Articoli sul NYT

Articoli sul New York Times dal 22 settembre 2011 al 29 dicembre 2011

The Social Contract

By PAUL KRUGMAN

Published: September 22, 2011

This week President Obama said the obvious: that wealthy Americans, many of whom pay remarkably little in taxes, should bear part of the cost of reducing the long-run budget deficit. And Republicans like Representative Paul Ryan responded with shrieks of “class warfare.”

 

It was, of course, nothing of the sort. On the contrary, it’s people like Mr. Ryan, who want to exempt the very rich from bearing any of the burden of making our finances sustainable, who are waging class war.

As background, it helps to know what has been happening to incomes over the past three decades. Detailed estimates from the Congressional Budget Office — which only go up to 2005, but the basic picture surely hasn’t changed — show that between 1979 and 2005 the inflation-adjusted income of families in the middle of the income distribution rose 21 percent. That’s growth, but it’s slow, especially compared with the 100 percent rise in median income over a generation after World War II.

 

Meanwhile, over the same period, the income of the very rich, the top 100th of 1 percent of the income distribution, rose by 480 percent. No, that isn’t a misprint. In 2005 dollars, the average annual income of that group rose from $4.2 million to $24.3 million.

So do the wealthy look to you like the victims of class warfare?

To be fair, there is argument about the extent to which government policy was responsible for the spectacular disparity in income growth. What we know for sure, however, is that policy has consistently tilted to the advantage of the wealthy as opposed to the middle class.

Some of the most important aspects of that tilt involved such things as the sustained attack on organized labor and financial deregulation, which created huge fortunes even as it paved the way for economic disaster. For today, however, let’s focus just on taxes.

The budget office’s numbers show that the federal tax burden has fallen for all income classes, which itself runs counter to the rhetoric you hear from the usual suspects. But that burden has fallen much more, as a percentage of income, for the wealthy. Partly this reflects big cuts in top income tax rates, but, beyond that, there has been a major shift of taxation away from wealth and toward work: tax rates on corporate profits, capital gains and dividends have all fallen, while the payroll tax — the main tax paid by most workers — has gone up.

 

And one consequence of the shift of taxation away from wealth and toward work is the creation of many situations in which — just as Warren Buffett and Mr. Obama say — people with multimillion-dollar incomes, who typically derive much of that income from capital gains and other sources that face low taxes, end up paying a lower overall tax rate than middle-class workers. And we’re not talking about a few exceptional cases.

 

According to new estimates by the nonpartisan Tax Policy Center, one-fourth of those with incomes of more than $1 million a year pay income and payroll tax of 12.6 percent of their income or less, putting their tax burden below that of many in the middle class.

 

Now, I know how the right will respond to these facts: with misleading statistics and dubious moral claims.

On one side, we have the claim that the rising share of taxes paid by the rich shows that their burden is rising, not falling. To point out the obvious, the rich are paying more taxes because they’re much richer than they used to be. When middle-class incomes barely grow while the incomes of the wealthiest rise by a factor of six, how could the tax share of the rich not go up, even if their tax rate is falling?

On the other side, we have the claim that the rich have the right to keep their money — which misses the point that all of us live in and benefit from being part of a larger society.

Elizabeth Warren, the financial reformer who is now running for the United States Senate in Massachusetts, recently made some eloquent remarks to this effect that are, rightly, getting a lot of attention. “There is nobody in this country who got rich on his own. Nobody,” she declared, pointing out that the rich can only get rich thanks to the “social contract” that provides a decent, functioning society in which they can prosper.

 

Which brings us back to those cries of “class warfare.”

Republicans claim to be deeply worried by budget deficits. Indeed, Mr. Ryan has called the deficit an “existential threat” to America. Yet they are insisting that the wealthy — who presumably have as much of a stake as everyone else in the nation’s future — should not be called upon to play any role in warding off that existential threat.

 

Well, that amounts to a demand that a small number of very lucky people be exempted from the social contract that applies to everyone else. And that, in case you’re wondering, is what real class warfare looks like.

 

Il contratto sociale, di Paul Krugman

22 settembre 2011

 

Questa settimana il Presidente Obama ha detto una cosa ovvia: gli americani ricchi, molti dei quali pagano incredibilmente poco di tasse, dovrebbero prendere sulle loro spalle una parte del costo della riduzione del deficit di lungo-periodo. E repubblicani come Paul Ryan hanno risposto gridando alla “lotta di classe”.

Non si trattava, naturalmente, di niente del genere. Al contrario, sono le persone come il signor Ryan, che vogliono esentare i più ricchi dal partecipare minimamente all’onere di rendere le nostre finanze sostenibili, che hanno intrapreso la lotta di classe.

 

Sullo sfondo, questo aiuta a capire che cosa sia accaduto ai redditi nei tre decenni passati. Stime dettagliate da parte del Congressional Budget Office – che risalgono soltanto al 2005, ma il quadro fondamentale sicuramente non è cambiato – mostrano che tra il 1979 ed il 2005 il reddito corretto dall’inflazione delle famiglie che sono nella media della distribuzione del reddito è cresciuto del 21 per cento. E’ stata la crescita, ma una crescita lenta, specialmente se confrontata con la crescita del 100 per cento dei redditi medi della generazione successiva alla Seconda Guerra Mondiale.

Nello stesso tempo, il reddito dei molto ricchi, l’uno per cento di coloro che sono in cima alla scala, è cresciuto del 480 per cento. No, non è un errore di stampa. In dollari del 2005, il reddito medio annuale di quel gruppo è cresciuto da 4,2 milioni di dollari a 24,3 milioni di dollari.

 

Possono dunque i ricchi presentarsi come le vittime della lotta di classe?

Ad essere onesti, c’è discussione a proposito della misura nella quale il governo è stato responsabile di una disparità così spettacolare nella crescita dei redditi. Tuttavia, quello che sappiamo con certezza è che la politica è stata propensa ad avvantaggiare in modo consistente i più ricchi anziché le classi medie.

Alcuni degli aspetti più importanti di quella propensione hanno riguardato aspetti quali l’attacco prolungato alle organizzazioni dei lavoratori e la deregolamentazione del sistema finanziario, che hanno create enormi fortune, pur avendo preparato la strada al disastro economico. Per oggi, tuttavia, concentriamoci sulle tasse.

Il dati dell’ufficio del bilancio mostrano che il peso del fisco federale è diminuito per tutte le classi di reddito, la qualcosa di per sé smentisce la retorica che ascoltate dai soliti noti. Ma il peso è diminuito molto di più, come percentuale del reddito, per i ricchi. In parte questa è stata una conseguenza dei grandi tagli alle aliquote fiscali dei redditi più alti, ma, oltre a ciò, c’è stato un importante spostamento della fiscalità, dai ricchi verso il lavoro: le aliquote fiscali sui profitti societari, sui guadagni da capitale e sui dividendi sono tutte cadute, mentre la tassa sugli stipendi – la tassa principale pagata dai lavoratori – è andata su.

E la conseguenza dello spostamento della fiscalità dai ricchi al mondo del lavoro è la creazione di molte situazioni nelle quali – proprio come dicono Warren Buffett ed Obama – la gente con redditi multimilionari, che normalmente deriva gran parte di quei redditi da plusvalenze e da altre fonti che sono sottoposte ad una tassazione minore, finisce col pagare una aliquota fiscale generale più bassa dei lavoratori della classe media. E non stiamo parlando di pochi casi eccezionali.

Secondo le nuove stime dell’indipendente Tax Policy Center, un quarto dei detentori di redditi superiori ad un milione di dollari all’anno pagano tasse sul reddito e sugli stipendi pari al 12,6 per cento del loro reddito, se non di meno, in modo tale che il loro onere fiscale si colloca al di sotto di quello di molti componenti della classe media.

 

Ora, conosco come la destra risponderà a questi dati di fatto: con statistiche fuorvianti e con argomenti di carattere morale assai dubbi.

Da una parte, avremo l’affermazione secondo la quale la quota crescente di tasse pagate dai ricchi dimostrerebbe che il loro carico fiscale si è accresciuto, e non diminuito. Mi limito ad indicare l’ovvietà: i ricchi starebbero pagando più tasse perché sono molto più ricchi di quanto erano un tempo. Quando i redditi della classe media crescono appena mentre quelli dei più ricchi aumentano di sei volte, come potrebbe la parte di tasse a carico dei ricchi non salire, anche se l’aliquota fiscale sta calando?

Dall’altra parte avremo l’argomento secondo il quale i ricchi hanno diritto a tenersi il loro denaro – al quale argomento sfugge il fatto che tutti noi viviamo e traiamo benefici dall’essere parte di una società più ampia.

 

Elizabeth Warren, la riformatrice del sistema finanziario [1] ora in competizione per il Senato degli Stati Uniti nel collegio del Massachusetts, recentemente ha avanzato alcune osservazioni eloquenti a questo proposito, che, giustamente, stanno raccogliendo molta attenzione. “Non c’è nessuno in questo paese che diventa ricco per conto suo. Nessuno”, ha dichiarato, notando che i ricchi possono diventare ricchi solo grazie al “contratto sociale” che fornisce una società dignitosa e funzionante, nella quale essi possono prosperare.

Il che ci riporta a quegli strepiti sulla “lotta di classe”.

I Repubblicani sostengono di essere profondamente preoccupati per i deficit di bilancio. In effetti, il signor Ryan ha definito il deficit una “minaccia esistenziale” per l’America. Tuttavia, essi continuano a sostenere che i ricchi – che presumibilmente sono coloro che hanno la posta in gioco più alta di tutti sul futuro della nazione – non dovrebbero essere invitati a giocare alcun ruolo particolare nel respingere tale minaccia esistenziale.

Ebbene, questo è come chiedere che un piccolo numero di persone molto fortunate sia esentato dal contratto sociale che si applica per tutti gli altri. La qualcosa, nel caso ve lo stiate chiedendo, è ciò che davvero assomiglia alla lotta di classe.  

 

 

 

 

Euro Zone Death Trip

By PAUL KRUGMAN
Published: September 25, 2011

Is it possible to be both terrified and bored? That’s how I feel about the negotiations now under way over how to respond to Europe’s economic crisis, and I suspect other observers share the sentiment.

On one side, Europe’s situation is really, really scary: with countries that account for a third of the euro area’s economy now under speculative attack, the single currency’s very existence is being threatened — and a euro collapse could inflict vast damage on the world.

On the other side, European policy makers seem set to deliver more of the same. They’ll probably find a way to provide more credit to countries in trouble, which may or may not stave off imminent disaster. But they don’t seem at all ready to acknowledge a crucial fact — namely, that without more expansionary fiscal and monetary policies in Europe’s stronger economies, all of their rescue attempts will fail.

The story so far: The introduction of the euro in 1999 led to a vast boom in lending to Europe’s peripheral economies, because investors believed (wrongly) that the shared currency made Greek or Spanish debt just as safe as German debt. Contrary to what you often hear, this lending boom wasn’t mostly financing profligate government spending — Spain and Ireland actually ran budget surpluses on the eve of the crisis, and had low levels of debt. Instead, the inflows of money mainly fueled huge booms in private spending, especially on housing.

 

 

But when the lending boom abruptly ended, the result was both an economic and a fiscal crisis. Savage recessions drove down tax receipts, pushing budgets deep into the red; meanwhile, the cost of bank bailouts led to a sudden increase in public debt. And one result was a collapse of investor confidence in the peripheral nations’ bonds.

 

So now what? Europe’s answer has been to demand harsh fiscal austerity, especially sharp cuts in public spending, from troubled debtors, meanwhile providing stopgap financing until private-investor confidence returns. Can this strategy work?

 

Not for Greece, which actually was fiscally profligate during the good years, and owes more than it can plausibly repay. Probably not for Ireland and Portugal, which for different reasons also have heavy debt burdens. But given a favorable external environment — specifically, a strong overall European economy with moderate inflation — Spain, which even now has relatively low debt, and Italy, which has a high level of debt but surprisingly small deficits, could possibly pull it off.

 

Unfortunately, European policy makers seem determined to deny those debtors the environment they need.

Think of it this way: private demand in the debtor countries has plunged with the end of the debt-financed boom. Meanwhile, public-sector spending is also being sharply reduced by austerity programs. So where are jobs and growth supposed to come from? The answer has to be exports, mainly to other European countries.

 

But exports can’t boom if creditor countries are also implementing austerity policies, quite possibly pushing Europe as a whole back into recession.

Also, the debtor nations need to cut prices and costs relative to creditor countries like Germany, which wouldn’t be too hard if Germany had 3 or 4 percent inflation, allowing the debtors to gain ground simply by having low or zero inflation. But the European Central Bank has a deflationary bias — it made a terrible mistake by raising interest rates in 2008 just as the financial crisis was gathering strength, and showed that it has learned nothing by repeating that mistake this year.

 

As a result, the market now expects very low inflation in Germany — around 1 percent over the next five years — which implies significant deflation in the debtor nations. This will both deepen their slumps and increase the real burden of their debts, more or less ensuring that all rescue efforts will fail.

And I see no sign at all that European policy elites are ready to rethink their hard-money-and-austerity dogma.

Part of the problem may be that those policy elites have a selective historical memory. They love to talk about the German inflation of the early 1920s — a story that, as it happens, has no bearing on our current situation. Yet they almost never talk about a much more relevant example: the policies of Heinrich Brüning, Germany’s chancellor from 1930 to 1932, whose insistence on balancing budgets and preserving the gold standard made the Great Depression even worse in Germany than in the rest of Europe — setting the stage for you-know-what.

 

Now, I don’t expect anything that bad to happen in 21st-century Europe. But there is a very wide gap between what the euro needs to survive and what European leaders are willing to do, or even talk about doing. And given that gap, it’s hard to find reasons for optimism.

 

Il viaggio della morte dell’eurozona, di Paul Krugman

25 settembre 2011

 

E’ possibile essere insieme terrificati ed annoiati? Questo è il mio stato d’animo a proposito delle trattative in corso su come rispondere alla crisi europea,  ed ho il sospetto che altri osservatori condividano quel sentimento.

Da una parte la situazione europea fa davvero paura: con i paesi che costituiscono un terzo dell’area euro attualmente sotto l’attacco della speculazione, è stata minacciata la stessa esistenza della moneta unica – e un collasso dell’euro provocherebbe un danno enorme al mondo intero.

Dall’altra parte, gli operatori politici europei sembrano oggi maggiormente disposti a prendere decisioni. Probabilmente essi troveranno un modo per fornire maggiore credito ai paesi in difficoltà, il che potrà o non potrà scongiurare il disastro imminente. Ma essi non sembrano affatto pronti a riconoscere il fatto cruciale – precisamente, che senza politiche monetarie e della finanza pubblica espansive, tutti i loro tentativi di salvataggio risulteranno vani.

Questa è la storia, sino a questo punto: l’introduzione dell’euro portò ad un grande boom nella concessione di prestiti alle economie periferiche dell’Europa, perché gli investitori credevano (sbagliando) che una moneta comune avrebbe reso il debito della Grecia o della Spagna altrettanto sicuro di quello tedesco. Diversamente da quanto spesso si dice, il boom dei prestiti non andò principalmente a finanziare la spesa pubblica sregolata dei governi – la Spagna e l’Irlanda, in effetti, realizzavano surplus di bilancio nell’epoca della crisi, ed avevano livelli di indebitamento bassi. Piuttosto, i flussi di moneta principalmente alimentarono forti espansioni nella spesa privata, particolarmente nel settore immobiliare.

Sennonché, quando il boom dei prestiti bruscamente si interruppe, il risultato fu una crisi sia dell’economia che della finanza pubblica. Recessioni selvagge spinsero in basso le entrate fiscali, portando i conti pubblici in profondo squilibrio; nel frattempo, il costo dei salvataggi delle banche accrebbe improvvisamente il debito pubblico. Ed un risultato fu il collasso della fiducia degli investitori sulle obbligazioni delle nazioni periferiche.

Dunque, che fare adesso? La risposta dell’Europa è stata quella di esigere da parte dei debitori in difficoltà una rigida austerità delle finanze pubbliche, in particolare bruschi tagli della spesa pubblica, nel frattempo fornendo finanziamenti tampone sino a che la fiducia degli investitori non fosse tornata. Può funzionare una strategia del genere?

Non nel caso della Grecia, che effettivamente ebbe una finanza allegra durante gli anni buoni, e si indebitò per più di quanto non fosse nelle condizioni di restituire. Probabilmente non per l’Irlanda e il Portogallo, che per diverse ragioni hanno anch’essi un pesante fardello di debiti. Ma, a fronte di un contesto esterno favorevole – ovvero, di una economia europea nel complesso forte con una inflazione moderata – la Spagna, che sinora ha un debito relativamente basso, e l’Italia, che ha un livello del debito alto ma deficit sorprendentemente modesti, potrebbero venirne fuori.

Sfortunatamente, gli operatori politici europei sembrano determinati a negare a quei debitori  il contesto di cui hanno bisogno.

Si consideri la situazione da questo punto di vista: la domanda privata nei paesi debitori è crollata, con la fine del boom finanziato col debito. Nel frattempo, anche la spesa del settore pubblico è stata bruscamente ridotta dai programmi di austerità. Da dove si pensa, dunque, che possano venire la crescita e i posti di lavoro? La risposta dovrebbe essere le esportazioni, principalmente verso gli altri paesi europei.

Ma le esportazioni non possono riprendere se i paesi creditori anch’essi sviluppano politiche di austerità, assai verosimilmente spingendo l’Europa nel suo complesso in una recessione.

Inoltre, le nazioni debitrici devono tagliare i prezzi ed i costi a confronto dei paesi creditori come la Germania, il che non sarebbe troppo difficile se la Germania avesse una inflazione del 3 o 4 per cento, consentendo ai debitori di guadagnare terreno solo avendo una inflazione bassa o pari a zero. Ma la Banca Centrale Europea ha un pregiudizio deflazionistico – essa fece un errore tremendo allorquando nel 2008 aumentò i tassi di interesse proprio nel momento in cui la crisi finanziaria prendeva forza, ed ha mostrato di non avere imparato nulla ripetendo lo stesso errore quest’anno.

Il risultato è che il mercato si aspetta oggi una inflazione molto bassa in Germania . circa l’1 per cento nei prossimi cinque anni – il che comporta una significativa deflazione nelle nazioni debitrici. Questo provocherà sia un aggravamento della loro fase depressiva che un incremento del peso reale dei loro debiti, in pratica annullando ogni effetto dei tentativi di salvataggio.

E non si vede alcun segnale da parte dei gruppi dirigenti europei, di essere pronti a ripensare i loro dogmi di severità monetaria e di austerità.

Una parte del problema può dipendere dal fatto che quei gruppi dirigenti hanno una memoria storica piuttosto tendenziosa. Amano ragionare della inflazione tedesca dei primi anni ’20 – una storia che, come spesso succede, non ha niente a che fare con la situazione attuale. Non ragionano quasi per niente di un esempio assai più rilevante: le politiche di Heinrich Brȕning, il Cancelliere tedesco dal 1930 al 1932, la cui insistenza sugli equilibri di bilancio e sul mantenimento del gold standard rese la Grande Depressione in Germania persino peggiore che nel resto dell’Europa – ponendo le premesse per quello che voi sapete.

Ora, non mi aspetto che accadano cose così negative nell’Europa del ventunesimo secolo. Ma c’è un grande divario tra ciò di cui ha bisogno l’euro per sopravvivere e quello che i dirigenti europei hanno la volontà di fare, od anche solo parlano di fare. Considerato questo divario, non è facile trovare ragioni per l’ottimismo. 

   

 

 

 

 

Phony Fear Factor

By PAUL KRUGMAN
Published: September 29, 2011

 

The good news: After spending a year and a half talking about deficits, deficits, deficits when we should have been talking about jobs, job, jobs we’re finally back to discussing the right issue.

The bad news: Republicans, aided and abetted by many conservative policy intellectuals, are fixated on a view about what’s blocking job creation that fits their prejudices and serves the interests of their wealthy backers, but bears no relationship to reality.

Listen to just about any speech by a Republican presidential hopeful, and you’ll hear assertions that the Obama administration is responsible for weak job growth. How so? The answer, repeated again and again, is that businesses are afraid to expand and create jobs because they fear costly regulations and higher taxes. Nor are politicians the only people saying this. Conservative economists repeat the claim in op-ed articles, and Federal Reserve officials repeat it to justify their opposition to even modest efforts to aid the economy.

 

The first thing you need to know, then, is that there’s no evidence supporting this claim and a lot of evidence showing that it’s false.

The starting point for many claims that antibusiness policies are hurting the economy is the assertion that the sluggishness of the economy’s recovery from recession is unprecedented. But, as a new paper by Lawrence Mishel of the Economic Policy Institute documents at length, this is just not true. Extended periods of “jobless recovery” after recessions have been the rule for the past two decades. Indeed, private-sector job growth since the 2007-2009 recession has been better than it was after the 2001 recession.

 

We might add that major financial crises are almost always followed by a period of slow growth, and U.S. experience is more or less what you should have expected given the severity of the 2008 shock.

Still, isn’t there something odd about the fact that businesses are making large profits and sitting on a lot of cash but aren’t spending that cash to expand capacity and employment? No.

After all, why should businesses expand when they’re not using the capacity they already have? The bursting of the housing bubble and the overhang of household debt have left consumer spending depressed and many businesses with more capacity than they need and no reason to add more. Business investment always responds strongly to the state of the economy, and given how weak our economy remains you shouldn’t be surprised if investment remains low. If anything, business spending has been stronger than one might have predicted given slow growth and high unemployment.

 

But aren’t business people complaining about the burden of taxes and regulations? Yes, but no more than usual. Mr. Mishel points out that the National Federation of Independent Business has been surveying small businesses for almost 40 years, asking them to name their most important problem. Taxes and regulations always rank high on the list, but what stands out now is a surge in the number of businesses citing poor sales — which strongly suggests that lack of demand, not fear of government, is holding business back.

So Republican assertions about what ails the economy are pure fantasy, at odds with all the evidence. Should we be surprised?

At one level, of course not. Politicians who always cater to wealthy business interests say that economic recovery requires catering to wealthy business interests. Who could have imagined it?

Yet it seems to me that there is something different about the current state of economic discussion. Political parties have often coalesced around dubious economic ideas — remember the Laffer curve? — but I can’t think of a time when a party’s economic doctrine has been so completely divorced from reality. And I’m also struck by the extent to which Republican-leaning economists — who have to know better — have been willing to lend their credibility to the party’s official delusions.

 

Partly, no doubt, this reflects the party’s broader slide into its own insular intellectual universe. Large segments of the G.O.P. reject climate science and even the theory of evolution, so why expect evidence to matter for the party’s economic views?

And it also, of course, reflects the political need of the right to make everything bad in America President Obama’s fault. Never mind the fact that the housing bubble, the debt explosion and the financial crisis took place on the watch of a conservative, free-market-praising president; it’s that Democrat in the White House now who gets the blame.

 

But good politics can be very bad policy. The truth is that we’re in this mess because we had too little regulation, not too much. And now one of our two major parties is determined to double down on the mistakes that caused the disaster.

 

L’argomento fasullo della paura, di Paul Krugman

New York Times 29 settembre 2011

 

 

La buona notizia: dopo aver speso un anno e mezzo a parlare di deficit, deficit, deficit, mentre avremmo dovuto parlare di lavoro, lavoro, lavoro; siamo finalmente tornati a discutere del problema vero.

 

La cattiva notizia: i Repubblicani, aiutati dalla corresponsabilità di molti intellettuali conservatori, si sono fissati su un punto di vista per il quale bloccare la creazione di posti di lavoro è quanto basta e serve ai loro pregiudizi ed agli interessi dei loro sostenitori ricchi, pur non avendo relazione alcuna con la realtà.

Se si presta attenzione proprio ad ogni discorso degli aspiranti repubblicani alla Presidenza, si sentiranno giudizi secondo i quali la Amministrazione Obama è responsabile della debole crescita del lavoro. Come è possibile? La risposta, ripetuta più e più volte, è che le imprese hanno paura di espandersi e di creare lavoro perché temono regolamenti costosi e tasse più alte. E non sono gli uomini politici gli unici a dirlo. Gli economisti conservatori ripetono quella pretesa in editoriali e commenti, dirigenti della Federal Reserve la ripetono per giustificare la loro opposizione persino a sforzi modesti di aiuto all’economia.

 

La prima cosa che si deve sapere, dunque, è che non c’è alcuna prova a sostegno di quella pretesa, mentre molte prove mostrano la sua falsità.

