendo, in gran parte grazie alla ostinazione tedesca, investitori nervosi hanno portato alle stelle i tassi di interesse sui bonds del governo greco, facendo salire in modo brusco i costi dell’indebitamento del paese. Questo spingerà la Grecia ad indebitarsi ancora di più, minando ulteriormente la fiducia. A questo punto è difficile vedere come quella nazione possa  venir fuori da questa fatale spirale di morosità.

E’ una storia terribile, nonché una chiara lezione da manuale per tutti noi. Ma una lezione da manuale di cosa, esattamente?

E’ vero, la Grecia sta pagando il prezzo della precedente irresponsabilità finanziaria. Tuttavia l’intera storia non si riduce affatto a questo. La tragedia greca mostra anche l’estremo pericolo di una politica monetaria deflazionista. Ed è a questa lezione che auspicabilmente gli uomini politici americani dovrebbero appassionarsi.

La questione chiave da comprendere a proposito della difficile situazione della Grecia è che non si tratta solo di  una faccenda di eccessivo indebitamento. Il debito pubblico della Grecia, al 113 per cento del PIL, è effettivamente alto, ma altri paesi hanno fatto i conti con livelli simili di indebitamento, senza crisi. Per esempio, nel 1946 gli Stati Uniti, che stavano appena uscendo dalla Seconda Guerra Mondiale, avevano un debito federale pari al 122 per cento del PIL. Tuttavia gli investitori erano tranquilli, e a ragion veduta: nel decennio successivo la percentuale del debito americano sul PIL fu tagliata per quasi la metà, attenuando ogni preoccupazione che poteva esserci a proposito della nostra capacità di pagare quello che avevamo acquistato. E il debito in percentuale al PIL continuò a scendere nei decenni che seguirono, sino a toccare il punto più basso del 33 per cento nel 1981.

Come fece dunque il governo americano a gestire la liquidazione dei suoi debiti di guerra? In realtà, non lo fece. Alla fine del 1946 il governo federale era debitore per 271 miliardi di dollari; alla fine del 1956 questo dato era leggermente salito a 274 miliardi di dollari. La percentuale del debito sul PIL cadde non a causa di una riduzione del debito, ma a causa di una crescita del PIL, che raddoppiò impetuosamente in termini di dollari nel corso di un decennio. La crescita del PIL in dollari fu quasi uguale alla crescita dell’economia e dell’inflazione, dato che il PIL reale ed i livelli generali dei prezzi salirono di circa il 40 per cento dal 1946 al 1956.

Sfortunatamente, la Grecia non può aspettarsi una prestazione del genere. Perchè? A causa dell’euro.

Sino ai tempi recenti, essere un membro della zona euro sembrava una buona cosa per la Grecia, comportando prestiti a basso costo e consistenti afflussi di capitali. Ma quegli afflussi di capitali portarono anche l’inflazione, e quando la musica finì, la Grecia si ritrovò con una situazione dei costi e dei prezzi disallineata dalla grandi economie europee. Col tempo, i prezzi della Grecia dovranno tornare in basso. E questo significa che diversamente dal dopoguerra in America, che rese volatile[339] una parte del suo debito, per la Grecia il peso del debito peggiorerà per la deflazione.

E questo non è tutto. La deflazione è un processo penoso, che immancabilmente provoca gravi perdite in termini di crescita e di occupazione. In questo modo la Grecia non avrà una crescita a prescindere dal debito[340]. Al contrario, dovrà fare i conti con il debito nel contesto di una situazione economica totalmente stagnante.

Il solo modo in cui la Grecia potrebbe domare il suo problema del debito consisterebbe nel ricorrere a tagli selvaggi nella spesa ed a aumenti fiscali, misure che per se stesse peggiorerebbero il tasso di disoccupazione. Nessuna meraviglia, dunque, se i mercati dei bonds stanno perdendo fiducia e stanno spingendo la situazione verso l’orlo del baratro.

Che fare, dunque? La speranza era che gli altri paesi europei trovassero un accordo, garantendo il debito greco in cambio di un impegno ad una dura austerità fiscale. Ma senza la partecipazione della Germania, questo accordo non sarà possibile.

La Grecia potrebbe alleviare alcuni dei suoi problemi uscendo dall’euro e svalutando. Ma è difficile capire come potrebbe farlo senza innescare una crisi catastrofica nel suo sistema bancario. Difatti, risparmiatori terrorizzati hanno già cominciato a spostare i loro depositi fuori dalle banche greche. Di fatto non esistono risposte facili, almeno non esistono risposte che non siano terribili[341].

Ma quali sono le lezioni per l’America? Certamente, quella di essere finanziariamente responsabili. Il che significa, tuttavia, misurarsi con i grandi problemi di lungo periodo, soprattutto i costi per la salute, e non pontificare o lesinare i centesimi di una spesa a breve termine che serve ad aiutare una economia stressata[342].

In modo egualmente importante, tuttavia, abbiamo bisogno di stare alla larga[343] dalla deflazione, o anche da una inflazione eccessivamente bassa. Diversamente dalla Grecia, non ci siamo bloccati utilizzando la valuta di qualcun altro. Ma come ha dimostrato il Giappone, anche paesi con valuta propria possono finire impantanati in una trappola deflazionista.

Quello che mi preoccupa a proposito della situazione degli Stati Uniti è il crescente clamore dei falchi dell’inflazione, che vorrebbero che la Fed innalzasse i tassi di interesse (e che il governo federale si tirasse indietro dal programma di sostegno all’economia) anche se l’occupazione ha appena cominciato e riprendersi. Se ottenessero il loro scopo, si perpetuerebbe una disoccupazione di massa. Ma non solo. Il debito pubblico americano sarà gestibile se ritorneremo ad una crescita vigorosa e ad una moderata inflazione. Ma non è quello che accadrebbe, se prevalessero le posizioni a favore di una restrizione monetaria: in quel caso, resterebbe ben poco da scommettere[344].


 

 


 

 

Georgia on My Mind

By PAUL KRUGMAN

Published: April 11, 2010

As we look for ways to prevent future financial crises, many questions should be asked. Here’s one you may not have heard: What’s the matter with Georgia?

 

I’m not sure how many people know that Georgia leads the nation in bank failures, accounting for 37 of the 206 banks seized by the Federal Deposit Insurance Corporation since the beginning of 2008. These bank failures are a symptom of deeper problems: arguably, no other state has suffered as badly from banks gone wild.

 

To appreciate Georgia’s specialness, you need to realize that the housing bubble was a geographically uneven affair. Basically, prices rose sharply only where zoning restrictions and other factors limited the construction of new houses. In the rest of the country — what I once dubbed Flatland — permissive zoning and abundant land make it easy to increase the housing supply, a situation that prevented big price increases and therefore prevented a serious bubble.

 

 

 

Most of the post-bubble hangover is concentrated in states where home prices soared, then fell back to earth, leaving many homeowners with negative equity — houses worth less than their mortgages. It’s no accident that Florida, Nevada and Arizona lead the nation in both negative equity and mortgage delinquencies; prices more than doubled in Miami, Las Vegas and Phoenix, and have subsequently suffered some of the biggest declines.

 

 

But not all of Flatland has gotten off lightly. In particular, there’s a sharp contrast between the two biggest Flatland states, Texas — which avoided the worst — and Georgia, which didn’t.

 

This contrast can’t be explained by the geography of the two states’ major cities. Like Dallas or Houston, Atlanta is a sprawling metropolis facing few limits on expansion. And like other Flatland cities, Atlanta never saw much of a housing price surge.

 

Yet Texas has managed to avoid severe stress to either its housing market or its banking system, while Georgia is suffering severe post-bubble trauma. The share of mortgages with delinquent payments is higher in Georgia than in California; the percentage of Georgia homeowners with negative equity is well above the national average. And Georgia leads the nation in bank failures.

 

So what’s the matter with Georgia? As I said, banks went wild, in a scene strongly reminiscent of the savings-and-loan excesses of the 1980s. High-flying bank executives aggressively expanded lending — and paid themselves lavishly — while relying heavily on “hot money” raised from outside investors rather than on their own depositors.

 

 

 

It was fun while it lasted. Then the music stopped.

Why didn’t the same thing happen in Texas? The most likely answer, surprisingly, is that Texas had strong consumer-protection regulation. In particular, Texas law made it difficult for homeowners to treat their homes as piggybanks, extracting cash by increasing the size of their mortgages. Georgia lacked any similar protections (and the Bush administration blocked the state’s efforts to restrict subprime lending directly). And Georgia suffered from the difference.

 

 

What’s striking about the contrast between the Texas story and Georgia’s debacle is that it doesn’t seem to have anything to do with the issues that have dominated debates about banking reform. For example, many observers have blamed complex financial derivatives for the crisis. But Georgia banks blew themselves up with old-fashioned loans gone bad.

 

And for all the concern about banks that are too big to fail, Georgia suffered, if anything, from a proliferation of small banks. Actually, the worst offenders in the lending spree tended to be relatively small start-ups that attracted customers by playing to a specific community. Thus Georgian Bank, founded in 2001, catered to the state’s elite, some of whom were entertained on the C.E.O.’s yacht and private jet. Meanwhile, Integrity Bank, founded in 2000, played up its “faith based” business model — it was featured in a 2005 Time magazine article titled “Praying for Profits.” Both banks have now gone bust.

 

 

 

 

So what’s the moral of this story? As I see it, it’s a caution against silver-bullet views of reform, the idea that cracking down on just one thing — in particular, breaking up big banks — will solve our problems. The case of Georgia shows that bad behavior by many small banks can do as much damage as misbehavior by a few financial giants.

 

 

 

And the contrast between Texas and Georgia suggests that consumer protection is an essential element of reform. By all means, let’s limit the power of the big banks. But if we don’t also protect consumers from predatory lending, there are plenty of smaller players — both small banks and the nonbank “mortgage originators” responsible for many of the worst subprime abuses — that will step in and fill the gap.

 

“La Georgia è in cima ai miei pensieri[345]” di Paul Krugman

New York Times 11 aprile 2010

Se ci riferiamo ai modi nel quali prevenire future crisi finanziarie, ci sono molte domande possibili. Eccone una che potreste non aver sentito: che sta succedendo in Georgia?

Non sono sicuro che in molti conoscano il fatto che la Georgia è alla testa dei fallimenti bancari nel paese, avendo realizzato 37 dei 206 casi di sequestri bancari da parte della Federal Depositi Insurance Corporation a partire dagli inizi del 2008. Questi fallimenti delle banche sono un sintomo di problemi più profondi: probabilmente nessuno Stato si è trovata in tale sofferenza a causa di banche fuori controllo.

Per mettere a fuoco il tratto distintivo[346] della Georgia, si deve comprendere che la bolla immobiliare si è presentata come un fenomeno geograficamente irregolare. Fondamentalmente, i prezzi sono saliti bruscamente laddove restrizioni urbanistiche[347] ed altri fattori avevano limitato la costruzione di nuove abitazioni. Nel resto della nazione – che una volta avevo soprannominato ‘Il paese degli appartamenti[348]” – l’urbanistica permissiva ed il territorio abbondante hanno reso semplice accrescere l’offerta di case, in tal modo prevenendo una grossa crescita dei prezzi e di conseguenza una grave bolla.

Gran parte degli effetti della sbornia conseguente alla bolla si sono concentrati in quegli Stati nei quali il prezzo delle abitazioni era salito alle stelle, e successivamente crollato, lasciando molti proprietari di case con un saldo negativo[349]: il valore delle loro abitazioni era inferiore a quello dei mutui contratti. Non è un caso se la Florida, il Nevada e l’Arizona sono alla testa delle statistiche nazionali sia nei saldi negativi che nei reati connessi con i mutui[350]; i prezzi erano più che raddoppiati a Miami, Las Vegas e Phoenix, e successivamente avevano patito il maggiore declino.

Ma non tutti, nel ‘Paese degli appartamenti’, l’hanno passata liscia allo stesso modo[351]. In particolare, c’è un brusco contrasto tra i due principali Stati di questa congrega, il Texas, che ha evitato il peggio, e la Georgia, che non l’ha evitato.

Questo contrasto può essere spiegato dalla geografia delle maggiori città di questi due Stati. Come Dallas o Houston, Atlanta[352] è una metropoli con uno sviluppo imponente, con pochi limiti alla sua espansione. E come altre citta del ‘Paese degli appartamenti’, Atlanta non ha conosciuto una impennata nei valori immobiliari.

Tuttavia, il Texas si è comportato in modo da evitare una grave sofferenza sia sui mercati immobiliari che sul sistema bancario, mentre la Georgia sta subendo un grave trauma conseguente alla bolla. La quota di mutui con inadempienze nei pagamenti  è più alta in Georgia che in California; la percentuale di proprietari di case con una saldo negativo della Georgia è molto superiore alla media nazionale. E la Georgia è in testa alla nazione quanto a fallimenti di banche.

Dunque, quale è stato il problema in Georgia? Come ho detto, le banche si sono comportate in modo sfrenato, in uno scenario che ricordava fortemente gli eccessi della crisi delle casse di risparmio del 1980. Ambiziosi dirigenti di banche[353] hanno provocato una espansione aggressiva dei crediti, e si sono pagati profumatamente, facendo un pesante affidamento[354] su ‘capitali vaganti[355]’ messi in circolo da parte di investitori esterni piuttosto che sui loro stessi depositi.

E’ stato divertente, finché è durato. Poi la musica è finita.

Perché non è successa la stessa cosa in Texas? Sorprendentemente, la risposta più probabile è che il Texas è dotato di una forte regolazione a protezione degli utenti. In particolare, la legge del Texas rende difficoltoso ai proprietari immobiliari di utilizzare le loro case come dei salvadanai, ritirando liquidità attraverso un aumento delle dimensioni dei loro mutui. La Georgia mancava di protezioni del genere (e la amministrazione Bush bloccò i tentativi dello Stato di operare direttamente una restrizione del credito agli utenti subprime). E la Georgia ha patito questa differenza.

Quello che impressiona nel contrasto tra la storia del Texas e quella della débacle della Georgia, è che essa sembra che non abbia niente a che fare con i dibattiti che hanno dominato la scena della riforma del sistema bancario. Ad esempio, molti osservatori hanno dato la colpa della crisi ai complessi titoli finanziari ‘derivativi’. Ma le banche della Georgia si erano riempite[356] di mutui tradizionali andati a male.

E, a proposito della preoccupazione relativa alle banche troppo grandi per fallire, la Georgia ha sofferto, casomai, di una proliferazione di piccole banche. In realtà, i maggiori colpevoli[357] in questa baldoria del credito[358] tendenzialmente sono stati i capitali di avviamento relativamente modesti che hanno attratto i consumatori,  in quanto messi a disposizione di specifiche comunità locali. E’ in questo modo che la Georgian Bank, fondata nel 2001, ha soddisfatto l’elite dello Stato, alcuni componenti della quale si svagavano sullo yacht e con il jet privato del principale dirigente dell’istituto[359]. Nel frattempo, la Integrity Bank, fondata nel 2000, enfatizzava il suo modello affaristico “basato sulla fiducia”, a cui era stato dato risalto in un articolo di Time Magazine del 2005 dal titolo “Preghiere per i profitti”. Entrambe le banche oggi sono fallite.

Qual è dunque la morale di questa storia? Per come la vedo io, essa consiste in una messa in guardia contro quelle opinioni sulla riforma che puntano a soluzioni rapide per un problema difficile[360], l’idea che dando un giro di vite solo su un aspetto – in particolare, ponendo fine alle banche troppo grandi – si risolveranno i nostri problemi. Il caso della Georgia dimostra che la cattiva condotta di molte piccole banche può fare altrettanto danno del cattivo comportamento di pochi giganti della finanza.

Ed il contrasto tra il Texas e la Georgia dimostra che la protezione del consumatore è un elemento essenziale della riforma. Certamente, si metta un limite al potere delle grandi banche. Ma se gli utenti non saranno protetti dal credito ingannevole, ci saranno una quantità di piccoli attori – sia di piccole banche che di istituti non bancari “ideatori” dei mutui, che sono stati responsabili dei peggiori abusi dei subprime – che interverranno ed occuperanno lo spazio lasciato libero[361].  

 

 

 


(Questo articolo ed il seguente furono pubblicati in serie sull’International Herald Tribune, ma non compaiono nel blog e dunque non ho rintracciato il testo originario in inglese)

“Economia verde” di Paul Krugman

New York Times 12 aprile 2010

(prima parte)

Se si ascoltano gli scienziati del clima, è da molto tempo che si sarebbe dovuto far qualcosa a proposito delle emissioni di anidride carbomica e degli altri gas serra. Se continuiamo a fare i nostri affari, ci dicono, dovremo fronteggiare un aumento delle temperature globali che sarà poco meno che apocalittico. E per evitare quella apocalisse, dobbiamo abituare[362] la nostra economia a fare a meno dell’uso dei combustibili solidi, soprattutto del carbone.

Ma è possibile operare grandi tagli nelle emissioni dei gas serra, senza distruggere la nostra economia?

Il lettore occasionale potrebbe avere l’impressione che ci siano effettivi dubbi sul fatto che si possano ridurre le emissioni senza infliggere un danno considerevole all’economia. Di fatto, c’è un accordo molto vasto tra gli economisti dell’ambiente sul fatto che un programma basato su logiche di mercato per affrontare la minaccia del cambiamento climatico possa ottenere ampi risultati con un costo modesto, anche se non irrisorio.

C’è tuttavia un accordo assai minore a proposito della velocità con la quale ci dovremmo muovere, se i principali sforzi di tutela ambientale debbano partire quasi immediatamente, o se debbano essere gradualmente incrementati nel corso di vari decenni.

Scritto nel 1920, “L’economia del benessere” di Arthur Cecil Pigou, un docente universitario britannico degli inizi del XX secolo, è generalmente considerato come il testo antesignano[363] dell’economia ambientale. Pigou aveva enunciato un principio: le attività economiche che impongono a terzi costi indesiderabili[364], non dovrebbero essere sempre vietate, ma dovrebbero essere scoraggiate.  E il modo giusto per limitare una attività, nella gran parte dei casi, è quello di caricarla di un prezzo. Per questo Pigou propose che coloro che generano “esternalità negative” debbano essere tenuti a pagare una tassa che rifletta i costi che essi impongono agli altri.

Le analisi di Pigou furono più che altro messe in sordina[365] per quasi mezzo secolo. Ma con la crescita di una regolamentazione ambientale, gli economisti dettero una spolverata ai testi di Pigou e cominciarono a fare pressione per un approccio “centrato sul mercato”, che desse, attraverso i prezzi, un incentivo al settore privato a limitare l’inquinamento, in alternativa ad un rimedio del genere “comanda e controlla”[366], attraverso il quale vengono disposte specifiche condotte nella forma di regolamenti.

Inizialmente la reazione di molti ambientalisti a questa idea fu di una ostilità fondata, soprattutto, su ragioni etiche. Essi pensavano che l’inquinamento dovrebbe essere trattato come un crimine, piuttosto che come qualcosa che si ha diritto di fare finché si paga sufficiente denaro. A parte le preoccupazioni morali, c’era anche notevole scetticismo sul fatto che il mercato effettivamente avesse successo nel ridurre l’inquinamento. Ancora oggi, le tasse come erano state concepite all’origine da Pigou sono piuttosto rare.

Ha invece preso piede una variante che gran parte degli economisti considerano più o meno equivalente: un sistema di permessi all’emissione commerciabili, anche conosciuto come cap-and-trade[367]. Secondo questo modello, vengono emesse un certo numero di autorizzazioni alla emissione di determinati inquinanti. L’impresa che volesse creare più inquinamento di quello per il quale è stata autorizzata può andarsene ad acquistare altrove autorizzazioni aggiuntive; quella che avesse licenze superiori a quanto intende utilizzare, può vendere il proprio sovrappiù. In questo modo si fornisce a tutti un incentivo a ridurre l’inquinamento.

La nostra esperienza con le piogge acide, ci dice che la limitazione delle emissioni  basata sul mercato funziona. La Clean Air Act[368] del 1990, introdusse un sistema cap-and-trade con il quale le centrali elettriche avevano la possibilità di comperare e vendere il diritto ad emettere biossido di zolfo (che tende, sotto l’effetto del vento[369], a combinarsi con l’acqua ed a produrre acido solforico, distruggendo flora e vita naturale), lasciando alle singole imprese la gestione dei loro interessi entro i nuovi limiti.

E’ certo che, con il tempo, le emissioni di biossido di zolfo da parte delle centrali elettriche sono state ridotte di quasi la metà, con un costo molto inferiore di quello che stimavano persino gli ottimisti; i prezzi delle energia elettrica sono calati anziché salire. Le piogge acide si sono significativamente ridotte. I risultati hanno dimostrato, a quanto sembra, che possiamo far fronte ai problemi ambientali, quando dobbiamo farlo.

E non è questo che dobbiamo esattamente fare[370]? Le emissioni di anidride carbonica e degli altri gas serra sono una classica esternalità negativa. I testi di economia e l’esperienza della realtà ci dicono che dovremmo mettere in atto politiche che scoraggiano esternalità negative e che in linea generale è meglio affidarsi a soluzioni basate sui meccanismi di mercato.

Una seria opposizione ad un sistema basato sulla limitazione e sulla possibilità di commerciare i diritti alle emissioni dei gas serra si presenta in due modi: c’è l’argomento che sostiene che una azione più diretta sarebbe più efficace e c’è l’argomento secondo il quale una tassa sulle emissioni sarebbe preferibile al commercio delle emissioni.

Quando si passa agli aspetti pratici, può accadere che gli economisti siano troppo propensi a ritenere[371] che una modifica nella convenienza finanziaria delle persone aggiusti di per sé ogni problema[372]. Certe volte può essere preferibile metter giù alcune regole elementari su quello che la gente può o non può fare.

Si considerino, ad esempio, le emissioni degli autoveicoli. Dovremmo mettere a carico di ogni proprietario di auto una tassa proporzionale al di lui o di lei tubo di scappamento? Evidentemente no. Si dovrebbe installare su ogni autevettura una dispendiosa attrezzatura di monitoraggio, e in aggiunta dovremmo preoccuparci della possibilità di frodi. E’ pressoché certo che sia preferibile fare quello che stiamo facendo, ovvero imporre limiti di emissione a tutte le macchine.

E’ applicabile un simile argomento a tutte le emissioni dei gas serra[373]? La mia prima reazione è che la dimensione effettiva e la complessità della situazione impongono una soluzione basata sul mercato. Ridurre le emissioni di quei gas renderà necessario ottenere dalle persone un cambiamento nei loro comportamenti secondo molti modi diversi, alcuni dei quali impossibili da definire esattamente sinché non avremo una maggiore padronanza[374] delle tecnologie verdi.

Come possiamo, dunque, ottenere un progresso significativo, prescrivendo alle persone con precisione cosa sarà e cosa non sarà consentito?

Un corso di base di economia[375] ci dice che la sola via per ottenere che le persone cambino il loro comportamento in modo appropriato è mettere un prezzo sulle emissioni, così che questo costo risulti a sua volta incorporato in qualunque successivo prodotto[376], in modo da riflettere i complessivi impatti sull’ambiente.

Cio detto, qualche specifica regola deve essere prevista. James Hensen, il rinomato scienziato del clima che vanta il grande merito di aver fatto diventare il riscaldamento globale una questione di primaria importanza, ha argomentato con forza che gran parte del problema del cambiamento del clima si riduce ad un solo aspetto, il consumo di carbone, e che qualsiasi altra cosa si faccia, abbiamo l’obbligo di cessare la combustione del carbone nel corso del prossimo ventennio.

Come economista la conseguenza che ne derivo è che un costo severo delle autorizzazioni scoraggerebbe qualsiasi uso del carbone. Ma un sistema basato sui meccanismi di mercato potrebbe offrire delle scappatoie[377], e a quel punto le conseguenze sarebbero molto serie.  Per questo sarei fautore di una aggiunta ai disincentivi basati sul mercato, attraverso controlli diretti sulla combustione del calore.

Ma possiamo permetterci di farlo? E, altrettanto importante, possiamo permetterci di non farlo?


“Economia verde: il costo dell’inerzia” di Paul Krugman

New York Times 13 aprile 2010

(parte seconda)

Nello stesso modo in cui c’è approssimativamente un consenso[378] tra gli esperti di modelli climatici a proposito della probabile traiettoria delle temperature se non metteremo in atto i tagli alle emissioni dei gas serra, c’è approssimativamente un consenso tra gli esperti di modelli economici a proposito dei costi di tale iniziativa. L’opinione generale può essere riassunta nel modo seguente: ridurre le emissioni rallenterebbe la crescita economica, ma non di molto.

Il Congressional Budget Office, basandosi su un rilevamento di modelli, è arrivato alla conclusione che la proposta di legge Waxman-Markey – l’istituzione di un meccanismo cap-and-trade per i gas serra, approvata lo scorso anno dalla Camera – “ridurrebbe il previsto tasso medio annuale di crescita del prodotto interno lordo nel periodo tra il 2010 ed il 2050, di una percentuale variabile tra lo 0,03 e lo 0,09”.  In conclusione, sostiene il Budget Office, una politica energica contro il cambiamento climatico provocherebbe una contrazione all’economia americana, di qua al 2050, tra l’1,1 ed il 3,4 per cento, rispetto a quanto accadrebbe senza tale politica.

Quello che si sente dire dall’opposizione conservatrice alla politica contro il cambiamento climatico è che ogni tentativo di limitare le emissioni sarebbe economicamente devastante.

La verità è che nessuna seria ricerca sostiene che intraprendere una energica azione sul cambiamento climatico vada oltre le possibilità dell’economia. Persino se non si ha fiducia nei modelli – e non si dovrebbe – sia la storia che la logica suggeriscono che i modelli sovrastimano, anziché sottostimare, i costi di una iniziativa sul clima. Possiamo permetterci di fare qualcosa in materia di cambiamento del clima.

Ma questa non è la stessa cosa che affermare che dobbiamo farlo. L’iniziativa avrà dei costi, ed essi debbono essere confrontati con i costi del non agire.

In che modo si può stabilire un prezzo[379] degli effetti del riscaldamento globale? Le stime in generale più apprezzate, come quelle del Dynamic Integrated Model of Climate and the Economy[380], conosciouto come DICE, utilizzato da William Nordhaus e dai suoi colleghi della Yale University, si basano su una erudita ipotesi di attribuzione di valore agli effetti negativi del riscaldamento globale, e sul successivo tentativo di stabilire qualche integrazione in considerazione di altre possibili ripercussioni[381].

Nordhaus ha ipotizzato che una crescita della temperatura globale di 2,5 gradi Celsius – che viene considerata comunemente come la previsione per il 2100 – ridurrebbe il prodotto interno lordo per un po’ meno del 2 per cento. Ma cosa accadrebbe se, come è suggerito da un numero crescente di modelli,  la effettiva crescita della temperatura fosse due volte più grande? Nessuno realmente sa in che modo operare questa estrapolazione. Per quanto può valere,  il modello di Nordhaus stabilisce che con una crescita di 5 gradi si avrebbe una perdita di circa il 5 per cento del prodotto interno lordo. Molti critici hanno ipotizzato, tuttavia, che il costo ptrebbe essere molto superiore.

Nonostante l’incertezza, si sta tentando di stabilire una comparazione diretta tra le perdite previste e le stime dei costi di politiche di mitigazione: il cambiamento climatico abbasserà il prodotto interno lordo del 5 per cento, interromperlo provocherebbe un costo del 2 per cento, e così via a seguire. Sfortunatamente, la stima non è così semplice per un certo numero di ragioni.

La più importante è la questione dell’incertezza. Noi non abbiamo certezza sulle dimensioni del cambiamento climatico, che pure è inevitabile, perché si sono raggiunte concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera che non si erano date in milioni di anni.

Si potrebbe ritenere che questa incertezza renda più deboli le ragioni di un intervento, ma in realtà le rafforza. Come Martin Weitzman ha argomentato in vari scritti persuasivi, se c’è una possibilità significativa di una completa catastrofe, quella possibilità dovrebbe dominare i calcoli sui costi-benefici. E la possibilità di una catastrofe rende più potente la tesi a favore di una energica politica sul clima.

Le attuali prospettive di riscaldamento globale in assenza di qualsiasi iniziativa, assomigliano davvero troppo a quel genere di numeri[382] che normalmente vengono associati a scenari da ‘giorno del Giudizio’. E sarebbe irresponsabile – si sarebbe tentati di dire criminale – non fare un passo indietro rispetto a quello che anche troppo facilmente potrebbe diventare l’orlo di un precipizio.

Nondimeno, questo lascia spazio ad un grande dibattito sul tema del ritmo della iniziativa di contrasto.

Gli economisti che analizzano le politiche sul clima concordano sul fatto che ci sia bisogno di mettere un prezzo sulle emissioni di carbonio e che questo prezzo debba essere in ultima analisi molto elevato, così come sul fatto che le conseguenze economiche negative di questa politica sarebbero di dimensioni governabili. Ma c’è una furiosa discussione tra gli analisti più competenti sul tema della programmazione temporale[383], vale a dire con quanta rapidità i costi per le emissioni di anidride carbonica dovrebbero salire a livelli significativi.