Il punto di partenza di molte affermazioni a proposito delle politiche contro l’impresa che starebbero danneggiando l’economia, è l’assunto per il quale la lentezza dell’economia nel riprendersi dalla recessione è senza precedenti. Ma, come uno studio di Lawrence Mishel dell’ Economic Policy Institute documenta ampiamente, questo non è vero. Prolungati periodi di “ripresa senza posti di lavoro” a seguito di recessioni sono stati la regola dei due decenni passati. In effetti, la crescita dei posti di lavoro nel settore privato dalla recessione del 2007-2009 è stata migliore di quella successiva alla recessione del 2001.

Potremmo aggiungere che le più importanti crisi finanziarie sono quasi sempre state seguite da un periodo di lenta crescita, e l’esperienza in corso degli Stati Uniti è più o meno quella che ci si sarebbe dovuti aspettare, considerata la severità del colpo subito nel 2008.

Inoltre, non c’è qualcosa di strano nel fatto che le imprese stiano realizzando ampi profitti e se ne restino sedute sui loro guadagni senza spendere quel denaro per far crescere produttività ed occupazione? No.

Dopo tutto, perché le imprese dovrebbero espandersi, quando non utilizzano la capacità produttiva di cui già dispongono? Lo scoppio della bolla immobiliare e la sovraesposizione del debito delle famiglie ha lasciato depressa la spesa dei consumatori ed ha lasciato molte imprese con una maggiore capacità produttiva di quella che servirebbe, e con nessuna ragione per incrementarla ulteriormente. Gli investimenti delle imprese rispondono sempre con forza alle condizioni dell’economia, e data la persistente debolezza di un’economia non si deve essere sorpresi se gli investimenti restano bassi. Semmai, la spesa delle imprese è stata più forte di quanto si poteva prevedere data la lenta crescita e l’elevata disoccupazione.

Ma il mondo delle imprese non si sta lamentando per il peso della tasse e dei regolamenti? Si, ma non più del solito. Il signor Mishel mette in evidenza che la Federazione Nazionale dell’Impresa Privata[2] ha tenuto sotto osservazione le piccole imprese per circa 40 anni, chiedendo loro di indicare i loro problemi principali. Tasse e regolamenti si sono sempre collocati in cima alla lista, ma quello che oggi risalta è la crescita del numero di imprese che indicano il fattore della miseria delle vendite – il che suggerisce con evidenza che è la debolezza della domanda a frenare l’impresa, non la paura dei governi.

E così i giudizi dei repubblicani su quello che deprime l’economia sono pura fantasia, in contrasto con ogni prova? Dovremmo esserne sorpresi?

Da un certo punto di vista, naturalmente no. I politici sempre pronti a soddisfare gli interessi dei settori più ricchi dell’economia sostengono che la ripresa economica richiede di soddisfare gli interessi di quei settori. Perché stupirsi?

Ciononostante, a me pare che ci sia qualcosa di diverso nell’attuale dibattito economico. I partiti politici si sono spesso coalizzati attorno a intuizioni economiche assai dubbie – vi ricordate la curva di Laffer?[3] – ma io non ricordo un’epoca nella quale una dottrina economica fosse in modo così plateale avulsa dalla realtà. Sono anche colpito dalla misura nella quale gli economisti vicini ai repubblicani – che dovrebbero saperne di più – mettono a disposizione senza dubbio alcuno la loro credibilità alle illusioni ufficiali del partito.

In parte, non c’è dubbio, questo riflette il più generale scivolone di quel partito nel proprio ristretto universo intellettuale. Larghi settori del Partito Repubblicano rigettano la scienza del clima e persino la teoria dell’evoluzione, perché dunque far conto su argomenti fondati, quanto ai punti di vista economici di quel partito?

Naturalmente, questo riflette anche il bisogno politico della destra di mettere tutto quello che c’è di negativo in America nel conto della responsabilità del Presidente Obama. Non conta il fatto che la bolla immobiliare, l’esplosione del debito e la crisi finanziaria abbiano preso piede sotto la guida di un Presidente conservatore inneggiante al libero mercato; ora è un Democratico che siede alla Casa Bianca ed è lui che porta le responsabilità.

Ma quello che conviene agli interessi della politica può risolversi in una pessima azione di governo[4]. La verità è che siamo finiti in questo disastro non perché avessimo troppe regole, ma perché ne avevamo poche. Ed oggi uno dei nostri due principali partiti politici è determinato a precipitare nuovamente negli errori che hanno provocato quel disastro.    

 

 

 

Holding China to Account

By PAUL KRUGMAN
Published: October 2, 2011

 

The dire state of the world economy reflects destructive actions on the part of many players. Still, the fact that so many have behaved badly shouldn’t stop us from holding individual bad actors to account.

And that’s what Senate leaders will be doing this week, as they take up legislation that would threaten sanctions against China and other currency manipulators.

Respectable opinion is aghast. But respectable opinion has been consistently wrong lately, and the currency issue is no exception.

Ask yourself: Why is it so hard to restore full employment? It’s true that the housing bubble has popped, and consumers are saving more than they did a few years ago. But once upon a time America was able to achieve full employment without a housing bubble and with savings rates even higher than we have now. What changed?

The answer is that we used to run much smaller trade deficits. A return to economic health would look much more achievable if we weren’t spending $500 billion more each year on imported goods and services than foreigners spent on our exports.

 

To get our trade deficit down, however, we need to make American products more competitive, which in practice means that we need the dollar’s value to fall in terms of other currencies. Yes, some people will shriek about “debasing” the dollar. But sensible policy makers have long known that sometimes a weaker currency means a stronger economy, and have acted on that knowledge. Switzerland, for example, has intervened massively to keep the franc from getting too strong against the euro. Israel has intervened even more forcefully to weaken the shekel.

The United States, given its special global role, can’t and shouldn’t be equally aggressive. But given our economy’s desperate need for more jobs, a weaker dollar is very much in our national interest — and we can and should take action against countries that are keeping their currencies undervalued, and thereby standing in the way of a much-needed decline in our trade deficit.

 

That, above all, means China. And none of the arguments against holding China accountable can stand serious scrutiny.

Some observers question whether we really know that China’s currency is undervalued. But they’re kidding, right? The flip side of the manipulation that keeps China’s currency undervalued is the accumulation of dollar reserves — and those reserves now amount to a cool $3.2 trillion.

 

Others warn of bad consequences if the Chinese stop buying United States bonds. But our problem right now is precisely that too many people want to park their money in American debt instead of buying goods and services — which is why the interest rate on long-term U.S. bonds is only 2 percent.

 

Yet another objection is the claim that Chinese products don’t really compete with U.S.-produced goods. The rebuttal is fairly technical; let me just say that those making this argument both overstate the case and fail to take the indirect effects of Chinese currency policy into account.

 

In the last few days a new objection to action on the China issue has surfaced: right-wing pressure groups, notably the influential Club for Growth, oppose tariffs on Chinese goods because, you guessed it, they’re a form of taxation — and we must never, ever raise taxes under any circumstances. All I can say is that Democrats should welcome this demonstration that antitax fanaticism has reached the point where it trumps standing up for our national interests.

 

To be fair, there are some arguments against action on China that would carry some weight if the times were different. One is the undoubted fact that inflation in China, which is raising labor costs in particular, is gradually eliminating that nation’s currency undervaluation. The operative word, however, is “gradually”: something that brings the United States trade deficit down over four or five years isn’t good enough when unemployment is at disastrous levels right now.

And the reality of the unemployment disaster is also my answer to those who warn that getting tough with China might unleash a trade war or damage world commercial diplomacy. Those are real risks, although I think they’re exaggerated. But they need to be set against the fact — not the mere possibility — that high unemployment is inflicting tremendous cumulative damage as we speak.

 

Ben Bernanke, the chairman of the Federal Reserve, said it clearly last week: unemployment is a “national crisis,” with so many workers now among the long-term unemployed that the economy is at risk of suffering long-run as well as short-run damage.

And we can’t afford to neglect any important means of alleviating that national crisis. Holding China accountable won’t solve our economic problems on its own, but it can contribute to a solution — and it’s an action that’s long overdue.

 

Chiamare la Cina alle sue responsabilità, di Paul Krugman

New York Times 2 ottobre 2011

                             

 

Il terribile stato dell’economia mondiale è il risultato di azioni distruttive da parte di molti soggetti. Inoltre, il fatto che così in tanti si siano comportati male non dovrebbe impedirci dal chiamare ogni singolo protagonista a renderne conto.

E’ quanto faranno i dirigenti del Senato questa settimana, quando si daranno una legislazione con la quale si minacciano sanzioni nei confronti della Cina e di altri manipolatori di valuta.

Un giudizio fermo fa molta impressione. Ma il giudizio fermo è apparso del tutto fuori luogo di recente, e la questione della valuta non fa eccezione.

 

Chiediamoci: perché è così difficile ripristinare la piena occupazione? E’ vero che è scoppiata la bolla immobiliare, e che i consumatori stanno risparmiando più di quanto non facessero anni orsono. Ma un tempo l’America era capace di ottenere la piena occupazione senza bolle immobiliari e con tassi di risparmio persino più elevati di quelli che abbiamo oggi. Cosa è cambiato?

La risposta è che eravamo abituati a gestire deficit commerciali molto più piccoli. Un ritorno ad una condizione economica sana sarebbe assai più raggiungibile se non spendessimo 500 miliardi di dollari all’anno per beni e servizi importati in più di quelli che i paesi esteri spendono per le nostre esportazioni.

Per abbassare il nostro deficit commerciale, tuttavia, abbiamo bisogno di rendere i prodotti americani più competitivi, il che in pratica comporta che il valore del dollaro scenda, a confronto con altre monete. E’ vero, c’è qualcuno che strillerà alla “svalutazione” del dollaro. Ma gli uomini politici di buon senso hanno sempre saputo che talvolta una moneta più debole significa un’economia più forte, ed hanno agito sulla base di tale consapevolezza. La Svizzera, ad esempio, è intervenuta massicciamente per impedire che il franco divenisse troppo forte nei confronti dell’euro. Israele è intervenuto anche più energicamente per tener basso il valore dello sheqel [5]. Gli Stati Uniti, dato il loro particolare ruolo globale, non potrebbero essere parimenti aggressivi. Ma, considerato il bisogno disperato di maggiori posti di lavoro per la nostra economia, un dollaro più debole è un nostro interesse nazionale fondamentale – possiamo e dobbiamo, dunque, intraprendere azioni contro i paesi che stanno tenendo le loro valute sottovalutate, e in tal modo impediscono una riduzione del tutto desiderabile del nostro deficit commerciale.

Questo chiama in causa, soprattutto, la Cina. E nessuno degli argomenti che vengono opposti al chiamare la Cina alle sue responsabilità, regge ad una seria valutazione.

Alcuni osservatori si chiedono se noi abbiamo tutti gli elementi per giudicare che la valuta cinese sia sottovalutata. Ma stanno scherzando, non è vero? La accumulazione delle riserve in dollari è l’altra faccia della manipolazione che tiene la valuta della Cina sottovalutata – e quelle riserve oggi ammontano alla bellezza di 3.200 miliardi di dollari.   

Altri mettono in guardia dalla conseguenze negative se i cinesi cessassero di acquistare obbligazioni degli Stati Uniti. Ma in questo momento il nostro problema è esattamente che troppe persone vogliono parcheggiare il loro denaro nel debito americano, anziché acquistare beni e servizi – e questa è la ragione per la quale il tasso di interesse sui bonds americani a lungo termine è soltanto al 2 per cento.

Tuttavia, un’altra obiezione sta nella pretesa che i prodotti cinesi non siano effettivamente in competizione con i beni prodotti negli Stati Uniti. La si confuta con un argomento piuttosto tecnico, ma vorrei solo dire che coloro i quali sostengono una posizione del genere stimano in modo esagerato quell’aspetto e non mettono nel conto gli effetti indiretti della politica valutaria della Cina.

 

Negli ultimi giorni si è affacciata una nuova obiezione ad una iniziativa sulla questione cinese: i gruppi di pressione della destra, in particolare la influente Associazione per la Crescita, si oppongono alle tariffe sui beni cinesi perché, come potete immaginarvi, esse sarebbero una forma di tassazione – e noi non dobbiamo mai e poi mai alzare le tasse, in nessuna circostanza. Tutto quello che posso dire è che i Democratici dovrebbero dare il benvenuto a questa dimostrazione che il  fanatismo antifiscale ha raggiunto un livello tale da essere più importante della lotta per i nostri interessi nazionali [6].

Ad essere onesti, ci sono argomenti contro una iniziativa nei confronti della Cina che, se i tempi fossero diversi, avrebbero un qualche peso. Uno è il fatto indubbio che l’inflazione in Cina, cha sta in particolare elevando i costi del lavoro, un po’ alla volta elimina la sottovalutazione della moneta cinese. La parola chiave, tuttavia, è “un po’ alla volta”; l’effetto di abbassare il deficit commerciale degli Stati Uniti nel corso di quattro o cinque anni non può bastare, quando la disoccupazione è agli attuali disastrosi livelli.

E la realtà del disastro della disoccupazione è anche la mia risposta a coloro che mettono in guardia da una posizione dura nei confronti della Cina, che potrebbe innescare una guerra commerciale o danneggiare la diplomazia commerciale mondiale. Sono rischi reali, sebbene penso che siano esagerati. Ma devono essere valutati a fronte del fatto – non della mera ipotesi – che, nel mentre stiamo parlando, l’elevata disoccupazione sta comportando un enorme danno crescente. 

Ben Bernanke, il Presidente della Federal Reserve, lo ha detto chiaramente la scorsa settimana: la disoccupazione è una “crisi nazionale”, un numero così elevato di lavoratori disoccupati a lungo termine costituisce per l’economia un pericolo di prolungata sofferenza, non inferiore al danno immediato.

Non possiamo permetterci di trascurare qualsiasi mezzo significativo per alleviare quella crisi nazionale. Chiamare la Cina alle sue responsabilità non risolverà di per sé i nostri problemi economici, ma può contribuire ad una loro soluzione – ed è una iniziativa attesa ormai da troppo tempo.

 

 

 

 

Confronting the Malefactors

By PAUL KRUGMAN
Published: October 6, 2011

There’s something happening here. What it is ain’t exactly clear, but we may, at long last, be seeing the rise of a popular movement that, unlike the Tea Party, is angry at the right people.

When the Occupy Wall Street protests began three weeks ago, most news organizations were derisive if they deigned to mention the events at all. For example, nine days into the protests, National Public Radio had provided no coverage whatsoever.

 

It is, therefore, a testament to the passion of those involved that the protests not only continued but grew, eventually becoming too big to ignore. With unions and a growing number of Democrats now expressing at least qualified support for the protesters, Occupy Wall Street is starting to look like an important event that might even eventually be seen as a turning point.

What can we say about the protests? First things first: The protesters’ indictment of Wall Street as a destructive force, economically and politically, is completely right.

A weary cynicism, a belief that justice will never get served, has taken over much of our political debate — and, yes, I myself have sometimes succumbed. In the process, it has been easy to forget just how outrageous the story of our economic woes really is. So, in case you’ve forgotten, it was a play in three acts.

In the first act, bankers took advantage of deregulation to run wild (and pay themselves princely sums), inflating huge bubbles through reckless lending. In the second act, the bubbles burst — but bankers were bailed out by taxpayers, with remarkably few strings attached, even as ordinary workers continued to suffer the consequences of the bankers’ sins. And, in the third act, bankers showed their gratitude by turning on the people who had saved them, throwing their support — and the wealth they still possessed thanks to the bailouts — behind politicians who promised to keep their taxes low and dismantle the mild regulations erected in the aftermath of the crisis.

 

Given this history, how can you not applaud the protesters for finally taking a stand?

Now, it’s true that some of the protesters are oddly dressed or have silly-sounding slogans, which is inevitable given the open character of the events. But so what? I, at least, am a lot more offended by the sight of exquisitely tailored plutocrats, who owe their continued wealth to government guarantees, whining that President Obama has said mean things about them than I am by the sight of ragtag young people denouncing consumerism.

 

Bear in mind, too, that experience has made it painfully clear that men in suits not only don’t have any monopoly on wisdom, they have very little wisdom to offer. When talking heads on, say, CNBC mock the protesters as unserious, remember how many serious people assured us that there was no housing bubble, that Alan Greenspan was an oracle and that budget deficits would send interest rates soaring.

 

A better critique of the protests is the absence of specific policy demands. It would probably be helpful if protesters could agree on at least a few main policy changes they would like to see enacted. But we shouldn’t make too much of the lack of specifics. It’s clear what kinds of things the Occupy Wall Street demonstrators want, and it’s really the job of policy intellectuals and politicians to fill in the details.

 

Rich Yeselson, a veteran organizer and historian of social movements, has suggested that debt relief for working Americans become a central plank of the protests. I’ll second that, because such relief, in addition to serving economic justice, could do a lot to help the economy recover. I’d suggest that protesters also demand infrastructure investment — not more tax cuts — to help create jobs. Neither proposal is going to become law in the current political climate, but the whole point of the protests is to change that political climate.

And there are real political opportunities here. Not, of course, for today’s Republicans, who instinctively side with those Theodore Roosevelt-dubbed “malefactors of great wealth.” Mitt Romney, for example — who, by the way, probably pays less of his income in taxes than many middle-class Americans — was quick to condemn the protests as “class warfare.”

But Democrats are being given what amounts to a second chance. The Obama administration squandered a lot of potential good will early on by adopting banker-friendly policies that failed to deliver economic recovery even as bankers repaid the favor by turning on the president. Now, however, Mr. Obama’s party has a chance for a do-over. All it has to do is take these protests as seriously as they deserve to be taken.

And if the protests goad some politicians into doing what they should have been doing all along, Occupy Wall Street will have been a smashing success.

 

Prendetevela con i malfattori, di Paul Krugman

New York Times 6 0ttobre 2011

 

Qua sta succedendo qualcosa. Che cosa non è del tutto chiaro, ma stiamo assistendo, finalmente, alla nascita di un movimento popolare che, diversamente dal Tea Party, se la prende con quelli di destra.

Quando la protesta di Occupy Wall Street cominciò, tre settimane fa, molte organizzazioni dei media la derisero, ammesso che si degnassero di dir qualcosa di quei fatti. Per esempio, dopo nove giorni che la protesta era cominciata, la Radio Pubblica Nazionale non aveva ancora provveduta a darne una qualche notizia.

E’ quindi una dimostrazione della passione di coloro che vi sono impegnati il fatto che non solo sia continuata, ma sia anche diventata troppo grande per essere ignorata. Con i Sindacati e con un crescente numero di democratici che ora esprimono almeno un sostegno qualificato ai manifestanti, Occupy Wall Street comincia a somigliare ad un evento importante, che può addirittura essere considerato finalmente come un punto di svolta.

Che cosa possiamo dire delle proteste? Prima di ogni altra cosa, questa: l’accusa ai manifestanti di Wall Street d’essere una forza economicamente e politicamente distruttiva, è del tutto giusta.

Un pesante cinismo, la convinzione che la giustizia non sarà mai rispettata, ha pervaso gran parte del dibattito politico – e ammetto che qualche volta mi sono arreso. Nel mentre ciò avveniva, è stato facile scordarsi di quanto la storie delle nostre disgrazie economiche siano state ingiuriose. Dunque, nel caso ve ne siate dimenticati, è stata una commedia in tre atti.

Nel primo atto, i banchieri si avvantaggiarono della deregolamentazione, dilagarono senza controllo e si pagarono compensi principeschi, gonfiando grandi bolle attraverso prestiti avventati. Nel secondo atto, le bolle scoppiarono – ma i banchieri vennero messi in salvo dai contribuenti, con conseguenze considerevolmente modeste, anche se i comuni lavoratori continuavano a patire le conseguenze delle malefatte dei banchieri. E, nel terzo atto, i banchieri hanno dato prova della loro gratitudine prendendosela con la gente che li aveva salvati e dando il loro sostegno – e i mezzi finanziari che ancora possedevano grazie ai salvataggi – ad uomini politici che promettevano di tener basse le loro tasse e di smantellare le timide regole istituite in conseguenza della crisi.

Con una storia del genere, come non applaudire i manifestanti per aver finalmente preso posizione?

Ora, è vero che una parte dei manifestanti sono vestiti in modo bizzarro ed hanno slogan che sembrano un po’ sciocchi, la qual cosa è inevitabile dato che i fatti si svolgono alla luce del sole. Ma cosa vuol dire? Come minimo, io sono assai più offeso alla vista di plutocrati squisitamente agghindati, che devono le loro perduranti ricchezze alle garanzie del governo e si lamentano perché il Presidente Obama avrebbe detto cose meschine nei loro confronti, di quanto non lo sia dalla vista di gruppetti di giovani che denunciano il consumismo.

Si tenga anche a mente che l’esperienza ha reso penosamente chiaro che gli individui in abito scuro non solo non hanno il monopolio della saggezza, ma ne hanno davvero poca da offrire. Quando i presentatori radiotelevisivi, ad esempio quelli della CNBC, ironizzano sulla poca serietà dei manifestanti, si ricordi quanta gente seria ci rassicurava sulla inesistenza di una qualsiasi bolla immobiliare, sul fatto che Alan Greenspan era un oracolo e che i grandi deficit di bilancio avrebbero spinto i tassi di interesse alle stelle.

Una critica più fondata delle proteste, è quella che si riferisce alla assenza di specifiche richieste politiche. Probabilmente servirebbe se i manifestanti concordassero almeno su alcuni principali cambiamenti politici che vorrebbero veder attuati. Ma non dovremmo esagerare la questione della mancanza di rivendicazioni specifiche. E’ chiaro il genere di risultati ai quali i manifestanti dell’ Occupy Wall Street aspirano, ed è davvero lavoro dei politici e degli intellettuali della politica riempirli di dettagli.

Rich Yeselson, collaudato dirigente e storico dei movimenti sociali, ha suggerito che la attenuazione del debito per i lavoratori americani divenga l’asse centrale delle proteste. Io lo appoggerò, perché tale attenuazione, oltre ad essere un servizio alla giustizia economica, sarebbe di grande aiuto alla ripresa dell’economia. Suggerirei che i manifestanti chiedano anche investimenti in infrastrutture – invece che tagli fiscali – per contribuire a creare posti di lavoro. Né l’una né l’altra proposta è destinata a diventare legge, ma il l’intero valore delle proteste è nel cambiamento del clima politico.

In tutto questo ci sono effettive opportunità politiche. Non, naturalmente, per i repubblicani di questi tempi, che si schierano per puro istinto con coloro che Theodore Roosevelt [7]soprannominò “i malfattori della grande ricchezza”. Mitt Romney, ad esempio – che probabilmente paga una parte assai minore del suo reddito in tasse di quanto non faccia la classe media americana – è stato rapido a condannare le manifestazioni come “lotta di classe”.

Ma i Democratici stanno ricevendo qualcosa che corrisponde ad una seconda opportunità. La Amministrazione Obama ha sperperato un bel po’ di credibilità [8] agli inizi, adottando politiche amichevoli verso i banchieri, anche se i banchieri hanno ripagato il favore rivoltandosi contro il Presidente.  Ora, tuttavia, il partito di Obama ha la possibilità di rifarsi. Tutto quello che deve fare è prendere queste proteste sul serio, come meritano d’essere prese.

E se le proteste stimoleranno alcuni uomini politici a fare quello che avrebbero dovuto fare da tempo, Occupy Wall Street avrà avuto un successo smagliante.

   

 

       

 

 

 

 

Panic of the Plutocrats

By PAUL KRUGMAN
Published: October 9, 2011

It remains to be seen whether the Occupy Wall Street protests will change America’s direction. Yet the protests have already elicited a remarkably hysterical reaction from Wall Street, the super-rich in general, and politicians and pundits who reliably serve the interests of the wealthiest hundredth of a percent.

And this reaction tells you something important — namely, that the extremists threatening American values are what F.D.R. called “economic royalists,” not the people camping in Zuccotti Park.

Consider first how Republican politicians have portrayed the modest-sized if growing demonstrations, which have involved some confrontations with the police — confrontations that seem to have involved a lot of police overreaction — but nothing one could call a riot. And there has in fact been nothing so far to match the behavior of Tea Party crowds in the summer of 2009.

 

Nonetheless, Eric Cantor, the House majority leader, has denounced “mobs” and “the pitting of Americans against Americans.” The G.O.P. presidential candidates have weighed in, with Mitt Romney accusing the protesters of waging “class warfare,” while Herman Cain calls them “anti-American.” My favorite, however, is Senator Rand Paul, who for some reason worries that the protesters will start seizing iPads, because they believe rich people don’t deserve to have them.

 

Michael Bloomberg, New York’s mayor and a financial-industry titan in his own right, was a bit more moderate, but still accused the protesters of trying to “take the jobs away from people working in this city,” a statement that bears no resemblance to the movement’s actual goals.

And if you were listening to talking heads on CNBC, you learned that the protesters “let their freak flags fly,” and are “aligned with Lenin.”

The way to understand all of this is to realize that it’s part of a broader syndrome, in which wealthy Americans who benefit hugely from a system rigged in their favor react with hysteria to anyone who points out just how rigged the system is.

 

Last year, you may recall, a number of financial-industry barons went wild over very mild criticism from President Obama. They denounced Mr. Obama as being almost a socialist for endorsing the so-called Volcker rule, which would simply prohibit banks backed by federal guarantees from engaging in risky speculation. And as for their reaction to proposals to close a loophole that lets some of them pay remarkably low taxes — well, Stephen Schwarzman, chairman of the Blackstone Group, compared it to Hitler’s invasion of Poland.

 

 

And then there’s the campaign of character assassination against Elizabeth Warren, the financial reformer now running for the Senate in Massachusetts. Not long ago a YouTube video of Ms. Warren making an eloquent, down-to-earth case for taxes on the rich went viral. Nothing about what she said was radical — it was no more than a modern riff on Oliver Wendell Holmes’s famous dictum that “Taxes are what we pay for civilized society.”

But listening to the reliable defenders of the wealthy, you’d think that Ms. Warren was the second coming of Leon Trotsky. George Will declared that she has a “collectivist agenda,” that she believes that “individualism is a chimera.” And Rush Limbaugh called her “a parasite who hates her host. Willing to destroy the host while she sucks the life out of it.”

What’s going on here? The answer, surely, is that Wall Street’s Masters of the Universe realize, deep down, how morally indefensible their position is. They’re not John Galt; they’re not even Steve Jobs. They’re people who got rich by peddling complex financial schemes that, far from delivering clear benefits to the American people, helped push us into a crisis whose aftereffects continue to blight the lives of tens of millions of their fellow citizens.

Yet they have paid no price. Their institutions were bailed out by taxpayers, with few strings attached. They continue to benefit from explicit and implicit federal guarantees — basically, they’re still in a game of heads they win, tails taxpayers lose. And they benefit from tax loopholes that in many cases have people with multimillion-dollar incomes paying lower rates than middle-class families.

This special treatment can’t bear close scrutiny — and therefore, as they see it, there must be no close scrutiny. Anyone who points out the obvious, no matter how calmly and moderately, must be demonized and driven from the stage. In fact, the more reasonable and moderate a critic sounds, the more urgently he or she must be demonized, hence the frantic sliming of Elizabeth Warren.

 

So who’s really being un-American here? Not the protesters, who are simply trying to get their voices heard. No, the real extremists here are America’s oligarchs, who want to suppress any criticism of the sources of their wealth.

 

Il panico dei plutocrati, di Paul Krugman

New York Times 9 0ttobre 2011

 

Resta da vedere se le proteste di Occupy Wall Street cambieranno il corso dell’America; tuttavia esse hanno già evocato reazioni discretamente isteriche da parte di Wall Street, dei super-ricchi in generale, nonché dei politici e degli addetti ai lavori che servono gli interessi dei più ricchi con una affidabilità del cento per cento.

 

E questa reazione ci dice una cosa importante – precisamente che gli estremisti che minacciano i valori dell’America sono quelli che Franklin Delano Roosevelt chiamava i “monarchici dell’economia”, non la gente che staziona in Zuccotti Park.

Si consideri anzitutto come gli uomini politici repubblicani hanno descritto quelle dimostrazioni, di modesta ancorché crescente portata, che hanno comportato scontri con la polizia – scontri che a loro volta hanno comportato una reazione politica assai sopra le righe – ma che certo non possono essere definite sommosse. In sostanza, non è successo niente che possa sinora consentire un paragone con i comportamenti delle folle del Tea Party nell’estate del 2009.

Nondimeno, Eric Cantor, il leader della maggioranza alla Camera, ha denunciato “gli assalti di folla” e  la “rivolta degli americani contro gli americani”. I candidati presidenziali del Partito Repubblicano si sono gettati nella mischia [9], con Mitt Romney che ha accusato i manifestanti di aver intrapreso una “guerra di classe”, mentre Herman Cain li ha chiamati “antiamericani”. Il mio preferito, tuttavia, è il Senatore Rand Paul, che per qualche ragione teme che i manifestanti arriveranno ad impossessarsi degli Ipad, giacché sarebbero persuasi che i ricchi non li meritino.

Michael Bloomberg, sindaco di New York e per suo conto titano del settore finanziario, è stato un po’ più moderato, e tuttavia ha accusato i manifestanti di cercare di “portar via i posti di lavoro alla gente che lavora in questa città”, una dichiarazione del tutto inverosimile a fronte degli obbiettivi effettivi del movimento.

 

E se avete ascoltato i presentatori dei canali della CNBC, avrete appreso che i manifestanti “mettono al vento le loro stravaganti bandiere” e sono “seguaci di Lenin”.

 

Il modo per intendere tutto questo è considerare che esso è sintomo di una sindrome più vasta, nella quale gli americani più ricchi, che traggono vasti benefici da un sistema approntato per loro, reagiscono con isteria nei confronti di tutti quelli che mostrano quanto questo sistema sia predisposto a loro favore.

Ricorderete che lo scorso anno un certo numero di potenti del settore finanziario andarono fuori di testa per alcune modeste critiche da parte del Presidente Obama. Lo denunciarono quasi come se fosse un socialista per aver appoggiato la cosiddetta “norma-Volcker” [10], con la quale semplicemente si proibirebbe alle banche protette da garanzie federali di impegnarsi in speculazioni rischiose. E per quanto riguarda la proposta dei manifestanti di interrompere quei meccanismi di elusione che permettono ai più ricchi di pagare tasse notevolmente basse – ebbene, Stephen Schwarzman, presidente del Blackstone Group, l’ha paragonata alla invasione della Polonia da parte di Hitler.

Poi c’è la campagna contro Elizabeth Warren, la riformatrice finanziaria ora in lizza nelle elezioni per il Senato nel Massachusetts, che è una vera e propria istigazione a delinquere. Non molto tempo fa un video su You Tube nel quale la Warren faceva un esempio eloquente e realistico in materia di tasse sui ricchi ebbe effetti scatenanti [11]. Non disse niente di radicale, si trattava nient’altro che della versione moderna del famoso detto di Oliver Wendell Holmes [12]  secondo il quale “Le tasse sono quanto si paga per una società più civile”.

Ma se si ascoltano gli scrupolosi difensori dei ricchi, si potrebbe pensare che la signora Warren sia una specie di reincarnazione di Leone Trotskij. George Will la ha accusata di avere una “agenda collettivista” e di credere che “l’individualismo sia una chimera”. E Rush Limbaugh la ha definita “una parassita che odia chi la ospita. Vuole distruggere il padrone di casa nel mentre lo sfrutta” [13].

Cosa sta succedendo? La riposta, senza alcun dubbio, è che i campioni di Wall Street [14] comprendono, nel loro intimo, quanto sia moralmente indifendibile la loro posizione. Essi non sono John Galt [15], non sono neppure Steve Jobs [16]. Sono individui diventati ricchi rivendendo schemi finanziari complessi che, lungi dal provocare chiari benefici al popolo americano, hanno contribuito a spingerci in una crisi i cui postumi continuano a rovinare la vita di decine di milioni di loro concittadini.

Tuttavia, non hanno pagato alcun prezzo. I loro istituti sono stati salvati dai contribuenti, senza badare a spese [17]. Essi continuano a beneficiare di garanzie federali implicite ed esplicite – in sostanza sono ancora dentro un giochetto per il quale se viene testa vincono loro, se viene croce perdono gli altri, i contribuenti. E beneficiano di scappatoie fiscali per le quali in molti casi gente con redditi da molti milioni di dollari paga tasse più basse delle famiglie della classe media.

Questo trattamento di favore è intollerante ad ogni forma di controllo – di conseguenza, per come la vedono loro, non ci deve proprio essere alcun controllo. Tutti coloro che sottolineano questa evidenza, non importa se lo fanno con calma e con moderazione, devono essere demonizzati e messi fuori di scena. Di fatto, più la critica è ragionevole e moderata, più urgentemente chi critica deve essere demonizzato, da qua il delirante tentativo di infangare [18] Elizabeth Warren.

 

Dunque, a questo punto chi è veramente ‘antiamericano’? Non i manifestanti, che stanno soltanto cercando di farsi ascoltare. No, i veri estremisti sono gli oligarchi d’America, che vogliono eliminare ogni critica sull’origine delle loro ricchezze.

 

 

 

Rabbit-Hole Economics

By PAUL KRUGMAN
Published: October 13, 2011

 

Reading the transcript of Tuesday’s Republican debate on the economy is, for anyone who has actually been following economic events these past few years, like falling down a rabbit hole. Suddenly, you find yourself in a fantasy world where nothing looks or behaves the way it does in real life.

And since economic policy has to deal with the world we live in, not the fantasy world of the G.O.P.’s imagination, the prospect that one of these people may well be our next president is, frankly, terrifying.

 

In the real world, recent events were a devastating refutation of the free-market orthodoxy that has ruled American politics these past three decades. Above all, the long crusade against financial regulation, the successful effort to unravel the prudential rules established after the Great Depression on the grounds that they were unnecessary, ended up demonstrating — at immense cost to the nation — that those rules were necessary, after all.

But down the rabbit hole, none of that happened. We didn’t find ourselves in a crisis because of runaway private lenders like Countrywide Financial. We didn’t find ourselves in a crisis because Wall Street pretended that slicing, dicing and rearranging bad loans could somehow create AAA assets — and private rating agencies played along. We didn’t find ourselves in a crisis because “shadow banks” like Lehman Brothers exploited gaps in financial regulation to create bank-type threats to the financial system without being subject to bank-type limits on risk-taking.

 

No, in the universe of the Republican Party we found ourselves in a crisis because Representative Barney Frank forced helpless bankers to lend money to the undeserving poor.

O.K., I’m exaggerating a bit — but not much. Mr. Frank’s name did come up repeatedly as a villain in the crisis, and not just in the context of the Dodd-Frank financial reform bill, which Republicans want to repeal. You have to marvel at his alleged influence given the fact that he’s a Democrat and the vast bulk of the bad loans now afflicting our economy were made while George W. Bush was president and Republicans controlled the House with an iron grip. But he’s their preferred villain all the same.

 

The demonization of Mr. Frank aside, it’s now obviously orthodoxy on the Republican side that government caused the whole problem. So what you need to know is that this orthodoxy has hardened even as the supposed evidence for government as a major villain in the crisis has been discredited. The fact is that government rules didn’t force banks to make bad loans, and that government-sponsored lenders, while they behaved badly in many ways, accounted for few of the truly high-risk loans that fueled the housing bubble.

 

But that’s history. What do the Republicans want to do now? In particular, what do they want to do about unemployment?

Well, they want to fire Ben Bernanke, the chairman of the Federal Reserve — not for doing too little, which is a case one can make, but for doing too much. So they’re obviously not proposing any job-creation action via monetary policy.

 

Incidentally, during Tuesday’s debate, Mitt Romney named Harvard’s N. Gregory Mankiw as one of his advisers. How many Republicans know that Mr. Mankiw at least used to advocate — correctly, in my view — deliberate inflation by the Fed to solve our economic woes?

 

So, no monetary relief. What else? Well, the Cheshire Cat-like Rick Perry — he seems to be fading out, bit by bit, until only the hair remains — claimed, implausibly, that he could create 1.2 million jobs in the energy sector. Mr. Romney, meanwhile, called for permanent tax cuts — basically, let’s replay the Bush years! And Herman Cain? Oh, never mind.

 

By the way, has anyone else noticed the disappearance of budget deficits as a major concern for Republicans once they start talking about tax cuts for corporations and the wealthy?

It’s all pretty funny. But it’s also, as I said, terrifying.

The Great Recession should have been a huge wake-up call. Nothing like this was supposed to be possible in the modern world. Everyone, and I mean everyone, should be engaged in serious soul-searching, asking how much of what he or she thought was true actually isn’t.

But the G.O.P. has responded to the crisis not by rethinking its dogma but by adopting an even cruder version of that dogma, becoming a caricature of itself. During the debate, the hosts played a clip of Ronald Reagan calling for increased revenue; today, no politician hoping to get anywhere in Reagan’s party would dare say such a thing.

 

 

It’s a terrible thing when an individual loses his or her grip on reality. But it’s much worse when the same thing happens to a whole political party, one that already has the power to block anything the president proposes — and which may soon control the whole government.

 

L’economia nella buca del coniglio [19], di Paul Krugman

13 ottobre 2011

 

 

Leggere il testo integrale del dibattito sull’economia di martedì dei Repubblicani, per chi effettivamente sta seguendo i fatti dell’economia di questi ultimi anni, è come cascare nella buca di un coniglio. Improvvisamente ci si ritrova in un mondo fantastico nel quale niente assomiglia o funziona nello stesso modo che nella vita reale.

E, dal momento che la politica economica deve misurarsi con il mondo nel quale viviamo e non con il mondo fantastico che si immaginano i Repubblicani, la prospettiva che uno di loro possa ben essere il nostro futuro Presidente è, per dirla tutta, terrificante.

Nel mondo reale, i fatti recenti hanno costituito una confutazione devastante dell’ortodossia del libero mercato che ha  governato le politiche americane degli ultimi tre decenni. Soprattutto, la lunga crociata contro ogni regolamentazione finanziaria, lo sforzo riuscito di smantellare i regolamenti prudenti che erano stati stabiliti a seguito della Grande Depressione sulla premessa che fossero superflui, ha finito col dimostrare – con un costo immenso per la nazione – che dopo tutto quelle regole erano indispensabili.

Ma laggiù, nella buca del coniglio, era come se niente del genere fosse mai accaduto. Noi non saremmo finiti in una crisi a causa dei prestiti selvaggi di soggetti privati come Conutrywide Financial [20] . Non ci saremmo ritrovati in una crisi a causa della pretesa di Wall Street che tagliando, spezzettando e riorganizzando mutui ad alto rischio in qualche modo li avremmo trasformati in assets sicuri – con le agenzie private di rating che giocavano di conserva. Non ci saremmo ritrovati in una crisi perché “banche ombra” come Lehman Brothers  sfruttarono le smagliature del regolamenti finanziari per dar vita ad operazioni pericolose per il sistema finanziario, quali quelle che possono essere determinate da una banca, senza essere soggette ai limiti nella assunzione di rischi cui sono soggette le banche.

No, nell’universo del Partito Repubblicano noi siamo finiti in una crisi a causa del fatto che il congressista Barney Frank costrinse banchieri impotenti a dare in prestito soldi a poveri cristi che non li meritavano.

Va bene, esagero un po’, ma non più di tanto. Il nome del signor Frank è venuto fuori tante di quelle volte quasi fosse stato la pecora nera di tutta la crisi [21], e non solo a causa della proposta di legge di riforma finanziaria Dodd-Frank, che i Repubblicani vogliono abrogare. Considerato il fatto che costui è un democratico e che la grande mole dei mutui a rischio che oggi affliggono la nostra economia furono realizzati nel periodo in cui George W. Bush ed i Repubblicani controllavano in modo ferreo la Camera, voi vi meravigliate della pretesa influenza di quell’individuo. Ma tant’è, a tutti i costi è lui la pecora nera prescelta.

Demonizzazione del signor Frank a parte, l’idea che sia stato il Governo la causa dell’intero problema è ormai ortodossia indiscutibile per i Repubblicani. Quello che si deve sapere è che questa ortodossia si è venuta consolidando a prescindere dal fatto che la supposta prova secondo la quale sarebbe stato il Governo il massimo responsabile della crisi sia risultata del tutto priva di fondamento. Il fatto è che non sono state le regole governative a costringere le banche a mutui rischiosi, e i crediti provenienti dagli istituti pubblici, per quanto essi si siano mal comportati, hanno costituito una minima parte degli effettivi mutui ad alto rischio, che sono stati il combustibile della bolla nel settore immobiliare.

Ma questa è storia. Cos’è che vogliono oggi i Repubblicani? In particolare, cos’è che vogliono fare per la disoccupazione?

 

Ebbene, vogliono licenziare Ben Bernanke, il Presidente della Federal Reserve – non perché stia facendo poco, che è una ipotesi che qualcuno potrebbe pur sostenere, ma perché starebbe facendo troppo.  Il che è come dire che essi non stanno proponendo alcuna iniziativa di creazione di nuovo lavoro per il tramite della politica monetaria.

Tra parentesi, durante il dibattito di martedì, Mitt Romney ha citato Gregory Mankiw, dell’Università di Harvard, come uno dei suoi consiglieri. Quanti sanno tra i Repubblicani che Mankiw almeno è solito sostenere – correttamente, dal mio punto di vista – che la Fed dovrebbe favorire l’inflazione al fine di dare soluzione ai guai della nostra economia?

Dunque, nessun sollievo per il tramite della politica monetaria. Cos’altro? Ebbene, lo Stregatto  [22] Rick Perry –  che sembra un poco alla volta  sia scomparendo, finché resteranno solo i capelli [23] – ha sostenuto, poco plausibilmente, che egli darebbe vita ad un milione e duecentomila posti di lavoro nel settore energetico. Per suo conto, il signor Romney si è espresso per tagli fiscali permanenti – in sostanza, una riedizione degli anni di Bush! Ed Herman Cain? Beh, lasciamo perdere [24]

Per inciso, ha notato qualcuno che nel momento in cui i Repubblicani cominciano a parlare di sgravi fiscali alle grandi imprese ed ai ricchi, la principale preoccupazione per il deficit di bilancio svanisce?

 

Insomma, è un po’ tutto assai comico. Ma anche, come ho detto, terrificante.

 

La Grande Recessione avrebbe dovuto costituire un forte richiamo ad aprire gli occhi. Si era escluso che qualcosa  del genere potesse ripetersi nel mondo di oggi. Ognuno, intendo ognuno, dovrebbe impegnarsi in una seria analisi di coscienza, e chiedersi quanto di quello che pensava essere vero abbia retto alla prova dei fatti.

Ma il Partito Repubblicano non ha reagito alla crisi ripensando il suo dogma, bensì adottando una versione ancora più cruda di quel dogma, finendo con l’essere una caricatura di sé medesimo. Durante il dibattito, i conduttori hanno mandato in onda la clip di un Ronald Reagan che si pronunciava per incrementi delle entrate: oggi, nessun uomo politico con qualche speranza di occupare un posto nel partito di Reagan oserebbe affermare qualcosa del genere.      

E’ un circostanza dolorosa, quando un individuo perde il suo contatto con la realtà. Ma è assai peggio quando qualcosa del genere accade ad un intero partito politico, a quel partito che già oggi detiene il potere di impedire tutto quello che il Presidente propone – e che potrebbe presto avere il controllo dell’intero Governo.

 

 

 

Losing Their Immunity

By PAUL KRUGMAN
Published: October 16, 2011

As the Occupy Wall Street movement continues to grow, the response from the movement’s targets has gradually changed: contemptuous dismissal has been replaced by whining. (A reader of my blog suggests that we start calling our ruling class the “kvetchocracy.”) The modern lords of finance look at the protesters and ask, Don’t they understand what we’ve done for the U.S. economy?

 

The answer is: yes, many of the protesters do understand what Wall Street and more generally the nation’s economic elite have done for us. And that’s why they’re protesting.

On Saturday The Times reported what people in the financial industry are saying privately about the protests. My favorite quote came from an unnamed money manager who declared, “Financial services are one of the last things we do in this country and do it well. Let’s embrace it.”

 

This is deeply unfair to American workers, who are good at lots of things, and could be even better if we made adequate investments in education and infrastructure. But to the extent that America has lagged in everything except financial services, shouldn’t the question be why, and whether it’s a trend we want to continue?

For the financialization of America wasn’t dictated by the invisible hand of the market. What caused the financial industry to grow much faster than the rest of the economy starting around 1980 was a series of deliberate policy choices, in particular a process of deregulation that continued right up to the eve of the 2008 crisis.

Not coincidentally, the era of an ever-growing financial industry was also an era of ever-growing inequality of income and wealth. Wall Street made a large direct contribution to economic polarization, because soaring incomes in finance accounted for a significant fraction of the rising share of the top 1 percent (and the top 0.1 percent, which accounts for most of the top 1 percent’s gains) in the nation’s income. More broadly, the same political forces that promoted financial deregulation fostered overall inequality in a variety of ways, undermining organized labor, doing away with the “outrage constraint” that used to limit executive paychecks, and more.

 

 

 

Oh, and taxes on the wealthy were, of course, sharply reduced.

All of this was supposed to be justified by results: the paychecks of the wizards of Wall Street were appropriate, we were told, because of the wonderful things they did. Somehow, however, that wonderfulness failed to trickle down to the rest of the nation — and that was true even before the crisis. Median family income, adjusted for inflation, grew only about a fifth as much between 1980 and 2007 as it did in the generation following World War II, even though the postwar economy was marked both by strict financial regulation and by much higher tax rates on the wealthy than anything currently under political discussion.

 

Then came the crisis, which proved that all those claims about how modern finance had reduced risk and made the system more stable were utter nonsense. Government bailouts were all that saved us from a financial meltdown as bad as or worse than the one that caused the Great Depression.

And what about the current situation? Wall Street pay has rebounded even as ordinary workers continue to suffer from high unemployment and falling real wages. Yet it’s harder than ever to see what, if anything, financiers are doing to earn that money.

 

Why, then, does Wall Street expect anyone to take its whining seriously? That money manager claiming that finance is the only thing America does well also complained that New York’s two Democratic senators aren’t on his side, declaring that “They need to understand who their constituency is.” Actually, they surely know very well who their constituency is — and even in New York, 16 out of 17 workers are employed by nonfinancial industries.

 

 

But he wasn’t really talking about voters, of course. He was talking about the one thing Wall Street still has plenty of thanks to those bailouts, despite its total loss of credibility: money.

Money talks in American politics, and what the financial industry’s money has been saying lately is that it will punish any politician who dares to criticize that industry’s behavior, no matter how gently — as evidenced by the way Wall Street money has now abandoned President Obama in favor of Mitt Romney. And this explains the industry’s shock over recent events.

 

You see, until a few weeks ago it seemed as if Wall Street had effectively bribed and bullied our political system into forgetting about that whole drawing lavish paychecks while destroying the world economy thing. Then, all of a sudden, some people insisted on bringing the subject up again.

And their outrage has found resonance with millions of Americans. No wonder Wall Street is whining.

 

L’immunità persa, di Paul Krugman

New York Times 16 ottobre 2011

 

 

Nel mentre il movimento Occupy Wall Street continua a crescere, la reazione per gli obbiettivi del movimento è progressivamente mutata: il rigetto sprezzante è stato sostituito dal piagnucolio (un lettore suggerisce che si cominci a definire la nostra classe dirigente come il “governo dei piagnoni”). I moderni signori della finanza guardano i manifestanti e si chiedono “Ma non lo capiscono quello che abbiamo fatto per l’economia americana?”.

La risposta è: si, molti manifestanti capiscono cosa hanno fatto per noi quelli di Wall Street e, più in generale, i gruppi dirigenti della nostra economia. Questa è la ragione per la quale protestano.

 

Sabato il Times aveva un servizio su cosa si dicono tra loro in privato le persone del sistema finanziario a proposito delle proteste. L’espressione degna di citazione veniva da un anonimo operatore finanziario che ha dichiarato: “I servizi finanziari sono una delle ultime cose che noi facciamo in questo paese, e la facciamo bene. E’ l’ora di farsene una ragione”.

Questo è profondamente ingiusto nei confronti dei lavoratori americani, che sono bravi in molte cose e potrebbero anche far meglio se provvedessimo ad adeguati investimenti nell’istruzione e nelle infrastrutture. Ma, ammesso che si sia rimasti indietro in quasi tutti i settori a parte i servizi finanziari, la domanda non dovrebbe essere perché, e se questa sia la strada sulla quale vogliamo procedere?