Da una parte ci sono gli economisti che hanno lavorato per anni con i cosiddetti modelli integrati di valutazione, che sono una combinazione di modelli di cambiamento climatico e di modelli relativi sia al danno del riscaldamento globale che ai costi economici del taglio delle emissioni.

In massima parte, il messaggio che viene da questi economisti è una specie di versione climatologica della famosa preghiera di S. Agostino “Dammi castità e continenza, ma non solo in questo momento[384]”.  In questo modo, il modello  DICE di Nordhaus afferma che il prezzo per le emissioni di carbonio dovrebbe crescere alla fine sino a più di 200 dollari a tonnellata, con una tariffa iniziale più modesta attorno ai 30 dollari a tonnellata. Nordhaus raccomanda una politica che costruisca gradualmente nel lungo periodo una sorta di “politica climatica in salita[385]”.

Dall’altra parte sono entrati in campo alcuni più recenti analisti[386], che operano con modelli simili ma arrivano a conclusioni diverse. Il più famoso, Nicholas Stern, della London School of Economics, si esprimeva nel 2006 a favore di una rapida, aggressiva iniziativa per limitare le emissioni, che con molta probabilità avrebbe comportato prezzi molto più elevati per le emissioni di anidride carbonica. Dato che questa alternativa non sembra che abbia un particolare nome di riconoscimento, la chiamerò “il big-bang della politica sul clima”.

Personalmente ho una inclinazione verso questa posizione del “big-bang”. La soluzione della “politica in salita” sembra troppo distante da un condotta appropriata ad un esperimento così rischioso per l’intero pianeta. La politica prescelta da Nordhaus, ad esempio, stabilizzerebbe la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera ad un livello di circa due volte quello medio dell’epoca preindustriale. Quanto siamo sicuri che un cambiamento di questo genere nell’ambiente farebbe evitare una catastrofe? Io dico che non siamo abbastanza sicuri, in particolare perché gli esperti di modelli climatici hanno bruscamente innalzato le loro previsioni sul riscaldamento futuro proprio nel corso degli ultimi due anni.

Concluderei, dunque, con un argomento fondamentale di Weitzman: è l’innegabile probabilità di un completo disastro che dovrebbe dominare la nostra analisi strategica. Ed essa depone a favore di mosse aggressive per limitare da subito le emissioni.

Come ho ricordato, la Camera ha già approvato la ‘Waxman-Markey’, una proposta di legge abbastanza valida finalizzata alla riduzione delle emissioni di gas serra. Ma la votazione, che è stata espressa lo scorso giugno, ha messo in evidenza una forte divisione nel Congresso. Solo 8 repubblicani hanno votato a favore di quella proposta, mentre 44 democratici hanno votato contro. Ed è probabile che essa non passerebbe, se venisse messa ai voti oggi.

Le prospettive al Senato, dove sono necessari 60 voti per l’approvazione di gran parte delle leggi, sono anche peggiori. Un certo numero di Senatori democratici, che rappresentano gli Stati produttori di energia e con un forte settore agricolo, si sono espressi contro il meccanismo del cap-and-trade. Nel passato, qualche Senatore repubblicano aveva sostenuto il cap-and-trade. Ma con il clima di faziosità partitica in ascesa, molti di loro stanno cambiando il loro atteggiamento.

Le prospettive immediate per una iniziativa in materia di clima non appaiono promettenti, nonostante un tentativo in corso da parte di tre Senatori – John Kerry, Joseph Lieberman e Lindsay Graham – di pervenire ad una proposta di compromesso (la loro intenzione è di presentare la proposta di legge alla fine di questo mese).

Tuttavia, la questione non è certo destinata a scomparire. Ci sono discrete possibilità che le temperature record che il mondo ha conosciuto sinora nell’ultimo anno, almeno fuori da Washington, proseguano, privando coloro che sono scettici sul riscaldamento globale di uno dei loro argomenti preferiti.

E in un senso più generale, considerate le giravolte della politica americana nel recente periodo, c’è una reale possibilità che il sostegno politico ad una iniziativa sul cambiamento climatico si rianimi.

Se ciò dovesse accadere, le analisi economiche sono già disponibili. Sappiamo come porre un limite alle emissioni dei gas serra. Abbiamo una percezione sufficientemente precisa dei costi, e si tratta di costi gestibili. Ciò che ora serve è la volontà politica.  

 


 

The Fire Next Time

By PAUL KRUGMAN

Published: April 15, 2010

On Tuesday, Mitch McConnell, the Senate minority leader, called for the abolition of municipal fire departments.

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Firefighters, he declared, “won’t solve the problems that led to recent fires. They will make them worse.” The existence of fire departments, he went on, “not only allows for taxpayer-funded bailouts of burning buildings; it institutionalizes them.” He concluded, “The way to solve this problem is to let the people who make the mistakes that lead to fires pay for them. We won’t solve this problem until the biggest buildings are allowed to burn.”

 

 

O.K., I fibbed a bit. Mr. McConnell said almost everything I attributed to him, but he was talking about financial reform, not fire reform. In particular, he was objecting not to the existence of fire departments, but to legislation that would give the government the power to seize and restructure failing financial institutions.

 

But it amounts to the same thing.

 

Now, Mr. McConnell surely isn’t sincere; while pretending to oppose bank bailouts, he’s actually doing the bankers’ bidding. But before I get to that, let’s talk about why he’s wrong on substance.

In his speech, Mr. McConnell seemed to be saying that in the future, the U.S. government should just let banks fail. We “must put an end to taxpayer funded bailouts for Wall Street banks.” What’s wrong with that?

 

The answer is that letting banks fail — as opposed to seizing and restructuring them — is a bad idea for the same reason that it’s a bad idea to stand aside while an urban office building burns. In both cases, the damage has a tendency to spread. In 1930, U.S. officials stood aside as banks failed; the result was the Great Depression. In 2008, they stood aside as Lehman Brothers imploded; within days, credit markets had frozen and we were staring into the economic abyss.

 

 

So it’s crucial to avoid disorderly bank collapses, just as it’s crucial to avoid out-of-control urban fires.

 

Since the 1930s, we’ve had a standard procedure for dealing with failing banks: the Federal Deposit Insurance Corporation has the right to seize a bank that’s on the brink, protecting its depositors while cleaning out the stockholders. In the crisis of 2008, however, it became clear that this procedure wasn’t up to dealing with complex modern financial institutions like Lehman or Citigroup.

 

 

So proposed reform legislation gives regulators “resolution authority,” which basically means giving them the ability to deal with the likes of Lehman in much the same way that the F.D.I.C. deals with conventional banks. Who could object to that?

Well, Mr. McConnell is trying. His talking points come straight out of a memo Frank Luntz, the Republican political consultant, circulated in January on how to oppose financial reform. “Frankly,” wrote Mr. Luntz, “the single best way to kill any legislation is to link it to the Big Bank Bailout.” And Mr. McConnell is following those stage directions.

 

 

It’s a truly shameless performance: Mr. McConnell is pretending to stand up for taxpayers against Wall Street while in fact doing just the opposite. In recent weeks, he and other Republican leaders have held meetings with Wall Street executives and lobbyists, in which the G.O.P. and the financial industry have sought to coordinate their political strategy.

And let me assure you, Wall Street isn’t lobbying to prevent future bank bailouts. If anything, it’s trying to ensure that there will be more bailouts. By depriving regulators of the tools they need to seize failing financial firms, financial lobbyists increase the chances that when the next crisis strikes, taxpayers will end up paying a ransom to stockholders and executives as the price of avoiding collapse.

 

 

Even more important, however, the financial industry wants to avoid serious regulation; it wants to be left free to engage in the same behavior that created this crisis. It’s worth remembering that between the 1930s and the 1980s, there weren’t any really big financial bailouts, because strong regulation kept most banks out of trouble. It was only with Reagan-era deregulation that big bank disasters re-emerged. In fact, relative to the size of the economy, the taxpayer costs of the savings and loan disaster, which unfolded in the Reagan years, were much higher than anything likely to happen under President Obama.

 

 

To understand what’s really at stake right now, watch the looming fight over derivatives, the complex financial instruments Warren Buffett famously described as “financial weapons of mass destruction.” The Obama administration wants tighter regulation of derivatives, while Republicans are opposed. And that tells you everything you need to know.

 

 

So don’t be fooled. When Mitch McConnell denounces big bank bailouts, what he’s really trying to do is give the bankers everything they want.

 

“La prossima volta i vigili del fuoco[387]” di Paul Krugman

New York Times 15 aprile 2010

Giovedì, Mitch McConnell, il leader al Senato della minoranza, ha preso posizione a favore della eliminazione dei corpi municipali dei Vigili del Fuoco.

I pompieri, ha dichiarato, “non risolvono i problemi che hanno provocato i recenti incendi. Piuttosto li aggravano” “L’esistenza del corpo dei Vigili del Fuoco”, ha proseguito, “non solo permette i salvataggi degli edifici incendiati a carico dei contribuenti: essa li istituzionalizza”. “La strada per risolvere questo problema”, ha concluso, “è lasciare ai responsabili degli sbagli la responsabilità di essere in prima fila nel pagare i danni degli incendi[388]. Noi non risolveremo questo problema sinchè sarà consentito agli edifici più grandi di bruciare”.

Confesso di aver raccontato una frottola. Il signor McConnell ha detto quasi tutto quello che gli ho attribuito, ma stava parlando della riforma del sistema finanziario, non della riforma dei Vigili del Fuoco. In particolare, egli non stava facendo obiezione alla esistenza del corpo dei Vigili del Fuoco, ma ad una legislazione che darebbe al governo il potere di porre sotto sequestro e di ristrutturare gli istituti finanziari interessati da procedure di fallimento.

Ma le conclusioni sono le stesse.

E’ chiaro che il signor McConnell non è sincero: nel mentre pretende di opporsi al pagamento dei salvataggi, di fatto fa un’offerta per i banchieri. Ma, prima di arrivare a questo, vediamo come egli abbia torto nella sostanza.

Nel suo discorso, il signor McConnell è sembrato affermare che nel futuro, il governo degli Stati Uniti dovrebbe semplicemente lasciar fallire le banche. “Dobbiamo smetterla con i salvatggi delle banche di Wall Steet a carico dei contribuenti”. Cosa c’è di sbagliato in questo?

La risposta è che lasciar fallire le banche – in alternativa al porle sotto sequestro e ristrutturarle – è una cattiva idea per lo stesso motivo per il quale sarebbe una cattiva idea starsene con le mani in mano[389] nel mentre va a fuoco un palazzo cittadino adibito ad uffici. In entrambi i casi, il danno si diffonderebbe. Nell’America del 1930 i responsabili se ne stettero da una parte mentre le banche fallivano: il risultato fu la Grande Depressione. Nel 2008, se ne stettero da una parte al momento della implosione di Lehman Brothers; in pochi giorni i mercati del credito si congelarono e noi finimmo sbigottiti  in un abisso economico[390].

Dunque, è di fondamentale importanza evitare che le banche collassino in modo disordinato, proprio come è di fondamentale importanza che gli incendi nelle città non finiscano fuori controllo.

Sin dal 1930, noi avevamo una procedura standard con la quale ci si occupava dei fallimenti bancari: la Federal Deposit Insurance Corporation aveva il diritto di porre sotto sequestro una banca che fosse finita sull’orlo del precipizio, proteggendo i risparmiatori nello stesso momento in cui si ripulivano gli azionisti. Nella crisi del 2008, tuttavia, fu chiaro che con tale procedura non era possibile occuparsi dei complicati moderni istituti finanziari come Lehman Brothers o Citigroup.

  E’ così che la legislazione di riforma proposta dà ai responsabili della vigilanza la “autorità di risolvere”, vale a dire che li fornisce del potere di occuparsi di casi come Lehman in modo più o meno simile a come F.D.I.C. si occupa delle banche convenzionali. Chi potrebbe opporsi a questo?

Ebbene, il signor MsConnell ci sta provando. Le sue argomentazioni sembrano uscite da un promemoria sui modi nei quali opporsi alla riforma del sistema finanziaio che circolava nel mese di gennaio a cura di Frank Luntz, il consulente politico dei repubblicani. “Francamente”, aveva scritto il signor Luntz, “il solo miglior modo per liquidare ogni legislazione è collegarla al salvataggio delle grandi banche”. E McConnell sta seguendo questa indicazioni alla lettera[391].

Si tratta di una prestazione davvero spudorata[392]: McConnell pretende di essere a favore dei contribuenti contro Wall Street, mentre fa esattamente il contrario. Nelle scorse settimane, lui ed altri leaders repubblicani hanno tenuto incontri con i dirigenti di Wall Street ed i lobbisti, nel corso dei quali il G.O.P. e il settore finanziario hanno esaminato come coordinare le rispettive strategie politiche.

Devo assicurarvi che i lobbisti di Wall Street non stanno cercando di impedire futuri salvataggi di banche. Semmai, si sta cercando di fare in modo che ce ne siano di più. Togliendo agli organi di vigilanza gli strumenti per porre sotto sequestro le imprese finanziarie sull’orlo del fallimento, i lobbisti della finanza accrescono le possibilità che quando la prossima crisi colpirà, i contribuenti finiranno col pagare un riscatto agli azionisti ed ai dirigenti delle banche, come prezzo per evitare il collasso[393].

Ancora più importante, tuttavia, il settore finanziario desidera evitare ogni seria regolamentazione; vuole essere lasciato libero di utilizzare la stessa condotta che ha provocato la crisi. Merita ricordare che dal 1930 al 1980 non ci fu in effetti alcun importante salvataggio finanziario, perché regole serie avevano tenuto le banche fuori dai guai. Fu solo con l’era reaganiana delle deregolamentazione, che vennero nuovamente a galla i disastri della grandi banche. Nei fatti, in relazione alle dimensioni dell’economia, i costi dei contribuenti in termini di risparmi e di mutui compromessi che si produssero[394] nell’epoca di Reagan, furono molto più elevati di ogni altra cosa simile con la presidenza Obama.

Per comprendere cosa sia effettivamente all’ordine del giorno[395] al momento, si consideri la guerra che minacciosamente si profila sui ‘derivati’, quei complicati prodotti finanziari che Warren Buffet aveva notoriamente definito come le “armi di distruzione di massa della finanza”. La amministrazione Obama vuole regole più stringenti per i derivati, mentre i Repubblicani si oppongono. Questo vi dice tutto quello di cui avete bisogno per capire.

Dunque, non facciamoci prendere in giro[396]. Quando McConnell  denuncia i salvataggi delle grandi banche, quello che realmente sta cercando di fare è dare ai banchieri tutto quello che vogliono.

 

 


 

 

Looters in Loafers

By PAUL KRUGMAN

Published: April 18, 2010

Last October, I saw a cartoon by Mike Peters in which a teacher asks a student to create a sentence that uses the verb “sacks,” as in looting and pillaging. The student replies, “Goldman Sachs.”

 

Sure enough, last week the Securities and Exchange Commission accused the Gucci-loafer guys at Goldman of engaging in what amounts to white-collar looting.

 

I’m using the term looting in the sense defined by the economists George Akerlof and Paul Romer in a 1993 paper titled “Looting: The Economic Underworld of Bankruptcy for Profit.” That paper, written in the aftermath of the savings-and-loan crisis of the Reagan years, argued that many of the losses in that crisis were the result of deliberate fraud.

Was the same true of the current financial crisis?

Most discussion of the role of fraud in the crisis has focused on two forms of deception: predatory lending and misrepresentation of risks. Clearly, some borrowers were lured into taking out complex, expensive loans they didn’t understand — a process facilitated by Bush-era federal regulators, who both failed to curb abusive lending and prevented states from taking action on their own. And for the most part, subprime lenders didn’t hold on to the loans they made. Instead, they sold off the loans to investors, in some cases surely knowing that the potential for future losses was greater than the people buying those loans (or securities backed by the loans) realized.

 

 

 

 

 

What we’re now seeing are accusations of a third form of fraud.

We’ve known for some time that Goldman Sachs and other firms marketed mortgage-backed securities even as they sought to make profits by betting that such securities would plunge in value. This practice, however, while arguably reprehensible, wasn’t illegal. But now the S.E.C. is charging that Goldman created and marketed securities that were deliberately designed to fail, so that an important client could make money off that failure. That’s what I would call looting.

 

 

And Goldman isn’t the only financial firm accused of doing this. According to the Pulitzer-winning investigative journalism Web site ProPublica, several banks helped market designed-to-fail investments on behalf of the hedge fund Magnetar, which was betting on that failure.

 

So what role did fraud play in the financial crisis? Neither predatory lending nor the selling of mortgages on false pretenses caused the crisis. But they surely made it worse, both by helping to inflate the housing bubble and by creating a pool of assets guaranteed to turn into toxic waste once the bubble burst.

 

 

As for the alleged creation of investments designed to fail, these may have magnified losses at the banks that were on the losing side of these deals, deepening the banking crisis that turned the burst housing bubble into an economy-wide catastrophe.

 

 

The obvious question is whether financial reform of the kind now being contemplated would have prevented some or all of the fraud that now seems to have flourished over the past decade. And the answer is yes.

For one thing, an independent consumer protection bureau could have helped limit predatory lending. Another provision in the proposed Senate bill, requiring that lenders retain 5 percent of the value of loans they make, would have limited the practice of making bad loans and quickly selling them off to unwary investors.

 

It’s less clear whether proposals for derivatives reform — which mainly involve requiring that financial instruments like credit default swaps be traded openly and transparently, like ordinary stocks and bonds — would have prevented the alleged abuses by Goldman (although they probably would have prevented the insurer A.I.G. from running wild and requiring a federal bailout). What we can say is that the final draft of financial reform had better include language that would prevent this kind of looting — in particular, it should block the creation of “synthetic C.D.O.’s,” cocktails of credit default swaps that let investors take big bets on assets without actually owning them.

 

 

 

 

The main moral you should draw from the charges against Goldman, though, doesn’t involve the fine print of reform; it involves the urgent need to change Wall Street. Listening to financial-industry lobbyists and the Republican politicians who have been huddling with them, you’d think that everything will be fine as long as the federal government promises not to do any more bailouts. But that’s totally wrong — and not just because no such promise would be credible.

 

For the fact is that much of the financial industry has become a racket — a game in which a handful of people are lavishly paid to mislead and exploit consumers and investors. And if we don’t lower the boom on these practices, the racket will just go on.

 

“Predatori in mocassini” di Paul Krugman

New York Times 18 aprile 2010

 

Lo scorso ottobre vidi un cartone di Mike Peters nel quale un insegnante chiedeva ad uno studente di formare una frase nella quale comparisse l’espressione “saccheggiare”, ovvero  depredare e fare razzie [397]. Lo studente rispose “Goldman Sachs”[398].

Ed infatti, la scorsa settimana la Securities and Exchange Commission[399] ha accusato i ‘ragazzi in mocassini di Gucci’ presso Goldman di essere coinvolti in un tipico caso di ‘saccheggio’ da colletti bianchi[400].

Uso il termine ‘saccheggiare’ nel significato attribuitogli dagli economisti George Akerlof e Paul Romer in un saggio del 1993 dal titolo “Saccheggio: la malavita economica della bancarotta per profitto”. Quel saggio, scritto alla vigilia della crisi dei risparmi e dei mutui degli anni di Reagan, ipotizzava che molte perdite in quella crisi fossero il risultato di una frode deliberata.

Era la stessa verità della crisi finanziaria attuale?

Gran parte del dibattito sul ruolo della frode in quella crisi si è concentrato su due principali forme di inganno: il credito predatorio e la disonesta rappresentazione dei rischi. E’ chiaro che alcuni mutuatari furono allettati a contrarre prestiti nella forma di mutui complicati e dispendiosi che non erano nelle condizioni di comprendere – un processo facilitato dalla vigilanza federale dell’epoca Bush, che si distinse sia per non esser stata capace di tenere a freno il credito corrotto[401], sia per aver impedito agli Stati l’assunzione di proprie autonome iniziative. E nella maggior parte dei casi, chi concesse prestiti ad una clientela subprime non tenne presso di sé i mutui che aveva confezionato. Piuttosto essi smaltirono quei mutui ad investitori, in qualche caso essendo perfettamente consapevoli che la possibilità di successive perdite era più grande di quanto potevano comprendere coloro che contraevano quei prestiti (o acquistavano i titoli connessi).

Ciò a cui oggi assistiamo sono accuse relative ad un terzo genere di frodi.

Era un po’ che eravamo a conoscenza che Goldman Sachs ed altri istituti avevano messo sul mercato titoli collegati a mutui ipotecari, proprio mentre stavano cercando di trarre profitti dalla scommessa che questi titoli sarebbero crollati di valore. Questa pratica, tuttavia, per quanto potesse essere ritenuta condannabile, non era illegale. Ma adesso la S.E.C. ha avanzato l’accusa a Goldman di aver creato e messo sul mercato titoli che erano deliberatamente destinati a fallire, in modo tale che un importante cliente avrebbe potuto speculare su questo fallimento. E questo è quello che definirei “saccheggio”.

Goldman non sarebbe l’unico istituto finanziario accusato di un comportamento del genere. Secondo il sito web Pro-Publica, vincitore di un Pulitzer [402] per indagini giornalistiche, varie banche si sarebbero servite[403] di un mercato di investimenti destinati a fallire per conto dell’edge fund[404] Magnetar, che su tali fallimenti scommetteva.

Quale è stato, dunque, il peso di questa frode nella crisi finanziaria? Né questa forma di credito predatorio, né la vendita sotto false apparenze di titoli collegati ai mutui ipotecari hanno provocato la crisi. Però, sicuramente l’hanno peggiorata, sia aiutando a gonfiare la bolla immobiliare, sia attraverso la creazione di un complesso di assets destinati a trasformarsi in rifiuto tossico una volta che la bolla fosse scoppiata.

Per quanto riguarda la creazione di investimenti destinati al fallimento, essi possono aver ingigantito[405] le perdite di quelle banche che si trovavano dalla parte svantaggiata di queste mediazioni, rendendo più grave quella crisi bancaria che ha trasformato lo scoppio della bolla immobiliare in un vasto disastro economico.

Una domanda che viene naturale è se una riforma del sistema finanziario quale quella che attualmente è ipotizzata avrebbe potuto impedire alcune di queste frodi che pare abbiano prosperato nel decennio passato. E la risposta è affermativa.

Da un lato, una agenzia indipendente di protezione del consumatore sarebbe servita a limitare le forme di credito di rapina. Un’altra previsione della proposta di legge del Senato, secondo la quale gli istituti di credito sono tenuti a trattenere il 5 per cento del valore dei mutui che autorizzano, avrebbe messo un limite alla pratica di confezionare cattivi prestiti e di disfarsene rapidamente presso investitori sprovveduti.

E’ meno chiaro se le proposte per la riforma dei derivati – che principalmente concernono la condizione che gli strumenti finanziari come i credit default swaps[406] siano commerciati con apertura e trasparenza al pari delle azioni e dei bonds ordinari – avrebbero potuto impedire i presunti abusi di Goldman (sebbene esse avrebbero probabilmente impedito che l’impresa di assicurazioni A.I.G. fosse gestita in modo avventato, sino a rendere necessario un salvataggio federale). Quello che si può dire è che la versione finale della riforma del sistema finanziario avrebbe fatto meglio ad utilizzare espressioni che impedissero  quel genere di rapine – in particolare, essa avrebbe dovuto bloccare la creazione dei cosiddetti “Credit Default Options [407] sintetici”, cocktails di credit default swaps che permettono agli investitori di fare grandi scommesse su assets sui quali non hanno alcun titolo reale di possesso.

La principale morale che si dovrebbe dedurre dalle accuse rivolte a Goldman, tuttavia, non riguarda la versione finale[408] della riforma; riguarda il bisogno urgente di cambiamenti a Wall Street. Se si ascoltano i lobbisti del sistema finanziario ed i politici repubblicani che hanno fatto con loro comunella[409], si potrebbe pensare che ogni cosa andrà a suo posto nella misura in cui il governo federale si impegnerà a non effettuare più salvataggi. Ma questo è totalmente fuori luogo, e non solo perché nessuna promessa del genere è credibile.

Il fatto è che una gran parte del sistema finanziario è diventato una truffa[410], un gioco nel quale una manciata di persone sono profumatamente pagate per ingannare e sfruttare consumatori ed investitori. E se non daremo un taglio a queste pratiche[411], la truffa potrà solo proseguire.   

 

 


 

Don’t Cry for Wall Street

By PAUL KRUGMAN

Published: April 22, 2010

On Thursday, President Obama went to Manhattan, where he urged an audience drawn largely from Wall Street to back financial reform. “I believe,” he declared, “that these reforms are, in the end, not only in the best interest of our country, but in the best interest of the financial sector.”

Well, I wish he hadn’t said that — and not just because he really needs, as a political matter, to take a populist stance, to put some public distance between himself and the bankers. The fact is that Mr. Obama should be trying to do what’s right for the country — full stop. If doing so hurts the bankers, that’s O.K.

 

 

 

More than that, reform actually should hurt the bankers. A growing body of analysis suggests that an oversized financial industry is hurting the broader economy. Shrinking that oversized industry won’t make Wall Street happy, but what’s bad for Wall Street would be good for America.

 

Now, the reforms currently on the table — which I support — might end up being good for the financial industry as well as for the rest of us. But that’s because they only deal with part of the problem: they would make finance safer, but they might not make it smaller.

 

What’s the matter with finance? Start with the fact that the modern financial industry generates huge profits and paychecks, yet delivers few tangible benefits.

 

Remember the 1987 movie “Wall Street,” in which Gordon Gekko declared: Greed is good? By today’s standards, Gekko was a piker. In the years leading up to the 2008 crisis, the financial industry accounted for a third of total domestic profits — about twice its share two decades earlier.

 

These profits were justified, we were told, because the industry was doing great things for the economy. It was channeling capital to productive uses; it was spreading risk; it was enhancing financial stability. None of those were true. Capital was channeled not to job-creating innovators, but into an unsustainable housing bubble; risk was concentrated, not spread; and when the housing bubble burst, the supposedly stable financial system imploded, with the worst global slump since the Great Depression as collateral damage.

 

 

So why were bankers raking it in? My take, reflecting the efforts of financial economists to make sense of the catastrophe, is that it was mainly about gambling with other people’s money. The financial industry took big, risky bets with borrowed funds — bets that paid high returns until they went bad — but was able to borrow cheaply because investors didn’t understand how fragile the industry was.

 

 

 

And what about the much-touted benefits of financial innovation? I’m with the economists Andrei Shleifer and Robert Vishny, who argue in a recent paper that a lot of that innovation was about creating the illusion of safety, providing investors with “false substitutes” for old-fashioned assets like bank deposits. Eventually the illusion failed — and the result was a disastrous financial crisis.

 

In his Thursday speech, by the way, Mr. Obama insisted — twice — that financial reform won’t stifle innovation. Too bad.

 

And here’s the thing: after taking a big hit in the immediate aftermath of the crisis, financial-industry profits are soaring again. It seems all too likely that the industry will soon go back to playing the same games that got us into this mess in the first place.

So what should be done? As I said, I support the reform proposals of the Obama administration and its Congressional allies. Among other things, it would be a shame to see the antireform campaign by Republican leaders — a campaign marked by breathtaking dishonesty and hypocrisy — succeed.

 

But these reforms should be only the first step. We also need to cut finance down to size.

And it’s not just critical outsiders saying this (not that there’s anything wrong with critical outsiders, who have been much more right than supposedly knowledgeable insiders; see Greenspan, Alan). An intriguing proposal is about to be unveiled from, of all places, the International Monetary Fund. In a leaked paper prepared for a meeting this weekend, the fund calls for a Financial Activity Tax — yes, FAT — levied on financial-industry profits and remuneration.

 

 

 

Such a tax, the fund argues, could “mitigate excessive risk-taking.” It could also “tend to reduce the size of the financial sector,” which the fund presents as a good thing.

 

Now, the I.M.F. proposal is actually quite mild. Nonetheless, if it moves toward reality, Wall Street will howl.

 

But the fact is that we’ve been devoting far too large a share of our wealth, far too much of the nation’s talent, to the business of devising and peddling complex financial schemes — schemes that have a tendency to blow up the economy. Ending this state of affairs will hurt the financial industry. So?

 

“Nessuna lacrima per Wall Street” di Paul Krugman

New York Times 22 aprile 2010

Giovedì il Presidente Obama è andato a Manhattan, per sollecitare[412] un pubblico che in gran parte proveniva dagli ambienti di Wall Street[413] a sostenere la riforma del sistema finanziario. “Io credo”, ha dichiarato, “che alla fine questa riforma non sia solo del massimo interesse per il paese,  ma sia anche del massimo interesse per il sistema finanziario”.

Ebbene, io vorrei che non l’avesse detto. Non solo perché egli ha bisogno, per una considerazione politica, di assumere una posizione apprezzabile dalla gente comune[414], prendendo con chiarezza una qualche distanza dai banchieri. Il fatto è che Obama dovrebbe provare a fare ciò che è giusto per il paese: punto e basta. Se nel farlo egli urta la sensibilità dei banchieri, non c’è niente di male.

Più ancora di questo, il fatto è che la riforma dovrebbe per davvero scontentare i banchieri. Un crescente complesso di analisi sta mettendo in evidenza come un settore finanziario di dimensioni smisurate scontenta l’economia nella sua interezza. Restringere quella finanza sovradimensionata non farà felice Wall Street, ma quello che non è buono per Wall Street farebbe il bene all’America.

Ora, la proposta di riforma che è attualmente in discussione – e che ha il mio sostegno – potrebbe finire col rivelarsi utile anche per il settore finanziario, come per noi tutti. Ma questo soltanto perchè essi – i banchieri – hanno da misurarsi con una parte del problema:  a loro spetta di rendere la finanza più sicura, mentre non è a loro che tocca ridurre le dimensioni del settore finanziario[415].

Qual è il problema del settore finanziario? Cominciamo col dire che l’attuale economia della finanza produce vasti profitti ed elevate remunerazioni, ma al tempo stesso produce pochi benefici tangibili.

Ricordate il film del 1987 “Wall Street”, nel quale Gordon Gekko[416] dichiarava: “che c’è di male nell’avidità?”. Per gli standards attuali, Gekko sarebbe uno scommettitore da due soldi[417]. Negli anni che hanno portato al 2008, il settore finanziario veniva stimato per un terzo dei profitti totali interni, ovvero circa il doppio della sua quota di venti anni prima.

Questi profitti, ci veniva detto, erano giustificati dal fatto che il settore stava facendo grandi cose per l’economia. Metteva a disposizione capitali per usi produttivi; spalmava i rischi, con ciò riducendoli; aumentava la stabilità finanziaria. Nessuna di queste cose corrispondeva al vero. I capitali non venivano canalizzati verso soluzioni innovatrici e produttive di occupazione, semmai verso una insostenibile bolla immobiliare; il rischio finiva con l’essere più concentrato, anziché distribuito; e quando la bolla immobiliare scoppiò, quel sistema finanziario che si era supposto stabile implose, con il guasto connesso della peggiore recessione globale dai tempi della Grande Depressione.

Ma come accadde che i banchieri ci fecero un sacco di soldi[418]? La mia opinione[419], che rispecchia i tentativi che compiono gli economisti della finanza per trovare un senso alla catastrofe, è che questo principalmente si spiega con il fatto che essi giocavano con i soldi degli altri[420]. Il settore finanziario ha fatto grandi e rischiose scommesse con fondi presi a prestito – scommesse che hanno assicurato elevati guadagni finchè non si sono guastate – ma esso è stato capace di utilizzare denaro a basso costo perché gli investitori non si rendevano conto di quanto fosse fragile il settore.

E che cosa dire dei tanto magnificati[421] benefici dell’innovazione finanziaria? Io condivido l’opinione degli economisti Andrei Schleifer e Robert Vishny, i quali in un recente saggio sostengono che gran parte di quella innovazione consisteva nella creazione dell’illusione della sicurezza, offrendo agli investitori “falsi surrogati” degli assets tradizionali quali i depositi bancari. Alla fine quella illusione è venuta meno e il risultato è stata una disastrosa crisi finanziaria.

A tale proposito, nel suo discorso di giovedi Obama ha insistito, per due volte, che la riforma del sistema finanziario non soffocherà l’innovazione. Peccato[422].

Perché qua è il punto: dopo aver preso una gran botta nell’immediato periodo successivo alla crisi, i profitti del settore finanziario sono di nuovo schizzati in alto. Sembra anche troppo verosimile che la finanza tornerà presto a praticare quei metodi che ci hanno portato al disastro la volta precedente.

Dunque, cosa andrebbe fatto? Come ho detto, io sostengo le proposte di riforma della amministrazione Obama e della sua maggioranza[423] al Congresso. Tra le altre considerazioni, sarebbe una vergogna se avesse successo la campagna contro la riforma dei dirigenti repubblicani, una campagna segnata da stupefacente[424] disonestà ed ipocrisia.

Ma queste modifiche dovrebbero essere solo il primo passo. Abbiamo anche bisogno di ridurre il peso della finanza.

E questo non lo stanno dicendo solo critici estranei all’ambiente[425] (non che ci sia niente di male ad essere critici estranei all’ambiente; che hanno avuto molta più ragione degli addetti ai lavori che si supponevano bene informati, vedi Alan Greenspan). Una proposta intrigante sta per essere resa pubblica, nientemeno[426], dal Fondo Monetario Internazionale. In un articolo che è stato fatto trapelare in occasione di una riunione in questo fine settimana, il Fondo si esprime a favore di una Financial Activity Tax[427] – proprio così, FAT[428]  che sarebbe imposta sui profitti del settore finanziario e sulle remunerazioni.

Una tassa del genere, sostiene il Fondo, potrebbe “mitigare l’eccessiva assunzione di rischi”. Essa potrebbe anche “tendere a ridurre le dimensioni del settore finanziario”, la qualcosa il Fondo evidentemente la considera opportuna.

Ora, la proposta del FMI è in effetti piuttosto leggera. Nondimeno, se si procedesse a mettarla in pratica, Wall Street avrebbe di che lamentarsi[429].

Ma il fatto è che noi abbiamo dedicato una parte troppo ampia della nostra ricchezza, una parte troppo grande del talento nazionale, negli affari consistenti nell’escogitare e rivendere[430] complessi schemi finanziari, schemi che hanno la particolarità di provocare l’esplosione dell’economia. Porre un termine ad affari del genere scontenterà il sistema finanziario. E allora? 

 

 


 

Berating the Raters

By PAUL KRUGMAN

Published: April 25, 2010

Let’s hear it for the Senate’s Permanent Subcommittee on Investigations. Its work on the financial crisis is increasingly looking like the 21st-century version of the Pecora hearings, which helped usher in New Deal-era financial regulation. In the past few days scandalous Wall Street e-mail messages released by the subcommittee have made headlines.

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That’s the good news. The bad news is that most of the headlines were about the wrong e-mails. When Goldman Sachs employees bragged about the money they had made by shorting the housing market, it was ugly, but that didn’t amount to wrongdoing.

 

No, the e-mail messages you should be focusing on are the ones from employees at the credit rating agencies, which bestowed AAA ratings on hundreds of billions of dollars’ worth of dubious assets, nearly all of which have since turned out to be toxic waste. And no, that’s not hyperbole: of AAA-rated subprime-mortgage-backed securities issued in 2006, 93 percent — 93 percent! — have now been downgraded to junk status.

 

What those e-mails reveal is a deeply corrupt system. And it’s a system that financial reform, as currently proposed, wouldn’t fix.

 

The rating agencies began as market researchers, selling assessments of corporate debt to people considering whether to buy that debt. Eventually, however, they morphed into something quite different: companies that were hired by the people selling debt to give that debt a seal of approval.

 

Those seals of approval came to play a central role in our whole financial system, especially for institutional investors like pension funds, which would buy your bonds if and only if they received that coveted AAA rating.

 

It was a system that looked dignified and respectable on the surface. Yet it produced huge conflicts of interest. Issuers of debt — which increasingly meant Wall Street firms selling securities they created by slicing and dicing claims on things like subprime mortgages — could choose among several rating agencies. So they could direct their business to whichever agency was most likely to give a favorable verdict, and threaten to pull business from an agency that tried too hard to do its job. It’s all too obvious, in retrospect, how this could have corrupted the process.

 

 

 

 

And it did. The Senate subcommittee has focused its investigations on the two biggest credit rating agencies, Moody’s and Standard & Poor’s; what it has found confirms our worst suspicions. In one e-mail message, an S.& P. employee explains that a meeting is necessary to “discuss adjusting criteria” for assessing housing-backed securities “because of the ongoing threat of losing deals.” Another message complains of having to use resources “to massage the sub-prime and alt-A numbers to preserve market share.” Clearly, the rating agencies skewed their assessments to please their clients.

 

These skewed assessments, in turn, helped the financial system take on far more risk than it could safely handle. Paul McCulley of Pimco, the bond investor (who coined the term “shadow banks” for the unregulated institutions at the heart of the crisis), recently described it this way: “explosive growth of shadow banking was about the invisible hand having a party, a non-regulated drinking party, with rating agencies handing out fake IDs.”

 

 

 

So what can be done to keep it from happening again?

 

The bill now before the Senate tries to do something about the rating agencies, but all in all it’s pretty weak on the subject. The only provision that might have teeth is one that would make it easier to sue rating agencies if they engaged in “knowing or reckless failure” to do the right thing. But that surely isn’t enough, given the money at stake — and the fact that Wall Street can afford to hire very, very good lawyers.

 

 

What we really need is a fundamental change in the raters’ incentives. We can’t go back to the days when rating agencies made their money by selling big books of statistics; information flows too freely in the Internet age, so nobody would buy the books. Yet something must be done to end the fundamentally corrupt nature of the the issuer-pays system.

 

 

 

An example of what might work is a proposal by Matthew Richardson and Lawrence White of New York University. They suggest a system in which firms issuing bonds continue paying rating agencies to assess those bonds — but in which the Securities and Exchange Commission, not the issuing firm, determines which rating agency gets the business.

I’m not wedded to that particular proposal. But doing nothing isn’t an option. It’s comforting to pretend that the financial crisis was caused by nothing more than honest errors. But it wasn’t; it was, in large part, the result of a corrupt system. And the rating agencies were a big part of that corruption.

 

“Prendersela con gli analisti[431]”    di Paul Krugman

New York Times 25 aprile 2010

Ascoltate questa notizia, a proposito della Sottocomissione Permanente del Senato per le Indagini. La sua attività sui temi della crisi finanziaria appare sempre di più come la versione del 21° secolo delle “audizioni Pecora[432]”, che contribuirono ad inaugurare la vigilanza sul sistema finanziario all’epoca del New Deal. Negli ultimi giorni, alcuni scandalosi messaggi di posta elettronica provenienti da Wall Street e resi noti dalla Sottocommissione, hanno fatto scalpore su tutti i giornali[433].

Questa è la buona notizia. La cattiva notizia è che gran parte dei titoli dei giornali si riferivano ai messaggi sbagliati. Il fatto che gli addetti della Goldman Sachs si siano vantati del denaro ricevuto per azioni di ‘shorting[434] sul mercato immobiliare, è stato sgradevole, ma non costituiva una malefatta[435].

No, i messaggi di posta elettronica sui quali si sarebbe dovuto concentrare l’attenzione sono quelli provenienti dalle agenzie creditizie di rating, le quali hanno concesso stime AAA[436] per centinaia di miliardi di dollari di valore su assets assai dubbi, quasi tutti risultati successivamente spazzatura. Né si tratta di una esagerazione: dei titoli subprime connessi con mutui ipotecari che avevano ricevuto la valutazione AAA nell’anno 2006, il 93 per cento – proprio così, il 93 per cento! – sono stati oggi degradati al livello di paccottiglia[437].

Quello che queste e-mail rivelano è un sistema profondamente corrotto. Ed è questo sistema che la riforma della finanza, nella sua versione attuale, non correggerebbe,

Le agenzie di rating hanno preso le mosse da ricerche di mercato, con le quali si vendevano analisi sui titoli di debito di determinate società[438] a persone che stavano valutando se acquistare tali titoli. Alla fine, tuttavia, esse hanno subito una mutazione in qualcosa di assai diverso: imprese che sono assoldate da persone che acquistano obbligazioni, affinchè esse ricevano una sorta di sigillo di approvazione[439].

Queste stime sono arrivate a giocare un ruolo centrale nell’intero nostro sistema finanziario, specialmente per investitori istituzionali come i fondi pensione, che sono disposti ad acquistare obbligazioni alla esclusiva condizione di ricevere la ambita valutazione AAA.

Questo sistema è apparso dignitoso e rispettabile alla superficie. Tuttavia ha prodotto vasti conflitti di interesse. Coloro che emettono titoli di debito[440] – ovvero sempre di più le imprese di Wall Street che vendono titoli da esse stesse prodotti attraverso ardite operazioni di suddivisione e di spezzettamento[441] di oggetti come i mutui ipotecari subprime –  potevano scegliere tra diverse agenzie di rating. In questo modo esse potevano indirizzare i loro affari verso quelle agenzie che apparivano più propense ad emettere verdetti favorevoli, così come potevano minacciare di escludere dagli affari quelle agenzie che giudicavano troppo rigorose nell’adempimento dei loro compiti. Retrospettivamente, è anche troppo evidente come tutto ciò abbia corrotto l’intero processo.

E così è andata. La Sottocommissione del Senato ha concentrato le sue indagini sulle due più grandi agenzie di rating, Moody’s e Standard & Poor’s; ciò che ha scoperto conferma i nostri peggiori sospetti. In un messaggio e-mail, un dipendente della Standard & Poor’s spiega che è necessario un incontro per “discutere alcuni criteri di aggiustamento”, a causa del rischio permanente di perdere affari[442]”. Un secondo messaggio lamenta la necessità di utilizzare risorse “per manipolare i dati relativi ai subprime e ai mutui di classe ‘alt-A[443]’, in modo da preservare le quote di mercato”. Chiaramente, le agenzie di rating aggiustavano le loro valutazioni per fare  favori ai loro clienti.

Queste stime aggiustate, a loro volta, contribuivano a fare in modo che il sistema finanziario assumesse rischi molto maggiori di quelli che poteva permettersi in condizioni di sicurezza. Paul McColley della Pimco, la società che investe in bond, che aveva coniato l’espressione “banche ombra” per indicare quegli istituti privi di regole che sono finiti al centro della crisi, di recente ha descritto la situazione in questi termini: “l’esplosiva crescita delle ‘banche ombra’ è stata pressappoco come la mano invisibile che organizza una festa, una festa nella quale si può bere in barba alle regole, con le agenzie di rating  che mettono in circolazione carte di identità contraffatte[444]”.

Che cosa, dunque, si può fare perché tutto ciò non accada di nuovo?

La proposta di legge che è all’attenzione del Senato prevede qualcosa a proposito delle agenzie di rating, ma tutto sommato si tratta di soluzioni abbastanza deboli, data la circostanza. L’unica previsione che potrebbe avere una qualche efficacia[445] è quella per la quale si renderebbe più facile fare causa alle agenzie di rating che si siano rese responsabili di “fallimento intenzionale o procurato con condotte sconsiderate[446]”. Ma questo non è sicuramente sufficiente, dati i soldi che sono in ballo e dato il fatto che Wall Street può permettersi ottimi avvocati.

Quello di cui c’è davvero bisogno è un cambiamento di fondo nei meccanismi degli incentivi alle agenzie. Non si può tornare indietro ai giorni nei quali le agenzie di rating guadagnavano i loro soldi attraverso la vendita di grandi libri di statistiche: l’informazione si muove troppo liberamente nell’epoca di Internet, perché qualcuno acquisti quei libri. Tuttavia, qualcosa si deve pur fare per dare un taglio alla natura fondamentalmente corrotta di un sistema basato sui pagamenti da parte di coloro che emettono titoli.

Un esempio di qualcosa che potrebbe funzionare è in una proposta di Matthew Richardson e Lawrence White, della New York University. Essi suggeriscono un sistema nel quale le società che emettono bonds continuino a pagare le agenzie di rating, ma nel quale sia la Commissione Titoli e Scambi, e non le società di emissione, a determinare a quale agenzia di rating affidare l’affare.

Io non sono particolarmente entusiasta di questa proposta[447]. Ma non far niente non è possibile. E’ confortante far finta[448] che la crisi finanziaria non sia stata provocata da niente di più che da errori umani[449]. Ma non è andata così: essa è stata, in larga parte, il risultato di un sistema corrotto. E le agenzie di rating sono state una bella fetta di quella corruzione.

 

 

 


 

The Euro Trap

By PAUL KRUGMAN

Published: April 29, 2010

Not that long ago, European economists used to mock their American counterparts for having questioned the wisdom of Europe’s march to monetary union. “On the whole,” declared an article published just this past January, “the euro has, thus far, gone much better than many U.S. economists had predicted.”

 

Oops. The article summarized the euro-skeptics’ views as having been: “It can’t happen, it’s a bad idea, it won’t last.” Well, it did happen, but right now it does seem to have been a bad idea for exactly the reasons the skeptics cited. And as for whether it will last — suddenly, that’s looking like an open question.

 

To understand the euro-mess — and its lessons for the rest of us — you need to see past the headlines. Right now everyone is focused on public debt, which can make it seem as if this is a simple story of governments that couldn’t control their spending. But that’s only part of the story for Greece, much less for Portugal, and not at all the story for Spain.

 

The fact is that three years ago none of the countries now in or near crisis seemed to be in deep fiscal trouble. Even Greece’s 2007 budget deficit was no higher, as a share of G.D.P., than the deficits the United States ran in the mid-1980s (morning in America!), while Spain actually ran a surplus. And all of the countries were attracting large inflows of foreign capital, largely because markets believed that membership in the euro zone made Greek, Portuguese and Spanish bonds safe investments.

 

 

 

Then came the global financial crisis. Those inflows of capital dried up; revenues plunged and deficits soared; and membership in the euro, which had encouraged markets to love the crisis countries not wisely but too well, turned into a trap.

 

What’s the nature of the trap? During the years of easy money, wages and prices in the crisis countries rose much faster than in the rest of Europe. Now that the money is no longer rolling in, those countries need to get costs back in line.

But that’s a much harder thing to do now than it was when each European nation had its own currency. Back then, costs could be brought in line by adjusting exchange rates — e.g., Greece could cut its wages relative to German wages simply by reducing the value of the drachma in terms of Deutsche marks. Now that Greece and Germany share the same currency, however, the only way to reduce Greek relative costs is through some combination of German inflation and Greek deflation. And since Germany won’t accept inflation, deflation it is.

 

 

The problem is that deflation — falling wages and prices — is always and everywhere a deeply painful process. It invariably involves a prolonged slump with high unemployment. And it also aggravates debt problems, both public and private, because incomes fall while the debt burden doesn’t.

 

Hence the crisis. Greece’s fiscal woes would be serious but probably manageable if the Greek economy’s prospects for the next few years looked even moderately favorable. But they don’t. Earlier this week, when it downgraded Greek debt, Standard & Poor’s suggested that the euro value of Greek G.D.P. may not return to its 2008 level until 2017, meaning that Greece has no hope of growing out of its troubles.

 

 

All this is exactly what the euro-skeptics feared. Giving up the ability to adjust exchange rates, they warned, would invite future crises. And it has.

 

So what will happen to the euro? Until recently, most analysts, myself included, considered a euro breakup basically impossible, since any government that even hinted that it was considering leaving the euro would be inviting a catastrophic run on its banks. But if the crisis countries are forced into default, they’ll probably face severe bank runs anyway, forcing them into emergency measures like temporary restrictions on bank withdrawals. This would open the door to euro exit.

 

 

So is the euro itself in danger? In a word, yes. If European leaders don’t start acting much more forcefully, providing Greece with enough help to avoid the worst, a chain reaction that starts with a Greek default and ends up wreaking much wider havoc looks all too possible.

Meanwhile, what are the lessons for the rest of us?

The deficit hawks are already trying to appropriate the European crisis, presenting it as an object lesson in the evils of government red ink. What the crisis really demonstrates, however, is the dangers of putting yourself in a policy straitjacket. When they joined the euro, the governments of Greece, Portugal and Spain denied themselves the ability to do some bad things, like printing too much money; but they also denied themselves the ability to respond flexibly to events.

 

And when crisis strikes, governments need to be able to act. That’s what the architects of the euro forgot — and the rest of us need to remember.

 

“La trappola dell’euro” di Paul Krugman

New York Times 29 aprile 2010

 

Non molto tempo fa, economisti europei erano soliti prendere in giro i loro colleghi americani per aver messo in dubbio la saggezza della marcia dell’Europa verso un’unione monetaria. “Nel complesso”, dichiarava un articolo proprio nel recente gennaio, “l’euro è andato fin qui molto meglio di quanto avessero previsto molti economisti americani”.

Ed eccoci[450]. L’articolo sintetizzava nel modo seguente i punti di vista degli euroscettici: “Non può succedere, è una cattiva idea, non durerà”. Quanto a succedere è successo, ma a questo punto sembra sia stata una cattiva idea, esattamente per le ragioni che indicavano gli euroscettici. E quanto al fatto se durerà, all’improvviso questa sembra sia una questione aperta.

Per capire il pasticcio europeo e le sue lezioni per tutti noi, occorre tornare a leggere i vecchi titoli dei giornali. A questo punto ognuno si concentra sulla questione del debito pubblico, il che che può far sembrare che si sia trattato di una semplice storia di governi che non hanno controllato le loro spese. Ma questa è solo una parte della vicenda greca, meno ancora nel caso del Portogallo, mentre non è per niente il caso della vicenda della Spagna.

Il fatto è che tre anni fa, nessuno dei tre paesi che oggi sono in crisi, o che ci sono vicini, sembrava avere seri guai finanziari. Persino il deficit di bilancio della Grecia nel 2007 non era più elevato, in percentuale al PIL, dei deficit che avevano gestito gli Stati Uniti nella metà degli anni 80 (“E’ giorno in America!”, diceva in quegli anni uno serafica propaganda televisiva reaganiana[451]); dal canto suo la Spagna presentava un avanzo. E tutti e tre i paesi attiravano cospicui flussi di capitali stranieri, in gran parte per il fatto che i mercati erano convinti che l’appartenenza alla zona euro rendesse sicuri gli investimenti nei bonds di Grecia, Portogallo e Spagna.

Poi è venuta la crisi finanziaria globale.  I flussi di capitale si sono inariditi; le entrate sono calate ed i deficit sono saliti alle stelle; l’appartenenza alla zona euro, che aveva indotto i mercati ad appassionarsi anche troppo, seppur senza saggezza, a quei paesi oggi in crisi, si è trasformata in una trappola.

Qual è la natura di questa trappola? Durante gli anni della moneta facile, i salari ed i prezzi dei paesi oggi in crisi erano saliti molto più velocemente che nel resto d’Europa. Oggi che il denaro non gira più così bene[452], quei paesi hanno bisogno di riallineare i loro costi.

Sennonchè questa è una cosa molto più difficile a farsi oggi, che non quando ogni nazione europea aveva la propria valuta. Allora, si sarebbe potuto rimettere in linea i costi attraverso un aggiustamento dei tassi di cambio; per esempio la Grecia avrebbe tagliato il valore dei propri salari in rapporto a quelli della Germania, semplicemente riducendo il valore della dracma in termini di marchi tedeschi. Invece oggi, dato che la Grecia e la Germania utilizzano della stessa moneta, l’unico modo per ridurre i costi relativi in Grecia è attraverso una combinazione di inflazione tedesca e deflazione greca. E, siccome la Germania non vorrà l’inflazione, attraverso una deflazione pura e semplice.

Il problema è che la deflazione – la caduta dei salari e dei prezzi – è sempre e dappertutto un processo assai doloroso. Esso provoca inveriabilmente una depressione prolungata ed una elevata disoccupazione. Inoltre, essa aggrava il problema del debito, sia di quello pubblico che di quello privato, in quanto i redditi cadono ma il peso del debito rimane.

Da qui la crisi. Le disgrazie finanziarie della Grecia resterebbero serie ma sarebbero probabilmente governabili, se le prospettive economiche greche nei prossimi anni risultassero anche modestamente favorevoli. Ma così non è. Agli inizi di questa settimana, quando ha abbassato la stima sul debito greco, Standards & Poor’s ha valutato che il valore in euro del PIL della Grecia potrebbe non ritornare ai livelli del 2008 sino al 2017, il che significa che la Grecia non ha alcuna speranza di tirarsi fuori dai guai per effetto della crescita.

La qualcosa era esattamente quello che faceva paura agli euro-scettici. Precludersi[453] la possibilità di aggiustare i tassi di cambio, avevano ammonito, avrebbe provocato crisi future. E così è stato.

Cosa accadrà, dunque, all’euro? Fino a poco tempo fa, gran parte degli analisti, compreso il sottoscritto, consideravano una rottura dell’euro fondamentalmente impossibile, dato che ogni governo che avesse anche solo fatto cenno alla possibilità di abbandonare l’euro[454] avrebbe provocato una crisi catastrofica nelle sue banche. Ma se i paesi oggi in crisi sono spinti verso il default[455], essi probabilmente dovrebbero far fronte comunque ad una crisi grave delle banche, il che li costringerebbe a misure di emergenza quali temporanee restrizioni dei prelievi bancari. E questo aprirebbe la porta all’uscita dall’euro.

Dunque, è l’euro stesso in pericolo? In una parola, è così. Se i dirigenti europei non cominciano ad agire con molta maggiore energia, fornendo alla Grecia quell’aiuto sufficiente ad evitare il peggio, una reazione a catena, che a partire dal default greco  finirebbe col provocare distruzioni assai maggiori, appare anche troppo possibile.

Nel frattempo, quali sono le lezioni per tutti gli altri?

I falchi del deficit stanno già cercando di impossessarsi della crisi europea, presentandola come un esempio da manuale[456] dei mali che provengono dai bilanci pubblici in rosso[457]. Quello che in realtà la crisi dimostra, tuttavia, son i pericoli che derivano dal ficcarsi dentro una politica da camicia di forza[458]. Entrando nell’euro, i governi di Grecia, Portogallo e Spagna si sono interdetti la possibilità di fare cose negative, come la messa in circolazione di una eccessiva quantità di moneta; ma si sono anche interdetti la possibilità di rispondere con flessibilità agli eventi.

Ma quando la crisi batte alle porte[459], i governi devono essere nelle condizioni di agire[460]. E’ questo quello che gli architetti dell’euro avevano trascurato, e che noi dobbiamo ricordarci.

 

 

 


 

Drilling, Disaster, Denial

By PAUL KRUGMAN

Published: May 2, 2010

It took futuristic technology to achieve one of the worst ecological disasters on record. Without such technology, after all, BP couldn’t have drilled the Deepwater Horizon well in the first place. Yet for those who remember their environmental history, the catastrophe in the gulf has a strangely old-fashioned feel, reminiscent of the events that led to the first Earth Day, four decades ago.

 

And maybe, just maybe, the disaster will help reverse environmentalism’s long political slide — a slide largely caused by our very success in alleviating highly visible pollution. If so, there may be a small silver lining to a very dark cloud.

 

 

Environmentalism began as a response to pollution that everyone could see. The spill in the gulf recalls the 1969 blowout that coated the beaches of Santa Barbara in oil. But 1969 was also the year the Cuyahoga River, which flows through Cleveland, caught fire. Meanwhile, Lake Erie was widely declared “dead,” its waters contaminated by algal blooms. And major U.S. cities — especially, but by no means only, Los Angeles — were often cloaked in thick, acrid smog.

 

 

 

 

It wasn’t that hard, under the circumstances, to mobilize political support for action. The Environmental Protection Agency was founded, the Clean Water Act was enacted, and America began making headway against its most visible environmental problems. Air quality improved: smog alerts in Los Angeles, which used to have more than 100 a year, have become rare. Rivers stopped burning, and some became swimmable again. And Lake Erie has come back to life, in part thanks to a ban on laundry detergents containing phosphates.

 

Yet there was a downside to this success story.

For one thing, as visible pollution has diminished, so has public concern over environmental issues. According to a recent Gallup survey, “Americans are now less worried about a series of environmental problems than at any time in the past 20 years.”

This decline in concern would be fine if visible pollution were all that mattered — but it isn’t, of course. In particular, greenhouse gases pose a greater threat than smog or burning rivers ever did. But it’s hard to get the public focused on a form of pollution that’s invisible, and whose effects unfold over decades rather than days.

 

 

Nor was a loss of public interest the only negative consequence of the decline in visible pollution. As the photogenic crises of the 1960s and 1970s faded from memory, conservatives began pushing back against environmental regulation.

 

Much of the pushback took the form of demands that environmental restrictions be weakened. But there was also an attempt to construct a narrative in which advocates of strong environmental protection were either extremists — “eco-Nazis,” according to Rush Limbaugh — or effete liberal snobs trying to impose their aesthetic preferences on ordinary Americans. (I’m sorry to say that the long effort to block construction of a wind farm off Cape Cod — which may finally be over thanks to the Obama administration — played right into that caricature.)

 

And let’s admit it: by and large, the anti-environmentalists have been winning the argument, at least as far as public opinion is concerned.

 

Then came the gulf disaster. Suddenly, environmental destruction was photogenic again.

For the most part, anti-environmentalists have been silent about the catastrophe. True, Mr. Limbaugh — arguably the Republican Party’s de facto leader — promptly suggested that environmentalists might have blown up the rig to head off further offshore drilling. But that remark probably reflected desperation: Mr. Limbaugh knows that his narrative has just taken a big hit.

 

For the gulf blowout is a pointed reminder that the environment won’t take care of itself, that unless carefully watched and regulated, modern technology and industry can all too easily inflict horrific damage on the planet.

 

Will America take heed? It depends a lot on leadership. In particular, President Obama needs to seize the moment; he needs to take on the “Drill, baby, drill” crowd, telling America that courting irreversible environmental disaster for the sake of a few barrels of oil, an amount that will hardly affect our dependence on imports, is a terrible bargain.

 

 

It’s true that Mr. Obama isn’t as well positioned to make this a teachable moment as he should be: just a month ago he announced a plan to open much of the Atlantic coast to oil exploration, a move that shocked many of his supporters and makes it hard for him to claim the moral high ground now.

 

But he needs to get beyond that. The catastrophe in the gulf offers an opportunity, a chance to recapture some of the spirit of the original Earth Day. And if that happens, some good may yet come of this ecological nightmare.