Giacché la finanziarizzazione dell’America non è stata provocata dalla mano invisibile del mercato. Ciò che ha spinto il settore finanziario a crescere molto più velocemente del resto dell’economia, a partire grosso modo dagli anni ’80, fu una serie di scelte politiche intenzionali, in particolare un processo di deregolamentazione che è proseguito sino al momento della crisi del 2008.

Non per mera coincidenza, l’epoca della crescita ininterrotta del settore finanziario fu anche l’epoca di una crescita ininterrotta delle diseguaglianze nel reddito e nella ricchezza. Wall Street diede per suo conto un ampio contributo alla polarizzazione economica, giacché la vertiginosa crescita dei redditi nel settore finanziario ha pesato per una parte rilevante della crescente quota del reddito nazionale che è finita appannaggio dell’1 per cento più in alto nella scala sociale (e in particolare dello 0,1 per cento di quel vertice, che realizza da solo gran parte degli incrementi di quell’1 per cento). Più in generale, le stesse forze politiche che avevano promosso la deregolamentazione finanziaria favorirono in una varietà di modi la complessiva ineguaglianza, mettendo in crisi le organizzazioni sindacali, facendo fuori l’istituto del  ‘limite di ragionevolezza’ [25]  che veniva adoperato per contenere i compensi dei dirigenti, ed altro ancora.

 

E, naturalmente, le tasse sui ricchi, che vennero drasticamente ridotte.

Si supponeva che tutto questo fosse giustificato dai risultati: i compensi dei maghi di Wall Street, ci veniva detto, erano appropriati, per via delle meraviglie che costoro realizzavano. Ma, in qualche maniera, tutte quelle meraviglie non si sono affatto trasmesse [26] al resto della nazione – e questo era chiaro anche prima della crisi. Il reddito medio di una famiglia, corretto per l’inflazione, è cresciuto tra il 1980 ed il 2007 non più di un quinto di quanto era cresciuto per la generazione successiva alla Seconda Guerra Mondiale, anche se l’economia postbellica fu caratterizzata da una  regolamentazione finanziaria e da aliquote fiscali sulla ricchezza ben più severe e superiori a qualsiasi proposta del dibattito politico in corso.

Poi arrivò la crisi, che dimostrò che tutte quelle pretese su come la moderna finanza avesse ridotto i rischi e reso il sistema finanziario più stabile fossero sciocchezze bell’e buone. Furono i salvataggi della amministrazione che ci misero al riparo da una catastrofe finanziaria pari o peggiore di quella che aveva provocato la Grande Depressione.

Che dire di oggi? I pagamenti di Wall Street sono ripresi alla grande anche se i normali lavoratori continuano a soffrire una elevata disoccupazione e la caduta dei salari reali. Ciononostante, è più difficile che mai vedere cosa facciano gli operatori della finanza per guadagnarsi tanto denaro, ammesso che facciano qualcosa.

Per quale ragione, dunque, Wall Street si aspetta che qualcuno prenda sul serio i suoi piagnistei? Quegli operatori finanziari secondo i quali il sistema finanziario sarebbe l’unica cosa che va bene in America, si sono anche lamentati del fatto che i due Senatori Democratici di New York non si siano schierati dalla loro parte, ed hanno dichiarato che costoro “dovrebbero rendersi conto da quali persone è composto il loro elettorato”. In effetti, essi conoscono perfettamente da chi sia composto il loro elettorato – e persino a New York, 16 lavoratori su 17 sono impiegati in settori diversi dalla finanza.

  

Ma, naturalmente, essi non stavano effettivamente parlando di elettori. Stavano parlando dell’unica cosa della quale Wall Street ha ancora ampia disponibilità grazie ai salvataggi intercorsi, a dispetto della sua totale mancanza di credibilità: il denaro.

Il denaro parla alla politica americana, e quello che sta dicendo il denaro del settore della finanza nei tempi più recenti è che esso punirà ogni uomo politico che osi criticare i comportamenti di quel settore, non conta con quanta delicatezza – come è reso evidente dal modo in cui il denaro di Wall Street oggi abbandona il Presidente Obama a vantaggio di Mitt Romney. E questo spiega lo sbalordimento di quel settore dinanzi ai fatti recenti.

Come potete constatare, sino a non molte settimane fa sembrava che Wall Street fosse riuscita con efficacia a corrompere ed a costringere il nostro sistema politico a dimenticarsi di quell’intera faccenda per la quale si erano ottenuti sontuosi benefici a scapito dell’economia del mondo intero. Poi, tutto ad un tratto, un certo numero di persone ha preteso di risollevare il problema.

E la loro indignazione ha risuonato nella coscienza di milioni di americani. Per questo non c’è da stupirsi se Wall Street si lamenta. 

 

 

 

Party of Pollution

By PAUL KRUGMAN
Published: October 20, 2011

 

Last month President Obama finally unveiled a serious economic stimulus plan — far short of what I’d like to see, but a step in the right direction. Republicans, predictably, have blocked it. But the new plan, combined with the Occupy Wall Street demonstrations, seems to have shifted the national conversation. We are, suddenly, focused on what we should have been talking about all along: jobs.

So what is the G.O.P. jobs plan? The answer, in large part, is to allow more pollution. So what you need to know is that weakening environmental regulations would do little to create jobs and would make us both poorer and sicker.

Now it would be wrong to say that all Republicans see increased pollution as the answer to unemployment. Herman Cain says that the unemployed are responsible for their own plight — a claim that, at Tuesday’s presidential debate, was met with wild applause.

Both Rick Perry and Mitt Romney have, however, put weakened environmental protection at the core of their economic proposals, as have Senate Republicans. Mr. Perry has put out a specific number — 1.2 million jobs — that appears to be based on a study released by the American Petroleum Institute, a trade association, claiming favorable employment effects from removing restrictions on oil and gas extraction. The same study lies behind the claims of Senate Republicans.

 

 

But does this oil-industry-backed study actually make a serious case for weaker environmental protection as a job-creation strategy? No.

 

Part of the problem is that the study relies heavily on an assumed “multiplier” effect, in which every new job in energy leads indirectly to the creation of 2.5 jobs elsewhere. Republicans, you may recall, were scornful of claims that government aid that helps avoid layoffs of schoolteachers also indirectly helps save jobs in the private sector. But I guess the laws of economics change when it’s an oil company rather than a school district doing the hiring.

 

 

Moreover, even if you take the study’s claims at face value, it offers little reason to believe that dirtier air and water can solve our current employment crisis. All the big numbers in the report are projections for late this decade. The report predicts fewer than 200,000 jobs next year, and fewer than 700,000 even by 2015.

You might want to compare these numbers with a couple of other numbers: the 14 million Americans currently unemployed, and the one million to two million jobs that independent estimates suggest the Obama plan would create, not in the distant future, but in 2012.

More pollution, then, isn’t the route to full employment. But is there a longer-term economic case for less environmental protection? No. Serious economic analysis actually says that we need more protection, not less.

The important thing to understand is that the case for pollution control isn’t based on some kind of aesthetic distaste for industrial society. Pollution does real, measurable damage, especially to human health.

 

And policy makers should take that damage into account. We need more politicians like the courageous governor who supported environmental controls on a coal-fired power plant, despite warnings that the plant might be closed, because “I will not create jobs or hold jobs that kill people.”

Actually, that was Mitt Romney, back in 2003 — the same politician who now demands that we use more coal.

How big are these damages? A new study by researchers at Yale and Middlebury College brings together data from a variety of sources to put a dollar value on the environmental damage various industries inflict. The estimates are far from comprehensive, since they only consider air pollution, and they make no effort to address longer-term issues such as climate change. Even so, the results are stunning.

 

For it turns out that there are a number of industries inflicting environmental damage that’s worth more than the sum of the wages they pay and the profits they earn — which means, in effect, that they destroy value rather than creating it. High on the list, by the way, is coal-fired electricity generation, which the Mitt Romney-that-was used to stand up to.

As the study’s authors say, finding that an industry inflicts large environmental damage compared with its apparent economic return doesn’t necessarily mean that the industry should be shut down. What it means, instead, is that “the regulated levels of emissions from the industry are too high.” That is, environmental regulations aren’t strict enough.

Republicans, of course, have strong incentives to claim otherwise: the big value-destroying industries are concentrated in the energy and natural resources sector, which overwhelmingly donates to the G.O.P. But the reality is that more pollution wouldn’t solve our jobs problem. All it would do is make us poorer and sicker.

 

Il partito dell’inquinamento, di Paul Krugman

New York Times, 20 ottobre 2011

 

Il mese scorso il Presidente Obama finalmente rese noto un serio programma di sostegno all’economia – ancora modesto rispetto a quanto vorrei vedere, ma un passo nella direzione giusta. Come era prevedibile, i Repubblicani l’hanno bloccato. Ma il nuovo piano, assieme alle manifestazioni di Occupy Wall Street, sembra abbiano spostato il dibattito nazionale. All’improvviso, ci siamo concentrati su quello di cui avremmo dovuto parlare da sempre: i posti di lavoro.

Qual è, dunque, la proposta del Partito Repubblicano sul lavoro? In larga parte, la risposta è consentire un maggiore inquinamento. Quello che, dunque, si deve sapere è che indebolendo le regole ambientali si farebbe ben poco per creare posti di lavoro e si finirebbe col diventare sia più poveri che più vulnerabili nella salute.

Ora, sarebbe sbagliato dire che i Repubblicani individuano nell’aumento dell’inquinamento una risposta alla disoccupazione. Herman Cain dice che sono i disoccupati che portano la responsabilità della loro condizione – affermazione che, durante il dibattito presidenziali di martedì, è stata accolta da un applauso sfrenato.

Tuttavia, sia Rick Perry che Mitt Romney[27], pongono un indebolimento della protezione dell’ambiente al centro delle loro proposte economiche, e lo stesso fanno i Repubblicani al Senato. Il signor Perry ha avanzato un numero preciso – 1,2 milioni di posti di lavoro – che sembra basarsi su uno studio messo in circolazione dall’ American Petroleum Institute, una fondazione delle industrie petrolifere [28] che rivendica gli effetti positivi sull’occupazione che deriverebbero dalla rimozione delle restrizioni sulla estrazione di petrolio e di gas. Si tratta dello stesso studio con il quale i Repubblicani al Senato giustificano le loro richieste.

 

Ma questo studio promosso dall’industria petrolifera può essere considerato un serio esempio per una strategia di riduzione della protezione dell’ambiente al fine di creare posti di lavoro? Non è così.

Una parte del problema consiste nel fatto che lo studio si basa su un preteso effetto di “moltiplicatore”[29], secondo il quale ogni nuovo posto di lavoro nel settore energetico porta indirettamente alla creazione di 2,5 posti di lavoro negli altri settori.  I Repubblicani, come vi ricorderete, accolsero con dichiarazioni sprezzanti l’idea che il contributo governativo  nell’evitare i licenziamenti di insegnanti avrebbe contribuito a salvare posti di lavoro nel settore privato. Il che fa supporre che secondo loro le leggi dell’economia cambino a seconda che ad assumere sia una impresa petrolifera piuttosto che un distretto scolastico.

A parte tutto il resto, se anche si prendono alla lettera le affermazioni dello studio, esso offre poche ragioni per credere che acqua ed aria più sporche potrebbero risolvere la nostra attuale crisi occupazionale. Tutti i grandi numeri di quel rapporto sono proiezioni per la fine di questo decennio. Il rapporto prevede meno di 200.000 posti di lavoro il prossimo anno e meno che 700.000 posti di lavoro per il 2015.

Se ne avete voglia, confrontate questi con un paio di altri numeri: i 14 milioni di americani attualmente disoccupati e i posti di lavoro, da uno a due milioni, che secondo stime imparziali il piano Obama creerebbe, non in un lontano futuro, ma nel 2012.

 

Dunque, più inquinamento non è la strada che porta alla piena occupazione. Ma c’è una ragione più a lungo termine per diminuire la protezione dell’ambiente? No. Serie analisi economiche ci dicono che in effetti abbiamo bisogno di maggiore e non di minore protezione ambientale.

Quello che è importante capire è che la ragione del controllo dell’inquinamento non si basa su una qualche avversione di natura estetica per la società industriale. L’inquinamento produce un danno reale e quantificabile, in particolare alla salute umana.

E gli operatori politici dovrebbero mettere nel conto quel danno. Noi abbiamo bisogno di più uomini politici simili al coraggioso Governatore che difese i controlli ambientali su un impianto energetico alimentato a carbone, nonostante gli ammonimenti che quell’impianto avrebbe potuto essere chiuso, sulla base della affermazione  per la quale “non intendo creare o mantenere posti di lavoro che ammazzano la gente”.

Quell’uomo politico, nel passato 2003, era in effetti Mitt Romney – lo stesso uomo politico che oggi chiede che si usi più carbone [30].

Quanto sono grandi questi danni? Un recente studio da parte di ricercatori dell’Università di Yale e di Middlebury mette insieme dati da fonti molteplici per attribuire un valore in dollari ai danni ambientali provocati da varie industrie. Le stime sono lontane dall’essere esaurienti, giacché considerano soltanto l’inquinamento dell’aria e non fanno alcun tentativo di considerare le implicazioni di più lungo periodo, come quella del cambiamento climatico. Anche così, i risultati sono stupefacenti.

Risulta infatti che c’è un buon numero di industrie che provocano danni ambientali per un valore superiore ai salari che esse pagano ad ai profitti che realizzano – il che in effetti significa che distruggono valore, anziché crearlo. In cima alla lista, per inciso, c’è la creazione di energia elettrica alimentata a carbone, quella contro la quale il Mitt Romney dei tempi andati era solito resistere.

Come sostengono gli autori dello studio, scoprire che una industria provoca an ampio danno ambientale a confronto della sua apparente resa economica non significa necessariamente che quell’industria debba essere chiusa. Quello che significa, invece, è che “i livelli di emissione di quella industria che sono consentiti dalle leggi  sono troppo elevati”. Ovvero, che le regole ambientali non sono abbastanza severe.

I Repubblicani, naturalmente, hanno cospicui incentivi per pensarla altrimenti: le industrie caratterizzate da elevata distruttività di valore sono concentrate nel settore energetico e delle risorse naturali, settori che contribuiscono in modo schiacciante alle donazioni al Partito Repubblicano. Ma la realtà è che un maggiore inquinamento non risolverebbe i nostri problemi occupazionali. Tutto quello che farebbe sarebbe renderci più poveri e più vulnerabili nella salute.

 

 

 

 

The Hole in Europe’s Bucket

By PAUL KRUGMAN
Published: October 23, 2011

 

If it weren’t so tragic, the current European crisis would be funny, in a gallows-humor sort of way. For as one rescue plan after another falls flat, Europe’s Very Serious People — who are, if such a thing is possible, even more pompous and self-regarding than their American counterparts — just keep looking more and more ridiculous.

I’ll get to the tragedy in a minute. First, let’s talk about the pratfalls, which have lately had me humming the old children’s song “There’s a Hole in My Bucket.”

For those not familiar with the song, it concerns a lazy farmer who complains about said hole and is told by his wife to fix it. Each action she suggests, however, turns out to require a prior action, and, eventually, she tells him to draw some water from the well. “But there’s a hole in my bucket, dear Liza, dear Liza.”

 

What does this have to do with Europe? Well, at this point, Greece, where the crisis began, is no more than a grim sideshow. The clear and present danger comes instead from a sort of bank run on Italy, the euro area’s third-largest economy. Investors, fearing a possible default, are demanding high interest rates on Italian debt. And these high interest rates, by raising the burden of debt service, make default more likely.

It’s a vicious circle, with fears of default threatening to become a self-fulfilling prophecy. To save the euro, this threat must be contained. But how? The answer has to involve creating a fund that can, if necessary, lend Italy (and Spain, which is also under threat) enough money that it doesn’t need to borrow at those high rates. Such a fund probably wouldn’t have to be used, since its mere existence should put an end to the cycle of fear. But the potential for really large-scale lending, certainly more than a trillion euros’ worth, has to be there.

 

 

And here’s the problem: All the various proposals for creating such a fund ultimately require backing from major European governments, whose promises to investors must be credible for the plan to work. Yet Italy is one of those major governments; it can’t achieve a rescue by lending money to itself. And France, the euro area’s second-biggest economy, has been looking shaky lately, raising fears that creation of a large rescue fund, by in effect adding to French debt, could simply have the effect of adding France to the list of crisis countries. There’s a hole in the bucket, dear Liza, dear Liza.

You see what I mean about the situation being funny in a gallows-humor fashion? What makes the story really painful is the fact that none of this had to happen.

Think about countries like Britain, Japan and the United States, which have large debts and deficits yet remain able to borrow at low interest rates. What’s their secret? The answer, in large part, is that they retain their own currencies, and investors know that in a pinch they could finance their deficits by printing more of those currencies. If the European Central Bank were to similarly stand behind European debts, the crisis would ease dramatically.

Wouldn’t that cause inflation? Probably not: whatever the likes of Ron Paul may believe, money creation isn’t inflationary in a depressed economy. Furthermore, Europe actually needs modestly higher overall inflation: too low an overall inflation rate would condemn southern Europe to years of grinding deflation, virtually guaranteeing both continued high unemployment and a string of defaults.

But such action, we keep being told, is off the table. The statutes under which the central bank was established supposedly prohibit this kind of thing, although one suspects that clever lawyers could find a way to make it happen. The broader problem, however, is that the whole euro system was designed to fight the last economic war. It’s a Maginot Line built to prevent a replay of the 1970s, which is worse than useless when the real danger is a replay of the 1930s.

 

And this turn of events is, as I said, tragic.

The story of postwar Europe is deeply inspiring. Out of the ruins of war, Europeans built a system of peace and democracy, constructing along the way societies that, while imperfect — what society isn’t? — are arguably the most decent in human history.

Yet that achievement is under threat because the European elite, in its arrogance, locked the Continent into a monetary system that recreated the rigidities of the gold standard, and — like the gold standard in the 1930s — has turned into a deadly trap.

Now maybe European leaders will come up with a truly credible rescue plan. I hope so, but I don’t expect it.

The bitter truth is that it’s looking more and more as if the euro system is doomed. And the even more bitter truth is that given the way that system has been performing, Europe might be better off if it collapses sooner rather than later.

 

Il buco nel secchio dell’Europa, di Paul Krugman

New York Times 23 ottobre 2011

 

 

Se non fosse tragica, la crisi europea in corso potrebbe risultare divertente, una specie di umorismo macabro. Perché, mentre vanno a farsi benedire un piano di salvataggio dopo l’altro, le Persone Molto Serie europee [31] – che sono, se la cosa è possibile, persino più pompose e supponenti dei loro omologhi americani – continuano ad apparire giorno dopo giorno sempre più ridicole.

Vengo tra un minuto all’aspetto tragico della faccenda. Fatemi prima partire dall’aspetto di tutte quelle scivolate [32], che di recente mi hanno rammentato quella antica canzone dei bambini “C’è un buco nel mio secchio”.

Per coloro che non la conoscono, essa riguarda un contadino pigro che si lamenta per il suddetto buco e dice a sua moglie di ripararlo. Tutte le iniziative che lei propone, tuttavia, risultano aver bisogno preventivamente di qualcos’altro, e alla fine lei gli dice di tirar su un po’ d’acqua dal pozzo. “Cara Lisa,  cara Liza, ma se ho un buco nel secchio!”

 

Cosa ha a che fare questo con l’Europa? Bene, a questo punto la Grecia, dove la crisi è cominciata, è niente di più che una spiacevole attrazione secondaria. Il pericolo chiaro ed attuale viene invece da un sorta di assalto agli sportelli [33]in Italia, che dell’area euro è la terza più grande economia. Gli investitori, spaventati da un possibile default, chiedono interessi elevati sul debito italiano. E questi alti tassi di interesse, accrescendo il peso del servizio del debito, rendono il default più probabile.

E’ un circolo vizioso, dove le paure del default minacciano di diventare una profezia che si autoavvera. Per salvare l’euro, questa minaccia deve essere arginata. Ma come? La risposta deve implicare la creazione di un fondo che, se necessario, fornisca in prestito all’Italia (e alla Spagna, che è anch’essa sotto una tale minaccia) sufficiente denaro da non dover ricorrere all’indebitamento a tassi di interesse così elevati. Un fondo del genere probabilmente non sarebbe utilizzato, dato che la sua sola esistenza dovrebbe interrompere il circolo della paura. Ma quel potenziale per un prestito di effettiva grande dimensione, certamente superiore ad un migliaio di miliardi di euro, ci deve essere.

E qua sta il problema: tutte le varie proposte per la creazione di un fondo del genere, in definitiva richiedono di essere sostenute dai principali Governi dell’Europa, le cui promesse agli investitori devono sembrare credibili perché il piano funzioni. Tuttavia l’Italia è uno di quei principali Governi: essa non può avere un salvataggio dando in prestito denaro a se stessa. E la Francia, la seconda più grande economia dell’area euro, di recente è sembrata traballare, aumentando i timori che la creazione di un così grande fondo di salvataggio, in effetti con l’aggiunta del debito francese, semplicemente comporterebbe l’aggiunta della Francia alla lista dei paesi in crisi. Cara Liza, c’è un buco nel secchio.

Capite quello che intendo quando dico che la situazione sta diventando comica, del genere dell’umor macabro? Quello che invece rende la storia dolorosa è che niente del genere doveva accadere.

Si pensi a paesi come L’Inghilterra, il Giappone e gli Stati Uniti, che hanno ampi debiti e deficit e tuttavia restano capaci di indebitarsi a tassi di interesse bassi. Qual è il loro segreto? La risposta, in larga parte, è che essi mantengono le loro proprie valute, e gli investitori sanno che se finissero nei guai essi potrebbero finanziare i loro deficit stampando maggiore valuta. Se la Banca Centrale Europea prendesse una decisione analoga a seguito dei debiti europei, la crisi si attenuerebbe in modo spettacolare.

Questo provocherebbe inflazione? Probabilmente no: qualsiasi cosa ne pensino tipi come Ron Paul [34], la creazione di moneta non è inflazionistica in una economia depressa. Inoltre, l’Europa ha bisogno di una complessiva inflazione un po’ più elevata: tassi di inflazione generale troppo bassi condannerebbero l’Europa del Sud ad anni di brusca deflazione, con la virtuale garanzia sia di una perdurante elevata disoccupazione che di una serie di defaults.

Ma una azione del genere, continuano a dirci, è fuori dalle possibilità. Gli statuti con i quali è stata istituita la Banca Centrale a quanto pare proibiscono azioni del genere, sebbene venga il sospetto che dei legali intelligenti potrebbero trovare il modo di metterle in atto. Il problema più generale, tuttavia, è che l’intero sistema dell’euro era stato concepito per combattere le guerre economiche del passato. E’ una linea Maginot costruita per prevenire una riedizione degli anni ’70, il che è peggio che inutile quando il pericolo reale è una riedizione degli anni ’30.

Come ho detto, questa piega degli eventi è tragica.

La storia dell’Europa postbellica è profondamente illuminante. Fuori dalle rovine della guerra, gli europei edificarono un sistema di pace e di democrazia, costruendolo in modi tali che quelle società, per quanto imperfette – quale società non lo è? – sono senza dubbio le più dignitose nella storia dell’uomo.

Tuttavia quella realizzazione è minacciata perché i ceti dirigenti europei, nella loro presunzione, chiusero il Continente in un sistema monetario che ha ricreato le rigidità del gold standard, e – come il gold standard degli anni ’30, si è trasformato in una trappola mortale.

Ora, è possibile che i dirigenti europei verranno fuori con un piano credibile di salvataggio. Io lo spero, ma non ci conto.

La verità più amara è che sembra sempre di più che il sistema euro sia destinato a fallire. E la verità persino più amara è che considerato il modo in cui quel sistema sta funzionando, per l’Europa sarebbe meglio venirne fuori, se esso è destinato al collasso, più prima che poi.

 

 

 

The Path Not Taken

By PAUL KRUGMAN
Published: October 27, 2011

REYKJAVIK, Iceland

Financial markets are cheering the deal that emerged from Brussels early Thursday morning. Indeed, relative to what could have happened — an acrimonious failure to agree on anything — the fact that European leaders agreed on something, however vague the details and however inadequate it may prove, is a positive development.

But it’s worth stepping back to look at the larger picture, namely the abject failure of an economic doctrine — a doctrine that has inflicted huge damage both in Europe and in the United States.