 

“Perforazioni, disastri e sconfessioni[461]” di Paul Krugman

New York Times 2 maggio 2010

Ci voleva una tecnologia futuristica per provocare uno dei più grandi disastri della storia. Senza tale tecnologia, dopo tutto, la BP non avrebbe potuto mai perforare il pozzo della Deepwater Horizon. Tuttavia, per coloro che ricordano la nostra storia ambientale, la catastrofe nel Golfo provoca una strana sensazione di cosa già vista[462], riportando alla memoria fatti che, quarant’anni fa, ci portarono al primo Earth Day[463].

E può darsi, dico soltanto può darsi, che il disastro serva ad invertire la lunga scivolata politica dell’ambientalismo; una scivolata largamente provocata dai reali successi che si sono ottenuti nel mitigare gli aspetti maggiormente visibili dell’inquinamento. Se così fosse, ci potrebbe essere un piccolo motivo di speranza in questo frangente nerissimo[464].

L’ambientalismo prese le mosse come reazione ad un inquinamento che tutti potevano constatare. Lo sversamento nel Golfo ricorda la fuoriuscita del 1969, che ricoprì di petrolio le spiagge di Santa Barbara[465]. Ma il 1969 fu anche l’anno in cui prese fuoco il Cuyahoga River, che scorre attraverso Cleveland [466].  Contemporaneamente, il lago Erie [467], le cui acque furono contaminate da una straordinaria fioritura di alghe, venne dichiarato in gran parte “morto”. E, sempre in quell’anno, le principali città americane – in particolare, ma certo non soltanto, Los Angeles – furono frequentemente coperte da uno smog spesso ed acre.

Non fu certo difficile, in quelle circostanze, mobilitare il sostegno politico per una immediata iniziativa. Venne istituita la Environmental Protection Agency [468], fu approvata la Clean Water Act [469], e l’America cominciò a fare progressi nella lotta contro i suoi più evidenti problemi ambientali. La qualità dell’aria migliorò; le emergenze per lo smog in Los Angeles, che avevano una frequenza superiore alle cento volte all’anno, divennero rare. I fiumi smisero di bruciare,  in qualcuno si ricominciò a fare il bagno.  E il Lago Erie è tornato a vivere, in parte grazie alla messa al bando dei detergenti  di lavanderia contenenti fosfati.

Tuttavia, questa storia di successi ebbe il suo lato negativo.

In primo luogo, come diminuì l’inquinamento più visibile, nello stesso modo diminuì l’interesse della gente alle questioni ambientali. Secondo un recente sondaggio Gallup “Gli Americani sono oggi meno preoccupati a di una serie di problemi ambientali, che in nessun altro momento negli ultimi vent’anni”.

In quel calo dell’interesse non ci sarebbe niente di male, se l’inquinamento visibile fosse l’unico problema, ma così non è, ovviamente. In particolare, i gas serra costituiscono una sfida più grande dello smog o dei fiumi che prendono fuoco. Ma è difficile ottenere che l’attenzione della gente si concentri su una forma di inquinamento invisibile, i cui effetti si distribuiranno nei decenni e non certo nei giorni.

La caduta del pubblico interesse, non è stata l’unica conseguenza negativa della diminuizione dell’inquinamento visibile. Nel momento in cui le crisi ‘fotogeniche’ degli anni 60 e 70 hanno cominciato a svanire dalla nostra memoria, i conservatori hanno ricominciato a fare pressioni contro le regole ambientali.

In gran parte, queste pressioni hanno preso la forma di richieste per una attenuazione delle restrizioni ambientali. Ma c’è stato anche un tentativo di mettere in piedi una ricostruzione[470] secondo la quale i sostenitori di una energica protezione dell’ambiente – gli “econazisti”, secondo Rush Limbaugh – sarebbero o estremisti o decadenti[471] snobs liberal, che cercano di imporre le loro preferenze estetiche agli americani normali ( dispiace dover dire che il lungo impegno per bloccare la costruzione di un impianto eolico al largo di Cape Cod [472]che alla fine è stato superato grazie alla amministrazione Obama – sia stato in episodio inscrivibile in quella caricatura[473]).

In linea di massima si deve riconoscere che, in questo confronto, gli anti-ambientalisti la stanno avendo vinta[474], almeno per quanto riguarda l’attenzione dell’opinione pubblica.

E’ a questo punto che è arrivato il disastro del Golfo. Improvvisamente, la distruzione ambientale è tornata ad essere fotogenica.

Gli anti-ambientalisti, per la maggior parte, sono rimasti in silenzio sulla catastrofe. E’ vero, il signor Limbaugh – che ormai appare come un dirigente di fatto del Partito Repubblicano – ha prontamente suggerito che gli ambientalisti potrebbero aver fatto saltare la piattaforma[475] allo scopo di impedire[476] ulteriori perforazioni di pozzi in alto mare. Ma si è trattato di una osservazione indicativa di uno stato di disperazione: Limbaugh sa che con questa storia si è solo procurato discredito[477].

Perché lo sversamento nel Golfo è un significativo avvertimento del fatto che l’ambiente non prenderà cura di se stesso, e che, se non accuratamente sorvegliate e regolamentate, la tecnologia e l’industria moderne possono anche troppo facilmente infliggere danni terrificanti al pianeta.

Saprà prestarvi ascolto[478], l’America? Dipenderà in gran parte dalla sua guida. In particolare, c’è bisogno che il Presidente Obama sia tempestivo[479]; egli deve guardare in faccia[480] la gente che via dietro al famigerato slogan del “Trivella, ragazzo, trivella”[481], dicendo all’America che sfidare un disastro ambientale irreversibile per il vantaggio di un po’ di barili di petrolio, per quantità che influirebbero assai modestamente[482] sulla nostra dipendenza dalle importazioni, sarebbe uno scambio folle.

E’ vero che Obama non è nelle condizioni ideali per rendere istruttiva come pur dovrebbe questa vicenda: solo il mese scorso egli annunciò il programma della apertura di gran parte dello coste dell’Atlantico alle esplorazioni di petrolio, una mossa che disorientò un buon numero dei suoi sostenitori e che adesso gli rende difficile assumere un atteggiamento moralistico[483].

Ma egli deve riuscire a superare tutto ciò. La catastrofe del Golfo gli offre un’occasione, l’opportunità di riappropriarsi di un po’ dello spirito originario dell’ Earth Day. Se ciò accadrà, nonostante tutto, qualcosa di buono sarà scaturito da questo incubo ecologico.

 

 

 


 

A Money Too Far

By PAUL KRUGMAN

Published: May 6, 2010

So, is Greece the next Lehman? No. It isn’t either big enough or interconnected enough to cause global financial markets to freeze up the way they did in 2008. Whatever caused that brief 1,000-point swoon in the Dow, it wasn’t justified by actual events in Europe.

 

 

Nor should you take seriously analysts claiming that we’re seeing the start of a run on all government debt. U.S. borrowing costs actually plunged on Thursday to their lowest level in months. And while worriers warned that Britain could be the next Greece, British rates also fell slightly.

 

 

That’s the good news. The bad news is that Greece’s problems are deeper than Europe’s leaders are willing to acknowledge, even now — and they’re shared, to a lesser degree, by other European countries. Many observers now expect the Greek tragedy to end in default; I’m increasingly convinced that they’re too optimistic, that default will be accompanied or followed by departure from the euro.

 

In some ways, this is a chronicle of a crisis foretold. I remember quipping, back when the Maastricht Treaty setting Europe on the path to the euro was signed, that they chose the wrong Dutch city for the ceremony. It should have taken place in Arnhem, the site of World War II’s infamous “bridge too far,” where an overly ambitious Allied battle plan ended in disaster.

 

 

The problem, as obvious in prospect as it is now, is that Europe lacks some of the key attributes of a successful currency area. Above all, it lacks a central government.

 

 

Consider the often-made comparison between Greece and the state of California. Both are in deep fiscal trouble, both have a history of fiscal irresponsibility. And the political deadlock in California is, if anything, worse — after all, despite the demonstrations, Greece’s Parliament has, in fact, approved harsh austerity measures.

 

But California’s fiscal woes just don’t matter as much, even to its own residents, as those of Greece. Why? Because much of the money spent in California comes from Washington, not Sacramento. State funding may be slashed, but Medicare reimbursements, Social Security checks, and payments to defense contractors will keep on coming.

 

 

What this means, among other things, is that California’s budget woes won’t keep the state from sharing in a broader U.S. economic recovery. Greece’s budget cuts, on the other hand, will have a strong depressing effect on an already depressed economy.

 

So is a debt restructuring — a polite term for partial default — the answer? It wouldn’t help nearly as much as many people imagine, because interest payments only account for part of Greece’s budget deficit. Even if it completely stopped servicing its debt, the Greek government wouldn’t free up enough money to avoid savage budget cuts.

 

 

The only thing that could seriously reduce Greek pain would be an economic recovery, which would both generate higher revenues, reducing the need for spending cuts, and create jobs. If Greece had its own currency, it could try to engineer such a recovery by devaluing that currency, increasing its export competitiveness. But Greece is on the euro.

 

 

So how does this end? Logically, I see three ways Greece could stay on the euro.

 

First, Greek workers could redeem themselves through suffering, accepting large wage cuts that make Greece competitive enough to add jobs again. Second, the European Central Bank could engage in much more expansionary policy, among other things buying lots of government debt, and accepting — indeed welcoming — the resulting inflation; this would make adjustment in Greece and other troubled euro-zone nations much easier. Or third, Berlin could become to Athens what Washington is to Sacramento — that is, fiscally stronger European governments could offer their weaker neighbors enough aid to make the crisis bearable.

 

 

The trouble, of course, is that none of these alternatives seem politically plausible.

 

What remains seems unthinkable: Greece leaving the euro. But when you’ve ruled out everything else, that’s what’s left.

 

If it happens, it will play something like Argentina in 2001, which had a supposedly permanent, unbreakable peg to the dollar. Ending that peg was considered unthinkable for the same reasons leaving the euro seems impossible: even suggesting the possibility would risk crippling bank runs. But the bank runs happened anyway, and the Argentine government imposed emergency restrictions on withdrawals. This left the door open for devaluation, and Argentina eventually walked through that door.

 

 

If something like that happens in Greece, it will send shock waves through Europe, possibly triggering crises in other countries. But unless European leaders are able and willing to act far more boldly than anything we’ve seen so far, that’s where this is heading.

 

“Una moneta troppo lontana[484]”  di Paul Krugman

New York Times  6 maggio 2010

Dunque è la Grecia la prossima Lehman? No. La sua economia non è né grande a sufficienza, né talmente interconnessa da provocare nei mercati finanziari quel blocco che si determinò nel 2008. Per quanto abbia provocato una specie di breve svenimento[485] del peso di 1000 punti nel Dow[486], esso non era giustificato in relazione alle effettive vicende euroepee.

Non dovreste prendere sul serio quegli economisti che sostengono che staremmo assistendo all’inizio di un effetto domino su tutti i titoli di debito statali. Il costo del debito americano è, in realtà, sceso giovedì al livello minimo degli ultimi mesi. E mentre quei soggetti ansiosi[487] ammonivano che la Gran Bretagna sarebbe stata la prossima Grecia, anche i tassi inglesi calavano leggermente.

Questa è la buona notizia. La cattiva è che i problemi della Grecia sono più seri di quanto non vogliano riconoscere neanche a questo punto i dirigenti europei, e sono condivisi, ad un gradino inferiore, da altri paesi europei. Molti osservatori si aspettano che la tragedia della Grecia finisca in un fallimento per morosità; io sono sempre più convinto che essi siano troppo ottimisti, e che quel fallimento sarà accompagnato o seguito da un’uscita dall’euro.

In tutti i modi, questa è una cronaca di una crisi annunciata. Io ricordo una battuta, nei tempi nei quali veniva firmato il Trattato di Maastricht, che avviò l’Europa sul sentiero dell’euro, secondo la quale essi avevano scelto la città tedesca sbagliata per quella cerimonia. Avrebbe dovuto aver luogo ad Arnhem, il luogo del famigerato “ponte troppo lontano”[488] della Seconda Guerra Mondiale, dove un esageratamente ambizioso piano di battaglia degli alleati si concluse con una disfatta.

Il problema, che appare ovvio sia sul momento che nella prospettiva futura, è che all’Europa mancano alcune delle condizioni chiave perché un’area valutaria abbia successo. Soprattutto, gli manca un governo centrale.

Si consideri il confronto, al quale si ricorre sempre, tra la Grecia e lo Stato della California. Hanno entrambe grandi guai finanziari ed hanno entrambe alle spalle una storia di irresponsabilità finanziaria. L’impasse politico, in California, è semmai ancora più grave: dopotutto, nonostante le dimostrazioni, il Parlamento Greco ha effettivamente approvato rigide misure di austerità.

Ma le disgrazie finanziarie della California non preoccupano così tanto, neppure i suoi stessi residenti, come quelle della Grecia. Perché? Perché gran parte dei soldi che si spendono in California provengono da Washington, non da Sacramento[489]. I fondi dello Stato possono essere ridotti drasticamente, ma i rimborsi di Medicare, gli assegni della Sicurezza Sociale, i pagamenti per gli appalti delle Forze Armate continueranno ad arrivare.

Questo implica, tra l’altro, che i guai del bilancio della California non porteranno quello Stato a non condividere i vantaggi di una più generale ripresa degli Stati Uniti. Al contrario, i tagli del bilancio in Grecia avranno un effetto fortemente depressivo su un’economia già depressa.

Dunque, la risposta sarebbe la cosiddetta ristrutturazione del debito, che è un termine elegante per definire un mezzo fallimento? In realtà, essa servirebbe molto meno di quanto alcuni si immaginano, perché il pagamento degli interessi costituisce solo una parte del deficit del bilancio della Grecia. Persino se fosse completamente esentato dal servizio del debito[490], il governo greco non libererebbe risorse finanziarie sufficienti ad evitare selvaggi tagli al bilancio.

L’unica cosa che potrebbe seriamente ridurre le sofferenze della Grecia sarebbe una ripresa economica, che produrrebbe sia entrate più elevate, sia una minore necessità di tagli alla spesa, e creerebbe posti di lavoro. Se la Grecia avesse una propria moneta, essa potrebbe provare a progettare una ripresa del genere ricorrendo ad una svalutazione della valuta e accrescendo la sua competitività nelle esportazioni. Ma la Grecia è nell’euro.

Dunque, come andrà a finire? Da un punto di vista logico, io vedo tre condizioni perché la Grecia resti nell’euro.

La prima, il lavoratori greci potrebbero riscattarsi passando attraverso sofferenze e accettando ampi tagli ai salari, che renderebbero la Grecia sufficientemente competitiva per produrre lavoro aggiuntivo. La seconda, la Banca Centrale Europea dovrebbe impegnarsi un una politica molto più espansiva, tra l’altro acquistando buona parte del debito dello stato ed accettando, anzi dando il benvenuto[491], ad una conseguente inflazione; questo provocherebbe molto più facilmente un riequilibrio in Grecia e nelle altre nazioni problematiche dell’euro-zona. In terzo luogo, Berlino dovrebbe diventare per Atene quello che Washington è per Sacramento, ovvero, gli stati[492] finanziariamente più forti dell’Europa dovrebbero offrire ai loro vicini più deboli aiuto sufficiente per rendere la crisi sopportabile.

Il guaio, naturalmente, è che nessuna di queste alternative appare politicamente praticabile.

Rimane una prospettiva impensabile: che la Grecia esca dall’euro. Ma quando si è esclusa ogni altra possibilità, questo è quello che resta.

Se ciò accadrà, sarà un caso simile a quello dell’Argentina nel 2001, la cui valuta aveva un ancoraggio[493] che si supponeva permanente e indistruttibile col dollaro. Interrompere quel legame era considerato impensabile per le stesse ragioni per le quali appare impossibile abbandonare l’euro: anche solo ipotizzare quella eventualità avrebbe rischiato di provocare un devastante assalto agli sportelli delle banche. Ma l’assalto ci fu in ogni modo, e il governo dell’Argentina impose limitazioni di emergenza sui prelievi. In questo modo si spalancò la porta alla svalutazione, e l’Argentina effettivamente passò per quella porta.

Se accadrà anche in Grecia qualcosa di simile, si diffonderanno ondate destabilizzanti per l’Europa, con la possibilità di innescare crisi anche in altri paesi. Ma se i dirigenti europei non sono capaci e non hanno la volontà di assumere iniziative molto più coraggiose di quanto non si sia visto sinora, la direzione sarà questa.

 

 


 

Sex & Drugs & the Spill

By PAUL KRUGMAN
Published: May 9, 2010

 “Obama’s Katrina”: that was the line from some pundits and news sources, as they tried to blame the current administration for the gulf oil spill. It was nonsense, of course. An Associated Press review of the Obama administration’s actions and statements as the disaster unfolded found “little resemblance” to the shambolic response to Katrina — and there has been nothing like those awful days when everyone in the world except the Bush inner circle seemed aware of the human catastrophe in New Orleans.

 

 

 

Yet there is a common thread running through Katrina and the gulf spill — namely, the collapse in government competence and effectiveness that took place during the Bush years.

The full story of the Deepwater Horizon blowout is still emerging. But it’s already obvious both that BP failed to take adequate precautions, and that federal regulators made no effort to ensure that such precautions were taken.

 

For years, the Minerals Management Service, the arm of the Interior Department that oversees drilling in the gulf, minimized the environmental risks of drilling. It failed to require a backup shutdown system that is standard in much of the rest of the world, even though its own staff declared such a system necessary. It exempted many offshore drillers from the requirement that they file plans to deal with major oil spills. And it specifically allowed BP to drill Deepwater Horizon without a detailed environmental analysis.

 

Surely, however, none of this — except, possibly, that last exemption, granted early in the Obama administration — surprises anyone who followed the history of the Interior Department during the Bush years.

 

For the Bush administration was, to a large degree, run by and for the extractive industries — and I’m not just talking about Dick Cheney’s energy task force. Crucially, management of Interior was turned over to lobbyists, most notably J. Steven Griles, a coal-industry lobbyist who became deputy secretary and effectively ran the department. (In 2007 Mr. Griles pleaded guilty to lying to Congress about his ties to Jack Abramoff.)

 

 

 

Given this history, it’s not surprising that the Minerals Management Service became subservient to the oil industry — although what actually happened is almost too lurid to believe. According to reports by Interior’s inspector general, abuses at the agency went beyond undue influence: there was “a culture of substance abuse and promiscuity” — cocaine, sexual relationships with industry representatives, and more. Protecting the environment was presumably the last thing on these government employees’ minds.

 

 

Now, President Obama isn’t completely innocent of blame in the current spill. As I said, BP received an environmental waiver for Deepwater Horizon after Mr. Obama took office. It’s true that he’d only been in the White House for two and half months, and the Senate wouldn’t confirm the new head of the Minerals Management Service until four months later. But the fact that the administration hadn’t yet had time to put its stamp on the agency should have led to extra caution about giving the go-ahead to projects with possible environmental risks.

 

 

And it’s worth noting that environmentalists were bitterly disappointed when Mr. Obama chose Ken Salazar as secretary of the interior. They feared that he would be too friendly to mineral and agricultural interests, that his appointment meant that there wouldn’t be a sharp break with Bush-era policies — and in this one instance at least, they seem to have been right.

 

In any case, now is the time to make that break — and I don’t just mean by cleaning house at the Minerals Management Service. What really needs to change is our whole attitude toward government. For the troubles at Interior weren’t unique: they were part of a broader pattern that includes the failure of banking regulation and the transformation of the Federal Emergency Management Agency, a much-admired organization during the Clinton years, into a cruel joke. And the common theme in all these stories is the degradation of effective government by antigovernment ideology.

 

 

 

Mr. Obama understands this: he gave an especially eloquent defense of government at the University of Michigan’s commencement, declaring among other things that “government is what ensures that mines adhere to safety standards and that oil spills are cleaned up by the companies that caused them.”

 

Yet antigovernment ideology remains all too prevalent, despite the havoc it has wrought. In fact, it has been making a comeback with the rise of the Tea Party movement. If there’s any silver lining to the disaster in the gulf, it is that it may serve as a wake-up call, a reminder that we need politicians who believe in good government, because there are some jobs only the government can do.

 

“Sesso, droga e sversamenti di petrolio” di Paul Krugman

New York Times 9 maggio 2010

“La Katrina di Obama”: questa è stata la linea di qualche addetto ai lavori e di qualche agenzia di stampa, nel tentativo di dare una responsabilità nella fuoriuscita di petrolio nel Golfo alla amministrazione in carica. Non aveva alcuna logica, naturalmente. Un resoconto dell’Associated Press sulle iniziative e sulle dichiarazioni della amministrazione Obama dal momento in cui il disastro sé è sviluppato, ha individuato una “somiglianza assai modesta” con la risposta caotica[494] che venne data all’uragano Katrina, non essendoci stato niente di paragonabile a quei terribili giorni, quando ognuno al mondo, ad eccezione del gruppo ristretto attorno a Bush, sembrò consapevole della catastrofe umana di New Orleans.

Tuttavia c’è un filo rosso che collega Katrina e lo sversamento del Golfo: precisamente, il collasso della competenza e della efficacia dello Stato, che cominciò a prender piede negli anni della amministrazione Bush.

La vera storia del guasto[495] all’impianto del Deepwater Horizon non è ancora emersa. Ma è già chiaro che BP non seppe prendere adeguate precauzioni e che gli addetti federali alla vigilanza non fecero alcuno sforzo per assicurarsi che quelle precauzioni venissero prese.

Per anni il Minerals Management Service, lo strumento del Dipartimento degli Interni che sovrintende all’estrazione di petrolio nel Golfo, ha minimizzato i rischi di quella attività. Esso non ha saputo imporre un meccanismo automatico di interruzione[496] che è normale in gran parte del mondo, anche se i propri addetti lo avevano definito necessario. Ha esentato gran parte delle estrazioni oceaniche dall’obbligo di presentare programmi per fronteggiare gravi fuoriuscite di petrolio. E in particolare ha concesso alla BP di trivellare a Deepwater Horizon senza una dettagliata analisi di impatto ambientale.

E’ certo, tuttavia, che nessuna di queste responsabilità – ad eccezione, forse, dell’ultima esenzione, accordata agli inizi della amministrazione Obama – costituisce elemento di sorpresa per chi abbia seguito la storia del Dipartimento degli Interni negli anni di Bush.

Il fatto è che la amministrazione Bush era in larga misura governata da e per l’industria estrattiva, e non mi riferisco soltanto al gruppo incaricato delle questioni energetiche di Dick Cheney. La gestione degli Interni venne affidata, con effetti decisivi, ai lobbisti, in particolare a J. Steven Griles, un lobbista dell’industria mineraria che divenne vice Segretario ed effettivamente prese la direzione del Dipartimento (nel 2007 Griles ammise la sua colpevolezza per aver mentito al Congresso a proposito dei suoi rapporti con Jack Abramoff[497]).

Con storie del genere, non c’è da restare stupiti se il Minerals Management Service si fosse messo al servizio dell’industria petrolifera, sebbene quanto effettivamente accadde fu talmente sporco da apparire incredibile. Secondo i resoconti dell’Ispettore Generale degli Interni, gli abusi presso l’Agenzia andarono ben oltre le pressioni indebite[498]: ci fu “una cultura di abusi sostanziali e di sregolatezza[499]” – cocaina, relazioni sessuali con rappresentanti dell’industria, ed altro ancora. Si può immaginare che la protezione dell’ambiente fosse l’ultimo dei problemi per questi servitori dello Stato.

Ora, il Presidente Obama non è completamente privo di responsabilità nella faccenda della fuoriuscita del petrolio. Come ho detto, BP ricevette una deroga su aspetti ambientali concernenti Deepwater Horizon, dopo che Obama entrò nell’incarico. E’ vero che egli era in carica alla Casa Bianca soltanto da due mesi e mezzo, e che il Senato non approvò la nuova direzione del Minerals Management Service se non quattro mesi dopo. Ma il fatto che la amministrazione non abbia avuto il tempo di mettere la sua impronta sull’Agenzia, avrebbe dovuto comportare forme di cautela straordinarie nel concedere il nulla-osta a progetti di possibile rischio per l’ambiente.

Ed è degno di nota il fatto che gli ambientalisti rimasero amaramente delusi al momento in cui Obama scelse Ken Salazar come Segretario degli Interni. Essi temevano che costui si sarebbe dimostrato troppo conciliante con gli interessi dei settori minerario ed agricolo, che la sua nomina non sarebbe apparsa come una netta rottura con le politiche dell’epoca di Bush, e in questo caso particolare non sembra che avessero torto.

In ogni caso, ora è il momento di mettere in atto questa rottura, e non mi riferisco soltanto al far pulizia negli ambienti del Minerals Management Service. Ciò che realmente serve è cambiare l’intero modo di concepire l’esercizio delle funzioni esecutive. Perché i guai degli Interni non sono stati gli unici: essi sono stati un aspetto di un modello più generale, che include il fallimento delle funzioni di vigilanza bancarie come la trasformazione della Federal Emergency Management Agency[500] – una organizzazione assai ammirata durante gli anni di Clinton – in una sorta di burla crudele[501]. E il minimo comune denominatore di tutte queste storie è il degrado delle funzioni di governo al quale ha condotto una ideologia antigovernamentale.

Obama mostra di comprenderlo: alla cerimonia dell’Università del Michigan egli si è espresso per un sostegno particolarmente significativo delle funzioni di governo. dichiarando tra le altre cose che “il governo è quella cosa che garantisce che le miniere rispettino le norme di sicurezza e che agli sversamenti di petrolio sia posto rimedio da parte di chi li ha causati”.

Tuttavia, l’ideologia antigovernamentale resta ancora troppo prevalente, a dispetto dei disastri che ha provocato. In pratica, c’è stato un ritorno di quell’ideologia con la ascesa del movimento del Tea Party. Se c’è un motivo di speranza[502] nel disastro del Golfo, se c’è qualcosa che può servire da sveglia, è l’ammonimento che ci servono uomini politici che credono nel buon governo, perché ci sono alcuni compiti ai quali solo il governo può corrispondere.   

 

 


 

We’re Not Greece

By PAUL KRUGMAN
Published: May 13, 2010

It’s an ill wind that blows nobody good, and the crisis in Greece is making some people — people who opposed health care reform and are itching for an excuse to dismantle Social Security — very, very happy. Everywhere you look there are editorials and commentaries, some posing as objective reporting, asserting that Greece today will be America tomorrow unless we abandon all that nonsense about taking care of those in need.

 

The truth, however, is that America isn’t Greece — and, in any case, the message from Greece isn’t what these people would have you believe.

So, how do America and Greece compare?

 

Both nations have lately been running large budget deficits, roughly comparable as a percentage of G.D.P. Markets, however, treat them very differently: The interest rate on Greek government bonds is more than twice the rate on U.S. bonds, because investors see a high risk that Greece will eventually default on its debt, while seeing virtually no risk that America will do the same. Why?

 

 

One answer is that we have a much lower level of debt — the amount we already owe, as opposed to new borrowing — relative to G.D.P. True, our debt should have been even lower. We’d be better positioned to deal with the current emergency if so much money hadn’t been squandered on tax cuts for the rich and an unfunded war. But we still entered the crisis in much better shape than the Greeks.

 

 

Even more important, however, is the fact that we have a clear path to economic recovery, while Greece doesn’t.

The U.S. economy has been growing since last summer, thanks to fiscal stimulus and expansionary policies by the Federal Reserve. I wish that growth were faster; still, it’s finally producing job gains — and it’s also showing up in revenues. Right now we’re on track to match Congressional Budget Office projections of a substantial rise in tax receipts. Put those projections together with the Obama administration’s policies, and they imply a sharp fall in the budget deficit over the next few years.

 

 

Greece, on the other hand, is caught in a trap. During the good years, when capital was flooding in, Greek costs and prices got far out of line with the rest of Europe. If Greece still had its own currency, it could restore competitiveness through devaluation. But since it doesn’t, and since leaving the euro is still considered unthinkable, Greece faces years of grinding deflation and low or zero economic growth. So the only way to reduce deficits is through savage budget cuts, and investors are skeptical about whether those cuts will actually happen.

 

 

It’s worth noting, by the way, that Britain — which is in worse fiscal shape than we are, but which, unlike Greece, hasn’t adopted the euro — remains able to borrow at fairly low interest rates. Having your own currency, it seems, makes a big difference.

 

 

In short, we’re not Greece. We may currently be running deficits of comparable size, but our economic position — and, as a result, our fiscal outlook — is vastly better.

 

That said, we do have a long-run budget problem. But what’s the root of that problem? “We demand more than we’re willing to pay for,” is the usual line. Yet that line is deeply misleading.

 

First of all, who is this “we” of whom people speak? Bear in mind that the drive to cut taxes largely benefited a small minority of Americans: 39 percent of the benefits of making the Bush tax cuts permanent would go to the richest 1 percent of the population.

 

And bear in mind, also, that taxes have lagged behind spending partly thanks to a deliberate political strategy, that of “starve the beast”: conservatives have deliberately deprived the government of revenue in an attempt to force the spending cuts they now insist are necessary.

Meanwhile, when you look under the hood of those troubling long-run budget projections, you discover that they’re not driven by some generalized problem of overspending. Instead, they largely reflect just one thing: the assumption that health care costs will rise in the future as they have in the past. This tells us that the key to our fiscal future is improving the efficiency of our health care system — which is, you may recall, something the Obama administration has been trying to do, even as many of the same people now warning about the evils of deficits cried “Death panels!”

 

 

 

So here’s the reality: America’s fiscal outlook over the next few years isn’t bad. We do have a serious long-run budget problem, which will have to be resolved with a combination of health care reform and other measures, probably including a moderate rise in taxes. But we should ignore those who pretend to be concerned with fiscal responsibility, but whose real goal is to dismantle the welfare state — and are trying to use crises elsewhere to frighten us into giving them what they want.

 

“Non siamo la Grecia” di Paul Krugman

New York Times 13 maggio 2009

 

E’ un brutto vento[503] che non porta niente di buono questa crisi in Grecia, e fa la felicità di un certo gruppo di persone – quelli che si erano opposti alla riforma della assistenza sanitaria ed ora, con questa scusa, hanno la voglia matta di smantellare il sistema della Sicurezza Sociale. Dovunque ci si giri, si trovano editoriali e commenti, alcuni con la pretesa dei resoconti oggettivi, che giurano che la Grecia di oggi sarà l’America di domani, se non si abbandona la pretesa insensata di aver cura di chi ne ha bisogno.

La verità, tuttavia, è che l’America non è la Grecia, e, in ogni caso, il messaggio che viene dalla Grecia non è quello che costoro ci vorrebbero far credere.

Qual è, dunque, il confronto che può esser fatto tra la Grecia e l’America?

Entrambe le nazioni si sono trovate di recente a gestire ampi deficit di bilancio, grosso modo per una percentuale analoga del PIL. I mercati, tuttavia, trattano questi due casi in modi diversi: in Grecia il tasso di interesse sui bonds dello Stato è il doppio di quello americano, dato che gli investitori intuiscono un elevato rischio di fallimento per morosità della Grecia, a causa del suo debito, mentre non percepiscono nessun rischio del genere nel caso dell’America. Come mai?

Una risposta è che noi abbiamo un livello di indebitamento – vale a dire l’ammontare dei nostri debiti complessivi, anziché il dato relativo ai nuovi debiti – che è molto inferiore, in relazione al PIL. A dire il vero, il nostro debito avrebbe dovuto essere ancora più basso. Saremmo posizionati molto meglio nel far fronte alla attuale emergenza se non avessimo sperperato grandi quantità di denaro nei tagli fiscali ai ricchi e in una guerra priva di coperture finanziarie. Ciononostante, noi abbiamo fatto il nostro ingresso nella crisi in condizioni molto più favorevoli dei Greci.

Ancora più importante, tuttavia, è il fatto che noi abbiamo un percorso chiaro verso la ripresa economica, mentre la Grecia non ce l’ha.

L’economia statunitense ha ricominciato a crescere dalla scorsa estate, grazie al programma di sostegno finanziario e alle politiche espansive della Federal Reserve. Avrei desiderato una crescita più rapida; comunque essa alla fine sta producendo incrementi di occupazione e produce i primi effetti sulle entrate[504]. In questo momento siamo in linea[505] con le previsioni del Congressional Budget Office di una crescita sostanziale nelle entrate fiscali. Se si considerano questi dati assieme alle politiche della amministrazione Obama, si può prevedere una consideravole discesa del deficit di bilancio entro i prossimi pochi anni.

D’altra parte, la Grecia è caduta in una trappola. Durante gli anni buoni, quando i capitali affluivano, i costi ed i prezzi della Grecia si sono considerevolmente disallineati da quelli del resto del’Europa. Se la Grecia avesse ancora la sua moneta, essa potrebbe recuperare competitività attraverso la svalutazione. Ma dal momento che non ce l’ha, e dal momento che abbandonare l’euro è considerato impensabile, la Grecia deve misurarsi con anni di brusca deflazione, con una crescita dell’economia pari a zero se non inferiore. Così, l’unico modo per ridurre i deficit sono tagli selvaggi al bilancio, e gli investitori sono scettici sul fatto che questi tagli vengano davvero messi in atto.

E’ degno di nota, per esempio, che l’Inghilterra, che è in condizioni finanziarie peggiori delle nostre, ma che, a differenza della Grecia, non ha aderito all’euro, resta capace di indebitarsi a tassi di interesse discretamente bassi. Avere una propria moneta, a quanto pare, fa una grande differenza.

In breve, non siamo come la Grecia. Al momento attuale noi possiamo gestire deficits di ragguardevoli dimensioni, ma la nostra posizione economica – e, di conseguenza, le nostre prospettive finanziarie – sono incomparabilmente migliori.

Ciò detto, abbiamo certamente un problema di bilancio di lungo periodo. Ma quale è la radice di quel problema? “Noi pretendiamo di più di quanto non possiamo pagare”, è la risposta usuale. Si tratta, tuttavia, di una risposta profondamente fuorviante.

Prima di tutto, chi sono i “noi” dei quali qualcuno parla? Teniamo presente che dalla manovra dei tagli fiscali ha beneficiato una piccola minoranza di americani: rendendo permanenti i tagli fiscali di Bush, il 39 per cento dei benefici andrebbero all’1 per cento della parte più ricca della popolazione.

E tenete anche a mente che le tasse sono rimaste indietro alla spesa in parte per effetto di una deliberata strategia che fu definita dell’ “affamare la bestia”: vale a dire che i conservatori ridussero deliberatamente le entrate statali nel tentativo di costringere a quei tagli della spesa pubblica che oggi tornano a definire come necessari.

Nel frattempo, se andate a vedere più precisamente[506] queste problematiche proiezioni di bilancio di lungo periodo, scoprirete che esse non sono provocate da alcun problema generale di spesa eccessiva. Piuttosto, esse dipendono in gran parte da un’unica circostanza: l’assunto che le spese per la assistenza sanitaria cresceranno in futuro nello stesso modo in cui sono cresciute in passato. Questo ci dice che la chiave del futuro delle nostre finanze è il miglioramento dell’efficienza del nostro sistema di assistenza sanitaria, la qualcosa, come ricorderete, è esattamente quello che la amministrazione Obama ha cercato di fare, nel momento in cui molti tra gli stessi soggetti che ora mettono in guardia dai guasti del deficit gridavano ai “tribunali della morte!”.

La realtà è dunque questa: le prospettive finanziarie dell’America nei prossimi anni non sono cattive. Noi avremo, nel più lungo periodo, un serio problema di bilancio, che potremo risolvere con una combinazione tra gli effetti della riforma della assistenza sanitaria ed altre misure, incluso probabilmente un moderato incremento delle tasse. Possiamo dunque permetterci di ignorare coloro che si presentano come i campioni della responsabilità finanziaria[507], e che hanno invece il reale obbiettivo di smantellare lo stato assistenziale[508], e che stanno cercando di utilizzare le crisi provenienti da ogni dove, per costringerci con la paura a concedere quello che vogliono.

 

 

  


 

Going to Extreme

By PAUL KRUGMAN
Published: May 16, 2010

Utah Republicans have denied Robert Bennett, a very conservative three-term senator, a place on the ballot, because he’s not conservative enough. In Maine, party activists have pushed through a platform calling for, among other things, abolishing both the Federal Reserve and the Department of Education. And it’s becoming ever more apparent that real power within the G.O.P. rests with the ranting talk-show hosts.

 

News organizations have taken notice: suddenly, the takeover of the Republican Party by right-wing extremists has become a story (although many reporters seem determined to pretend that something equivalent is happening to the Democrats. It isn’t.) But why is this happening? And in particular, why is it happening now?

 

The right’s answer, of course, is that it’s about outrage over President Obama’s “socialist” policies — like his health care plan, which is, um, more or less identical to the plan Mitt Romney enacted in Massachusetts. Many on the left argue, instead, that it’s about race, the shock of having a black man in the White House — and there’s surely something to that.

 

 

But I’d like to offer two alternative hypotheses: First, Republican extremism was there all along — what’s changed is the willingness of the news media to acknowledge it. Second, to the extent that the power of the party’s extremists really is on the rise, it’s the economy, stupid.

 

On the first point: when I read reports by journalists who are shocked, shocked at the craziness of Maine’s Republicans, I wonder where they’ve been these past eight or so electoral cycles. For the truth is that the hard right has dominated the G.O.P. for many years. Indeed, the new Maine platform is if anything a bit milder than the Texas Republican platform of 2000, which called not just for eliminating the Federal Reserve but also for returning to the gold standard, for killing not just the Department of Education but also the Environmental Protection Agency, and more.

 

Somehow, though, the radicalism of Texas Republicans wasn’t a story in 2000, an election year in which George W. Bush of Texas, soon to become president, was widely portrayed as a moderate.

 

Or consider those talk-show hosts. Rush Limbaugh hasn’t changed: his recent suggestion that environmentalist terrorists might have caused the ecological disaster in the gulf is no worse than his repeated insinuations that Hillary Clinton might have been a party to murder. What’s changed is his respectability: news organizations are no longer as eager to downplay Mr. Limbaugh’s extremism as they were in 2002, when The Washington Post’s media critic insisted that the radio host’s critics were the ones who had “lost a couple of screws,” that he was a sensible “mainstream conservative” who talks “mainly about policy.”

 

 

So why has the reporting shifted? Maybe it was just deference to power: as long as America was widely perceived as being on the way to a permanent Republican majority, few were willing to call right-wing extremism by its proper name. Maybe it took a Democrat in the White House to give some observers the courage to say the obvious.

 

 

To be fair, however, it’s not all a matter of perception. Right-wing extremism may be the same as it ever was, but it clearly has more adherents now than it did a couple of years ago. Why? It may have a lot to do with a troubled economy.

 

True, that’s not how it was supposed to work. When the economy plunged into crisis, many observers — myself included — expected a political shift to the left. After all, the crisis made nonsense of the right’s markets-know-best, regulation-is-always-bad dogma. In retrospect, however, this was naïve: voters tend to react with their guts, not in response to analytical arguments — and in bad times, the gut reaction of many voters is to move right.

 

That’s the message of a recent paper by the economists Markus Brückner and Hans Peter Grüner, who find a striking correlation between economic performance and political extremism in advanced nations: in both America and Europe, periods of low economic growth tend to be associated with a rising vote for right-wing and nationalist political parties. The rise of the Tea Party, in other words, was exactly what we should have expected in the wake of the economic crisis.

So where does our political system go from here? Over the near term, a lot will depend on economic recovery. If the economy continues to add jobs, we can expect some of the air to go out of the Tea Party movement.

 

 

But don’t expect extremists to lose their grip on the G.O.P. anytime soon. What we’re seeing in places like Utah and Maine isn’t really a change in the party’s character: it has been dominated by extremists for a long time. The only thing that’s different now is that the rest of the country has finally noticed.

 

“La deriva dell’estremismo” di Paul Krugman

New York Times 16 maggio 2010

I Repubblicani dello Utah hanno negato un posto nella scheda elettorale a Robert Bennet, un senatore di orientamento molto conservatore al terzo mandato, in quanto non abbastanza di destra. Nel Maine, gli attivisti del Partito hanno fatto passare una piattaforma con la quale viene chiesta, tra le altre cose, la abolizione della Federal Reserve e del Dipartimento dell’Istruzione. Ed è sempre più evidente che il potere reale, all’interno del G.O.P., risiede nei farneticanti conduttori[509] dei talk-show.

Gli organi di informazione[510] si sono accorti del fenomeno: improvvisamente  l’occupazione del Partito Repubblicano da parte degli estremisti di destra è diventata una vicenda molto seguita[511] (per quanto molti cronisti appaiano intenzionati a stabilire una equazione con quanto sta accadendo nel Partito Democratico, il che non è vero). Ma perché sta accadendo? E, in particolare, perchè sta accadendo oggi?

La risposta della destra, naturalmente, è che questo accade in reazione all’oltraggio delle politiche “socialiste” del Presidente Obama, come il suo programma di riforma della assistenza sanitaria, il quale, guarda un po’, è più o meno identico al programma deliberato dal repubblicano Mitt Romney in Massachusetts. Molti della sinistra ipotizzano, invece, che questo dipenderebbe dalla razza, ovvero dallo shock di avere un nero alla Casa Bianca, la qualcosa sicuramente in una qualche misura influisce.

Ma io desidero avanzare due considerazioni ulteriori[512]: la prima, che l’estremismo repubblicano sia un fenomeno non recente, e che l’unica cosa che è cambiata sia la volontà dei media di riconoscerlo. Per la seconda, nella misura in cui il potere degli estremisti del partito è realmente in crescita, è evidente che dipende dall’economia, stupidi![513]

Quanto al primo punto: quando leggo resoconti di giornalisti sbigottiti, sbigottiti ad esempio della follia dei repubblicani del Maine, mi chiedo con meraviglia dove fossero costoro in occasione degli ultimo otto, o giù di lì, appuntamenti elettorali. Perché la verità è che la destra estremista domina il G.O.P. da molti anni. In realtà, il nuovo programma del Maine è abbastanza mite rispetto alla piattaforma repubblicana del Texas nell’anno 2000, laddove si rivendicava non solo l’eliminazione della Federal Reserve, ma anche il ritorno al gold standard, nonché la liquidazione non solo del Dipartimento dell’Istruzione, ma anche della Agenzia di Protezione Ambientale, ed altro ancora.

Tuttavia, in qualche modo il radicalismo dei repubblicani del Texas non fece notizia[514] nel 2000, un anno elettorale nel quale George W. Bush, che sarebbe di lì a poco diventato Presidente, veniva descritto come un moderato.

Oppure, si consideri il caso dei conduttori di talk-show. Rush Limbaugh non è cambiato: la sua recente congettura che il terrorismo ambientalista potrebbe essere stato la causa del disastro ecologico nel Golfo non è peggiore delle ripetute insinuazioni secondo le quali Hillary Clinton avrebbe fatto parte di un gruppo di assassini. E’ cambiata la considerazione di cui gode: gli organi di informazione non sono più così solleciti nel minimizzare[515] l’estremismo del signor Limbaugh rispetto a quanto lo erano nel 2002, quando l’esperto di media[516] del The Washington Post sosteneva che i critici del conduttore erano individui “un po’ svitati[517]”, dato che egli era un sensato “importante conservatore” che parlava “principalmente di argomenti politici”.

Che cosa dunque è cambiato nell’informazione? Può darsi che si trattasse soltanto di deferenza verso il potere: finché l’America percepiva di essere alla vigilia di una eterna maggioranza dei Repubblicani, erano pochi coloro che  avevano la voglia di chiamare l’estremismo di destra col suo proprio nome. Può darsi che ci volesse un democratico alla Casa Bianca, per rifornire alcuni osservatori del coraggio di dire ciò che è avvio.

Per esser giusti, tuttavia, non è solo una faccenda di percezioni. Può darsi che l’estremismo di destra sia lo stesso che è sempre stato, ma esso ha chiaramente più aderenti di quanti non avesse due anni orsono. Perché? La cosa potrebbe non poco dipendere dalla crisi dell’economia.

E’ vero, non è andata come si poteva supporre[518]. Quando l’economia è piombata nella crisi, molti osservatori – compreso il sottoscritto – si aspettavano uno spostamento politico a sinistra. Dopotutto, la crisi aveva ridotto a insensatezze i dogma della destra, del mercato “onnisciente” e dello Stato sempre cattivo[519]. Retrospettivamente, tuttavia, era un giudizio un po’ ingenuo: gli elettori tendono a reagire con la pancia, piuttosto che a rispondere a sollecitazioni analitiche, e, in tempi cattivi, la pancia ha la tendenza a spostare molti elettori a destra[520].

Questo è l’argomento di un recente saggio degli economisti Markus Brückner e Hans Peter Grüner, che individuano una impressionante correlazione tra gli andamenti dell’economia e l’estremismo politico nelle nazioni avanzate: sia in America che in Europa, periodi di bassa crescita economica tendono ad essere associati a una crescita dei risultati elettorali della destra e dei partiti politici nazionalisti. La crescita del Tea Party, in altre parole, era esattamente quello che ci saremmo dovuti aspettare sulla scia della crisi economica.

Verso dove sta andando, dunque, il nostro sistema politico, d’ora innanzi? Nel breve periodo, in gran parte dipenderà dalla ripresa economica. Se l’economia continua a produrre lavoro, possiamo aspettarci un clima che ci farà venir fuori da fenomeni come il Tea Party.

Ma non possiamo comunque aspettarci che gli estremisti lascino in breve tempo la presa sul Partito Repubblicano. Quello che stiamo osservando in luoghi come l’Utah ed il Maine non è un reale cambiamento nel carattere di quel partito: esso è sotto il dominio degli estremisti ormai da lungo tempo. L’unica cosa diversa è che oggi, alla fine, il resto del paese se n’è accorto.

 

 


 

Lost Decade Looming?

By PAUL KRUGMAN
Published: May 20, 2010

Despite a chorus of voices claiming otherwise, we aren’t Greece. We are, however, looking more and more like Japan.

 

For the past few months, much commentary on the economy — some of it posing as reporting — has had one central theme: policy makers are doing too much. Governments need to stop spending, we’re told. Greece is held up as a cautionary tale, and every uptick in the interest rate on U.S. government bonds is treated as an indication that markets are turning on America over its deficits. Meanwhile, there are continual warnings that inflation is just around the corner, and that the Fed needs to pull back from its efforts to support the economy and get started on its “exit strategy,” tightening credit by selling off assets and raising interest rates.

 

 

And what about near-record unemployment, with long-term unemployment worse than at any time since the 1930s? What about the fact that the employment gains of the past few months, although welcome, have, so far, brought back fewer than 500,000 of the more than 8 million jobs lost in the wake of the financial crisis? Hey, worrying about the unemployed is just so 2009.

 

But the truth is that policy makers aren’t doing too much; they’re doing too little. Recent data don’t suggest that America is heading for a Greece-style collapse of investor confidence. Instead, they suggest that we may be heading for a Japan-style lost decade, trapped in a prolonged era of high unemployment and slow growth.

 

 

Let’s talk first about those interest rates. On several occasions over the past year, we’ve been told, after some modest rise in rates, that the bond vigilantes had arrived, that America had better slash its deficit right away or else. Each time, rates soon slid back down. Most recently, in March, there was much ado about the interest rate on U.S. 10-year bonds, which had risen from 3.6 percent to almost 4 percent. “Debt fears send rates up” was the headline at The Wall Street Journal, although there wasn’t actually any evidence that debt fears were responsible.

 

 

Since then, however, rates have retraced that rise and then some. As of Thursday, the 10-year rate was below 3.3 percent. I wish I could say that falling interest rates reflect a surge of optimism about U.S. federal finances. What they actually reflect, however, is a surge of pessimism about the prospects for economic recovery, pessimism that has sent investors fleeing out of anything that looks risky — hence, the plunge in the stock market — into the perceived safety of U.S. government debt.

 

 

What’s behind this new pessimism? It partly reflects the troubles in Europe, which have less to do with government debt than you’ve heard; the real problem is that by creating the euro, Europe’s leaders imposed a single currency on economies that weren’t ready for such a move. But there are also warning signs at home, most recently Wednesday’s report on consumer prices, which showed a key measure of inflation falling below 1 percent, bringing it to a 44-year low.

 

 

This isn’t really surprising: you expect inflation to fall in the face of mass unemployment and excess capacity. But it is nonetheless really bad news. Low inflation, or worse yet deflation, tends to perpetuate an economic slump, because it encourages people to hoard cash rather than spend, which keeps the economy depressed, which leads to more deflation. That vicious circle isn’t hypothetical: just ask the Japanese, who entered a deflationary trap in the 1990s and, despite occasional episodes of growth, still can’t get out. And it could happen here.

 

 

 

So what we should really be asking right now isn’t whether we’re about to turn into Greece. We should, instead, be asking what we’re doing to avoid turning Japanese. And the answer is, nothing.

 

 

It’s not that nobody understands the risk. I strongly suspect that some officials at the Fed see the Japan parallels all too clearly and wish they could do more to support the economy. But in practice it’s all they can do to contain the tightening impulses of their colleagues, who (like central bankers in the 1930s) remain desperately afraid of inflation despite the absence of any evidence of rising prices. I also suspect that Obama administration economists would very much like to see another stimulus plan. But they know that such a plan would have no chance of getting through a Congress that has been spooked by the deficit hawks.

 

 

In short, fear of imaginary threats has prevented any effective response to the real danger facing our economy.

 

Will the worst happen? Not necessarily. Maybe the economic measures already taken will end up doing the trick, jump-starting a self-sustaining recovery. Certainly, that’s what we’re all hoping. But hope is not a plan.

 

“Il rischio di un decennio perduto?[521]” di Paul Krugman

New York Times 20 maggio 2010

 A dispetto del coro di voci che sostengono il contrario, noi non siamo come la Grecia. Tuttavia, assomigliamo sempre di più al Giappone.

Negli ultimi mesi, gran parte dei commenti economici, alcuni dei quali presentati nella forma di cronache oggettive, hanno avuto un solo tema centrale: gli uomini politici stanno facendo troppo. Il Governo deve smetterla di spendere, ci è stato detto. Il caso greco viene agitato come un esempio ammonitore, ed ogni lieve salita[522] del tasso di interesse sui bonds americani è presentata come una indicazione che i mercati stanno attaccando l’America a causa dei suoi deficit. Nel frattempo, appaiono continui ammonimenti su una inflazione che sarebbe proprio dietro l’angolo, sul fatto che la Fed dovrebbe fare un passo indietro nel suo impegno al sostegno dell’economia, ed avviare una sua “strategia di uscita” con una stretta creditizia basata sulla vendita di assets e sul rialzo dei tassi di interesse.

E cosa si pensa dellla disoccupazione a livelli quasi da record, o del fatto che la disoccupazione di lungo periodo sia la più grave dal 1930? Cosa si pensa del fatto che l’incremento di occupati negli ultimi pochi mesi, per quanto benvenuto, ha all’incirca restituito meno di 500 mila posti di lavoro, rispetto ai più di 8 milioni andati persi sulla scia della crisi economica?  Suvvia, la preoccupazione dei disoccupati è del tutto simile al 2009!

Ma la verità è che i dirigenti politici non stanno facendo troppo, semmai stanno facendo poco. I dati recenti non indicano che l’America si stia dirigendo verso un collasso nella fiducia degli investitori del genere di quella della Grecia. Piuttosto, essi indicano che stiamo correndo il rischio di buttar via un decennio[523] come nel caso del Giappone, intrappolato in un’epoca prolungata di alta disoccupazione e di lenta crescita.

Ma vediamo anzitutto questa questione dei tassi di interesse. Ci è stato detto, in varie occasioni nel corso dell’ultimo anno, dopo una qualsiasi modificazione al rialzo dei tassi, che era venuto il momento dei “vigilanti” dei bonds, che l’America avrebbe dovuto immediatamente, o giù di lì, dare un taglio al deficit. Ogni volta, i tassi sono ridiscesi rapidamente. Più recentemente, in marzo, c’è stato un gran clamore attorno al tasso di interesse sui bonds statunitensi sui dieci anni, che era salito dal 3,6 per cento a quasi il 4 per cento. “La paura del debito spinge in alto i tassi” fu il titolo di  The Wall Street Journal, per quanto non ci fosse alcuna effettiva evidenza che la paura del debito fosse la causa di ciò.

Da allora, tuttavia, i tassi sono ridiscesi da quell’aumento e da altri ancora. Come giovedì, quando i tassi decennali erano sotto il 3,3 per cento. Verrebbe voglia di dire che la caduta dei saggi di interesse rifletta una crescita di ottimismo sullo stato delle finanze federali. Ciò che essa affettivamente riflette, tuttavia, è una crescita di pessimismo sulle prospettive di una ripresa dell’economia, pessimismo che ha spinto gli investitori a dileguarsi dinanzi ad ogni prodotto che appaia rischioso – da qua la caduta nel mercato azionario – per rifugiarsi in una percezione di  sicurezza del debito pubblico degli Stati Uniti.

Che cosa c’è dietro questo nuovo pessimismo? In parte esso riflette i guai dell’Europa, che hanno meno a che fare con il debito pubblico di quanto ci sia stato detto: il problema reale è che con la creazione dell’euro, i governanti europei hanno imposto un’unica valuta ad economie che non erano pronte per una scelta del genere. Ma ci sono anche segni di preoccupazioni interne, più di recente il rapporto sui prezzi al consumo di mercoledì, che ha fornito il dato fondamentale sulla caduta dell’inflazione al di sotto dell’1 per cento, portandola al livello più basso da 44 anni.

In effetti, questo non è sorprendente: ci si aspetta che l’inflazione cali in presenza di disoccupazione di massa e di eccesso di offerta. Ma si tratta, nondimeno, di una notizia davvero brutta. La bassa inflazione, o peggio ancora la deflazione, tendono a perpetuare la depressione economica, giacchè inducono la gente ad accumulare denaro anziché a spenderlo, che è la ragione per la quale l’economia si deprime, la qual cosa a sua volta provoca maggiore deflazione. E’ un circolo vizioso tutt’altro che ipotetico: basta chiederlo ai giapponesi, che entrarano nella trappola deflazionaria nel 1990 e, nonostante occasionali episodi di crescita, non hanno ancora trovato il modo di venirne fuori. E’ quanto potrebbe accadere in questo caso.

Dunque, quello che dovremmo davvero chiederci in questo momento non è se siamo vicini a diventare come la Grecia. Dovremmo chiederci, piuttosto, se stiamo facendo qualcosa per evitare di finire nelle condizioni dei giapponesi. E la risposta sarebbe che non stiamo facendo nulla.

Non è che nessuno capisca questo pericolo. Io ho il forte sospetto che qualche dirigente alla Fed veda anche troppo chiaramente questo parallelismo con il Giappone e vorrebbe che si facesse di più per il sostegno all’economia. Ma, in pratica, tutto quello che possono fare è contenere gli impulsi restrittivi dei loro colleghi, i quali (come i dirigenti della banca centrale negli anni 30) mantengono una disperante paura dell’inflazione pure in assenza di un qualsiasi segno di rialzo dei prezzi. Ho anche il sospetto che gli economisti della amministrazione Obama sarebbero molto lieti di poter varare un secondo programma di sostegno all’economia. Ma essi sanno che un programma del genere non avrebbe alcuna possibilità di essere approvato da un Congresso che subisce la soggezione dei falchi del deficit.

In poche parole, la paura di minacce immaginarie impedisce ogni concreta risposta al pericolo reale che si delinea dinanzi alla nostra economia.

Accadrà il peggio? Non necessariamente. Può darsi che le misure economiche già assunte finiranno per funzionare, dando impulso[524] ad una ripresa capace di alimentarsi da sola[525]. E’, senza dubbio, quello che tutti noi speriamo. Sennonché la speranza non è un programma. 

 

 

 


 

The Old Enemies

By PAUL KRUGMAN
Published: May 23, 2010

So here’s how it is: They’re as mad as hell, and they’re not going to take this anymore. Am I talking about the Tea Partiers? No, I’m talking about the corporations.

 

Much reporting on opposition to the Obama administration portrays it as a sort of populist uprising. Yet the antics of the socialism-and-death-panels crowd are only part of the story of anti-Obamaism, and arguably the less important part. If you really want to know what’s going on, watch the corporations.

 

How can you do that? Follow the money — donations by corporate political action committees.

Look, for example, at the campaign contributions of commercial banks — traditionally Republican-leaning, but only mildly so. So far this year, according to The Washington Post, 63 percent of spending by banks’ corporate PACs has gone to Republicans, up from 53 percent last year. Securities and investment firms, traditionally Democratic-leaning, are now giving more money to Republicans. And oil and gas companies, always Republican-leaning, have gone all out, bestowing 76 percent of their largess on the G.O.P.

 

 

These are extraordinary numbers given the normal tendency of corporate money to flow to the party in power. Corporate America, however, really, truly hates the current administration. Wall Street, for example, is in “a state of bitter, seething, hysterical fury” toward the president, writes John Heilemann of New York magazine. What’s going on?

 

 

One answer is taxes — not so much on corporations themselves as on the people who run them. The Obama administration plans to raise tax rates on upper brackets back to Clinton-era levels. Furthermore, health reform will in part be paid for with surtaxes on high-income individuals. All this will amount to a significant financial hit to C.E.O.’s, investment bankers and other masters of the universe.

 

 

Now, don’t cry for these people: they’ll still be doing extremely well, and by and large they’ll be paying little more as a percentage of their income than they did in the 1990s. Yet the fact that the tax increases they’re facing are reasonable doesn’t stop them from being very, very angry.

 

 

Nor are taxes the whole story.

Many Obama supporters have been disappointed by what they see as the administration’s mildness on regulatory issues — its embrace of limited financial reform that doesn’t break up the biggest banks, its support for offshore drilling, and so on. Yet corporate interests are balking at even modest changes from the permissiveness of the Bush era.

 

 

From the outside, this rage against regulation seems bizarre. I mean, what did they expect? The financial industry, in particular, ran wild under deregulation, eventually bringing on a crisis that has left 15 million Americans unemployed, and required large-scale taxpayer-financed bailouts to avoid an even worse outcome. Did Wall Street expect to emerge from all that without facing some new restrictions? Apparently it did.