The doctrine in question amounts to the assertion that, in the aftermath of a financial crisis, banks must be bailed out but the general public must pay the price. So a crisis brought on by deregulation becomes a reason to move even further to the right; a time of mass unemployment, instead of spurring public efforts to create jobs, becomes an era of austerity, in which government spending and social programs are slashed.

This doctrine was sold both with claims that there was no alternative — that both bailouts and spending cuts were necessary to satisfy financial markets — and with claims that fiscal austerity would actually create jobs. The idea was that spending cuts would make consumers and businesses more confident. And this confidence would supposedly stimulate private spending, more than offsetting the depressing effects of government cutbacks.

 

 

Some economists weren’t convinced. One caustic critic referred to claims about the expansionary effects of austerity as amounting to belief in the “confidence fairy.” O.K., that was me.

But the doctrine has, nonetheless, been extremely influential. Expansionary austerity, in particular, has been championed both by Republicans in Congress and by the European Central Bank, which last year urged all European governments — not just those in fiscal distress — to engage in “fiscal consolidation.”

And when David Cameron became Britain’s prime minster last year, he immediately embarked on a program of spending cuts in the belief that this would actually boost the economy — a decision that was greeted with fawning praise by many American pundits.

 

Now, however, the results are in, and the picture isn’t pretty. Greece has been pushed by its austerity measures into an ever-deepening slump — and that slump, not lack of effort on the part of the Greek government, was the reason a classified report to European leaders concluded last week that the existing program there was unworkable. Britain’s economy has stalled under the impact of austerity, and confidence from both businesses and consumers has slumped, not soared.

Maybe the most telling thing is what now passes for a success story. A few months ago various pundits began hailing the achievements of Latvia, which in the aftermath of a terrible recession, nonetheless, managed to reduce its budget deficit and convince markets that it was fiscally sound. That was, indeed, impressive, but it came at the cost of 16 percent unemployment and an economy that, while finally growing, is still 18 percent smaller than it was before the crisis.

 

So bailing out the banks while punishing workers is not, in fact, a recipe for prosperity. But was there any alternative? Well, that’s why I’m in Iceland, attending a conference about the country that did something different.

If you’ve been reading accounts of the financial crisis, or watching film treatments like the excellent “Inside Job,” you know that Iceland was supposed to be the ultimate economic disaster story: its runaway bankers saddled the country with huge debts and seemed to leave the nation in a hopeless position.

But a funny thing happened on the way to economic Armageddon: Iceland’s very desperation made conventional behavior impossible, freeing the nation to break the rules. Where everyone else bailed out the bankers and made the public pay the price, Iceland let the banks go bust and actually expanded its social safety net. Where everyone else was fixated on trying to placate international investors, Iceland imposed temporary controls on the movement of capital to give itself room to maneuver.

 

So how’s it going? Iceland hasn’t avoided major economic damage or a significant drop in living standards. But it has managed to limit both the rise in unemployment and the suffering of the most vulnerable; the social safety net has survived intact, as has the basic decency of its society. “Things could have been a lot worse” may not be the most stirring of slogans, but when everyone expected utter disaster, it amounts to a policy triumph.

And there’s a lesson here for the rest of us: The suffering that so many of our citizens are facing is unnecessary. If this is a time of incredible pain and a much harsher society, that was a choice. It didn’t and doesn’t have to be this way.

 

Il sentiero che non si è preso, di Paul Krugman

New York Times 27 ottobre 2011

 

REYKJAVIK, Islanda

I mercati finanziari esultano per l’accordo emerso a Bruxelles martedì in prima mattina. In effetti, in relazione a quanto sarebbe potuto accadere – un acrimonioso fallimento senza convenire su niente – il fatto che i dirigenti europei sia siano trovati d’accordo su qualcosa, ancora vago nei dettagli e per quanto inadeguato possa risultare, è uno sviluppo positivo.

Ma merita fare un passo indietro e guardare al quadro più generale e precisamente al disonorevole fallimento di una dottrina economica che ha inflitto danni grandi all’Europa ed agli Stati Uniti.

 

La dottrina in questione si basa sul concetto secondo il quale, a seguito della crisi finanziaria, le banche dovevano essere messe in salvo ma le collettività dovevano pagarne il prezzo. Così una crisi provocata dalla deregolamentazione è diventata un periodo per spostarsi ancora più a destra; un epoca di disoccupazione di massa, anziché incoraggiare sforzi pubblici per creare posti di lavoro, è diventata un’epoca di austerità, nella quale sono stati tagliati la spesa pubblica ed i programmi sociali.

Questa dottrina è stata messa in giro con la pretesa che non esistessero alternative – che quei salvataggi e quei tagli di spesa fossero necessari per soddisfare i mercati finanziari – e con la pretesa che l’austerità della finanza pubblica [35] avrebbe effettivamente creato lavoro.  L’idea era quella che i tagli alla spesa pubblica [36]  avrebbero reso i consumatori e le imprese più fiduciosi. E si supponeva che questa fiducia avrebbe stimolato la spesa privata, più che compensando gli effetti depressivi della riduzione delle spese dei governi.

Alcuni economisti non ne erano persuasi. Una critica irriverente aveva definito i pretesi effetti espansivi dell’austerità come una specie di fiducia nella “fata turchina”. E l’autore di quella critica, lo ammetto, fu il sottoscritto.

Ciononostante, quella dottrina ha avuto grande influenza. Della austerità espansiva si sono fatti paladini, in particolare, sia i Repubblicani americani che la Banca Centrale Europea, che l’anno passato ha messo sotto pressione tutti i governi europei – non solo quelli con le finanze pubbliche in difficoltà – affinché si impegnassero in un “consolidamento finanziario”.

E quando David Cameron divenne l’anno passato il primo ministro dell’Inghilterra, egli si imbarcò immediatamente in un programma di tagli alla spesa pubblica nella convinzione che questo avrebbe effettivamente dato una spinta all’economia – una decisione che venne salutata da elogi ossequiosi di molti addetti ai lavori americani.

 A questo punto, tuttavia, ci sono i risultati, ed il quadro non è esaltante. La Grecia è stata spinta dalle sue misure di austerità in una depressione ancora più profonda – e quella depressione, pure in presenza [37] di uno sforzo da parte del Governo greco, è stata la ragione per la quale, in un rapporto riservato della scorsa settimana ai dirigenti europei, si è giunti alla conclusione che il programma attuale non può funzionare. L’economia inglese si è bloccata sotto l’effetto della austerità, e la fiducia da parte dei consumatori come delle imprese è precipitata anziché schizzare verso l’alto.

 

Forse la cosa più significativa è quella che ora viene presentata come una storia di successo. Mesi orsono vari addetti ai lavori cominciarono ad elogiare i risultati della Lettonia che, sulla scia di una terribile recessione, cionondimeno aveva operato per ridurre il suo deficit di bilancio e convincere i mercati di essere finanziariamente sana. In effetti essa è stata impressionante, ma è venuta con il costo di un 16 per cento di disoccupazione con una economia che, per quanto finalmente in crescita, è ancora del 18 per cento più piccola di quanto non fosse prima della crisi.

In conclusione salvare le banche per punire i lavoratori, alla luce dei fatti, non è una ricetta per la prosperità. Ma c’era qualche alternativa? Ebbene, questa è la ragione per la quale sto partecipando ad una conferenza sul paese che ha fatto qualcosa di diverso.

Se voi avete letto i resoconti della crisi finanziaria, o seguito le accoglienze di un film come l’eccellente “Inside jobs”, sapete che l’Islanda veniva considerata come la storia di un disastro economico definitivo: i suoi banchieri fuori controllo avevano addossato al paese una valanga di debiti e sembrava che avessero lasciato quella nazione in una condizione senza speranza.

Ma, sulla strada di quella Armageddon economica, è successo qualcosa di curioso: la vera e propria disperazione dell’Islanda ha reso le condotte convenzionali impossibili, consentendo a quel paese di infrangere le regole. Mentre tutti gli altri mettevano in salvo i banchieri e addossavano i costi alla collettività, l’Islanda ha lasciato fallire le banche ed ha ampliato la sua rete di sicurezza sociale. Mentre tutti gli altri si erano fissati sul tentativo di placare gli investitori internazionali, l’Islanda ha imposto controlli temporanei sui movimenti di capitali in modo da riservarsi uno spezio di manovra.

Cosa sta, dunque, accadendo? L’Islanda non ha evitato un importante danno economico o una significativa caduta nei livelli di vita. Ma ha operato per limitare sia la crescita della disoccupazione che la sofferenza dei soggetti più vulnerabili; la rete della protezione sociale è rimasta intatta, così come la fondamentale dignità della sua società. “Le cose avrebbero potuto essere un po’ peggiori” può non essere il più entusiasmante degli slogan, ma quando ognuno pronostica un completo disastro, politicamente è un trionfo.

E qua c’è una lezione per tutti noi altri: la sofferenza che stanno affrontando tanti nostri cittadini non è necessaria. Se questo è un periodo di inaudite difficoltà e di condizioni collettive molto più dure, è stato per via d’una scelta. Non si doveva e non si deve scegliere questa strada.     

  

 

 

 

Bombs, Bridges and Jobs

By PAUL KRUGMAN
Published: October 30, 2011
 

A few years back Representative Barney Frank coined an apt phrase for many of his colleagues: weaponized Keynesians, defined as those who believe “that the government does not create jobs when it funds the building of bridges or important research or retrains workers, but when it builds airplanes that are never going to be used in combat, that is of course economic salvation.”

Right now the weaponized Keynesians are out in full force — which makes this a good time to see what’s really going on in debates over economic policy.

 

What’s bringing out the military big spenders is the approaching deadline for the so-called supercommittee to agree on a plan for deficit reduction. If no agreement is reached, this failure is supposed to trigger cuts in the defense budget.

 

Faced with this prospect, Republicans — who normally insist that the government can’t create jobs, and who have argued that lower, not higher, federal spending is the key to recovery — have rushed to oppose any cuts in military spending. Why? Because, they say, such cuts would destroy jobs.

Thus Representative Buck McKeon, Republican of California, once attacked the Obama stimulus plan because “more spending is not what California or this country needs.” But two weeks ago, writing in The Wall Street Journal, Mr. McKeon — now the chairman of the House Armed Services Committee — warned that the defense cuts that are scheduled to take place if the supercommittee fails to agree would eliminate jobs and raise the unemployment rate.

 

Oh, the hypocrisy! But what makes this particular form of hypocrisy so enduring?

 

First things first: Military spending does create jobs when the economy is depressed. Indeed, much of the evidence that Keynesian economics works comes from tracking the effects of past military buildups. Some liberals dislike this conclusion, but economics isn’t a morality play: spending on things you don’t like is still spending, and more spending would create more jobs.

 

But why would anyone prefer spending on destruction to spending on construction, prefer building weapons to building bridges?

John Maynard Keynes himself offered a partial answer 75 years ago, when he noted a curious “preference for wholly ‘wasteful’ forms of loan expenditure rather than for partly wasteful forms, which, because they are not wholly wasteful, tend to be judged on strict ‘business’ principles.” Indeed. Spend money on some useful goal, like the promotion of new energy sources, and people start screaming, “Solyndra! Waste!” Spend money on a weapons system we don’t need, and those voices are silent, because nobody expects F-22s to be a good business proposition.

 

 

To deal with this preference, Keynes whimsically suggested burying bottles full of cash in disused mines and letting the private sector dig them back up. In the same vein, I recently suggested that a fake threat of alien invasion, requiring vast anti-alien spending, might be just the thing to get the economy moving again.

But there are also darker motives behind weaponized Keynesianism.

For one thing, to admit that public spending on useful projects can create jobs is to admit that such spending can in fact do good, that sometimes government is the solution, not the problem. Fear that voters might reach the same conclusion is, I’d argue, the main reason the right has always seen Keynesian economics as a leftist doctrine, when it’s actually nothing of the sort. However, spending on useless or, even better, destructive projects doesn’t present conservatives with the same problem.

 

Beyond that, there’s a point made long ago by the Polish economist Michael Kalecki: to admit that the government can create jobs is to reduce the perceived importance of business confidence.

Appeals to confidence have always been a key debating point for opponents of taxes and regulation; Wall Street’s whining about President Obama is part of a long tradition in which wealthy businessmen and their flacks argue that any hint of populism on the part of politicians will upset people like them, and that this is bad for the economy. Once you concede that the government can act directly to create jobs, however, that whining loses much of its persuasive power — so Keynesian economics must be rejected, except in those cases where it’s being used to defend lucrative contracts.

 

 

 

 

So I welcome the sudden upsurge in weaponized Keynesianism, which is revealing the reality behind our political debates. At a fundamental level, the opponents of any serious job-creation program know perfectly well that such a program would probably work, for the same reason that defense cuts would raise unemployment. But they don’t want voters to know what they know, because that would hurt their larger agenda — keeping regulation and taxes on the wealthy at bay.

 

Bombe, ponti e posti di lavoro, di Paul Krugman

New York Times 30 ottobre 2011

 

 

Pochi anni fa il congressista Barney Frank coniò una espressione che andava a pennello per molti suoi colleghi: definì ‘keynesiani guerrafondai [38]’ coloro che credono “che il governo non crea posti di lavoro quando finanzia la costruzione di ponti o importanti ricerche o le pensioni dei lavoratori, ma quando costruisce aeroplani che non saranno mai utilizzati in combattimento, quella naturalmente è la salvezza dell’economia”.

In questo momento i ‘keynesiani guerrafondai’ sono usciti in forze allo scoperto – il che costituisce una buona occasione per vedere cosa si stia davvero preparando nelle discussioni sulla politica economica.

Quello che provoca questa uscita dei grandi scialacquatori di spese militari è l’approssimarsi del limite stabilito per la cosiddetta ‘supercommissione’ per concordare un piano per la riduzione del deficit. E’ stato presupposto che, se non venisse raggiunto alcun accordo, questo insuccesso innescherebbe tagli automatici nel bilancio della difesa. 

 

Dinanzi ad una prospettiva di tal fatta, i Repubblicani – che normalmente sostengono che il governo non può creare posti di lavoro e che hanno affermato che una spesa minore, e non maggiore, è la chiave della ripresa – si sono precipitati ad opporsi a qualsiasi taglio nelle spese militari. Perché, dicono, quei tagli distruggerebbero posti di lavoro.

Così il congressista Buck McKeon, repubblicano della California, una volta aveva attaccato il programma delle misure di sostegno di Obama perché “una spesa maggiore non è quello che serve, alla California ed a questo paese”. Ma due settimane fa, scrivendo su The Wall Street Journal, il signor McKeon – ora Presidente del Comitato dei Servizi Militari della Camera – ha ammonito che i tagli alla Difesa, fissati nel caso in cui la ‘supercommissione’ non riesca a trovare un accordo, distruggerebbero posti di lavoro e alzerebbero il tasso di disoccupazione.

Beata ipocrisia! Ma cos’è che rende questa particolare forma di ipocrisia  così tollerabile?

 

Prima di tutto i fatti: la spesa militare crea posti di lavoro quando un’economia è depressa. In effetti, gran parte delle prove per le quali una politica economica keynesiana funziona  derivano dall’aver osservato gli effetti dei trascorsi preparativi militari. Ad alcuni liberals questa è una conclusione che non fa piacere, ma l’economia non è una rappresentazione morale: spendere per ciò che non vi piace è purtuttavia spendere, e più si spende più si creano posti di lavoro.

 

Ma perché si dovrebbe preferire di spendere nella distruzione anziché nella costruzione, perché preferire la realizzazione di armamenti anziché la costruzione di ponti?

Una parziale risposta venne offerta dallo stesso John Maynard Keynes 75 anni orsono, quando notò una curiosa “preferenza per forme di spesa in prestito interamente destinate allo spreco anziché per forme parzialmente destinate allo spreco, le quali ultime, non essendo uno spreco integrale, tendono ad essere giudicate sulla base di stretti principi economici”. Proprio così. Spendete soldi per qualche obbiettivo utile, come la promozione di nuove fonti energetiche, e la gente comincerà a strepitare “Solyndra! [39] Soldi buttati al vento!” Spendete denaro per sistemi di armamento di cui non abbiamo bisogno, e quelle voci si zittiscono, perché nessuno si aspetta che gli F-22 siano un affare dal punto di vista economico.

Occupandosi di questa preferenza, Keynes suggerì scherzosamente di sotterrare in miniere abbandonate bottiglie piene di denaro contante e di autorizzare imprese private a dissotterrarle. Nello stesso spirito, di recente io ho suggerito che una falsa minaccia di una invasione di alieni, imponendo una cospicua spesa contro tali alieni, potrebbe essere la cosa giusta per rimettere l’economia in movimento.

Ma ci sono anche ragioni più inconfessabili dietro al keynesismo guerrafondaio.

 

Da una parte, ammettere che la spesa pubblica per progetti utili possa creare posti di lavoro è come ammettere che tale spesa in effetti può far del bene, che qualche volta il governo è la soluzione e non il problema. Il timore che gli elettori possano pervenire ad una conclusione simile è, a mio parere, la ragione principale per la quale la destra ha sempre considerato la teoria economica keynesiana come di sinistra, mentre essa non è effettivamente niente del genere. Tuttavia, spendere su cose inutili o, meglio ancora, su progetti distruttivi non comporta per la destra gli stessi problemi.

Oltre a ciò, c’è un aspetto chiarito molto tempo fa dall’economista polacco Michael Kalecki: ammettere che il governo possa creare posti di lavoro significa attenuare l’importanza della fiducia attesa da parte dell’economia [40].

Gli appelli alla fiducia sono sempre stati un punto chiave della discussione per gli oppositori delle tasse e della regolamentazione: le lamentele di Wall Street  nei confronti del Presidente Obama fanno parte di una lunga tradizione nella quale gli imprenditori più ricchi ed i loro galoppini hanno sempre sostenuto che ogni accenno di populismo [41] da parte degli uomini politici avrebbe provocato un grande turbamento nelle persone come loro, e questo sarebbe stato assai negativo per l’economia. Una volta che si ammetta che i governi possono operare direttamente per la creazione di posti di lavoro, tuttavia, queste lamentele perdono buona parte del loro potere di persuasione – dunque la teoria economica keynesiana deve essere respinta, con l’eccezione di quei casi nei quali essa si presta ad essere usata per difendere contratti ben vantaggiosi.

 

Dunque io do il benvenuto a questo “keynesismo guerrafondaio”, che è rivelatore della realtà nascosta dietro il nostro dibattito politico. In una certa rilevante misura, gli oppositori di ogni serio programma di creazione di posti di lavoro sanno perfettamente che un programma del genere probabilmente funzionerebbe, per la stessa ragione per la quale i tagli alla Difesa accrescerebbero la disoccupazione. Ma non vogliono che gli elettori sappiano quello che loro sanno, perché sarebbe un colpo ai loro maggiori programmi – tenere regole e tasse lontano dai ricchi.

 

 

 

 

 

 

Oligarchy, American Style

By PAUL KRUGMAN
Published: November 3, 2011

 

Inequality is back in the news, largely thanks to Occupy Wall Street, but with an assist from the Congressional Budget Office. And you know what that means: It’s time to roll out the obfuscators!

Anyone who has tracked this issue over time knows what I mean. Whenever growing income disparities threaten to come into focus, a reliable set of defenders tries to bring back the blur. Think tanks put out reports claiming that inequality isn’t really rising, or that it doesn’t matter. Pundits try to put a more benign face on the phenomenon, claiming that it’s not really the wealthy few versus the rest, it’s the educated versus the less educated.

 

 

So what you need to know is that all of these claims are basically attempts to obscure the stark reality: We have a society in which money is increasingly concentrated in the hands of a few people, and in which that concentration of income and wealth threatens to make us a democracy in name only.

The budget office laid out some of that stark reality in a recent report, which documented a sharp decline in the share of total income going to lower- and middle-income Americans. We still like to think of ourselves as a middle-class country. But with the bottom 80 percent of households now receiving less than half of total income, that’s a vision increasingly at odds with reality.

In response, the usual suspects have rolled out some familiar arguments: the data are flawed (they aren’t); the rich are an ever-changing group (not so); and so on. The most popular argument right now seems, however, to be the claim that we may not be a middle-class society, but we’re still an upper-middle-class society, in which a broad class of highly educated workers, who have the skills to compete in the modern world, is doing very well.

 

It’s a nice story, and a lot less disturbing than the picture of a nation in which a much smaller group of rich people is becoming increasingly dominant. But it’s not true.

Workers with college degrees have indeed, on average, done better than workers without, and the gap has generally widened over time. But highly educated Americans have by no means been immune to income stagnation and growing economic insecurity. Wage gains for most college-educated workers have been unimpressive (and nonexistent since 2000), while even the well-educated can no longer count on getting jobs with good benefits. In particular, these days workers with a college degree but no further degrees are less likely to get workplace health coverage than workers with only a high school degree were in 1979.

 

 

 

 

So who is getting the big gains? A very small, wealthy minority.

 

The budget office report tells us that essentially all of the upward redistribution of income away from the bottom 80 percent has gone to the highest-income 1 percent of Americans. That is, the protesters who portray themselves as representing the interests of the 99 percent have it basically right, and the pundits solemnly assuring them that it’s really about education, not the gains of a small elite, have it completely wrong.

If anything, the protesters are setting the cutoff too low. The recent budget office report doesn’t look inside the top 1 percent, but an earlier report, which only went up to 2005, found that almost two-thirds of the rising share of the top percentile in income actually went to the top 0.1 percent — the richest thousandth of Americans, who saw their real incomes rise more than 400 percent over the period from 1979 to 2005.

 

 

Who’s in that top 0.1 percent? Are they heroic entrepreneurs creating jobs? No, for the most part, they’re corporate executives. Recent research shows that around 60 percent of the top 0.1 percent either are executives in nonfinancial companies or make their money in finance, i.e., Wall Street broadly defined. Add in lawyers and people in real estate, and we’re talking about more than 70 percent of the lucky one-thousandth.

 

 

But why does this growing concentration of income and wealth in a few hands matter? Part of the answer is that rising inequality has meant a nation in which most families don’t share fully in economic growth. Another part of the answer is that once you realize just how much richer the rich have become, the argument that higher taxes on high incomes should be part of any long-run budget deal becomes a lot more compelling.

 

The larger answer, however, is that extreme concentration of income is incompatible with real democracy. Can anyone seriously deny that our political system is being warped by the influence of big money, and that the warping is getting worse as the wealth of a few grows ever larger?

 

Some pundits are still trying to dismiss concerns about rising inequality as somehow foolish. But the truth is that the whole nature of our society is at stake.

 

Oligarchia in stile americano, di Paul Krugman

New York Times 3 novembre 2011

 

 

La disuguaglianza è tornata a fare notizia, in gran parte grazie ad Occupy Wall Street, ma con un aiuto da parte del Congressional Budget Office[42]. Come capite, questo significa che è venuto il tempo di scrollarci di dosso gli oscurantisti!

Chiunque abbia seguito questo mio tema consueto nel corso del tempo sa cosa intendo. Ogni qual volta le crescenti disparità di reddito minacciano di venire al centro dell’attenzione, si può far conto su un certo numero di difensori d’ufficio che alzano un polverone. Gruppi di esperti mettono in giro relazioni che sostengono che l’ineguaglianza non stia effettivamente crescendo, o che quello non sia il problema.  Esperti cercano di presentare il fenomeno in modo più benevolo, sostenendo che esso in effetti non esprime una contraddizione tra i ricchi e tutti gli altri, ma tra coloro che sono istruiti e quelli che lo sono meno.

Quello che si deve sapere è che tutte queste pretese sono fondamentalmente tentativi di annebbiare la verità nuda e cruda: siamo diventati una società nella quale i soldi sono crescentemente concentrati nelle mani di poche persone, una società nella quale la concentrazione del reddito e della ricchezza minacciano di restituirci una democrazia solo formale.

L’Ufficio del Bilancio ha esposto quella cruda verità in un recente rapporto che documenta una drastica riduzione della percentuale di  reddito totale percepito dagli americani di condizioni economiche basse e medie. A noi fa ancora piacere pensarci come un paese di classi medie[43], ma con l’80 per cento delle famiglie che attualmente ricevono meno della metà del reddito totale, quella è una visione sempre più in contrasto con la realtà.

Per tutta risposta, i soliti noti hanno dispiegato alcuni argomenti consueti: i dati sarebbero scorretti (e non lo sono); i ricchi sarebbero un gruppo in continua mutazione (e non è vero), e così via. In questo momento, l’argomento più popolare sembra essere l’affermazione secondo la quale può esser vero che non siamo più una società delle classi medie, ma siamo ancora una società delle classi medio alte; nella quale una ampia componente di lavoratori altamente formati, che hanno le competenze per competere nel mondo moderno, stanno economicamente assai bene.