 

 

 

So what President Obama and his party now face isn’t just, or even mainly, an opposition grounded in right-wing populism. For grass-roots anger is being channeled and exploited by corporate interests, which will be the big winners if the G.O.P. does well in November.

 

 

If this sounds familiar, it should: it’s the same formula the right has been using for a generation. Use identity politics to whip up the base; then, when the election is over, give priority to the concerns of your corporate donors. Run as the candidate of “real Americans,” not those soft-on-terror East coast liberals; then, once you’ve won, declare that you have a mandate to privatize Social Security. It comes as no surprise to learn that American Crossroads, a new organization whose goal is to deploy large amounts of corporate cash on behalf of Republican candidates, is the brainchild of none other than Karl Rove.

 

 

 

 

But won’t the grass-roots rebel at being used? Don’t count on it. Last week Rand Paul, the Tea Party darling who is now the Republican nominee for senator from Kentucky, declared that the president’s criticism of BP over the disastrous oil spill in the gulf is “un-American,” that “sometimes accidents happen.” The mood on the right may be populist, but it’s a kind of populism that’s remarkably sympathetic to big corporations.

 

So where does that leave the president and his party? Mr. Obama wanted to transcend partisanship. Instead, however, he finds himself very much in the position Franklin Roosevelt described in a famous 1936 speech, struggling with “the old enemies of peace — business and financial monopoly, speculation, reckless banking, class antagonism, sectionalism, war profiteering.”

 

 

And that’s not necessarily a bad thing. Roosevelt turned corporate opposition into a badge of honor: “I welcome their hatred,” he declared. It’s time for President Obama to find his inner F.D.R., and do the same.

 

“I vecchi nemici” di Paul Krugman

New York Times 23 maggio 2010

 

Ecco come sta la questione[526]: sono fuori di sé dalla rabbia e non intendono sopportare un minuto di più[527]. Sto parlando dei partecipanti ai Tea Parties? No, sto parlando delle corporazioni.

Molte cronache sulla opposizione alla amministrazione Obama, la descrivono come una rivolta populista. Tuttavia, le buffonate della gente dei “tribunali del socialismo e della morte” sono solo una parte della storia del movimento anti-Obama, e si può ipotizzare che non siano la parte più importante. Se volete davvero capire cosa sta succedendo, fate attenzione alle corporazioni.

Come potete fare? Seguite il fenomeno delle donazioni in denaro dei ‘comitati di iniziativa politica[528]’ delle corporazioni.

Guardate, per esempio, alla campagna di contribuzioni delle banche commerciali, che tradizionalmente propendevano per i repubblicani, ma solo moderatamente. Quest’anno, sino ad oggi, secondo The Washington Post, il 63 per cento dei contributi delle corporazioni bancarie sono andate ai Repubblicani, contro un 53 per cento dell’anno passato. Le imprese nei settori del mercato azionario e delle banche di investimenti, tradizionalmente inclini ai Democratici, stanno indirizzando ai Repubblicani i contributi maggiori. Le compagnie del gas e del petrolio, da sempre favorevoli ai Repubblicani, ora ce la stanno mettendo tutta[529], e conferiscono ben il 76 per cento della loro prodigalità al G.O.P.

Questi sono numeri straordinari, considerata la naturale tendenza delle corporazioni ad orientare il loro denaro nella direzione del partito al potere. Tuttavia, l’America corporativa effettivamente, con tutto il cuore odia la amministrazione in carica. Wall Street, per esempio, sarebbe “in una condizione di acerrima, ribollente e isterica furia” nei riguardi del Presidente, secondo quanto scrive John Heilemann del New York Magazine. Cosa sta succedendo?

Un risposta può essere: le tasse. Non tanto le tasse sulle corporazioni stesse, quanto quelle sulla gente che le mantiene. La amministrazione Obama programma un ritorno delle quote fiscali per le categorie più elevate, sui livelli che caratterizzarono il periodo di Clinton. Inoltre, la riforma sanitaria sarà in parte pagata con una imposta straordinaria sui redditi individuali più elevati. Tutto questo comporta un colpo finanziario significativo sui dirigenti di impresa, sui banchieri e su altri ‘padroni del vapore[530]’.

Ora, non è proprio il caso di mettersi a piangere per questa gente: essi stanno ancora assai bene, e in linea di massima pagheranno una percentuale dei loro redditi di poco superiore a quella che pagavano nel corso degli anni 90. Tuttavia, dover fare i conti con incrementi fiscali del tutto ragionevoli niente toglie al fatto che essi siano molto, ma molto arrabbiati.

Ma questa storia non si esaurisce nelle tasse.

Molti sostenitori di Obama sono rimasti delusi da ciò che hanno visto a proposito della cautela della amministrazione sulle tematiche regolamentari – il fatto che essa abbia adottato una riforma finanziaria limitata che non crea una frattura con le banche più grandi, o che abbia sostenuto le trivellazioni in alto mare, e così via. E tuttavia gli interessi corporativi hanno uno scarto anche dinanzi a cambiamenti modesti, considerato il permissivismo di cui godevano nell’epoca di Bush.

Vista dall’esterno, questa rabbia contro le regole appare bizzarra. Intendo dire, cosa si aspettavano? Il settore finanziario, in particolare, che crebbe senza alcun controllo sotto la deregolamentazione, di fatto portandoci ad una crisi che ha lasciato 15 milioni di americani disoccupati, e che ha richiesto salvataggi su larga scala finanziati dai contribuenti allo scopo di scongiurare un risultato anche peggiore. Forse che Wall Street si aspettava di riemergere da tutto ciò senza dover neppure fare i conti con qualche nuova restrizione? In apparenza si, se lo aspettava.

Dunque, la situazione che il Presidente Obama ed il suo partito stanno oggi fronteggiando non è soltanto, e neanche principalmente, una opposizione fondata sulla gente comune[531] di destra. Il fatto è che la rabbia popolare è stata indirizzata e sfruttata dagli interessi corporativi, e questi ultimi saranno i grandi vincitori se il G.O.P. andrà bene a novembre.

Tutto questo dovrebbe sembrarvi familiare: si tratta della medesima formula che la destra ha utilizzato per una generazione. Usare i sentimenti dell’identità politica per eccitare[532] la base; dopodiché, quando le elezioni sono alle spalle, dare priorità alle preoccupazioni delle corporazioni benefattrici. Competere presentandosi come i candidati degli “americani veri”, contrapposti ai liberals della costa Orientale ‘che-sono-morbidi-con-i-terroristi’; e poi, una volta che si è vinto, dichiarare di avere il mandato a privatizzare la Sicurezza Sociale. Non c’è alcuna sorpresa nel venire a sapere che American Crossroads[533], una nuova organizzazione il cui obbiettivo è quello di mettere a disposizione dei candidati repubblicani  le grandi somme delle casse della corporazioni, sia una invenzione personale[534] proprio di Karl Rove.

Ma non si ribellerà la gente comune ad essere strumentalizzata? Non contateci. La scorsa settimana Rand Paul, il beniamino[535] del movimento Tea Party che è oggi candidato alle elezioni per senatore nel Kentucky, ha dichiarato che le critiche del Presidente alla BP per il disastroso sversamento di petrolio nel Golfo sarebbero “non-americane”, dato che “gli incidenti talora possono accadere”. Lo stile della destra sarà pure populista, ma è un populismo in considerevole sintonia con le grandi imprese.

Dunque, cosa provocherà tutto questo[536] al Presidente ed al suo partito? Obama avrebbe voluto andare oltre le politiche di parte. Tuttavia, si trova oggi piuttosto in una posizione assai simile a quella descritta da Franklin Roosvelt in un famoso discorso del 1936, quando gli toccò di ingaggiare una battaglia contro  “i vecchi nemici della pace: gli affari ed i monopoli finanziari, la speculazione, la gestione irresponsabile delle banche, l’antagonismo di classe, il particolarismo, i profitti di guerra[537]”.

E questa non è necessariamente una circostanza negativa. Roosvelt seppe trasformare l’opposizione corporativa in un distintivo d’onore: “io dò il benvenuto al loro livore”, dichiarò. E’ venuto il tempo che Obama trovi dentro di sé il suo Roosvelt[538], e faccia lo stesso.

 

 


 

The Pain Caucus

By PAUL KRUGMAN
Published: May 30, 2010

 

What’s the greatest threat to our still-fragile economic recovery? Dangers abound, of course. But what I currently find most ominous is the spread of a destructive idea: the view that now, less than a year into a weak recovery from the worst slump since World War II, is the time for policy makers to stop helping the jobless and start inflicting pain.

 

When the financial crisis first struck, most of the world’s policy makers responded appropriately, cutting interest rates and allowing deficits to rise. And by doing the right thing, by applying the lessons learned from the 1930s, they managed to limit the damage: It was terrible, but it wasn’t a second Great Depression.

 

Now, however, demands that governments switch from supporting their economies to punishing them have been proliferating in op-eds, speeches and reports from international organizations. Indeed, the idea that what depressed economies really need is even more suffering seems to be the new conventional wisdom, which John Kenneth Galbraith famously defined as “the ideas which are esteemed at any time for their acceptability.”

 

 

The extent to which inflicting economic pain has become the accepted thing was driven home to me by the latest report on the economic outlook from the Organization for Economic Cooperation and Development, an influential Paris-based think tank supported by the governments of the world’s advanced economies. The O.E.C.D. is a deeply cautious organization; what it says at any given time virtually defines that moment’s conventional wisdom. And what the O.E.C.D. is saying right now is that policy makers should stop promoting economic recovery and instead begin raising interest rates and slashing spending.

 

 

 

What’s particularly remarkable about this recommendation is that it seems disconnected not only from the real needs of the world economy, but from the organization’s own economic projections.

 

Thus, the O.E.C.D. declares that interest rates in the United States and other nations should rise sharply over the next year and a half, so as to head off inflation. Yet inflation is low and declining, and the O.E.C.D.’s own forecasts show no hint of an inflationary threat. So why raise rates?

 

The answer, as best I can make it out, is that the organization believes that we must worry about the chance that markets might start expecting inflation, even though they shouldn’t and currently don’t: We must guard against “the possibility that longer-term inflation expectations could become unanchored in the O.E.C.D. economies, contrary to what is assumed in the central projection.”

 

A similar argument is used to justify fiscal austerity. Both textbook economics and experience say that slashing spending when you’re still suffering from high unemployment is a really bad idea — not only does it deepen the slump, but it does little to improve the budget outlook, because much of what governments save by spending less they lose as a weaker economy depresses tax receipts. And the O.E.C.D. predicts that high unemployment will persist for years. Nonetheless, the organization demands both that governments cancel any further plans for economic stimulus and that they begin “fiscal consolidation” next year.

 

 

Why do this? Again, to give markets something they shouldn’t want and currently don’t. Right now, investors don’t seem at all worried about the solvency of the U.S. government; the interest rates on federal bonds are near historic lows. And even if markets were worried about U.S. fiscal prospects, spending cuts in the face of a depressed economy would do little to improve those prospects. But cut we must, says the O.E.C.D., because inadequate consolidation efforts “would risk adverse reactions in financial markets.”

 

 

The best summary I’ve seen of all this comes from Martin Wolf of The Financial Times, who describes the new conventional wisdom as being that “giving the markets what we think they may want in future — even though they show little sign of insisting on it now — should be the ruling idea in policy.”

Put that way, it sounds crazy. And it is. Yet it’s a view that’s spreading. And it’s already having ugly consequences. Last week conservative members of the House, invoking the new deficit fears, scaled back a bill extending aid to the long-term unemployed — and the Senate left town without acting on even the inadequate measures that remained. As a result, many American families are about to lose unemployment benefits, health insurance, or both — and as these families are forced to slash spending, they will endanger the jobs of many more.

 

 

 

 

And that’s just the beginning. More and more, conventional wisdom says that the responsible thing is to make the unemployed suffer. And while the benefits from inflicting pain are an illusion, the pain itself will be all too real.

 

“Il partito della sofferenza[539]” di Paul Krugman

New York Times 30 maggio 2010

 

Qual è la maggiore minaccia alla nostra ancora fragile ripresa economica? I pericoli abbondano, naturalmente. Ma quella che attualmente mi sembra l’idea più distruttiva è il punto di vista secondo il quale a questo punto, a meno di un anno dall’avvio di una fragile ripresa dalla peggiore depressione dalla Seconda Guerra Mondiale, sia venuto il tempo per i dirigenti politici di fermare gli aiuti a chi è senza lavoro e di cominciare a mettere quelle persone in sofferenza.

Quando la crisi finanziaria diede i suoi primi morsi, gran parte dei dirigenti politici del mondo risposero in modo appropriato, tagliando i tassi di interesse e consentendo che il deficit salisse. E facendo la cosa giusta, mettendo in atto le lezioni apprese negli anni 30, essi operarono in modo da contenere il danno: fu un passaggio terribile, ma non fu la seconda Grande Depressione.

Oggi, tuttavia, la richiesta che i governi passino dal sostegno alla punizione delle loro economie si sta diffondendo negli editoriali, nei discorsi e nei resoconti dagli organismi internazionali. Davvero, l’idea che economie depresse avrebbero effettivamente bisogno di un grado di sofferenza anche maggiore pare diventata la più diffusa recente forma di saggezza, di quel genere che John Kenneth Galbraith definì con celebre espressione come “quelle idee che sono tenute in alta considerazione in ogni momento per la loro capacità di soddisfare conformemente alle regole[540]”.

La misura nella quale l’idea di infliggere una pena all’economia è diventata comunemente accettata, mi è stata recapitata a casa con l’ultimo rapporto sulle prospettive economiche della Organisation for Economic Cooperation and Development [541], un influente gruppo di esperti con sede a Parigi che è sostenuto dai governi delle economie più avanzate del mondo. L’ OCSE è un organismo profondamente incline alla cautela: quello che esso dice in un dato momento equivale alle definizione delle norme della saggezza in quel momento. E quello che l’OCSE sta dicendo adesso è che i dirigenti politici dovrebbero interrompere le azioni di promozione della ripresa economica e, al loro posto, iniziare a far crescere i tassi di interesse e a ridurre drasticamente la spesa pubblica.

Ciò che si deve in particolare sottolineare di questa raccomandazione, è che essa sembra non soltanto disconnessa con i bisogni effettivi dell’economia mondiale, ma con le stesse previsioni economiche di quella organizzazione.

Dunque, l’OCSE afferma che i tassi di interesse negli Stati Uniti ed in altre nazioni dovrebbero crescere nettamente nel corso del prossimo anno e mezzo, in modo da far ripartire l’inflazione[542]. Tuttavia l’inflazione è bassa ed in declino, e le previsioni della stessa OCSE non mostrano alcun segno di minaccia inflazionistica. Perché, dunque, accrescere i tassi di interesse?

La risposta, per quanto posso comprendere, è che l’organizzazione crede che si debba essere preoccupati della possibilità che sui mercati possa accendersi una attesa di inflazione, anche se non dovrebbe e, sul momento, non è ciò che sta accadendo: noi dovremmo guardarci dalla “possibilità che si rimettano in movimento attese inflazionistiche di lungo periodo nelle economie dell’OCSE, in contrasto con quanto è ipotizzato dalla previsione principale”.

Un argomento del genere è utilizzato per giustificare l’austerità nella finanza pubblica. Sia i testi di economia che l’esperienza ci dicono che far cadere la spesa pubblica nel momento in cui si soffre ancora di una elevata disoccupazione è una pessima idea – non solo perché aggrava la depressione, ma anche perché provoca minimi miglioramenti alle prospettive dei bilanci, giacché gran parte di quello che i governi risparmiano lo perdono per effetto di  un’economia più debole che deprime le entrate fiscali. E l’OCSE prevede che una elevata disoccupazione persisterà per anni. Cionondimeno, l’organizzazione chiede sia che i governi cancellino ulteriori programmi per il sostegno all’economia, sia che avviino il “consolidamento finanziario” a partire dal prossimo anno.

Perché questo? Ancora, per fornire ai mercati quello che dovrebbero volere, ancorchè al momento ciò non appaia.  Al momento, gli investitori non sembrano affatto preoccupati sulla solvibilità del governo americano; i tassi di interesse sui bonds federali soni ai minimi storici. Ed anche se i mercati fossero preoccupati sulle prospettive finanziarie degli Stati Uniti, i tagli alla spesa dinanzi ad un’economia depressa migliorerebbero di poco queste prospettive. Ma noi dobbiamo tagliare, afferma l’OCSE, perché sforzi inadeguati di consolidamento “rischierebbero di provocare reazioni avverse nei mercati finanziari”.

La migliore sintesi che ho trovato di posizioni di questo genere è venuta da Martin Wolf di The Financial Times, il quale descrive le nuove norme di saggezza nel modo seguente: “dare ai mercati ciò che essi potrebbero volere in futuro, ancorchè da essi provengano al momento solo timidi segnali nel chiederlo, dovrebbe essere l’idea guida della politica”.

Messa in questo modo, l’idea sembra stravagante, e lo è. Tuttavia è un punto di vista sempre più diffuso, che sta già provocando sgradevoli conseguenze. La scorsa settimana membri conservatori della Camera, invocando le nuove paure del deficit, hanno preso le distanze[543] da una proposta di legge che estendeva gli aiuti ai disoccupati di lungo periodo, ed il Senato ha chiuso i battenti[544] senza legiferare neppure su quelle inadeguate misure che rimanevano. Di conseguenza, molte famiglie americane sono prossime a perdere l’indennità di disoccupazione, l’assicurazione sanitaria, o  entrambe le cose; e nel momento in cui queste famiglie saranno costrette a tagliare le spese, esse metteranno a repentaglio il lavoro di molte altre.

E questo è solo l’inizio. Sempre di più, la saggezza convenzionale[545] afferma che la cosa responsabile è mettere i disoccupati in condizioni di sofferenza. E mentre i benefici di questi patimenti autoinflitti sono una illusione, i patimenti medesimi sono anche troppo veri.

 

 


 

That ’30s Feeling

By PAUL KRUGMAN
Published: June 17, 2010

BERLIN

Suddenly, creating jobs is out, inflicting pain is in. Condemning deficits and refusing to help a still-struggling economy has become the new fashion everywhere, including the United States, where 52 senators voted against extending aid to the unemployed despite the highest rate of long-term joblessness since the 1930s.

 

Many economists, myself included, regard this turn to austerity as a huge mistake. It raises memories of 1937, when F.D.R.’s premature attempt to balance the budget helped plunge a recovering economy back into severe recession. And here in Germany, a few scholars see parallels to the policies of Heinrich Brüning, the chancellor from 1930 to 1932, whose devotion to financial orthodoxy ended up sealing the doom of the Weimar Republic.

 

But despite these warnings, the deficit hawks are prevailing in most places — and nowhere more than here, where the government has pledged 80 billion euros, almost $100 billion, in tax increases and spending cuts even though the economy continues to operate far below capacity.

 

What’s the economic logic behind the government’s moves? The answer, as far as I can tell, is that there isn’t any. Press German officials to explain why they need to impose austerity on a depressed economy, and you get rationales that don’t add up. Point this out, and they come up with different rationales, which also don’t add up. Arguing with German deficit hawks feels more than a bit like arguing with U.S. Iraq hawks back in 2002: They know what they want to do, and every time you refute one argument, they just come up with another.

 

 

Here’s roughly how the typical conversation goes (this is based both on my own experience and that of other American economists):

German hawk: “We must cut deficits immediately, because we have to deal with the fiscal burden of an aging population.”

Ugly American: “But that doesn’t make sense. Even if you manage to save 80 billion euros — which you won’t, because the budget cuts will hurt your economy and reduce revenues — the interest payments on that much debt would be less than a tenth of a percent of your G.D.P. So the austerity you’re pursuing will threaten economic recovery while doing next to nothing to improve your long-run budget position.”

 

 

German hawk: “I won’t try to argue the arithmetic. You have to take into account the market reaction.”

Ugly American: “But how do you know how the market will react? And anyway, why should the market be moved by policies that have almost no impact on the long-run fiscal position?”

 

German hawk: “You just don’t understand our situation.”

The key point is that while the advocates of austerity pose as hardheaded realists, doing what has to be done, they can’t and won’t justify their stance with actual numbers — because the numbers do not, in fact, support their position. Nor can they claim that markets are demanding austerity. On the contrary, the German government remains able to borrow at rock-bottom interest rates.

 

So the real motivations for their obsession with austerity lie somewhere else.

In America, many self-described deficit hawks are hypocrites, pure and simple: They’re eager to slash benefits for those in need, but their concerns about red ink vanish when it comes to tax breaks for the wealthy. Thus, Senator Ben Nelson, who sanctimoniously declared that we can’t afford $77 billion in aid to the unemployed, was instrumental in passing the first Bush tax cut, which cost a cool $1.3 trillion.

 

 

German deficit hawkery seems more sincere. But it still has nothing to do with fiscal realism. Instead, it’s about moralizing and posturing. Germans tend to think of running deficits as being morally wrong, while balancing budgets is considered virtuous, never mind the circumstances or economic logic. “The last few hours were a singular show of strength,” declared Angela Merkel, the German chancellor, after a special cabinet meeting agreed on the austerity plan. And showing strength — or what is perceived as strength — is what it’s all about.

 

 

 

There will, of course, be a price for this posturing. Only part of that price will fall on Germany: German austerity will worsen the crisis in the euro area, making it that much harder for Spain and other troubled economies to recover. Europe’s troubles are also leading to a weak euro, which perversely helps German manufacturing, but also exports the consequences of German austerity to the rest of the world, including the United States.

 

But German politicians seem determined to prove their strength by imposing suffering — and politicians around the world are following their lead.

How bad will it be? Will it really be 1937 all over again? I don’t know. What I do know is that economic policy around the world has taken a major wrong turn, and that the odds of a prolonged slump are rising by the day.

 

Quella sensazione degli anni 30, di Paul Krugman

New York Times 17 giugno 2010

BERLINO

D’improvviso, creare lavoro è fuori moda e decretare sofferenze è la nuova tendenza. La condanna dei deficit e il rifiuto di aiutare un’economia ancora stentata è diventato dappertutto il nuovo verbo, inclusi gli Stati Uniti, dove 52 Senatori hanno votato contro l’estensione degli aiuti ai disoccupati, nonostante il più alto tasso di disoccupazione a lungo termine dagli anni 30.

Molti economisti, compreso il sottoscritto, considerano questa svolta verso l’austerità come un grande errore. Essa solleva ricordi del 1937, quando il tentativo di Franklin Delano Roosvelt di riequilibrare il bilancio contribuì a respingere una economia in ripresa dentro una grave recessione. Qua in Germania, alcuni studiosi vedono un parallelo con le politiche di Heinrich Brüning, cancelliere dal 1930 al 1932, la cui devozione all’ortodossia finanziaria finì col decretare la rovina della Repubblica di Weimar.

Ma, a dispetto di questi ammonimenti, i falchi del deficit stanno prevalendo quasi dappertutto, e in nessun luogo altrettanto che qua, dove il governo si è impegnato per 80 milioni di euro, quasi 100 miliardi di dollari, di incrementi fiscali e di tagli alla spesa pubblica, anche se l’economia continua a girare molto al di sotto delle sue potenzialità.

Quale è la logica economica che sta dietro queste scelte del governo? La risposta, non trovo altro modo di dirlo, è che non ce n’è alcuna. Se si incalzano i dirigenti tedeschi a spiegare la ragione per la quale essi sentono il bisogno di imporre l’austerità dinanzi ad una economia depressa,  si ottengono argomenti che non hanno senso. Se lo si fa notare, essi se ne vengono fuori con altri argomenti, che anch’essi non hanno senso. Ragionare con i falchi tedeschi del deficit è un po’ come quando, nel 2002, si interloquiva con i falchi americani della guerra in Iraq: essi hanno ben chiaro cosa vogliono fare e, ogni qualvolta voi contestate una argomento, semplicemente lo rimpiazzano con un altro.

Grosso modo questa è la tipica conversazione che si produce (l’esempio è basato sia su una mia personale esperienza che su quella di altri economisti americani):

“Falco” tedesco: “Dobbiamo tagliare i deficit immediatamente, perché dobbiamo misurarci con il peso finanziario di una popolazione che invecchia”.

“Scialacquatore” Americano [546]: “Ma ciò non ha senso. Anche se operate per risparmiare 80 milioni di euro – cosa che non avverrà, perché i tagli al bilancio faranno male alla vostra economia e ridurranno le entrate – i pagamenti sull’interesse su quel gran debito sarebbero inferiori di un decimo di punto del vostro PIL. Cosicché l’austerità che state perseguendo minaccerà la ripresa economica nel mentre non otterrete quasi niente[547] per quanto riguarda il miglioramento della condizione del vostro bilancio nel lungo periodo”.

“Falco” tedesco: “Io non intendo discutere di aritmetica. Il fatto è che devi mettere nel conto la reazione del mercato”.

“Scialacquatore” americano: “Ma cosa sapete di come reagirà il mercato? E in ogni caso, perché il mercato dovrebbe commuoversi per politiche che non hanno quasi nessun impatto sulle condizioni finanziarie di lungo periodo?”

“Falco” tedesco: “Tu proprio non capisci la nostra situazione”.

Il punto centrale è che, mentre i sostenitori dell’austerità si presentano come pratici individui realisti, che fanno quello che deve essere fatto, essi non possono e non vogliono giustificare la loro posizione con dati effettivi, giacché i dati, in effetti, non sono di sostegno alla loro posizione. E neppure possono sostenere che i mercati stiano chiedendo austerità. Al contrario, il governo tedesco resta nelle condizioni di avere denaro in prestito con tassi di interesse minimi.

Dunque, le motivazioni reali della loro ossessione risiedono altrove.

In America, molti sedicenti falchi del deficit sono puri e semplici ipocriti: essi sono ansiosi di ridurre drasticamente i benefici per coloro che ne hanno bisogno, ma le loro preoccupazioni sui conti in rosso svaniscono quando si tratta di agevolazioni fiscali[548] per i ricchi. In questo modo, il Senatore Ben Nelson, il quale ha ipocritamente[549] dichiarato che non potremmo permetterci 77 miliardi di dollari di sostegno ai disoccupati, contribuì[550] ad approvare il taglio fiscale del primo Bush, dal costo fantastico di mille e trecento miliardi di dollari.

Le truppe dei falchi del deficit[551] tedeschi sembrano più sincere. Ma questo non ha ancora niente da spartire con il realismo finanziario. Piuttosto ha a che fare con il moralismo e l’apparenza. I tedeschi tendono a considerare la amministrazione in deficit come moralmente sbagliata, mentre i bilanci in pareggio sarebbero virtuosi, a prescindere dalle circostanze e dalla logica economica. “Nelle ultime ore abbiamo dato una singolare prova di forza”, ha dichiarato Angela Merkel, la Cancelliera tedesca, dopo che una riunione particolare del Gabinetto aveva approvato il piano di austerità. E dar prova di forza – o di ciò che è percepito come forza – è tutto quello che ha saputo dire al riguardo.

Naturalmente, ci sarà un prezzo per questa apparenza. Solo una parte di quel prezzo ricadrà sulla Germania: l’austerità tedesca peggiorerà la crisi nell’area dell’euro, rendendo molto più ardua la ripresa per la Spagna e per le altre economie in difficoltà. I guai dell’Europa stanno anche portando ad un euro debole, la qual cosa aiuterà in modo perverso il settore manifatturiero tedesco, ma esporterà le conseguenze dell’austerità delle Germania al resto del mondo, inclusi gli Stati Uniti.

 

Ma i politici tedeschi sembrano determinati a dar prova della loro risolutezza imponendo sofferenze, e gli uomini politici nel mondo stanno seguendo il loro esempio.

Quanto sarà negativo tutto ciò? Avremo dappertutto una riedizione del 1937? Non lo so. Quello che so è che la politica economica mondiale ha preso una pessima piega, e che la probabilità di una prolungata depressione diventano giorno dopo giorno più elevate.

 

 

 

 



[1] Feeling, oltre che sentimento e  sensazione, può significare anche presentimento; più adatto al contesto dell’articolo.

[2] Throw away its crutches

[3] Blips = segnali (intermittenti), intoppi, ticchiettii,lievi  irregolarità.

[4] Inventary bounce. Lett. “rimbalzo dell’inventario”

[5] To work off

[6] They slash

[7] The excess has been disposed of

[8] Such as they were

[9] Strewn. Sparso, coperto da.

[10] What’s left? Lett. : Cosa è lasciato? Cosa è partito?

[11] That’s far too early. Lett. “Ciò è  di gran lunga troppo presto” (“far”, in  questo caso, è avverbio)

[12] Will probably head off any further possibility of action  = lett. “probabilmente faranno partire ogni ulteriore porribilità di azione”

[13] Knock on wood (lett. “battiamo sul legno”)

[14] Next up (“up” può significare anche “atteso, in attesa”)

[15] Fixing

[16] “plain-vanilla mortgages”. Il termine ‘plain-vanilla’ è indicativo di una forma di negoziazione standard (in opposizione a ‘esotico’) che può essere utilizzata per vari strumenti (opzioni, obbligazioni, futures. swaps etc.). In sostanza, è la negoziazione più semplice (‘semplice vaniglia’, ovvero il gelato più semplice di tutti).

[17] fairly

[18] Grind to a halt = lett. “macinano, triturano, polverizzano verso  un arresto”. Ovvero: si inchiodano. 