E’ una bella storia, assai meno preoccupante del quadro di una nazione nella quale un gruppo molto più esiguo di persone ricche sta diventando giorno dopo giorno dominante. Ma non è vera.

In media i lavoratori con istruzione specializzata di livello universitario[44], in effetti, hanno avuto prestazioni superiori a quelli che ne erano sprovvisti, ed il divario si è in generale allargato col tempo. Ma gli americani con elevata istruzione non sono rimasti affatto immuni dalla stagnazione dei redditi e dall’insicurezza della crescita economica. I vantaggi salariali per la gran parte dei lavoratori con istruzione professionale di livello universitario sono stati tutt’altro che impressionanti (e inesistenti a partire dal 2000), nel mentre anche coloro che hanno una buona istruzione non possono più a lungo far conto di ottenere posti di lavoro con buoni stipendi. In particolare, i lavoratori con istruzione professionale di livello universitario ma sprovvisti di altri titoli, di questi tempi è meno probabile che ottengano sul posto di lavoro [45] la copertura della assicurazione sulla salute  di quanto non la ottenessero i lavoratori provvisti di  semplice istruzione secondaria superiore nel 1979.

A chi vanno, dunque, i grandi guadagni? Ad una piccolissima minoranza di ricchi.

 

L’ Ufficio del Bilancio ci dice che quasi l’intera redistribuzione verso l’alto del reddito proveniente dall’80 per cento inferiore se ne è andato all’1 per cento dei redditi più elevati degli americani. Ovvero, i manifestanti di questi giorni[46], che si presentano come rappresentanti degli interessi del 99 per cento della popolazione, hanno fondamentalmente ragione, e gli esperti che assicurano che quei vantaggi dipendono effettivamente dall’istruzione e che non sono appannaggio di una piccola élite, hanno completamente torto.

Semmai, i manifestanti hanno fissato il loro limite di rappresentanza troppo in basso. Il recente rapporto dell’ Ufficio del Bilancio non procede ad una analisi all’interno di quell’1 per cento privilegiato, ma un precedente rapporto, che vide le luce soltanto nel 2005, scoprì che quasi due terzi della quota crescente di reddito appannaggio del percentile[47] più elevato, effettivamente se ne andava allo 0,1 per cento collocato al limite superiore della scala sociale – ovvero quel millesimo di americani ricchissimi, che hanno visto i loro redditi reali crescere di più del 400 per cento nel periodo che andò dal 1979 al 2005.

Chi c’è in quello 0,1 per cento? Si tratta di eroici imprenditori che creano posti di lavoro? No, in massima parte sono amministratori di grandi aziende. Una recente ricerca mostra che circa il 60 per cento di quello 0,1 per cento collocato al vertice sono sia amministratori di imprese non finanziarie, che di imprese che fanno soldi nella finanza, vale a dire, nella sua accezione più generale, gente di Wall Street. Se si aggiungono i legali e coloro che operano nel settore immobiliare, stiamo parlando di più del 70 per cento di quel fortunato millesimo.

E perché questa crescente concentrazione del reddito e della ricchezza in poche mani è importante? Parte della risposta consiste nel fatto che quella crescente ineguaglianza ha prodotto una nazione nella quale gran parte delle famiglie non partecipano pienamente alla crescita dell’economia. Un’altra parte consiste nel fatto che, una volta che si comprenda come i ricchi sono diventati più ricchi, l’argomento secondo il quale tasse maggiori sui redditi più alti dovrebbero entrare a far parte di ogni accordo di lungo periodo sul bilancio diventa assai più convincente.

E tuttavia, in termini più generali, la risposta è che questa estrema concentrazione del reddito è incompatibile con una democrazia effettiva. C’è qualcuno che può seriamente negare che il nostro sistema politico sia sempre più distorto dalla influenza delle grandi ricchezze, e che quella distorsione peggiori di giorno in giorno, nel mentre quella ricchezza di pochi diventa sempre più grande?

Alcuni esperti provano a ridicolizzare le preoccupazioni per questa crescente ineguaglianza, quasi fossero stupidaggini. Ma la verità è che quello che è in gioco è la stessa natura della nostra società.   

 

 

 

 

 

 

Here Comes the Sun

By PAUL KRUGMAN
Published: November 6, 2011

 

For decades the story of technology has been dominated, in the popular mind and to a large extent in reality, by computing and the things you can do with it. Moore’s Law — in which the price of computing power falls roughly 50 percent every 18 months — has powered an ever-expanding range of applications, from faxes to Facebook.

Our mastery of the material world, on the other hand, has advanced much more slowly. The sources of energy, the way we move stuff around, are much the same as they were a generation ago.

But that may be about to change. We are, or at least we should be, on the cusp of an energy transformation, driven by the rapidly falling cost of solar power. That’s right, solar power.

If that surprises you, if you still think of solar power as some kind of hippie fantasy, blame our fossilized political system, in which fossil fuel producers have both powerful political allies and a powerful propaganda machine that denigrates alternatives.

 

Speaking of propaganda: Before I get to solar, let’s talk briefly about hydraulic fracturing, a k a fracking.

Fracking — injecting high-pressure fluid into rocks deep underground, inducing the release of fossil fuels — is an impressive technology. But it’s also a technology that imposes large costs on the public. We know that it produces toxic (and radioactive) wastewater that contaminates drinking water; there is reason to suspect, despite industry denials, that it also contaminates groundwater; and the heavy trucking required for fracking inflicts major damage on roads.

Economics 101 tells us that an industry imposing large costs on third parties should be required to “internalize” those costs — that is, to pay for the damage it inflicts, treating that damage as a cost of production. Fracking might still be worth doing given those costs. But no industry should be held harmless from its impacts on the environment and the nation’s infrastructure.

 

Yet what the industry and its defenders demand is, of course, precisely that it be let off the hook for the damage it causes. Why? Because we need that energy! For example, the industry-backed organization energyfromshale.org declares that “there are only two sides in the debate: those who want our oil and natural resources developed in a safe and responsible way; and those who don’t want our oil and natural gas resources developed at all.”

 

So it’s worth pointing out that special treatment for fracking makes a mockery of free-market principles. Pro-fracking politicians claim to be against subsidies, yet letting an industry impose costs without paying compensation is in effect a huge subsidy. They say they oppose having the government “pick winners,” yet they demand special treatment for this industry precisely because they claim it will be a winner.

 

 

And now for something completely different: the success story you haven’t heard about.

These days, mention solar power and you’ll probably hear cries of “Solyndra!” Republicans have tried to make the failed solar panel company both a symbol of government waste — although claims of a major scandal are nonsense — and a stick with which to beat renewable energy.

 

But Solyndra’s failure was actually caused by technological success: the price of solar panels is dropping fast, and Solyndra couldn’t keep up with the competition. In fact, progress in solar panels has been so dramatic and sustained that, as a blog post at Scientific American put it, “there’s now frequent talk of a ‘Moore’s law’ in solar energy,” with prices adjusted for inflation falling around 7 percent a year.

 

This has already led to rapid growth in solar installations, but even more change may be just around the corner. If the downward trend continues — and if anything it seems to be accelerating — we’re just a few years from the point at which electricity from solar panels becomes cheaper than electricity generated by burning coal.

 

And if we priced coal-fired power right, taking into account the huge health and other costs it imposes, it’s likely that we would already have passed that tipping point.

But will our political system delay the energy transformation now within reach?

Let’s face it: a large part of our political class, including essentially the entire G.O.P., is deeply invested in an energy sector dominated by fossil fuels, and actively hostile to alternatives. This political class will do everything it can to ensure subsidies for the extraction and use of fossil fuels, directly with taxpayers’ money and indirectly by letting the industry off the hook for environmental costs, while ridiculing technologies like solar.

 

So what you need to know is that nothing you hear from these people is true. Fracking is not a dream come true; solar is now cost-effective. Here comes the sun, if we’re willing to let it in.

 

Sta venendo il sole, di Paul Krugman

New York Times, 6 novembre 2011

 

 

Per decenni la storia della tecnologia è stata dominata, nella immaginazione popolare e in larga misura nella realtà, dall’informatica e dalle cose che da essa si possono ottenere. La legge di Moore – secondo la quale il prezzo dell’energia informatica cade di circa il 50 per cento ogni 18 mesi – ha alimentato una gamma di applicazioni in continua espansione, dai fax a Facebook.

La nostra padronanza del mondo fisico, d’altro canto, è andata avanti molto più lentamente. Le fonti dell’energia, il modo in cui facciamo circolare gli oggetti, sono in gran parte le stesse di quelle che erano una generazione fa.

Ma siamo forse alla vigilia di un cambiamento. Siamo, o almeno dovremmo essere, al culmine di una trasformazione energetica, guidata dalla rapida diminuzione del costo dell’energia solare. Proprio così, dell’energia solare.

Se questo vi sorprende, se ancora pensate all’energia solare come ad una sorta di fantasia hippy, la responsabilità è del nostro fossilizzato sistema politico, nel quale i produttori di combustibili fossili detengono sia potenti alleati politici che una potente macchina propagandistica che denigra le energie alternative.

A proposito di propaganda: prima di arrivare al solare, consentitemi di parlare brevemente della cosiddetta fratturazione idraulica, o “fracking”.

Il fracking – l’iniezione di fluidi ad alta pressione nelle rocce sotterranee profonde, che induce il rilascio di combustibili fossili – è una tecnologia impressionante. Ma è anche una tecnologia che comporta costi elevati per la collettività. Sappiamo che produce acque di scarto tossiche (e radioattive) che contaminano l’acqua potabile; c’è ragione di sospettare, nonostante i dinieghi dell’industria, che essa provochi anche contaminazione alle falde acquifere; e l’autotrasporto di mezzi pesanti richiesto dal fracking provoca danni rilevanti alla viabilità.

Economics 101 [48] ci dice che ad una industria che comporta costi rilevanti a terzi si dovrebbe chiedere di “internalizzare” quei costi – vale a dire, di pagare per i danni che provoca, trattando quei danni come costi di produzione. Considerati quei costi, potrebbe ancora essere conveniente utilizzare la tecnica del fracking. Ma a nessuna industria dovrebbero essere risparmiati i costi per gli impatti sull’ambiente e sul sistema infrastrutturale della nazione.

Tuttavia, quello che quell’industria ed i suoi sostenitori chiedono è, ovviamente, proprio di essere esentati da responsabilità per i danni che provocano. Perché? Perché quella energia ci è necessaria! Ad esempio, la associazione che sostiene quel settore di industria denominata energyfromshale.org afferma che “ci sono solo due tesi a confronto: coloro che vogliono che il nostro petrolio e le nostre risorse naturali si sviluppino in modo responsabile e sicuro; e coloro che non vogliono che il nostro petrolio e le nostre risorse naturali si sviluppino affatto”.

E’ dunque il caso di far notare che il trattamento speciale rivendicato per il fracking costituisce una presa in giro dei principi del libero mercato. Gli uomini politici favorevoli al fracking rivendicano di essere contrari ai sussidi, tuttavia consentire ad una industria di provocare costi senza pagare compensi, in effetti, è un vistoso sussidio. Dicono di opporsi ad un sistema nel quale sono i governi a decidere chi far vincere [49], tuttavia chiedono un trattamento speciale per questa industria precisamente perché pretendono che essa sia destinata a vincere.

Ed ora consideriamo questa storia di successo affatto diversa, una storia della quale non avete sentito parlare.

Di questi tempi, fate cenno all’energia solare e probabilmente vi tirerete addosso gli strepiti su “Solyndra! [50]”  I Repubblicani hanno cercato di far diventare la fallita impresa di pannelli solari sia un simbolo degli sprechi del Governo – per quanto le affermazioni relative ad un importante scandalo siano prive di senso – che un bastone con il quale dare addosso alle energie rinnovabili.

La verità è che il fallimento di Solyndra è stato provocato da un successo della tecnologia: il prezzo dei pannelli solari è caduto rapidamente, e Solyndra non è riuscita a tenere il passo della competizione. Nei fatti, il progresso nei pannelli solari è stato così spettacolare e ininterrotto che, come ha sostenuto un articolo sul blog di Scientific American, “si parla ormai frequentemente dell’energia solare come un caso della ‘legge di Moore’ ”, con i prezzi corretti per l’inflazione che scendono di circa il 7 per cento all’anno.

Tutto questo ha già condotto ad una rapida crescita delle installazioni del solare, ma dietro l’angolo si annunciano cambiamenti anche maggiori. Se questa tendenza al ribasso prosegue – ed essa sembra piuttosto in corso di accelerazione – ci vorranno appena pochi anni per arrivare ad una situazione nella quale l’elettricità da pannelli solari diverrà più economica dell’elettricità prodotta dalla combustione del carbone.

E se i prezzi dell’energia prodotta dalla combustione del carbone fossero stimati correttamente, mettendo nel conto gli elevati costi che essa provoca sulla salute e sul resto, è probabile che avremmo già oltrepassato quel punto critico.

Ma non accadrà che il nostro sistema politico decida ora di rinviare quella trasformazione energetica che è alla nostra portata?

Si consideri questo: una larga parte della nostra classe politica, incluso essenzialmente l’intero Partito Repubblicano, è profondamente impegnata in un settore dell’energia dominato dai combustibili fossili. E attivamente ostile alle energie alternative. Questa parte del ceto politico farà tutto quanto sarà possibile per assicurare sussidi all’estrazione ed all’utilizzo di combustibili fossili, utilizzando direttamente i soldi dei contribuenti, ed indirettamente consentendo all’industria di restare esente dai costi ambientali, al tempo stesso mettendo in ridicolo tecnologie come quella solare.

Quello dunque che dovete sapere è che niente di quanto questa gente va dicendo corrisponde al vero. Non è il fracking il sogno che si avvera; oggi sono i costi del solare che sbalordiscono. Sta venendo il sole, ammesso che vorremo consentirlo. 

 

 

 

 

 

 

Legends of the Fail

By PAUL KRUGMAN
Published: November 10, 2011

 

This is the way the euro ends — not with a bang but with bunga bunga. Not long ago, European leaders were insisting that Greece could and should stay on the euro while paying its debts in full. Now, with Italy falling off a cliff, it’s hard to see how the euro can survive at all.

But what’s the meaning of the eurodebacle? As always happens when disaster strikes, there’s a rush by ideologues to claim that the disaster vindicates their views. So it’s time to start debunking.

First things first: The attempt to create a common European currency was one of those ideas that cut across the usual ideological lines. It was cheered on by American right-wingers, who saw it as the next best thing to a revived gold standard, and by Britain’s left, which saw it as a big step toward a social-democratic Europe. But it was opposed by British conservatives, who also saw it as a step toward a social-democratic Europe. And it was questioned by American liberals, who worried — rightly, I’d say (but then I would, wouldn’t I?) — about what would happen if countries couldn’t use monetary and fiscal policy to fight recessions.

 

 

So now that the euro project is on the rocks, what lessons should we draw?

I’ve been hearing two claims, both false: that Europe’s woes reflect the failure of welfare states in general, and that Europe’s crisis makes the case for immediate fiscal austerity in the United States.

The assertion that Europe’s crisis proves that the welfare state doesn’t work comes from many Republicans. For example, Mitt Romney has accused President Obama of taking his inspiration from European “socialist democrats” and asserted that “Europe isn’t working in Europe.” The idea, presumably, is that the crisis countries are in trouble because they’re groaning under the burden of high government spending. But the facts say otherwise.

It’s true that all European countries have more generous social benefits — including universal health care — and higher government spending than America does. But the nations now in crisis don’t have bigger welfare states than the nations doing well — if anything, the correlation runs the other way. Sweden, with its famously high benefits, is a star performer, one of the few countries whose G.D.P. is now higher than it was before the crisis. Meanwhile, before the crisis, “social expenditure” — spending on welfare-state programs — was lower, as a percentage of national income, in all of the nations now in trouble than in Germany, let alone Sweden.

Oh, and Canada, which has universal health care and much more generous aid to the poor than the United States, has weathered the crisis better than we have.

 

The euro crisis, then, says nothing about the sustainability of the welfare state. But does it make the case for belt-tightening in a depressed economy?

You hear that claim all the time. America, we’re told, had better slash spending right away or we’ll end up like Greece or Italy. Again, however, the facts tell a different story.

First, if you look around the world you see that the big determining factor for interest rates isn’t the level of government debt but whether a government borrows in its own currency. Japan is much more deeply in debt than Italy, but the interest rate on long-term Japanese bonds is only about 1 percent to Italy’s 7 percent. Britain’s fiscal prospects look worse than Spain’s, but Britain can borrow at just a bit over 2 percent, while Spain is paying almost 6 percent.

 

 

What has happened, it turns out, is that by going on the euro, Spain and Italy in effect reduced themselves to the status of third-world countries that have to borrow in someone else’s currency, with all the loss of flexibility that implies. In particular, since euro-area countries can’t print money even in an emergency, they’re subject to funding disruptions in a way that nations that kept their own currencies aren’t — and the result is what you see right now. America, which borrows in dollars, doesn’t have that problem.

The other thing you need to know is that in the face of the current crisis, austerity has been a failure everywhere it has been tried: no country with significant debts has managed to slash its way back into the good graces of the financial markets. For example, Ireland is the good boy of Europe, having responded to its debt problems with savage austerity that has driven its unemployment rate to 14 percent. Yet the interest rate on Irish bonds is still above 8 percent — worse than Italy.

The moral of the story, then, is to beware of ideologues who are trying to hijack the European crisis on behalf of their agendas. If we listen to those ideologues, all we’ll end up doing is making our own problems — which are different from Europe’s, but arguably just as severe — even worse.

 

Leggende del fallimento, di Paul Krugman

New York Times 10 novembre 2011

 

 

In questo modo l’euro va a finire – non con una esplosione ma con un “bunga bunga”. Non molto tempo fa, i dirigenti europei insistevano che la Grecia non avrebbe potuto e dovuto stare nell’euro finché non avesse pagato interamente i suoi debiti. Ora, con l’Italia che sta cadendo dal burrone, è difficile vedere come l’euro possa proprio sopravvivere.

Ma qual’è il significato di questa débâcle dell’euro? Come sempre accade, quando avvengono dei disastri, c’è un corsa degli ideologi a rivendicare che il disastro farebbe giustizia dei loro ammonimenti. E’ dunque il caso di cominciare a demistificare.

Anzitutto partiamo dall’inizio: il tentativo di creare una moneta comune europea fu una di quelle idee che attraversano il normale spettro delle ideologie. Esso fu acclamato dalla destra americana, che ci vedeva il miglior surrogato di una riedizione del gold standard, e dalla sinistra inglese, che ci vedeva un importante avvicinamento alle socialdemocrazie europee. Venne invece contrastato dai conservatori inglesi, i quali anche ci vedevano un passo verso un’Europa socialdemocratica. E su di esso si interrogarono i liberals americani, che erano preoccupati – giustamente, dovrei dire (ma lo dissi sin da allora) – di cosa sarebbe potuto accadere se quei paesi non avessero potuto utilizzare la politica monetaria e della finanza pubblica per combattere le recessioni.

Ora, dunque, che il progetto dell’euro è finito sugli scogli, quali lezioni possiamo trarne?

 

Ho ascoltato due affermazioni, entrambe false: quella secondo la quale i guai dell’Europa riflettono il fallimento generale degli stati assistenziali, e quella secondo la quale la crisi dell’Europa è la prova della esigenza della austerità nella politica della finanza pubblica  degli Stati Uniti.

Il concetto secondo il quale la crisi dell’Europa dimostrerebbe che lo stato assistenziale non funziona proviene da molti repubblicani. Ad esempio, Mitt Romney ha accusato il presidente Obama di prendere ispirazione dai “socialisti democratici” europei, ed ha affermato che “l’Europa non sta funzionando nemmeno in Europa”. L’idea, si può presumere, è quella che i paesi in crisi siano nei guai in quanto stanno scricchiolando sotto il peso di una elevata spesa pubblica. I fatti, però, ci dicono altro.

E’ vero che i paesi europei hanno sussidi sociali più generosi – compresa l’assistenza sanitaria universale – ed una spesa pubblica più elevata di quella americana. Ma le nazioni che oggi sono in crisi non hanno stati assistenziali più forti delle nazioni con buone prestazioni – semmai, la correlazione è inversa. La Svezia, con i suoi ben noti elevati benefici, ha ottime prestazioni ed è uno dei pochi paesi nel quale il PIL è oggi più alto di quanto fosse prima della crisi. D’altra parte, prima della crisi, la ‘spesa sociale’ – ovvero la spesa per i programmi dello stato assistenziale – era più bassa, come percentuale del reddito nazionale, in tutte le nazioni oggi in difficoltà, se confrontata con quella della Germania.

Per non dire del Canada che, con una assistenza sanitaria universale e con aiuti ai poveri più generosi di quelli degli Stati Uniti, ha resistito alla crisi meglio di quanto non abbiamo fatto noi.

La crisi dell’euro, insomma, non ci dice niente sulla sostenibilità dello stato assistenziale. Ma è una conferma della necessità di tirare la cinghia dinanzi alla depressione dell’economia?

Quest’ultima è una pretesa ricorrente. L’America, ci viene detto, è meglio che tagli la spesa pubblica immediatamente, se non vogliamo finire come la Grecia o l’Italia. Ciononostante, i fatti ci raccontano ancora una volta una storia diversa.

In primo luogo, se vi guardate attorno nel mondo vi rendete conto che il fattore che massimamente determina i tassi di interesse non è il livello del debito pubblico, bensì il fatto che i governi siano o meno indebitati nella loro valuta. Il Giappone è assai più profondamente indebitato dell’Italia, ma il tasso di interesse sulle obbligazioni a lungo termine del Giappone è soltanto all’1 per cento, contro il 7 per cento dell’Italia. Le prospettive della finanza pubblica dell’Inghilterra appaiono peggiori di quelle della Spagna, ma l’Inghilterra può indebitarsi appena un po’ sopra il 2 per cento, mentre la Spagna sta pagando quasi il 6 per cento.

Si scopre che quello che è accaduto è che la Spagna e l’Italia, entrando nell’euro, si sono in effetti ridotte allo status di quei paesi del terzo mondo che devono indebitarsi in valuta estera, con tutta la perdita di flessibilità che questo comporta. In particolare, dal momento che i paesi dell’area euro non possono stampare moneta persino in una emergenza, essi sono soggetti a interruzioni nei flussi di finanziamento che non conoscono quei paesi che dispongono di valute proprie – e il risultato è quello che si vede adesso. L’America, che si indebita in dollari, non ha quel problema.

L’altra cosa che dovete sapere è che, a fronte della crisi attuale, l’austerità è stata un fallimento ovunque sia stata tentata: da tempo nessun paese con debiti significativi è riesce a ridurli consegnandosi alle grazie dei mercati finanziari. Un esempio è  l’Irlanda, un specie di allievo modello dell’Europa, che ha risposto ai problemi del debito con una austerità selvaggia ed ha spinto il suo tasso di disoccupazione al 14 per cento. Tuttavia il tasso di interesse sui bonds irlandesi è ancora sopra l’8 per cento – peggio che in Italia.

 

La morale è dunque che occorre essere accorti con gli ideologi che stanno cercando di appropriarsi della crisi europea e di metterla al servizio dei loro propositi. Se diamo ascolto a questi ideologi, finiremo tutti con rendere i nostri effettivi problemi – che sono diversi da quelli dell’Europa, ma senza dubbio altrettanto seri – persino peggiori.    

 

 

 

 

 

 

 

Vouchers for Veterans

By PAUL KRUGMAN
Published: November 13, 2011

 

American health care is remarkably diverse. In terms of how care is paid for and delivered, many of us effectively live in Canada, some live in Switzerland, some live in Britain, and some live in the unregulated market of conservative dreams. One result of this diversity is that we have plenty of home-grown evidence about what works and what doesn’t.

Naturally, then, politicians — Republicans in particular — are determined to scrap what works and promote what doesn’t. And that brings me to Mitt Romney’s latest really bad idea, unveiled on Veterans Day: to partially privatize the Veterans Health Administration (V.H.A.).

What Mr. Romney and everyone else should know is that the V.H.A. is a huge policy success story, which offers important lessons for future health reform.

Many people still have an image of veterans’ health care based on the terrible state of the system two decades ago. Under the Clinton administration, however, the V.H.A. was overhauled, and achieved a remarkable combination of rising quality and successful cost control. Multiple surveys have found the V.H.A. providing better care than most Americans receive, even as the agency has held cost increases well below those facing Medicare and private insurers. Furthermore, the V.H.A. has led the way in cost-saving innovation, especially the use of electronic medical records.

 

What’s behind this success? Crucially, the V.H.A. is an integrated system, which provides health care as well as paying for it. So it’s free from the perverse incentives created when doctors and hospitals profit from expensive tests and procedures, whether or not those procedures actually make medical sense. And because V.H.A. patients are in it for the long term, the agency has a stronger incentive to invest in prevention than private insurers, many of whose customers move on after a few years.

 

And yes, this is “socialized medicine” — although some private systems, like Kaiser Permanente, share many of the V.H.A.’s virtues. But it works — and suggests what it will take to solve the troubles of U.S. health care more broadly.

Yet Mr. Romney believes that giving veterans vouchers to spend on private insurance would somehow yield better results. Why?

Well, Republicans have a thing about vouchers. Earlier this year Representative Paul Ryan famously introduced a plan to convert Medicare into a voucher system; Mr. Romney’s Medicare proposal follows similar lines. The claim, always, is the one Mr. Romney made last week, that “private sector competition” would lower costs.

 

But we have a lot of evidence about how private-sector competition in health insurance works, and it’s not favorable. The individual insurance market, which comes closest to the conservative ideal of free competition, has huge administrative costs and has no demonstrated ability to reduce other costs. Medicare Advantage, which allows Medicare beneficiaries to buy private insurance instead of having Medicare pay bills directly, has consistently had higher costs than the traditional program.

And the international evidence accords with U.S. experience. The most efficient health care systems are integrated systems like the V.H.A.; next best are single-payer systems like Medicare; the more privatized the system, the worse it performs.

To be fair to Mr. Romney, he takes a somewhat softer line than others in his party, suggesting that the existing V.H.A. system would remain available and that traditional Medicare would remain an option. In practice, however, partial privatization would almost surely undermine the public side of these programs. For example, one problem with the V.H.A. is that its hospitals are spread too thinly across the nation; this problem would become worse if a substantial number of veterans were encouraged to opt out of the system.

 

So what lies behind the Republican obsession with privatization and voucherization? Ideology, of course. It’s literally a fundamental article of faith in the G.O.P. that the private sector is always better than the government, and no amount of evidence can shake that credo.

In fact, it’s hard to avoid the sense that Republicans are especially eager to dismantle government programs that act as living demonstrations that their ideology is wrong. Bloated military budgets don’t bother them much — Mr. Romney has pledged to reverse President Obama’s defense cuts, despite the fact that no such cuts have actually taken place. But successful programs like veterans’ health, Social Security and Medicare are in the crosshairs.

 

Which brings me to a final thought: maybe all this amounts to a case for Rick Perry. Any Republican would, if elected president, set out to undermine precisely those government programs that work best. But Mr. Perry might not remember which programs he was supposed to destroy.

 

Vouchers per i militari in congedo, di Paul Krugman

New York Times 13 novembre 2011

 

 

La assistenza sanitaria in America varia considerevolmente da un caso all’altro. In termini di assistenza pagata e ricevuta, alcuni di noi in realtà vivono in Canada, alcuni vivono in Svizzera, alcuni in Inghilterra, ed altri nel mercato senza regole dei sogni dei conservatori. Un effetto di questa varietà è che abbiamo un sacco di esempi domestici su cosa funziona e su cosa non funziona. 

 

A quel punto, con naturalezza, gli uomini politici – Repubblicani in particolare – sono determinati a demolire quello che funziona e promuovere quello che non funziona. Il che mi conduce all’ultima pessima idea di Mitt Romney, resa nota nel Giorno del Veterano: privatizzare parzialmente la Veterans Health Administration (VHA).   

Quello che Romney e tutti gli altri dovrebbero sapere è che la VHA è una storia di un considerevole successo politico, che offre una importante lezione per una futura riforma della sanità.

Molta gente ha un’immagine della assistenza sanitaria dei militari in congedo basata sulle terribili condizioni in cui versava due decenni orsono. Tuttavia, sotto la Amministrazione Clinton, il sistema fu rivisto, e si raggiunse una notevole combinazione di crescente qualità e di efficace controllo dei costi. Molti studi hanno scoperto che la VHA sta fornendo migliore assistenza di quella che gran parte degli americani ricevono, anche se l’agenzia ha mantenuto la crescita dei costi ben al di sotto di quella con cui fanno i conti Medicare e gli assicuratori privati. In aggiunta, la VHA è al primo posto nell’uso di tecnologie innovative al servizio del risparmio, specialmente nell’uso di archivi sanitari elettronici,

Cosa c’è dietro questo successo? Fondamentalmente, la VHA è un sistema integrato, che fornisce assistenza sanitaria che paga essa stessa. In tal modo essa è esente da quei perversi incentivi che si determinano quando medici ed ospedali traggono profitti da analisi e procedure costose, che abbiano o no un valore effettivo dal punto di vista sanitario. E dato che gli utenti della VHA hanno una assistenza per un tempo indeterminato, l’agenzia ha un incentivo più forte a investire nella prevenzione delle assicurazioni private, gli utenti delle quali si spostano dopo pochi anni.  

Si tratta, in effetti, di una “medicina socializzata” – sebbene alcuni sistemi privatistici, come Kaiser Permanente, condividano molte delle virtù di VHA. Ma è un sistema che funziona, ed indica cosa ci vorrà per risolvere più in generale i problemi della assistenza sanitaria degli Stati Uniti.

Tuttavia il signor Romney ritiene che dando ai militari in congedo vouchers da spendere presso le assicurazioni private in qualche modo darà migliori risultati. Perché?

Ebbene, i Repubblicani hanno un debole con i vouchers. Agli inizi di quest’anno il congressista Paul Ryan presentò un famigerato programma per trasformare Medicare in un sistema voucher; la proposta di Romney per Medicare si ispira a concetti analoghi. La pretesa, come sempre, è quella che il signor Romney ha indicato la scorsa settimana, ovvero che la “competizione del settore privato” abbasserebbe i costi.

Sennonché abbiamo una quantità di prove a proposito di come la competizione del settore privato funzioni nella assicurazione sanitaria, e non sono positive. Il mercato assicurativo privato, che è quello che si avvicina di più all’ideale di libera competizione dei conservatori, ha costi amministrativi elevati e sembra incapace di ridurre gli altri costi. Il programma Medicare Advantage, che consente agli utenti di Medicare di acquistare assicurazione dai privati invece di far pagare direttamente alla agenzia i conti, ha costi considerevolmente più elevati del programma tradizionale [51].

E le esperienze degli altri paesi concordano con quella degli Stati Uniti. I più efficienti sistemi di assistenza sanitaria sono sistemi integrati come quello di VHA; più un sistema è privatizzato e peggio che funziona.

 

 

A dir la verità, nel caso di Romney egli fa propria un linea meno intransigente di altri nel suo Partito, proponendo che il sistema di VHA resti disponibile e che il programma tradizionale di Medicare rimanga un scelta possibile. In pratica, tuttavia, la parziale privatizzazione quasi sicuramente metterebbe a repentaglio l’aspetto pubblico di questi programmi. Ad esempio, un problema con il VHA è che gli ospedali sono distribuiti in modo insufficiente sul territorio nazionale; questo problema diventerebbe più grave se un numero sostanziale di militari in congedo fosse incoraggiato ad optare per soluzioni esterne al sistema.

Dunque, cosa sta dietro questa ossessione repubblicana per la privatizzazione e la voucherizzazione? Naturalmente, ideologia. Che il settore privato sia sempre meglio del governo pubblico, è cosa che si può credere solo come un atto di fede nel Partito Repubblicano, e non c’è prova al mondo che possa far tremare quell’atto di fede.

Di fatto, è difficile evitare la sensazione che i Repubblicani siano in articolare smaniosi di smantellare quei programmi governativi che funzionano come prove viventi della erroneità della loro ideologia. I bilanci militari gonfiati non li offendono – il signor Romney ha promesso di rimetter mano ai tagli alla difesa del Presidente Obama, anche se quei tagli non sono ancora stati messi in pratica. Ma programmi che hanno successo, come quello sanitario per i veterani, come la Previdenza Sociale e Medicare finiscono sulla graticola.

I che mi porta ad un pensiero finale: forse tutto questo giocherà a favore di Rick Perry. Ogni repubblicano, se fosse eletto, opererebbe in modo da mettere a repentaglio proprio quei programmi governativi che funzionano meglio. Ma Perry potrebbe non ricordarsi quali programmi aveva stabilito di far saltare.

 

 

 

Failure Is Good

By PAUL KRUGMAN
Published: November 17, 2011
 

It’s a bird! It’s a plane! It’s a complete turkey! It’s the supercommittee!

By next Wednesday, the so-called supercommittee, a bipartisan group of legislators, is supposed to reach an agreement on how to reduce future deficits. Barring an evil miracle — I’ll explain the evil part later — the committee will fail to meet that deadline.

If this news surprises you, you haven’t been paying attention. If it depresses you, cheer up: In this case, failure is good.

Why was the supercommittee doomed to fail? Mainly because the gulf between our two major political parties is so wide. Republicans and Democrats don’t just have different priorities; they live in different intellectual and moral universes.

In Democrat-world, up is up and down is down. Raising taxes increases revenue, and cutting spending while the economy is still depressed reduces employment. But in Republican-world, down is up. The way to increase revenue is to cut taxes on corporations and the wealthy, and slashing government spending is a job-creation strategy. Try getting a leading Republican to admit that the Bush tax cuts increased the deficit or that sharp cuts in government spending (except on the military) would hurt the economic recovery.

 

Moreover, the parties have sharply different views of what constitutes economic justice.

Democrats see social insurance programs, from Social Security to food stamps, as serving the moral imperative of providing basic security to our fellow citizens and helping those in need.

Republicans have a totally different view. They may soft-pedal that view in public — in last year’s elections, they even managed to pose as defenders of Medicare — but, in private, they view the welfare state as immoral, a matter of forcing citizens at gunpoint to hand their money over to other people. By creating Social Security, declared Rick Perry in his book “Fed Up!”, F.D.R. was “violently tossing aside any respect for our founding principles.” Does anyone doubt that he was speaking for many in his party?

 

 

So the supercommittee brought together legislators who disagree completely both about how the world works and about the proper role of government. Why did anyone think this would work?

Well, maybe the idea was that the parties would compromise out of fear that there would be a political price for seeming intransigent. But this could only happen if the news media were willing to point out who is really refusing to compromise. And they aren’t. If and when the supercommittee fails, virtually all news reports will be he-said, she-said, quoting Democrats who blame Republicans and vice versa without ever explaining the truth.

 

Oh, and let me give a special shout-out to “centrist” pundits who won’t admit that President Obama has already given them what they want. The dialogue seems to go like this. Pundit: “Why won’t the president come out for a mix of spending cuts and tax hikes?” Mr. Obama: “I support a mix of spending cuts and tax hikes.” Pundit: “Why won’t the president come out for a mix of spending cuts and tax hikes?”

 

 

You see, admitting that one side is willing to make concessions, while the other isn’t, would tarnish one’s centrist credentials. And the result is that the G.O.P. pays no price for refusing to give an inch.

So the supercommittee will fail — and that’s good.

For one thing, history tells us that the Republican Party would renege on its side of any deal as soon as it got the chance. Remember, the U.S. fiscal outlook was pretty good in 2000, but, as soon as Republicans gained control of the White House, they squandered the surplus on tax cuts and unfunded wars. So any deal reached now would, in practice, be nothing more than a deal to slash Social Security and Medicare, with no lasting improvement in the deficit.

 

Also, any deal reached now would almost surely end up worsening the economic slump. Slashing spending while the economy is depressed destroys jobs, and it’s probably even counterproductive in terms of deficit reduction, since it leads to lower revenue both now and in the future. And current projections, like those of the Federal Reserve, suggest that the economy will remain depressed at least through 2014. Better to have no deal than a deal that imposes spending cuts in the next few years.

But don’t we eventually have to match spending and revenue? Yes, we do. But the decision about how to do that isn’t about accounting. It’s about fundamental values — and it’s a decision that should be made by voters, not by some committee that allegedly transcends the partisan divide.

Eventually, one side or the other of that divide will get the kind of popular mandate it needs to resolve our long-run budget issues. Until then, attempts to strike a Grand Bargain are fundamentally destructive. If the supercommittee fails, as expected, it will be time to celebrate.

 

Un fallimento è una buona cosa, di Paul Krugman

New York Times 17 novembre 2011

 

E’ un uccello! E’ un aeroplano! Ma se è tutto un tacchino [52]! E’ la supercommissione!

 

Entro il prossimo mercoledì, si suppone che la cosiddetta supercommissione, un gruppo bipartizan di congressisti, raggiunga un accordo su come ridurre i deficit futuri. A meno di un malefico miracolo – spiegherò in seguito perché malefico – la commissione non riuscirà a pervenire ad una conclusione del genere.

Se questa notizia vi sorprende, vuol dire che non eravate stati attenti. Se vi mette di malumore, rallegratevi: in questo caso l’insuccesso è una cosa positiva.

Perché la supercommissione era condannata all’insuccesso? Principalmente perché il divario tra i nostri più importanti partiti politici è incolmabile. Repubblicani e Democratici non hanno soltanto diverse priorità; vivono in due diversi mondi intellettuali e morali.

Nel mondo dei Democratici, quello che sta su sta su e quello che sta giù sta giù. Aumentare le tasse incrementa le entrate e tagliare la spesa pubblica quando l’economia è ancora depressa riduce l’occupazione. Ma il mondo dei Repubblicani è capovolto. La strada per incrementare le entrate è quella di tagliare le tasse alle grandi imprese ed ai più ricchi, e abbattere la spesa pubblica è una strategia per creare posti di lavoro. Provate a far ammettere ad un repubblicano che gli sgravi fiscali di Bush aumentarono il  deficit oppure che improvvisi tagli alla spesa pubblica (ad eccezione delle forze armate) darebbe un colpo alla ripresa dell’economia.

Per di più, i Partiti hanno punti di vista nettamente differenti su come si compone la giustizia nelle cose dell’economia.

 

I Democratici considerano i programmi della protezione sociale, dalla Previdenza Sociale [53] agli aiuti alimentari [54], al servizio dell’imperativo morale di fornire una sicurezza di base ai nostri concittadini e di aiutare coloro che ne hanno bisogno.

I Repubblicani hanno un punto di vista completamente diverso. E’ un punto di vista che possono smorzare dinanzi all’opinione pubblica – alle elezioni dell’anno passato cercarono persino di porsi come i difensori di Medicare – ma, in privato, considerano lo stato assistenziale come immorale, un modo per costringere con la forza i cittadini a consegnare ad altri il loro denaro. Istituendo la Previdenza Sociale, ha dichiarato Rick Perry nel suo libro “Siamo stanchi!”, Franklin Delano Roosevelt “gettò alle ortiche ogni rispetto per i nostri principi costituzionali”. Qualcuno dubita che nel suo partito siano in tanti a vederla nello stesso modo?

Dunque, la supercommissione poteva rimettere assieme legislatori che sono in completo disaccordo su come il va mondo e su quale sia il ruolo giusto del Governo? Come è accaduto che qualcuno pensasse che una cosa del genere avrebbe funzionato?

Ebbene, l’idea forse era quella che i Partiti avrebbero trovato un punto di intesa nel timore di dover pagare un prezzo politico nell’apparire intransigenti. Ma questo sarebbe potuto accadere solo se i media avessero la volontà di chiarire chi si oppone effettivamente al compromesso. Sennonché questa volontà non ce l’hanno. Se e quando la supercommissione getterà la spugna, praticamente tutti i resoconti giornalistici si ridurranno ad un elenco di dichiarazioni, citando i democratici che incolpano i repubblicani e viceversa, senza la minima intenzione di spiegare la verità.

Consentitemi, infine, una speciale menzione per gli esperti “centristi”, i quali non vorranno ammettere che il Presidente Obama aveva già concesso quello che loro avrebbero voluto. Pressappoco il dialogo avverrà in questi termini. Esperto: “Perché il Presidente Obama non è venuto allo scoperto con una combinazione di tagli alla spesa e di inasprimenti fiscali?” Obama: “Ma io ho sostenuto una combinazione di tagli alla spesa e di inasprimenti fiscali!” Esperto: “Perché il Presidente Obama non è venuto allo scoperto con una combinazione di tagli alla spesa e di inasprimenti fiscali?”.  

Come vedete, ammettere che da un parte si è disposti a fare concessioni mentre dall’altra non si vuole farne, equivarrebbe a macchiare la reputazione di un centrista. Il risultato è che il Partito Repubblicano non paga alcun prezzo per il suo rifiuto a muovere un passo.

Dunque la supercommissione fallirà. Il che è un bene.

 

Per un aspetto, la storia ci dice che il Partito Repubblicano, per suo conto, verrebbe meno ad ogni impegno, appena ne avesse la possibilità. Si ricordi, le prospettive della finanza pubblica americana erano abbastanza buone nel 2000, ma, appena i repubblicani guadagnarono il controllo della Casa Bianca, essi sperperarono il surplus in tagli fiscali e in guerre senza formale copertura finanziaria [55]. Dunque, ogni accordo che si raggiungesse oggi non sarebbe altro che un accordo per tagli sulla Previdenza Sociale e su Medicare, senza alcun miglioramento duraturo del deficit.

Inoltre, ogni accordo che si raggiungesse oggi finirebbe quasi sicuramente per peggiorare la crisi economica. Tagliare le spese a fronte di un’economia depressa distrugge posti di lavoro, ed è probabilmente controproducente anche in termini di riduzione del deficit, dato che comporta minori entrate sia oggi che nel futuro. E le attuali previsioni, ad esempio quelle della Federal Reserve, indicano che l’economia resterà depressa almeno sino al 2014 inoltrato. Meglio nessun accordo che un accordo che imponga tagli di spesa nei prossimi anni.

Ma, alla fine non abbiamo il dovere di mettere in equilibrio spese ed entrate? Si, lo abbiamo. Ma la decisione su come farlo non riguarda la contabilità. Riguarda valori fondamentali – ed è una decisione che dovrebbe essere presa dagli elettori, non da una qualche commissione che si è supposto potesse trascendere le divisioni partitiche.

Alla fine, da una parte o dall’altra di quei due versanti si otterrà quel genere di mandato popolare che è necessario per risolvere le questioni di lungo periodo del nostro bilancio. Sino a quel punto, i tentativi di trovare una Grande Intesa sono fondamentalmente distruttivi. Se la supercommissione getta la spugna, come è previsto, sarà il caso di festeggiare.    

 

 

 

Boring Cruel Romantics

By PAUL KRUGMAN
Published: November 20, 2011

 

There’s a word I keep hearing lately: “technocrat.” Sometimes it’s used as a term of scorn — the creators of the euro, we’re told, were technocrats who failed to take human and cultural factors into account. Sometimes it’s a term of praise: the newly installed prime ministers of Greece and Italy are described as technocrats who will rise above politics and do what needs to be done.

I call foul. I know from technocrats; sometimes I even play one myself. And these people — the people who bullied Europe into adopting a common currency, the people who are bullying both Europe and the United States into austerity — aren’t technocrats. They are, instead, deeply impractical romantics.

They are, to be sure, a peculiarly boring breed of romantic, speaking in turgid prose rather than poetry. And the things they demand on behalf of their romantic visions are often cruel, involving huge sacrifices from ordinary workers and families. But the fact remains that those visions are driven by dreams about the way things should be rather than by a cool assessment of the way things really are.

And to save the world economy we must topple these dangerous romantics from their pedestals.

Let’s start with the creation of the euro. If you think that this was a project driven by careful calculation of costs and benefits, you have been misinformed.

The truth is that Europe’s march toward a common currency was, from the beginning, a dubious project on any objective economic analysis. The continent’s economies were too disparate to function smoothly with one-size-fits-all monetary policy, too likely to experience “asymmetric shocks” in which some countries slumped while others boomed. And unlike U.S. states, European countries weren’t part of a single nation with a unified budget and a labor market tied together by a common language.

 

So why did those “technocrats” push so hard for the euro, disregarding many warnings from economists? Partly it was the dream of European unification, which the Continent’s elite found so alluring that its members waved away practical objections. And partly it was a leap of economic faith, the hope — driven by the will to believe, despite vast evidence to the contrary — that everything would work out as long as nations practiced the Victorian virtues of price stability and fiscal prudence.

 

Sad to say, things did not work out as promised. But rather than adjusting to reality, those supposed technocrats just doubled down — insisting, for example, that Greece could avoid default through savage austerity, when anyone who actually did the math knew better.

 

Let me single out in particular the European Central Bank (E.C.B.), which is supposed to be the ultimate technocratic institution, and which has been especially notable for taking refuge in fantasy as things go wrong. Last year, for example, the bank affirmed its belief in the confidence fairy — that is, the claim that budget cuts in a depressed economy will actually promote expansion, by raising business and consumer confidence. Strange to say, that hasn’t happened anywhere.

And now, with Europe in crisis — a crisis that can’t be contained unless the E.C.B. steps in to stop the vicious circle of financial collapse — its leaders still cling to the notion that price stability cures all ills. Last week Mario Draghi, the E.C.B.’s new president, declared that “anchoring inflation expectations” is “the major contribution we can make in support of sustainable growth, employment creation and financial stability.”

 

This is an utterly fantastic claim to make at a time when expected European inflation is, if anything, too low, and what’s roiling the markets is fear of more or less immediate financial collapse. And it’s more like a religious proclamation than a technocratic assessment.

Just to be clear, this is not an anti-European rant, since we have our own pseudo-technocrats warping the policy debate. In particular, allegedly nonpartisan groups of “experts” — the Committee for a Responsible Federal Budget, the Concord Coalition, and so on — have been all too successful at hijacking the economic policy debate, shifting its focus from jobs to deficits.

 

Real technocrats would have asked why this makes sense at a time when the unemployment rate is 9 percent and the interest rate on U.S. debt is only 2 percent. But like the E.C.B., our fiscal scolds have their story about what’s important, and they’re sticking to it no matter what the data say.

So am I against technocrats? Not at all. I like technocrats — technocrats are friends of mine. And we need technical expertise to deal with our economic woes.

But our discourse is being badly distorted by ideologues and wishful thinkers — boring, cruel romantics — pretending to be technocrats. And it’s time to puncture their pretensions.

 

Romantici crudeli e noiosi, di Paul Krugman

New York Times 20 novembre 2011

 

 

C’è una parola che continuo a sentire di recente: “tecnocrati”. Talvolta è usata come una espressione di scherno – i creatori dell’euro, ci viene detto, erano tecnocrati che non seppero mettere nel conto i fattori umani e culturali. In altri casi è una espressione di stima: i primi ministri di Grecia ed Italia di recente rinnovati sono descritti come tecnocrati che si eleveranno sulla politica e faranno quello che deve essere fatto.

Io mi ribello; riconosco i tecnocrati; qualche volta ho persino fatto finta di esserlo io stesso. Questa gente – le persone che hanno intimato all’Europa di adottare una moneta comune, le persone che stanno costringendo sia l’Europa che gli Stati Uniti all’austerità – non sono dei tecnocrati. Nel profondo, sono piuttosto dei romantici privi di senso pratico.

Sono, per essere precisi, un genere di romantici particolarmente noioso, di quelli che, invece che in poesia, parlano in prosa ampollosa. E le cose che pretendono sulla base delle loro concezioni romantiche sono spesso crudeli, comportano vasti sacrifici per i normali lavoratori e le loro famiglie. Ma resta il fatto che quelle concezioni sono mosse da sogni sul come le cose dovrebbero andare piuttosto che da fredde valutazioni su come vanno effettivamente.

E per salvare l’economia mondiale dobbiamo rovesciare questi pericolosi romantici dai loro piedistalli.

 

Fatemi prender le mosse dalla creazione dell’euro. Se pensate che sia stato un progetto ispirato da un calcolo accurato di costi e benefici, vi sbagliate di grosso.

 

La verità è che la marcia dell’Europa verso una moneta comune fu, sin dagli inizi, una progetto dubbio, al vaglio di ogni analisi economica obbiettiva. Le economie del continente erano troppo disparate per funzionare regolarmente con una politica monetaria valida per tutti, troppo simili a quella modalità degli “shocks asimmetrici” secondo la quale alcuni paesi vanno in crisi mentre altri sono in forte espansione. E, diversamente dagli Stati Uniti, i paesi europei non facevano parte di una unica nazione con un bilancio unificato ed un mercato del lavoro tenuto insieme da una lingua comune.