[19] Self-interest

[20] Gergo finanziario. Azione, potere di leva

[21] “Financial industry”. Gli americani usano il termine” industria” anche per indicare il settore finanziario.

[22] With few strings = lett. “con pochi legami” (no strings = nessun legame)

[23] Every incentive

[24]In a heads-they-win, tails-taxpayers-lose world”. 

[25]Obbligo di informazione” traduce “disclosure” ( lett. “rivelazione”)

[26] OK, Not great, but OK

[27] Tweak = leggera modifica

[28] “Fine print” significa precisamente: “clausole scritte in piccolo”

[29] For there’s a populist rage building in this country

[30] Have been issuing. “Issue” può significare “risultato, questione, problema”; “To issue” signfica “distribuire, emettere, pubblicare”. 

[31]Incentives”, anche “stimoli”

[32] Bears little resemblance = mostra poca rassomgilianza

[33] Backward (arretrata, lenta nell’apprendimento)

[34] “America rules!” = “l’America governa!”, “l’America  domina!”

[35] Widespread

[36] Here America arguably does better

[37] Prime-working-age (dove “prime” sta per “eccellente, adatto, nel fiore degli anni”)

[38] Living on the dole

[39]After all”. Oltre a “dopo tutto”, anche “del resto”

[40] “Demise” = morte, decesso

[41] “Well” può significare anche: “assolutamente”

[42] Less well-off

[43] Cautionary tale. Lett. “racconto di ammonimento”

[44] Fellow citizens

[45] “Clue” significa “indizio”, o anche “idea” (nel senso di: “I don’t have a clue” = “non ho la più pallida idea”). “Clueless” significa “senza indizi”, ma anche “incapace”.

[46] Aims to hold = lett. “mira a reggere”

[47] Set the stage = lett. “fornire il luogo, lo scenario”

[48] Grilled = (anche) interrogare, inquisire

[49] Honchos. Equivale a “direttori, capi, boss”

[50] Burts out = Lett. “spiattella, spiffera”

[51] In so many words (espressione idiomatica)

[52] To grapple with = essere alle prese con

[53] Cash-strapped = cassa esaurita

[54]There where two moments … that stood out”. To stand out = spiccare, distinguersi, emergere

[55] Stuff happens = roba che succede

[56] As an aside = incidentalmente, tra l’altro, en passant

[57]Just inarticulate”. Lett. “Proprio inarticolato, inespressivo”.

[58] Spun ever further out of a control

[59] Bonuses beyond the dreams of avarice = lett. “gratifiche oltre i sogni dell’ingordigia”

[60] More debt.

[61] Both by pushing loans on the public …  = lett.” sia spingendo i mutui sopra il pubblico …”

[62] This runaway system

[63] As far as I can tell = per quanto posso dire. Ma “to tell” significa anche “testimoniare”.

[64] Have been second-guessing. (to second-guess = anticipare)

[65] Policy and political misjudgments

[66] Narrative

[67] It wasn’t failure to focus on the issue

[68] Light-touch approach

[69] Further entrenched

[70] Continuing to run against

[71] Dreams of bridging the partizan divide

[72] On his watch. “Watch” può, in questo caso, significare “vigilanza”, o “turno di guardia”.

[73]Broad” è termine più generico, che signfica “ampio, largo, pieno”. 

[74] Had simply punted on

[75]Portraying Republicans”. Lett. “ritraendo, rappresentando  i repubblicani”

[76] Scale back. Lett. “ripulire indietro”

[77] Lock-step.

[78] Grat Old Party. Partito Repubblicano.

[79] Think they’re on a roll. Lett. “are on a roll” significa “già che ci sono / ora che gli gira bene”

[80] Driving out more people

[81] And so on.

[82] Reaching out. Lett. “raggiungendo”

[83] “Crowd-pleasing”. Lett. “che piacciono alla folla”.

[84] Reconciliation. Lett. “riconciliazione”; in termini commerciali utilizzato nel senso di “raffronto finale tra sconto previsto e sconto effettuato sulla base delle vendite effettive”. Nel gergo della tecnica legislativa è un istituto specificamente previsto per l’approvazione finale delle legge finanziaria.

[85] Want just give up on the whole thing

[86] hapless. Significa “sventurato, sfortunato”. In questo contesto, persone confuse, inadatte al ruolo.

[87] Where do I stand? = lett.”Io dove sto, dove mi colloco?”

[88] Full disclosure: .. = lett. “esauriente rivelazione: ..”

[89] Have strong case. “Case”, oltre che “caso”, può significare anche “argomento, motivo”, oppure “tipo”.

[90] How did we get to the point where that’s the most I can say? = lett. “Come siamo arrivati al punto in cui questo è il massimo che io possa dire?”

[91] Meshed = lett. “si sono connessi”. Mesh significa anche “tessuto”.

[92] To head off

[93] Fully sharing

[94] Run-up to .. = periodo precedente a ..

[95] Boiled down to = lett.” si condensò in”

[96] “Boilerplate”. Letteralmente significa “lamiera per caldaie” o “superficie a lamiere”. Ma nell’uso ha acquisito significati molto più generali, del tipo “schema, modello, testo standard”.

[97] Harsh = duro

[98] But they’re not up before the Senate

[99] To sway = ondeggiare pericolosamente

[100] Hands. “mani”, ma anche “posizioni”

[101] Ringing endorsement = lett. “sostegno risonante, scampanellante”

[102] That will blight = lett. “Che farà avvizzire”

[103] Acerbic

[104] Showy. Lett. “appariscenti”.

[105] Gimmicks.

[106] “Wait, it is worse”. Lett. “Aspettate, esso peggiora”

[107] “… believed he could score some political points …”

[108] “By doing the deficit-peacocks strut”. Lett. “Realizzando il portamento orgoglioso (pavoneggiandosi) dei ‘pavoni del deficit’”.

[109] To pay its way.

[110] You don’t get any credit

[111] To just pretend

[112] There’s only so much one man can do.

[113] Il titolo è semplicemente “Good and boring”. Il testo chiarisce la ragione di questa traduzione.

[114] “Meltdown”. Inizialmente con  il significato di “fusione del nocciolo”, viene utilizzato in vari contesti per indicare situazioni estreme di sofferenza, di confusione(“mi si fonde il cervello!”) o  simili.

[115] “Is supposed to be dull”.

[116] “The New Repubblic  famously pronounced “Worthwhile Canadian Initiative” (from a Times op-ed column in the ‘80s) the world’s most boring headline”. La traduzione richiede varie spiegazioni. 1- “The New Repubblic” è una rivista americana; 2- “to pronounce” significa “pronunciare” ma anche “dichiarare”; 3 – “famously” significa “meravigliosamente”; in questo caso esiste una espressione italiana (ineffabile) aderente al significato possibile; 4 – “op-ed”, che traduco semplicemente “editoriale”, è il diminuitivo che si dà a “opposite editorial”, e indica una pagina di commenti che normalmente viene collocata dalla parte opposta della pagina degli editoriali.  

[117] “in the scale and scope”. “Scope” significa “scopo, opportunità”, ma anche “portata, raggio”.

[118] “the way to keep banking safe is to keep it boring”

[119] Espressione di tecnica finanziaria, normalmente resa in italiano con il termine inglese, al pari di leverage..

[120] “But that, it turns out, was all to the good”. “Turn out” può significare anche “risultare”.

[121] “by requiring that lenders hold on to some of their loans”. Lett. “richiedendo che i prestatori si tengano stretti a (non mollino) una parte dei loro mutui”.

[122] Dead set.

[123] “sitting right next door”.

[124] Fiscal scare tactics. Lett. “Tattiche di panico fiscale”

[125] Drumbeat. Significa, più letteralmente, “tambureggiamento”.

[126] “has grown vastly louder”. Lett. “è cresciuto enormemente più rumoroso”.

[127] Groupthink. E’ una espressione che significa conformismo, nella particolare accezione delle “decisioni prese in gruppo, particolarmente in modi che scoraggiono la creatività e la responsabilità individuale”.

[128] Dubious allegations. “Allegation” non significa semplicemente “accusa”, ma propriamente “allegazione”, ovvero: “adduzione o citazione di argomenti, ragioni, prove”.

[129] Bought into: “Hanno accettato, hanno fatto propria”

[130] The prevailing narrative, che si può bene continuare a tradurre con “pensiero unico”.

[131] Their background. Lett. “il loro contesto”.

[132] “Fear-mongering”. Lett. “che seminano, che spacciano paura”

[133] Runaway spending growth.

[134] Running. To run ha numerosi significati possibili, tra i quali “tenere in funzione, tenere in piedi, tenere in attività”. Oppure. “azionare, usare, gesire, amministrare, dirigere”.

[135] “… there is no way to make the budget math work”. Lett. “ … non c’è modo di far funzionare la matematica del bilancio”.

[136] “when we were taking … in stride”. “To take something in one’s stride” (lett. “prendere qualcosa nel proprio passo”), significa “accettare con facilità”.

[137]And if the ipocrisy is breathtaking”. Lett. “E se l’ipocrisia è mozzafiato”.

[138] “budget-busting”.

[139] Deadly. Che può significare sia “mortale” che “ noioso, barboso”.

[140] Instead of  fraying under the strain of imperial overstretch. Si può scegliere tra una traduzione più astratta (“logorarci per la pressione degli eccessivi impegni imperiali”), o più corrispondente ai termini usati (“fray” = sfilacciarsi”; “strain” = “tensione, stiramento”; “ovestretch” = “tendere troppo”). O una via di mezzo.

[141]Sejm” era in quel periodo l’unica assemblea legislativa della Polonia. Attualmente è la “Camera bassa”, cui si affianca il “Senat”.

[142] Began hacking off.

[143] Had put a “hold”. L’espressione gergale (virgolettata) “hold” significa, in questo caso, “in attesa”. “Put a ‘hold’”, lett. significa “porre-imporre una ‘attesa’”.

[144] To get anything done. Lett. “ottenere qualcosa (di) fatto”

[145] Seeing no harm – in fact, political dividends – in making the  nation ungovernable.

[146] Miss.

[147] Highlighting.

[148] It goes straight for the capillaries. Strana espressione; lett. “essa va diritta per i capillari”.

[149] Silliness.

[150] Yep. Espressione familiare di senso affermativo e di incoraggiamento (“si!”).

[151] They’re getting away with it.

[152] To ram through deep cuts. “To ram through” è una espressione idiomatica che, nel linguaggio istituzionale, significa “costringere alla approvazione di una deliberazione, di solito senza permettere una dovuta considerazione”

[153] Martgage-backed securities. Si tratta di un prodotto finanziario diventato famoso nella recente crisi per la sua alta pericolosità.

[154] Mind-boggling = sbalorditivo, incredibile

[155] Road-map significa letteralmente “carta stradale”. In termini politici può essere tradotto con “tracciato strategico”.

[156] Have been bobbing and weaving. La tecnica del “bobbing and weaving” ( che lett. significa “sobbalzando ed oscillando”) è un termine adoperato nel gergo pugilistico, consistente nel fare una serie di movimenti che servono a rendere più difficile all’avversario l’arrivare al bersaglio.

[157] is of. “To be of” significa “essere coerente”.

[158] Buoni rilasciati a titolo di prenotazione o di fattura di pagamento per determinati servizi.

[159] The age of eligibility. “Eligibility” significa sia “eleggibilità” che “idoneità”.

[160] Gobbledygook. E’ un termine traducibile con “ostrogoto” o anche con “burocratese”, meno divertente.

[161] Some higher-income enrollees.

[162]Policy” significa sia “politica” che “polizza”.

[163] The bottom-line.

[164] Breathtaking. Lett. “mozzafiato”

[165] Making of a Euromess. “Making” può avere il significato di “origine”, come nell’espressione “be the making of” = “essere la causa del successo di”. “Mess” = “disordine, guaio, casino”.

[166] Profligacy. Oltre a “sregolatezza”, “spreco, sciupio, dissipazione, corruzione”.

[167] The flood of red ink. Lett. “l’alluvione, lo straripamento dell’ inchiostro rosso (ovvero: dei conti in rosso)”.

[168] Grinding process. “Grinding” è una aggettivazione dai molti significati (si dice dell’affilare una lama, del digrignare i denti etc.). Ma in senso figurato vale anche per “doloroso, opprimente” (“Grinding poverty”).

[169] They’re spilling over.

[170] Breakup. Significa “dissoluzione, rottura, disgregazione”.

[171] A painful process of muddling through. Lett. “un penoso, faticoso processo di farcela alla bell’e  meglio”

[172] Hubris. Espressione normalmente presente in lingua inglese, direttamente dal greco.

[173] Chided.

[174] You handed red meat. Lett. “Voi avete dato  carne rossa..”.

[175] “Action” significa genericamente azione, ma anche “azione legale”.

[176] Risk pool. “Pool” (che è un distinto sostantivo, rispetto al “pool” di” laghetto, piscina etc.”), ha il significato di  “cassa, fondo  comune”.

[177] Suppose that we posit. Lett. “Supponiamo che si postuli”

[178] Dramatically.

[179] Would set off a race to the bottom. Lett. “esploderebbe una gara sino all’ultimo”.

[180] Would force the Americans into the clutches

[181] Is unraveling. Lett. “è da sbrogliare”.

[182] O.K., the beast is starving.

[183] Want to get the governament “down to the size where we can drown it in the bathtub”.

[184] Big government. Che nel linguaggio politico americano non ha, come è noto, un significato solo descrittivo, ma è indicativo di “politica economica keynesiana”.

[185] “was basically that sympathetic politicians should engage in a game of bait and switch”. Lett. “fu  fondamentalmente quella per la quale politci congeniali dovevano impegnarsi in un gioco del prodotto civetta”. 

[186] Could then be sold. “lett. “sarebbero poi stati (ri)venduti”

[187] Unfunded wars. Ma  non si tratta letteralmente di “guerre non sovvenzionate”, bensì di “guerre finanziate senza copertura”.

[188] Gutting. Da “to gut” =” eviscerare, sbudellare, togliere le interiora” etc.

[189] “Mr. Obama established by executive order”. Lett. “che Obama ha istituito attraverso (per effetto) l’ordinamento esecutivo”, ovvero il potere presidenziale.

[190] To put up or shut up. Traduco “put up” nelsenso di “put up the money” (“fare un’offerta”).

[191] And guess what? Lett. “E indovinate la cosa?”

[192] Presidential hopefuls. Lett. “gli speranzosi presidenziali”.

[193] Anybody’s gonna go back now ..

[194] Means-testing. Significa “accertamento, verifica delle risorse patrimoniali o di altro genere”.

[195] Payroll taxes.

[196]You read it here first”. Strana espressione che significa letteralmente: “Lo leggete qua per la prima volta”.

[197] Afflicting the afflicted.

[198] Slander and misdirections.

[199] Didn’t bother making a case that could withstand even-minimal fact-cheking.

[200] Right off the bat.

[201] He delivered a whopper.

[202] Don’t take my word for it. Lett. “non prendete la mia parola per ciò”.

[203] That analysis is discreetly worded

[204] Would end up being less healthy.

[205] But Democrats can have the last laugh.

[206] Present their position as one of principle.

[207] When push comes to shove. Lett. “quando la spinta arriva a a forzare”

[208] Huddled. “To huddle” = rannicchiarsi, tenersi vicini, avere un rapido incontro.

[209] Just possibly. Lett. “appena possibilmente, solo come possibilità”.

[210] Key plank

[211] Then fail in clinch. Chiudersi in ‘clinch’ è una espressione pugilistica che si usa anche in italiano, che indica quella situazione nella quale i due contendenti si afferrano l’uno con l’altro, in pratica impedendo ogni mossa ulteriore. Difficile trovare una espressione italiana di analogo significato. 

[212] The question answers itself. Lett. “la domanda si risponde da sola”.

[213] Coupled with a campaign to name and shame the people responsible. Lett. “associata ad una campagna per nominare ed incolpare il responsabile alla gente”.

[214] That just covers up failure to act. In questo caso “to act” può essere interpretato sia come “ad agire” che come “a legiferare”.

[215] But the thing is, he did and he does.

[216] Blurted out. Lett. “ha spifferato”.

[217] There. In forma avverbiale, significa anche “su questo, laddove”.

[218] Live in different wolds. Lett. “vivono in diverse parole”.

[219] Trending toward socialism.

[220] Will decry

[221] And it’s just the way it is. Lett. “E questo è proprio il modo che è”.

[222] Fostered. Lett. “abbiano allevato”

[223] Avoiding getting caught up in a ideology. Lett. “avere evitato di raggiungere il punto/ di finire in una ideologia”

[224] Are missing.

[225] None of the American right’s favorite villains. “Villain” è “Il cattivo, il cattivo soggetto, colui che recita la parte del cattivo”.

[226] Il nome di due famose istituzioni di tipo assicurativo che sono entrate nella crisi americana.

[227] Collateralized debt obligations

[228] Credit default swaps. Si traduce il significato sostanziale, anche se “swaps” (“scambi”) sono notoriamente diventati uno specifico prodotto della finanza.

[229]Old-fashioned, plain-vanilla case”. “Plain-vanilla” è un curioso aggettivo – lett. “a base di vaniglia” – che sta a significare un oggetto, alle origini un gelato, molto semplice, basato sul gusto più comune.

[230] And tax-payers ended up holding the bag. “To Hold the bag”, lett, ”prendere la valigia, il pacco” è equivalente a “pagare il conto”.

[231] “Moral hazard” è una espressione della microeconomia e del linguaggio assicurativo che sta a significare un comportamento di operatori economici, del quale fanno le spese le controparti, consistente nellio sfruttare l’impossibilità, per tali controparti, di verificare condizioni di dolo o di negligenza. Normalmente si traduce alla lettera “azzardo morale”. In realtà una simile traduzione è piuttosto insoddisfacente, giacchè il senso è esattamente l’opposto, ovvero “un rischio derivante dalla mancanza di responsabilità, di moralità”. Ovvero: l’ “hazard” è “moral” giacchè implica la morale, che in quel caso non c’è!

[232] Before their forms went belly-up. “Belly-up” è equivalente popolare di “bancarotta”, lett. “a pancia in su”.

[233] La denominazione tecnica dei  titoli istituiti nel recente passato  in “derivazione” di altri fenomeni economici (mutui etc.). 

[234] Leverage.

[235] Securitization. Significa: “il processo di creazione di uno strumento finanziario dalla combinazione di altri ‘assets’ finanziari e dalle successiva messa in commercio presso gli investitori”. Il termine, però, deriva precisamente dall’idea che lo sminuzzamento ed il rimescolamento di assets di diversa origine avrebbe provocato maggiore sicurezza, nel senso che avrebbe ‘spalmato’ il rischio e con ciò stesso l’avrebbe ridotto.

[236] By people that see it as their duty to say no to powerful bankers.

[237] Is back from the dead.

[238] If they can point to a real accomplishment. “To point to” significa “indicare, mostrare con il dito”. “Real accomplishment” significa “reale completamento”.

[239] This guy.

[240] Gantlet. Si tratta di una antica punizione che consisteva nel far passare le persone  attraverso una doppia fila di individui provvisti di bastoni e di fruste, che si accanivano sui condannati sino alla fine del percorso.In italiano l’episodio della sconfitta dei romani nella Seconda Guerra sannitica – la battaglia delle Forche Caudine – è espressione del tutto analoga. 

[241] Have actually fallen for deceptive spin. Lett. “ è in realtà cascata nel giro ingannevole”.

[242] Wich has been all over the airwaves lately. Lett. “che è è stato recentemente su tutte le onde radio”.

[243] Plight. Lett. “triste condizione”.

[244] To fix. Lett, “riparare, aggiustare”.

[245] To bite. Lett. “a modere, a lsciare il segno”.

[246] Will back down. Lett. “recederà, si ritirerà”.

[247] Have in fact “stuck”. To stick”, lett. “conficcare, attaccare, rimanere fermo”.

[248] Rather than being withdrown in the face of political pressure. Lett. “anziché stando chiusi in se stessi fi fronte alla pressione politica”

[249] Obamacare comes up short. Lett. “la assistenza di Obama viene su corta”.

[250] Drag.

[251] It ran an overall surplus.

[252] Il “current account” è una delle due componenti primarie della bilancia dei pagamenti, l’altra è il “capital account”. Il “current account” è la somma della  “balance of trade”  (rapporto tra esportazioni ed importazioni di beni e servizi), del “net factor income”  (interessi e dividendi) e dei “transfer payments”  (ad esempio, gli aiuti dall’estero).

[253] Relevant rates. “Relevant” è un aggettivo frequentemente frainteso nelle traduzioni, perché, da quanto capisco, non ha necessariamente il  significato di “ importante”, ma di “pertinente a qualcosa”. “Relevant today” può essere tradotto con “attuale”, ad esempio. Talora, poi, il punto di riferimento di “relevant” è implicito. Così mi pare in questo caso, dove direi che “relevant” sta per “relevanto to reality”, cioè “effettivo”.

[254] Engineering. Lett. “architettando, escogitando”.

[255] Is in effect imposing an anti-simulus on these economies. “Stimulus” nel dibattito politico-economico americano è il termine che indica “la politica di sostegno all’economia”. “anti-stimulus” è dunque qualcosa che opera come un impedimento a tali politiche e programmi. 

[256] Must stop fudging and obfuscating. Si tratta di espressioni piuttosto colloquiali, nel contesto indicative di una soluzione che consiste nel non voler fare i conti con il problema reale.

[257] Namely.

[258] Stay tuned. Lett. “restate in ascolto, restate sintonizzati”.

[259] Then what?. “Allora che cosa?”

[260] We have to get past.

[261] The Chinese have us over a barrel. Espressione idiomatica, lett. “ ci hanno messi sopra una botte”.

[262] Not the other way around.

[263] Reason gently with China.

[264] Reased the dollar value of their currencies. Lett. “fecero crescere il valore in dollari delle loro valute”.

[265] Hardball lightly. “Lightly” è un avverbio che significa “leggermente, con leggerezza”. “Hardball”, nel lunguaggio politico o affaristico, è un aggettivo che significa “di chi non ha nessuna tolleranza verso le cose frivole” (“hardball” è anche il gioco maschile del baseball, contrapposto a “softball” che è la versione femminile). Letteralmente, dunque, sarebbe “con la leggerezzadi  chi non tollera cose frivole”. 

[266] Materially.

[267] As it happens. Normalmente è tradotto “per caso”, ma ha qua il significato più letterale.

[268] After upholding a decision granting large damages to the wronged policyholder. Lett. “dopo aver sostenuto (to upholder = sostenere in giudizio contro un oppositore) una decisione che riconosceva vasti danni ad ingiustificati (wronged) detentori di polizze (policyholder)”.

[269] That dwarfs the fine. Lett. “che riduce ai minimi termini la multa”

[270] Unraveling. Da “to unravel” = “disfare, sbrigliarem districare, chiarire, risolvere”.

[271] Whose fate now hangs in the balance. Lett. “il cui destino è appeso alla bilancia”.

[272] Unscripted. Lett. “non preparato per scritto, non seguendo una traccia scritta”.

[273] Vindicate. Lett. “discolpare, giustificare”.

[274] To make true.

[275] We are not baound. “To be  bound”, “essere legati, essere obbligati”.

[276] But we are bound to let whatever light we have shine.Lett. “ma siamo obbligati a lsciar risplendere qualsiasi luve noi abbiamo”.

[277] In realtà, nell’articolo, “our better angels”, ovvero “i nostri angeli mogliori”.

[278] Callous cynicism.

[279] Clean bill of fiscal health. Lett. “calcolo pulito di salute finanziaria”.

[280] Affirmative action on steroids. E’ noto che la “affirmative action”, nella cultura politica anglosassone,sta a significare una complesso di iniziative pratiche che agiscono su ingiustizie, diseguaglianze, diversità, gradualmente provocando una cultura e comportamenti più accettabili. “On steroids”, invece, è una espressione americana che alla lettera risulterebbe incomprensibile, ed indica un effetto di “potenziamento”, che nel “body-building” si ottiene, per l’appunto, con gli steroidi. Estensivamente, ogni cosa che è sottoposta ad un potenziamento, che viene moltiplicata, elevata alla massima potenza.   

[281] Supposedly reasonable

[282] This time, fear struck out.”To strike out” significa “eliminare”.Ma, in questo caso, “paura” è soggetto, ed uno dei significati di “to strike out” è “non avere successo in un tentativo” (WordReference.com, English definition, n. 5).

[283] Watching .. squirm

[284] unconscionable

[285] As it happens

[286] Trumping. Da “to trump”, “suonare la fanfare, vincere in una competizione”.

[287] It doesn’t go far enough.

[288] Questi sono i risultati de sondaggio in questione: tra gli americani adulti, il 49% giudica la riforma una “buona cosa”, il 40%  una “cattiva cosa”, l’11% non ha una opinione precisa. Queste percentuali diventano nel caso degli elettori democratici: il 79% di favorevoli, il 9% di contrari ed il 12% di incerti; nel caso di elettori repubblicani: il 14% di favorevoli, il 76% di contrari ed il 10% di incerti; nel caso di elettori indipendenti: il 46% di favorevoli, il 45% di contrari ed il 10% di incerti. (Gallup. Politics, 23 marzo 2010).

[289] striking

[290] The eliminationist rethoric. Lett. “retorica eliminazionista”. Come si vede dalle frasi successiva, il riferimento – per quanto in forme paradossali –  è davvero alla “eliminazione fisica”, per cui tradurre con “minatoria” sembra la soluzione  più adatta.

[291] “E li radunarono in un luogo in ebraico detto ‘Armagheddon’”, Libro dell’Apocalisse, 16.16. Si tratta del luogo (la collina di Megiddo, presso Gerusalemme) nel quale si svolse la battaglia decisiva tra i Re della terra, aizzati da Satana, e Dio.

[292] Eventually shutting down the federal government. Lett. “alla fine chiudendo il governo federale”.

[293] In  attempt to bully Mr Clinton in to submission.

[294] Who could and did strike deals with Democrats.

[295] Are mainstream

[296] The law of the land. Noi diremmo “legge dello Stato”, in America “la legge del paese”.

[297] Next up. Nelle TV la comunissima espressione “up next” significa la prossima notizia, dopo la pubblicità.

[298] Won’t want to be cast. Lett. “non vorranno farsi assegnare la parte”.

[299] Bank runs.

[300] Overnight borrowing. Lett. “prestiti notturni”: si tratta del fenomeno dell’ “overnight market” (mercato notturno), che è diventato una pratica del mercato finanziario consistente nel fare prestiti nottruni che vengono rimborsati al mattino successivo, dunque con i tassi di interesse minori possibili. (NdT)

[301] When push comes to shove. Lett. “quando la spinta arriv(erà) a premere”. Anche: “at a push”, “in caso di bisogno”.

[302] Well, how about John Boehner. Ovvero: “Bene, ad esempio John Boehner …”.

[303] Punk staffers. “Punk” come sostantivo, in americano,  significa “individuo senza esperienza, ragazzo, punk, giovane criminale, vagabondo, teppista, rocchettaro etc.”; come aggettivo è traducibile con “misero, miserabile, pessimo, orribile, da due soldi”. “Staffers” sono i componenti degli staffs, i funzionari delle commissioni..

[304] And stand up for yourselves. “Stand up to” significa “resistere a”; “stand up for” significa “essere favorevole a”. Qua il senso è “difendersi contando su se stessi”, anche se non esclusivamente, dato che si può intuire che il dirigente repubblicano abbia anche promesso un sostegno.

[305] “taking advantage”.

[306] Shepherded fairly strong.

[307] Bad guys. “Cattivi soggetti”, riferito agli uomini del settore finanziario, particolarmente di quelli con attitudini speculative.

[308] Up is down. Lett. “il su è il giù”.

[309] Tougher oversight of large, sistemically important financial companies.

[310] Those who want to rein in runaway banks. Lett. “coloro che vogliono tenere le briglia di banche completamente fuori controllo”.

[311] Let’s face it. Lett. “confrontiamoci su questo”, ma il senso si precisa per effetto delle frasi successive.

[312] Once you cut through the nonsense.

[313] Can and do disagree. Ovvero: “possono essere in disaccordo e lo sono”

[314] “too big to fail” è diventata, anche a seguito di una presa di posizione di Volcker, una espressione chiave in questo dibattito. Indica quegli istituti finanziari che, per le loro dimensioni, una volta che si trovana in situazione di crisi, comportano inevitabilmente un “rischio sistemico”.

[315] But it put taxpayers on the hook. Lett. “ha messo al gancio i contribuenti”.

[316] Break … into units that aren’t too big to fail.”Break into” significa “forzare, costringere”.

[317] One of those people who doesn’t buy it. Lett. “una di quelle persone che non lo acquistano (che non la bevono)”.

[318] Breaking up. Lett. “far cessare”.

[319] That mainly takes the form of a run on smaller institutions.”Run”, tra i moltissimi significati, ha anche quello di “tipo, genere, categoria, classe”, per cui “the form of a run” sarebbe “la forma di un genere”, ovvero la forma caratteristica.

[320] Was dead wrong. “Dead” (morto, estinto, esaurito) ha anche il significato di “assoluto, completo, totale”, come in “dead certainty, dead silence, dead calm” (”certezza assoluta, silenzio assoluto, bonaccia”).

[321] Banks run. “Run” non ha propriamente un significato connesso con “crisi” (semmai, con “gestione, governo, amministrazione”), mentre può avere il significato di “ininterrotta serie di eventi”. In questo caso, il meccanismo assicurativo proteggeva le banche da un “effetto domino”.

[322] Vedi nota n. 5, pag. 230.

[323] Making financial reform fool-resistent.Vedi nota n. 2.

[324] Face minimal oversight. Espressione ironica, “si misurano con una piccola svista”.

[325] To fill this gaping hole in the system. Lett. “riempire questa buca aperta nel sistema”.

[326] To seize. Il verbo “to size” – afferrare, usurpare, catturare, cogliere, sequestrare”, in termini giuridici, secondo il dizionario, significa “confiscare”. Ma non mi è chiaro se e in che modo possa trattarsi di una vera e propria confisca, ovvero di un assoggettamento al patrimonio pubblico. “Mettere sotto sequestro” è una espressione meno impegnativa.

[327] “funeral plans”. Lett. “programmi funebri”.

[328] Consiglio per la Vigilanza sulla Stabilità Finanziaria.

[329] Hence resilient. In inglese esistono vari modi per esprimere il concetto di elasticità: elastic, stretch (di tessuto), springy (di andatura), flexible (di mentalità), easy-going (di una persona fisica), lax (di regole morali).Ciononostante è frequentemente usato “resilient”, dal latino “resilire”, “rimbalzare”. 

[330] Errand boy.

[331] Abusive consumers lending. “Abusive” significa “offensivo, che provoca maltrattamento”.

[332] Albeit one housed at the Fed. In questo caso “one” dovrebbe essere pronome indefinito (in costruzioni impersonali) = “si”. Lett. “benché la si collochi presso la Fed”.

[333] To override.

[334] But it wouldn’t do much to stiffen the spine of a less determineed admnistration. Lett. “ma essa non farebbe molto per raddrizzare la spina dorsale di una ammnistrazione meno determinata”.

[335] Follow suit.

[336] In finanza, “derivativi o derivati” è il nome collettivo usato per una ampia categoria di strumenti finanziari che “derivano” il loro valore da altri strumenti finanziari (definiti “sottostanti”), oppure da eventi e condizioni. Dunque, un “derivativo” è un contratto tra due parti, nel quale il valore del contratto è collegato al prezzo di un altro strumento finanziario, o a specificati eventi o condizioni. (NdT)

[337] Moves to the floor of the Senate (“floor”, pavimento, è il termine gergale corrispondente ad aula, luogo delle votazioni assembleari).

[338] Fighting chance, secondo il dizionario,  significa “probabilità”(probabilmente con una qualche accentuazione volontaristica, giacchè letteralmente sarebbe “opportunità combattente”).

[339] Inflated away. Lett. “gonfiò via”. Similmente a “fade away” (“svanire via”) , che significa “smorzarsi”.

[340] Won’t grow its way out of debt.

[341] There are no good answers here –actually  no, nonterrible answers.

[342] Not grandstanding and penny-pinching over short-term spending to help a distressed economy. “Grandstanding” significa “parlare dalla tribuna”; “penny-pinching”, letteralmente, “pizzicare il centesimo”.

[343] To steer clear.

[344] And all bets will be off. Lett. “e tutte le scommesse andrebbero via”. Noi diciamo “si accettano tutte le scommesse” per indicare una situazione di incertezza estrema, ma il senso qua dovrebbe proprio essere che ci sarebbe ben poco da scommettere, perché la situazione sarebbe infausta senza speranza.

[345] “Georgia on my mind”, ovvero “la Georgia è fissa nella mia mente”.

[346] Specialness.

[347] Zoning restrictions.

[348] I once dubbed Flatland.

[349] Negative equity.

[350] Mortgages delinquencies.

[351] Has gotten off lightly.

[352] Dallas è la terza città del Texas e la nona degli Stati Uniti; Houston è la quarta città degli Stati Uniti, capoluogo della Contea di Harris nel Texas; Atlanta, altra città del Texas, è la più grande delle tre, con circa 5 milioni e 800 mila abitanti.

[353] High-flying banl executives.

[354] While relying heavily

[355] ‘hot money’ (anche: “denaro che scotta”).

[356] Blew themselves up with ..

[357] Worst offenders.

[358] In the lending spree.

[359] C.E.O.’s. Acronimo per Chief Executive Officer 

[360] Silver-bullet views of  reform. “Silver-bullet” è un termine idiomatico che equivale a “una risposta rapida/semplicicistica ad un problema difficile” (lett. “pallottola d’argento”). 

[361] That will step in and fill the gap.

[362] To wean from. Lett. “svezzare da”.

[363] Ur-text. Lett. “testo originale”.

[364] Unrequited costs. Lett. “costi non corrisposti”, come “unrequited love”.

[365] Lay mostly fallow. Lett. “furono in gran parte messe a maggese”.

[366] A “command and control” fix.

[367] Lett. “fissa un tetto-e-commercia”. Ormai entrato nel gergo legislativo internazionale nella espressione inglese.

[368] Legge sull’Aria Pulita.

[369] Downwind. Lett. “sottovento”.

[370] So there we have it, right?

[371] Too ready to assume.

[372] Fixes any problem.

[373] Is there a comparable argument to be made for greenhouse gas emissions? Lett. “C’è un argomento comparabile da predisporre per le emissione dei gas serra?”.

[374] Grasp.

[375]Econ 101”. 101 è un modello introduttivo di base dei corsi universitari; in questo caso di economia.

[376] So this cost in turn gets incorporated into everything else. Traduco, anziché “qualsiasi altra cosa”, “qualsiasi successivo prodotto”, in modo da dare meglio il senso di una soluzione che, “incorporando” le conseguenze ambientali nei costi, funziona poi sulla semplice base della convenienza economica dei prodotti finali.

[377] Loopholes.

[378] Rough consensus.

[379] Put a price tag. Lett. “mettere l’etichetta del prezzo”.

[380] Modello Dinamico Integrato sul Clima e sull’Economia.

[381] L’intera frase è: “depend upon educated guesswork (colta congettura) to place a value on the negative effects of global warming, then try to make some allowance (fare qualche aggiunta) for other possible repercussions”. 

[382] Are just too close to the kinds of numbers.

[383] Timing.

[384] La preghiera di S. Agostino, a quanto pare, dice “but not just now”. “Just” come avverbio può significare “solo” o anche “proprio, esattamente, precisamente”. Mi pare preferibile, per rispetto a S. Agostino, la prima soluzione.

[385] Climate-policy ramp.

[386] On the other side are some more recent entrants to the field.

[387] The fire next time. Lett. “La prossima volta il fuoco”. Il testo fornisce nelle prime frasi la spiegazione.

[388] To let the people who make the mistakes that lead to fires pay for them. Lett. “lasciare che le persone che fanno gli sbagli guidino a pagare gli  incendi per quegli (errori)”.

[389] To stand aside. Lett. “mettersi da una parte”.

[390] We were staring into economic abyss. “To stare” significa “fissare con lo sguardo, sbarrare, spalancare gli occhi”. “To stare s.o. into silence” significa “far tacere qualcuno fissandolo”. In aggiunta, in questo caso è la forma passiva.

[391] These stage directions. Lett. “queste didascalie”.

[392] Shameless performance.

[393] A ransom …as the price  for avoiding collapse.

[394] Which unfolded. Lett. “che si rivelarono”.

[395] What’s really at stake. Lett. “Cosa è effettivamente al palo”.

[396] So don’t be fooled.

[397] That uses the verb “saks”, as in looting and pillaging. Lett. “che usi il verbo “egli saccheggia”, come in depredare e fare razzie”

[398] Gioco di parle: tra “saks” (“egli ruba”) e Goldman Sachs.

[399] Commissione titoli e scambi.

[400] Engaging in what amounts to white-collar lotting. Lett. “di essere copinvolti in qualcosa che corrisponde al saccheggio dei colletti bianchi”.

[401] Abusive lending. “Abusive” significa “offensivo”; “abusive power” si traduce con “potere corrotto”.

[402] Il Premio Pulitzer negli USA  è considerata la massima onorificenza nazionale per il giornalismo, la letteratura e le composizioni musicali. Assegnato per la prima volta nel 1917 per iniziativa del giornalista e magnate della stampa ungherese-americano Joseph Pulitzer, viene amministrato dalla Columbia University di New York. (NdT)

[403] Helped. “To help”, oltre ad aiutare, può significare “servirsi (a tavola, ad esempio)”.

[404]Nella espressione “hedge fund”,  termine “hedge” significa “copertura, protezione”, ed ha dunque il doppio significato di “fondo di protezione” e di “fondo coperto”, nel senso di non immediatamente visibile. Una definizione appropriata potrebbe essere: “qualsiasi fondo che non sia un convenzionale fondo di investimento”, ovvero che realizzi una strategia od un complesso di strategie diverse dal semplice acquisto di obbligazioni,azioni e titoli di credito. Gli hedge funds vengono indicati come strumenti di investimento alternativi, fondi speculativi, fondi di fondi etc. La strategia originaria consisteva, ad esempio, nell’assumere posizioni su titoli “long” considerati sottovalutati, finanziandosi con titoli “short” considerati sopravvalutati. Nel periodo 1956-1965 le ottime performance di questi strumenti ne provocarono un forte incremento (nei due anni successivi ne furono creati un centinaio). Alle due crisi del 1969-70 e del 1973-74 sopravvissero soltanto il ‘Quantum Fund’ di George Soros e lo ‘Stheinard Partners’ di Michael Stheinardt. La forza finanziaria di alcuni principali funds è stata, nel tempo, tale da recitare funzioni di prima grandezza in grandi eventi valutari internazionali (correzione della sterlina britannica nel 1992; collasso del ringitt malese e ‘crisi asiatica’ del 1997; svalutazione del 30% della lira italiana nel 1992). In alcuni casi, come nella crisi russa del 1998, si produssero anche gravi insuccessi e fallimenti.(NdT)   

[405] Magnified.

[406] Lo swap, nella finanza, appartiene alla categoria degli strumenti ‘derivati’ e consiste nello scambio dei flussi di cassa tra due controparti. Ad esempio, un soggetto A può acquistare un ‘bond’ a tasso variabile e corrispondere gli interessi ad un soggetto B. B, che a sua volta acquista un ’bond’  tasso fisso, percepisce gli interessi variabili di A e gli gira gli interessi fissi. Il ‘credit default swap’ è un accordo tra un acquirente ed un venditore a seguito del quale il compratore paga un premio periodico a fronte dell’impegno al pagamento da parte del venditore in occasione di un evento relativo ad un credito a cui il contratto è stato riferito (come, ad esempio, il fallimento del debitore di tale contratto di riferimento). Per il compratore tenuto al pagamento del premio,  è una forma di assicurazione, i cui vantaggi si riscuotono al momento delle digrazie di terzi (ad esempio, i beneficiari di mutui immobiliari che vanno in crisi).

[407] E’ contratto in base al quale una controparte, detta acquirente di protezione, trasferisce all’altra, il venditore di protezione, il rischio di default relativo ad un terzo soggetto che ha emesso un’attività creditizia (Reference Entity) di cui l’acquirente di protezione è titolare.

 

[408] The fine print. Lett. “la stesura a caratteri minimi, molto piccoli” (oovero, comprensiva di tuytti i particolari):

[409] Who had been huddling with them. Lett. “che si sono tenuti vicini con loro”.

[410] Racket.

[411] And if we don’t lower the boom on these practices. Lett. “e se non abbassereme il boom su queste pratiche”

[412] Where he urged.

[413] An audience drawn  largely from Wall Street.

[414] Populistic stance. Nel normale dibattito politico americano, “populistic” è una espressione, per così dire, pragmatica, che non comporta necessariamente  i significati ideologici negativi delle espressioni italiane “populismo/populistico”.

[415] They would make finance safer, but they might not make it smaller. Lett. “essi renderebbero la finanza più sicura, ma essi non avrebbero il potere di renderla più piccola”.

[416] Gordon Gekko è il nome del personaggio che nel film era interpretato da Michael Douglas, che per altro ottenne l’Oscar per il miglior attore.

[417] Piker. Una espressione antica, che indica un soggetto che “scommette con piccole somme”.

[418] So why where bankers raking it in? Lett. “dunque, perché furono i banchieri a farci un sacco di soldi?”. “To rake” significa “rastrellare”; “to rake in” significa “farsi (soldi, profitti)”. 

[419] My take. “Take” come sostantivo significa “ripresa (cinematografica)” o ppure “rendita di un terreno”, o anche “presa (nel senso di ‘carniere’ o di ‘pescato’).. Ma è implicitamente assai usato anche come “opinione, posizione, punto di vista”.

[420] Is that it was mainly about gambling with other people’s money. Lett. “è che ciò è avvenuto principalmente a proposito del giocare con i soldi dell’altra gente”. 

[421] Much-touted. Lett. “tanto sollecitati”.

[422] Too bad. Nella forma di una esclamazione, il significato è “peccato”.

[423] And its Congressional allies. E’ interessante notare, a proposito del rispetto che nella cultura istituzionale americana esiste verso l’autonomia dei parlamentari,  che la maggioranza al Congresso venga definita con il termine “allies”(“alleati”).

[424] Breathtaking. Lett. “mozzafiato”.

[425] Critical outsiders. Outsider, in questo caso, indica chiaramente estraneità all’ambiente, piuttosto che ‘provenienza estera’. Il riferimento nella frase successiva al Fondo Monetario Internazionale conferma quella traduzione: ovvero, non lo stanno dicendo solo persone “estranee all’ambiente”, giacchè lo dice anche il FMI che non è certo estraneo.

[426] Of all places. Si tratta di una interiezione traducibile con “che sorpresa!, nientemeno etc.”, che nel linguaggio parlato è sempre accompagnata da una particolare accentuazione della voce.

[427] Tassa sull’Attività Finanziaria.

[428] La stupita ironia consiste nel gioco di parole: FAT = grasso.

[429] “To howl” significa “ululare, singhiozzare”.

[430] Devising and peddling.

[431] Berating the Raters. L’espressione “berating” (“redarguire, rampognare”) è in apparenza un po’ debole per il successivo contenuto dell’articolo. Ma probabilmente si gioca sulla assonanza con “raters”, ovvero con gli analisti della agenzie di rating.

[432] Ferdinand Pecora era il nome di un assistente della Procura distrettuale della Contea di New York che, a cominciare dal 1933, so occupò per conto della Commissione sulle Banche e la Valuta del Senato degli Stati Uniti, della indagine sulle cause della crisi di Wall Street. Il suo impegno in tale attività fu così proficuo, che, pur essendo un semplice consulente – il quarto in ordine di tempo, dopo che i primi tre furono allontanati per scarsi risultati – finì col dare il nome alla Commissione, pur non essendone mai stato Presidente.  

[433] Have made headlines. Lett. “Hanno fatto i titoli dei giornali”.

[434] Nella finanza, lo “short selling” (o “shorting”, o “ “going short”) è la pratica della vendita di assets che sono stati presi a prestito da un terzo (normalmente un broker) con l’intenzione di acquistare identici assets in una data successiva, per restituirli al prestatore. Lo “shorting” si basa sulla speranza di guadagnare da un declino del prezzo degli assets tra il momento della vendita e quello della restituzione, dato che il venditore spenderà meno per acquistare gli assets da restituire  rispetto a quanto ha ottenuto vendendo quelli originari. 

[435] It was ugly, but that didn’t amount to wrongdoing.

[436] AAA è il punteggio più elevato che si può ottenere dalle agenzie; corrisponde a condizioni di massima sicurezza del capitale investito.

[437] To junk status.

[438] Corporate debt. “Debt” è  espressione alternativa ad “obbligazioni”, ovvero a ‘titoli di debito’.

[439] A seal od approval.

[440] Issuers of debt. Lett. “gli emittenti del debito”.

[441] By slicing and dicing claims. Lett. “attraverso rivendicazioni/pretese consistenti nell’affettare e nello sminuzzare”. Traduco con “ardite operazioni”, che mi sembra un possibile  significato implicito nel ‘pretendere di fare qualcosa’.

[442] Because of the ongoing threat of losing deals.

[443] Ne linguaggio finanziario delle agenzie i mutui sono suddivisi in tre categorie: i “subprime”, ovvero i più rischiosi; gli “A-paper”, i migliori; gli “Alt-A” (termine sintetico per “Alternative-A-Paper”) che sono più rischiosi dei secondi, ma meno dei primi.

[444] Handing out fake IDs.Il senso dovrebbe essere che negli USA esiste una legislazione che limita ai minorenni la possibilità di bere alcoolici (le feste sono “senza regole” nel senso che le false certificazioni consentono di eludere ogni regola).

[445] That might have teeth. Lett. “che potrebbe avere i denti”.

[446] “Knowing or reackless failure”. Espressiome probabilmente del gergo penalistico. “Knowing” significa “d’intesa” oppure “consapevole”. “Reckless failure” significa “fallimento avventato, sconsiderato, temerario”.

[447] I’m not wedded to that particular proposal. Lett. “Io non sono sposato/devoto a questa particolare proposta”.

[448] To pretend.

[449] Than honest errors.

[450] Oops.

[451] Morning in America. Nel 1984 il Partito repubblicano di Reagan partecipò alla campagna elettorale presidenziale con uno spot dal titolo “Prouder, stronger, better” (“Più orgogliosi, più forti, migliori”), comunemente chiamato “morning in America”, nel quale si presentavano serene  immagini mattutine di gente che andava al lavoro, sullo sfondo di una narrazione che elogiava i risultati economici ottenutidalla prima amministrazione Reagan. 

[452] Is no longer rolling in.

[453] Giving up. Lett. “smetterla con”.

[454] That even hinted that it was considering leaving the euro. “Lett. “che avesse accennato al fatto che stava considerando di abbandonare”.

[455] Volendo, in italiano si potrebbe ben dire “una crisi generale per inadempienza”.

[456] As an object lesson.

[457] In the evils of government red ink. Lett. “sui mali del governo con l’inchiostro rosso”.

[458] Straitjacket.

[459] But when crisis strikes.

[460] Need to be able to act. Lett. “hanno bisogno di essere capaci di agire”.

[461] “Drilling, disaster, denial”. Non è univoco il significato, nel contesto del successivo articolo, del termine “denial”. Può significare: “diniego, rifiuto, negazione, ripulsa, sconfessione, rinuncia, restrizione”. Scelgo di tradurre con “sconfessioni” riferendo il senso alla ultime frasi dell’articolo, laddove si mette in evidenza come Obama dovrà avere la forza di smentire se stesso, ovvero la decisione autorizzata il mese scorsi di riprendere le trivellazioni sull’Oceano Atlantico. 

[462] Has a strangely old-fashioned feel.

[463] L’Earth Day è un giorno dedicato alla comprensione ed alla consapevolezza delle tematiche connesse con le condizioni del pianeta. Viene celebrato ogni anno, in primavera nell’emisfero settentrionale ed in autunno in quello meridionale, in 175 nazioni. Fu promosso per la prima volta dal senatore americano Gaylord Nelson.

[464] In this very dark cloud.

[465] Nel 1969 avvenne lo sversamento di circa 12,8 milioni di litri di petrolio da una petroliera, dinanzi a Santa Barbara, a nord di Los Angeles.

[466] Il Cuyahoga River nel Northeast Ohio, uno dei fiumi più inquinati d’America, venne definito dalla rivista ‘Time’ come un fiume “che sversa, anziché scorrere”, al punto che “chiunque casca dentro il fiume non annega. Si decompone”. Nel 1969 prese fuoco.

[467] L’Erie è il lago dove ‘recapita’ il Cuyahoga River.

[468] Agenzia di Protezione Ambientale (EPA).

[469] Legge per l’Acqua Pulita.

[470] To construct a narrative.

[471] Effete.

[472] To block construction of a wind farm off Cape Cod.

[473] Played right in that caricature.

[474] Have be winning the argument. Lett. “stanno vincendo la discussione”.

[475] Might have blown up the rig. Lett. “potrebbero aver esploso la piattaforma”.

[476] To head off. Lett. “per (far) partire”

[477] Has just taken a big hit. Lett. “ha solo preso un gran colpo”.

[478] Will America take heed?

[479] Needs to size the moment. Veramente sarebbe “ha bisogno di prendere la palla al balzo”, ma per noi sarebbe un’espressione piuttosto cinica …

[480] Take on. Lett. “assumersi, accollarsi”.

[481] “Drill, baby, drill”. E’ lo slogan dei conservatori, che nel corso della campagna elettorale sostenevanop in questo modo la richiesta di riprendere su vasta scala le perforazioni oceaniche, alla ricerca di nuovi campi di petrolio.

[482] That will hardly affect. Lett. “che riguarderanno a fatica”

[483] To claim the moral high ground now. Lett. “proclamare adesso  la morale sulla terra alta (la  collina)”, espressione idiomatica che sta per “assumere ora una posizione moralistica”. Come per la nota 10 della pagina precedente, anche in questo caso l’espressione, nel nostro linguaggio politico, ha una connotazione nettamente negativa: tutto ciò che a a che vedere con le posizioni ‘strumentali’ nel confronto politico – come un certo moralismo – hanno per noi un certo connotato di cinismo, mentre per gli americani fanno parte del normale pragmatismo di quella funzione.

[484] Il titolo si riferisce ad una frase dell’articolo, con la quale si stabilisce un paragone con un “ponte troppo lontano”, quello sul fiume Reno ad Arnhem. Vedi nota 5.

[485] brief swoon.

[486] Forma succinta, per Down Jones.

[487] worriers.

[488] Arnhem è, in realtà, una città dei Paesi Bassi, nella quale nel settembre del 1944 truppe britanniche e polacche che avevano il compito di essere paracadutate in quell’area e di  impossersi di un ponte sul Reno, provenendo dai due lati, non ci riuscirono. Il nome “ponte troppo lontano” derivò dal fatto che le truppe britanniche furono paracadutate troppo lontane dal luogo in cui avrebbero dovuto, per poter raggiungere e prendere possesso del ponte. Il 21 settembre il grosso di quelle truppe fu catturato.

[489] Vedi nota pag.

[490] Even if it completely stopped servicing its debt.

[491] and accepting – indeed welcoming.

[492] governments. In questo e in altri articoli, frequentemente si traduce “government” con “stato”, quando, come in questo caso, il riferimento non è semplicemente alle funzioni di un potere esecutivo. In americano esiste un meccanismo di ‘generalizzazione’ per il quale spesso i due termin coincidono (come spesso “fiscale” coincide con “finanziario”, come nella parola successiva).

[493] it will play something like Argentina in 2001, wich had a supposedly permanent, unbreakable peg to the dollar. “Peg” significa “riferimento, ancoraggio”, per cui è preferibile inserire un riferimento alla valuta.

[494] shambolic. Slang inglese per “caotico, incasinato, del tutto disordinato”.

[495] blowout.

[496] a backup shutdown system. Lett. “un sistema di bloccaggio dotato di backup (in informatica: dispositivo separato di memoria)”.

[497] Jack Abramoff: lobbista, nonchè dirigente di un gruppo di ‘think tank’ repubblicano,venne giudicato e condannato agli arresti per una frode di dieci milioni di dollari a danno di alcune tribù indiane (nelle attività connesse con i giochi di azzardo che in vari stati sono affidate in concessione a tali tribù).L’indagine portò anche alla condanna di Griles.

[498] undue influence.

[499] promiscuity. Significa “promiscuità” ma anche “licenziosità”.

[500] Agenzia Federale di Gestione delle Emergenze, in pratica il corrispondente della Protezione Civile italiana.

[501] cruel joke.

[502] silver lining.

[503] ill wind. Lett. “vento malato”; normalmente si traduce con “situazione avversa”, ma poiché in questo caso è seguito dal verbo “blow” (soffiare), probabilmente gioca con entrambi i significati.

[504] and it’s also showing up in revenues. Lett. “Essa (la crescita) sta anche apparendo nelle entrate”.

[505] we are on track to match. Lett. “siamo in linea per eguagliare”.

[506] under the hood. Lett. “sotto il cofano,  la cappa, il cappuccio”

[507] those who pretend to be concerned with fiscal responsability. Lett. “Coloro che si pretendono preoccupati della responsabilità finanziaria”.

[508] welfare state. “Welfare” significa genericamente “benessere (nel senso di “happiness”, “felicità”), stato di salute (nel senso di  “health”, ovvero di effettiva salute)”, e significa “sistema di sussidi pubblici”. La normale traduzione italiana di “stato del benessere” non aiuta a cogliere il significato specifico di “stato fondato sulla generalizzazione della assistenza”, che in questo caso è indispensabile.

[509] hosts. Lett. “ospiti”, ma è probabile che si intenda “coloro che ospitano”.

[510] new organisations. 

[511] a story.

[512] alternative hypoteses. Traduco con “ulteriori” giacchè in italiano “alternativo” ha maggiormente il significato di ipotesi che si escludono mutualmente.Inoltre, traduco con “considerazioni” per le ragioni che si evincono dalla frase successiva.

[513] Vedi nota  a pag  . L’espressione “it’s economics, stupid!” deriva da una battuta con la quale Clinton rispose, in un eccesso di sincerità, ad un suo interlocutore che tardava a comprendere la ragione economica di una certa vicenda. E’ diventata sinonimo, in pratica, di una circostanza evidente, innegabile, ovvia.

[514] wasn’t a story.

[515] are non longer as eager to downplay.

[516] media critic.

[517] who had “ lost a couple of screws”. Lett. “che avevano perso una coppia di viti”.

[518] True, that’s not how it was supposed to work. Lett. “Vero, non è come si era supposto funzianare”.

[519]market-know-best” e “regulation-is-always-bad” (lett. “il mercato-conosce-il-massimo” e “la-regolazione-è-sempre-cattiva”).

[520] the gut reaction of many voters is to move right. Lett. “la reazione della pancia di molti elettori muove verso destra”.

[521] Lost decade looming? Lett. “Il profilarsi di un decennio perduto?”.

[522] uptick. “Una transazione sui mercati azionari ad un prezzo superiore alla transazione precedente”.

[523] we may be heading for a Japan-style lost decade. Lett. “possiamo dirigerci verso un decennio perso sull’esempio del Giappone”.

[524] jump-starting.

[525] self-sustaining recovery.

[526] So here’s how it is.

[527] they ‘re as mad as hell, and they’re not going to take this anymore. “To be as mad as hell” (lett. “essere così pazzi/furibondi come l’inferno”) è espressione idiomatica che sta per “essere fuori di sé dalla rabbia”. “not to take something anymore” significa “non sopportare (più) qualcosa in ogni caso”. Ma l’intera espressione pare sia desunta da un film famoso diretto da Sidney Lumet (“Network”) ed è diventata di uso  frequentissimo. Il famoso conduttore di talk-show della destra repubblicana Glenn Beck si è più volte paragonato al uno dei personaggi del film, forse a quello che pronuncia la frase diventata famosa.

[528] E’  la definizione che si dà ad organismi di finanziamento privato dei Partiti, resi possibili da una legge dell’epoca di Bush che incrementò in modo sensibile il legale intervento lobbistico nella vita politica americana.

[529] have gone all out.

[530] masters of the universe.

[531] grass-roots. Significa “gente comune” o anche “società civile”. Espressione idiomatica (lett. “radici dell’erba”).

[532] to whip up.

[533] “Il bivio americano”.

[534] brainchild.

[535] darling. “Caro, amato, tesoro” ma anche “beniamino”.

[536] where does that leave the president and… Vedi “to leave” WordReference-english definition, n. 11 (ovvero, “lasciare” nel senso di “condurre a..”, “creare” etc.)

[537] war profiteering.

[538] to find his inner FDR. lett. “di trovare il suo FDR (Franklin Delano Roosvelt) interno”.

[539] The pain caucus. Il senso dell’articolo è chiarito dall’articolo. “Caucus” può significare “incontro di dirigenti politici” o anche “cricca di politici”. Nel contesto, appare utilizzabile l’espressione italiana “partito”, nel senso generico di ‘gruppo di persone che sostengono una tesi’. 

[540] “acceptability” ha tale estesa definizione in WordReference.com.

[541] In italiano OCSE, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.

[542] so as to head off inflation. “To head off” significa “partire, incamminarsi, avviarsi”. Il concetto non è necessariamente contraddittorio, nel senso che una inflazione molto bassa come quella in corso è considerata il segno di una ripresa che stenta a decollare. In effetti, però, considerato il tono delle espressioni successive – relative alla assenza di minacce inflattive – potrebbe anche trattarsi di un refuso (ovvero, che si intendesse dire “in modo da non far ripartire l’inflazione”). 

[543] scaled back.Lett. “sono scesi dalla scala”.

[544] left town. “Ha lasciato la città”, suppongo nel senso di aver lasciato la capitale, ovvero di aver chiuso la sua sessione.

[545] “Conventional wisdom” è lo stesso termine che utilizzava Keynes per descrivere l’unanimismo di politiche economiche controproducenti negli anni 30.

[546] Ugly sta per: cattivo, orribile, deprecabile.. anche arrabbiato. In questo caso, probbailmente, il senso è quello di ‘moralmente reprensibile’ per la tendenza a sprecare.

[547] next to nothing

[548] tax breakes.

[549] sanctimoniously.

[550] was instrumental.

[551] deficit hawkery. Lett. sarebbe “la falconeria del deficit”.

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