Perché, dunque, questi “tecnocrati” rischiarono così tanto per l’euro, senza curarsi dei molti ammonimenti degli economisti? In parte fu per il sogno della unificazione europea, che le classi dirigenti del continente trovarono così affascinante da far piazza pulita, nelle loro teste, di ogni obiezione pratica. E in parte fu un specie di salto in avanti di fiducia nell’economia, la speranza – guidata dalla voglia di crederci, nonostante le numerose prove contrarie – che tutto avrebbe funzionato finché le nazioni avessero praticato le virtù vittoriane della stabilità dei prezzi e della prudenza della finanza pubblica.

Dispiace dirlo, ma le cose non sono andate come si era promesso. Eppure, piuttosto che adeguarsi alla realtà, quei presunti tecnocrati semplicemente hanno raddoppiato la scommessa – insistendo, ad esempio, sul fatto che la Grecia avrebbe evitato il default con una austerità selvaggia, quando tutti quelli che hanno un po’ di pratica con la matematica avrebbero capito meglio.

Una menzione particolare merita la Banca Centrale Europea (BCE), che era considerata l’istituzione tecnocratica fondamentale, e che si è particolarmente distinta nel rifugiarsi nelle fantasie quando le cose hanno cominciato ad andar storte. Nell’ultimo anno, ad esempio, la Banca ha ribadito la sua fiducia nella ‘fata turchina della fiducia’ [56] – vale a dire la pretesa che i tagli al bilancio in una economia depressa sarebbero effettivamente suscettibili di promuovere espansione, elevando la fiducia delle imprese e dei consumatori. Strano a dirsi, non è successo da nessuna parte.

Ed ora, con l’Europa in crisi – una crisi che non può essere contenuta senza che la BCE proceda ad interrompere il circolo vizioso del collasso finanziario – i dirigenti ancora si aggrappano al concetto secondo il quale la stabilità dei prezzi curerebbe tutti i mali. La scorsa settimana, Mario Draghi, il nuovo presidente della BCE, ha dichiarato che “tenere sotto controllo le aspettative di inflazione” è “il maggiore contributo che possiamo fornire a sostegno di una crescita sostenibile, della creazione di occupazione e della stabilità finanziaria”.

Si tratta di una affermazione del tutto fantasiosa, nel momento in cui le aspettative di inflazione in Europa sono, semmai, troppo basse, e quello che inquieta i mercati è la paura di un collasso finanziario più o meno immediato. E’ più un atto di fede che non una valutazione tecnocratica.

 

Solo per essere chiaro, questa non è una tirata antieuropeistica, considerato che anche il nostro dibattito politico è deformato dagli pseudo tecnocrati casalinghi. In particolare, i cosiddetti gruppi indipendenti di “esperti” – la Commissione per un Bilancio Federale Responsabile, la Coalizione Concorde, e così via – hanno avuto anche troppo successo nel depistare il dibattito sulla politica economica, spostando il centro dell’attenzione dal lavoro al deficit.

 

Dei veri tecnocrati avrebbero dovuto chiedersi come fa tutto ciò ad aver senso, quando il tasso di disoccupazione è al 9 per cento e il tassi di interesse sul debito americano è solo al 2 per cento. Ma come nel caso della BCE, i nostri saccenti della finanza pubblica hanno la loro versione su ciò che è importante, e a quella restano attaccati qualsiasi cosa dicano le statistiche.

Sono dunque contro i tecnocrati? Niente affatto. Mi piacciono i tecnocrati, i tecnocrati sono amici miei. Ed abbiamo bisogno di competenze tecniche per fronteggiare i guai delle nostre economie.

Ma il nostro ragionamento viene di continuo malamente distorto dagli ideologhi e da coloro che pensano con i desideri – ovvero, dai romantici noiosi e crudeli – che vogliono farsi passare per tecnocrati. Ed è tempo di sgonfiare le loro pretese.

 

   

 

 

 

We Are the 99.9%

By PAUL KRUGMAN
Published: November 24, 2011

 “We are the 99 percent” is a great slogan. It correctly defines the issue as being the middle class versus the elite (as opposed to the middle class versus the poor). And it also gets past the common but wrong establishment notion that rising inequality is mainly about the well educated doing better than the less educated; the big winners in this new Gilded Age have been a handful of very wealthy people, not college graduates in general.

 

 

If anything, however, the 99 percent slogan aims too low. A large fraction of the top 1 percent’s gains have actually gone to an even smaller group, the top 0.1 percent — the richest one-thousandth of the population.

And while Democrats, by and large, want that super-elite to make at least some contribution to long-term deficit reduction, Republicans want to cut the super-elite’s taxes even as they slash Social Security, Medicare and Medicaid in the name of fiscal discipline.

Before I get to those policy disputes, here are a few numbers.

The recent Congressional Budget Office report on inequality didn’t look inside the top 1 percent, but an earlier report, which only went up to 2005, did. According to that report, between 1979 and 2005 the inflation-adjusted, after-tax income of Americans in the middle of the income distribution rose 21 percent. The equivalent number for the richest 0.1 percent rose 400 percent.

 

For the most part, these huge gains reflected a dramatic rise in the super-elite’s share of pretax income. But there were also large tax cuts favoring the wealthy. In particular, taxes on capital gains are much lower than they were in 1979 — and the richest one-thousandth of Americans account for half of all income from capital gains.

 

Given this history, why do Republicans advocate further tax cuts for the very rich even as they warn about deficits and demand drastic cuts in social insurance programs?

Well, aside from shouts of “class warfare!” whenever such questions are raised, the usual answer is that the super-elite are “job creators” — that is, that they make a special contribution to the economy. So what you need to know is that this is bad economics. In fact, it would be bad economics even if America had the idealized, perfect market economy of conservative fantasies.

 

After all, in an idealized market economy each worker would be paid exactly what he or she contributes to the economy by choosing to work, no more and no less. And this would be equally true for workers making $30,000 a year and executives making $30 million a year. There would be no reason to consider the contributions of the $30 million folks as deserving of special treatment.

But, you say, the rich pay taxes! Indeed, they do. And they could — and should, from the point of view of the 99.9 percent — be paying substantially more in taxes, not offered even more tax breaks, despite the alleged budget crisis, because of the wonderful things they supposedly do.

Still, don’t some of the very rich get that way by producing innovations that are worth far more to the world than the income they receive? Sure, but if you look at who really makes up the 0.1 percent, it’s hard to avoid the conclusion that, by and large, the members of the super-elite are overpaid, not underpaid, for what they do.

 

For who are the 0.1 percent? Very few of them are Steve Jobs-type innovators; most of them are corporate bigwigs and financial wheeler-dealers. One recent analysis found that 43 percent of the super-elite are executives at nonfinancial companies, 18 percent are in finance and another 12 percent are lawyers or in real estate. And these are not, to put it mildly, professions in which there is a clear relationship between someone’s income and his economic contribution.

 

Executive pay, which has skyrocketed over the past generation, is famously set by boards of directors appointed by the very people whose pay they determine; poorly performing C.E.O.’s still get lavish paychecks, and even failed and fired executives often receive millions as they go out the door.

 

Meanwhile, the economic crisis showed that much of the apparent value created by modern finance was a mirage. As the Bank of England’s director for financial stability recently put it, seemingly high returns before the crisis simply reflected increased risk-taking — risk that was mostly borne not by the wheeler-dealers themselves but either by naïve investors or by taxpayers, who ended up holding the bag when it all went wrong. And as he waspishly noted, “If risk-making were a value-adding activity, Russian roulette players would contribute disproportionately to global welfare.”

 

So should the 99.9 percent hate the 0.1 percent? No, not at all. But they should ignore all the propaganda about “job creators” and demand that the super-elite pay substantially more in taxes.

 

Siamo il 99,9 %, di Paul Krugman

New York Times 24 novembre 2011

 

“Siamo il 99 %” è un grande slogan. Esso consente di porre correttamente il tema del contrasto tra la classe media e l’élite (al posto di quello tra la classe media ed i poveri). Ed anche si mette alle spalle il consueto ma sbagliato concetto dei gruppi dirigenti secondo il quale la crescente diseguaglianza dipenderebbe principalmente dai migliori risultati che coloro che sono adeguatamente formati ottengono rispetto a coloro che sono meno istruiti; i grandi vincenti di questa nuova “età dell’oro” è stata una manciata di persone ricchissime e non sono stati in generale i laureati [57].

Semmai, lo slogan del 99 per cento si tiene troppo basso. Una larga parte degli incrementi di quell’1 per cento in vetta alla scala sociale è andata ad un gruppo persino più piccolo, quello 0,1 per cento dei più ricchi all’interno di quel centesimo della popolazione.

E mentre i Democratici, più o meno, vogliono che la super-élite dia almeno un contributo alla riduzione del deficit di lungo termine, i Repubblicani vogliono ridurre le tasse della super-élite anche a costo di tagliare la Previdenza Sociale, Medicare e Medicaid, in nome della disciplina della finanza pubblica [58].   

Prima di venire a queste dispute politiche, eccovi alcuni numeri.

Il recente rapporto del Congressional Budget Office sulle ineguaglianze non fornisce una analisi interna a quell’1 per cento di redditi maggiori, ma quella analisi c’era in un rapporto precedente, che arrivava soltanto al 2005. Secondo quel rapporto, tra il 1979 ed il 2005 il reddito corretto per l’inflazione e successivo alla tasse degli americani era cresciuto del 21 per cento, come dato medio della distribuzione del reddito. Il numero equivalente dello 0,1 per cento dei più ricchi era cresciuto del 400 per cento.

In massima parte, questi larghi guadagni riflettevano un crescita spettacolare nella parte di reddito precedente alla tassazione della super-élite. Ma i più ricchi furono anche favoriti da ampi sgravi fiscali. In particolare, le tasse sui profitti da capitale (nel 2005) erano molto più basse di quanto non fossero nel 1979 – e l’uno per cento degli americani più ricchi realizza la metà di tutti i profitti da capitale.

Considerata questa storia, perché i Repubblicani sono addirittura a favore di tagli alle tasse dei più ricchi, quando non fanno altro che mettere in guardia sul deficit e chiedere tagli drastici ai programmi della assicurazione sociale?

Ebbene, mettendo da parte gli strilli sulla “lotta di classe!” ogni qualvolta vengono avanzate questioni del genere,  la risposta più frequente è che la super-élite “crea posti di lavoro” – vale a dire, dà un contributo particolare all’economia. Ora, quello che dovete sapere è che questa è niente altro che cattiva economia. Di fatto, sarebbe cattiva economia anche se l’America disponesse di quel perfetto ed idealizzato mercato che è nelle fantasie dei conservatori.

Dopo tutto, in una economia di mercato ideale ogni lavoratore o lavoratrice dovrebbero essere pagati per quanto contribuiscono all’economia scegliendo di lavorare, né più né meno. E questo dovrebbe essere vero nello stesso modo per lavoratori che realizzano 30.000 dollari all’anno e per dirigenti che realizzano 30 milioni di dollari all’anno. Non ci dovrebbe essere ragione per considerare il contributo della gente da 30 milioni di dollari come meritevole di un trattamento speciale.

Ma, si dice, il ricco paga le tasse! In effetti, le pagano. E potrebbero – anzi dovrebbero, dal punto di vista del 99,9 per cento della popolazione – pagare tasse sostanzialmente maggiori, senza che vengano offerti sgravi persino maggiori a dispetto della pretesa crisi del bilancio, in considerazione delle cose meravigliose che si suppone che facciano.

Ma si dice ancora, quei ricchissimi non ottengono quello che hanno per effetto del fatto che le innovazioni che producono hanno un valore superiore al reddito che ricevono?  Certo, ma se guardate a chi effettivamente compone quello 0,1 per cento, è difficile evitare la conclusione per la quale, in linea di massima, i componenti di quella super-élite sono superpagati per quello che fanno, e non sottopagati.       

Perché chi c’è in quello 0,1 per cento? Molto pochi sono innovatori del genere di Steve Jobs [59]; in gran parte sono pezzi grossi di grandi imprese e intrallazzatori del settore finanziario. Una recente analisi ha scoperto che il 43 per cento della super-élite è composto da amministratori di imprese non finanziarie, il 18 per cento sono nel settore della finanza e un altro 12 per cento sono avvocati o operano nel settore immobiliare. E queste, per dirla educatamente, non sono professioni nelle quali c’è una evidente relazione tra il reddito di ciascuno ed il suo contributo all’economia.

I compensi a quegli amministratori, che sono schizzati alle stelle nel corso dell’ultima generazione,  sono notoriamente decisi da organi dirigenziali nominati dalla stesse persone per le quali essi fissano gli emolumenti; amministratori delegati con prestazioni modeste ricevono comunque sontuosi stipendi, persino amministratori falliti e licenziati ricevono spesso gratifiche milionarie al momento di esser messi alla porta.

 

Nel frattempo, la crisi economica ha mostrato che gran parte del valore apparente creato dalla moderna finanza era un miraggio. Come ha di recente dichiarato il direttore per la stabilità finanziaria della Banca di Inghilterra, i risultati apparentemente elevati di prima della crisi riflettevano semplicemente la accresciuta assunzione di rischi, rischi che in gran parte correvano non gli intrallazzatori medesimi della finanza, ma sia ingenui investitori che contribuenti, che finiscono col far le valige quando tutto va storto. E come ha notato con una certa irritazione “se la assunzione di rischi fosse una attività a valore aggiunto, i giocatori alla roulette russa contribuirebbero in modo sproporzionato al benessere globale”.

Dunque, quel 99,9 per cento dovrebbe odiare quello 0,1 per cento? No, niente affatto. Dovrebbe però ignorare tutta la propaganda sui “creatori di posti di lavoro” e chiedere che la super-élite paghi tasse sostanzialmente più elevate.

 

 

 

 

Things to Tax

By PAUL KRUGMAN
Published: November 27, 2011

The supercommittee was a superdud — and we should be glad. Nonetheless, at some point we’ll have to rein in budget deficits. And when we do, here’s a thought: How about making increased revenue an important part of the deal?

 

And I don’t just mean a return to Clinton-era tax rates. Why should 1990s taxes be considered the outer limit of revenue collection? Think about it: The long-run budget outlook has darkened, which means that some hard choices must be made. Why should those choices only involve spending cuts? Why not also push some taxes above their levels in the 1990s?

Let me suggest two areas in which it would make a lot of sense to raise taxes in earnest, not just return them to pre-Bush levels: taxes on very high incomes and taxes on financial transactions.

About those high incomes: In my last column I suggested that the very rich, who have had huge income gains over the last 30 years, should pay more in taxes. I got many responses from readers, with a common theme being that this was silly, that even confiscatory taxes on the wealthy couldn’t possibly raise enough money to matter.

Folks, you’re living in the past. Once upon a time America was a middle-class nation, in which the super-elite’s income was no big deal. But that was another country.

The I.R.S. reports that in 2007, that is, before the economic crisis, the top 0.1 percent of taxpayers — roughly speaking, people with annual incomes over $2 million — had a combined income of more than a trillion dollars. That’s a lot of money, and it wouldn’t be hard to devise taxes that would raise a significant amount of revenue from those super-high-income individuals.

 

For example, a recent report by the nonpartisan Tax Policy Center points out that before 1980 very-high-income individuals fell into tax brackets well above the 35 percent top rate that applies today. According to the center’s analysis, restoring those high-income brackets would have raised $78 billion in 2007, or more than half a percent of G.D.P. I’ve extrapolated that number using Congressional Budget Office projections, and what I get for the next decade is that high-income taxation could shave more than $1 trillion off the deficit.

 

It’s instructive to compare that estimate with the savings from the kinds of proposals that are actually circulating in Washington these days. Consider, for example, proposals to raise the age of Medicare eligibility to 67, dealing a major blow to millions of Americans. How much money would that save?

Well, none from the point of view of the nation as a whole, since we would be pushing seniors out of Medicare and into private insurance, which has substantially higher costs. True, it would reduce federal spending — but not by much. The budget office estimates that outlays would fall by only $125 billion over the next decade, as the age increase phased in. And even when fully phased in, this partial dismantling of Medicare would reduce the deficit only about a third as much as could be achieved with higher taxes on the very rich.

 

So raising taxes on the very rich could make a serious contribution to deficit reduction. Don’t believe anyone who claims otherwise.

And then there’s the idea of taxing financial transactions, which have exploded in recent decades. The economic value of all this trading is dubious at best. In fact, there’s considerable evidence suggesting that too much trading is going on. Still, nobody is proposing a punitive tax. On the table, instead, are proposals like the one recently made by Senator Tom Harkin and Representative Peter DeFazio for a tiny fee on financial transactions.

And here’s the thing: Because there are so many transactions, such a fee could yield several hundred billion dollars in revenue over the next decade. Again, this compares favorably with the savings from many of the harsh spending cuts being proposed in the name of fiscal responsibility.

 

But wouldn’t such a tax hurt economic growth? As I said, the evidence suggests not — if anything, it suggests that to the extent that taxing financial transactions reduces the volume of wheeling and dealing, that would be a good thing.

And it’s instructive, too, to note that some countries already have financial transactions taxes — and that among those who do are Hong Kong and Singapore. If some conservative starts claiming that such taxes are an unwarranted government intrusion, you might want to ask him why such taxes are imposed by the two countries that score highest on the Heritage Foundation’s Index of Economic Freedom.

Now, the tax ideas I’ve just mentioned wouldn’t be enough, by themselves, to fix our deficit. But the same is true of proposals for spending cuts. The point I’m making here isn’t that taxes are all we need; it is that they could and should be a significant part of the solution.

 

Cose da tassare, di Paul Krugman

New York Times 27 novembre 2011

 

La supercommissione è stata un superfiasco – e dovremmo esserne contenti. Nondimeno, a un certo momento dovremo tirare le briglia del deficit. Ed ecco qua un pensiero per quando ci troveremo a quel punto: che dire se facessimo in modo che una parte importante dell’affare consistesse nell’aumentare le entrate?

Non intendo soltanto un ritorno alle aliquote fiscali dell’epoca di Clinton. Perché le tasse degli anni ’90 dovrebbero essere considerate come il limite estremo della riscossione delle entrate? Pensate a questo: la prospettiva di lungo periodo del bilancio si è rabbuiata, il che significa che qualche scelta difficile deve pur essere fatta. Perché quelle scelte dovrebbero riguardare soltanto i tagli alla spesa? Perché non spingere anche qualche imposta oltre i livelli degli anni ’90?

Vorrei suggerire due aree nelle quali sarebbe davvero assai sensato accrescere le tasse e non solo tornare ai livelli precedenti a Bush: le tasse sui redditi altissimi e quelle sulle transazioni finanziarie.

A proposito degli alti redditi: nel mio ultimo articolo suggerivo che le persone molto ricche, coloro che hanno avuto enormi incrementi di reddito negli ultimi trenta anni, dovrebbero pagare maggiori tasse. Ho avuto molte risposte dai lettori il cui tema comune era che sarebbe stato sciocco,  che persino tasse da esproprio sui ricchi non avrebbero messo assieme abbastanza denaro da valerne la pena.

Gente, voi vivete nel passato! Un tempo l’America era la nazione della middle-class, nella quale il reddito della super-élite non era così eccezionale. Ma quello era un altro paese.

L’ IRS [60] ci informa che nel 2007, vale a dire prima della crisi economica, lo 0,1 per cento dei contribuenti più ricchi – parlando all’ingrosso, coloro con redditi annuali sopra i due milioni di dollari – hanno messo assieme una ricchezza superiore a mille miliardi di dollari. Si tratta di una grande somma, e non dovrebbe essere difficile concepire una tassazione capace di accrescere in modo significativo la somma di entrate che provengono da quelle persone con redditi super-elevati.

Ad esempio, un recente rapporto dell’indipendente Tax Policy Center ci indica che prima del 1980 le persone con redditi altissimi ricadevano in scaglioni fiscali ben al di sopra della aliquota massima del 35 per cento che si applica oggi. Secondo l’analisi del Centro, ripristinare quegli scaglioni sui redditi più alti comporterebbe un incremento di entrate di 78 miliardi nel 2007, ovvero più di mezzo punto del PIL. Ho estrapolato quel numero utilizzando le proiezioni del Congressional Budget Office [61], e quello che ho ottenuto è che nel prossimo decennio quella tassazione sugli alti redditi taglierebbe più di mille miliardi di dollari di deficit.  

E’ istruttivo confrontare quella stima con i risparmi provenienti dal genere di proposte che sono in circolazione di questi tempi a Washington. Si consideri, ad esempio, la proposta di elevare l’età di ingresso in Medicare a 67 anni [62], che assesterebbe un grave colpo a milioni di americani. Quanti soldi si risparmierebbero?

Ebbene, non si risparmierebbe niente dal punto di vista della nazione nel suo complesso, dato che spingeremmo persone anziane ad uscire da Medicare per assicurazioni private, che hanno costi sostanzialmente superiori. E’ vero, si ridurrebbe la spesa federale – ma non di molto. L’Ufficio del Bilancio stima che le spese si ridurrebbero soltanto di 125 miliardi di dollari nel prossimo decennio, dato che l’elevamento dell’età di ingresso sarebbe introdotto per gradi. E persino quando esso fosse stato interamente introdotto, questo parziale smantellamento di Medicare ridurrebbe il deficit soltanto di un terzo rispetto a quanto sarebbe ottenibile con tasse più alte sulle persone molto ricche.

Dunque, aumentare le tasse su costoro darebbe un serio contributo alla riduzione del deficit. Non date retta a chiunque affermi una cosa diversa.

C’è poi l’idea di tassare le transazioni finanziarie, che sono esplose negli ultimi decenni. Nella migliore delle ipotesi, il valore economico di tutti questi affari è dubbio. Ciononostante, segnali cospicui indicano che questi esagerati commerci vanno avanti. Tuttavia, nessuno sta proponendo un tassazione punitiva. Sul tavolo, ci sono piuttosto proposte come quella formulata di recente dal Senatore Ton Harkin e dal congressista Per De Fazio per una imposta molto piccola sulle transazioni finanziarie.

E qua è il punto: perché, essendo quelle transazioni così numerose, una imposta del genere frutterebbe parecchie centinaia di miliardi di dollari di entrate nel prossimo decennio. Anche in questo caso, una soluzione del genere tiene bene il confronto con molte dei severi tagli alla spesa che sono stati proposti nel nome della responsabilità finanziaria.

Ma una tassa del genere non darebbe un colpo alla crescita dell’economia? Come ho detto, le prove indicano che non sarebbe così – semmai, esse indicano che nella misura in cui tassare le transazioni finanziarie ridurrebbe il volume degli intrallazzi, sarebbe un ottima cosa.

Ed è anche istruttivo notare che alcuni paesi hanno già tasse sulle transazioni finanziarie – e che tra quelli che ce l’hanno ci sono Hong Kong e Singapore. Se alcuni conservatori cominciassero a sostenere che tasse del genere costituirebbero ingiustificate intrusioni governative, dovreste chieder loro perché tasse del genere sono imposte da due paesi che hanno la massima considerazione da parte dell’ Indicatore della Libertà Economica della Heritage Foundation [63].

Ora, le idee che ho appena menzionato, non sarebbero sufficienti, da sole, per riparare il nostro deficit. Ma la stessa cosa è vera per le proposte di tagli alla spesa. Quello che sto sostenendo non è che quelle tasse sarebbero tutto ciò di cui abbiamo bisogno: esse potrebbero e dovrebbero essere una componente significativa della soluzione del problema.

  

  

 

 

 

Killing the Euro

By PAUL KRUGMAN
Published: December 1, 2011

Can the euro be saved? Not long ago we were told that the worst possible outcome was a Greek default. Now a much wider disaster seems all too likely.

True, market pressure lifted a bit on Wednesday after central banks made a splashy announcement about expanded credit lines (which will, in fact, make hardly any real difference). But even optimists now see Europe as headed for recession, while pessimists warn that the euro may become the epicenter of another global financial crisis.

 

How did things go so wrong? The answer you hear all the time is that the euro crisis was caused by fiscal irresponsibility. Turn on your TV and you’re very likely to find some pundit declaring that if America doesn’t slash spending we’ll end up like Greece. Greeeeeece!

But the truth is nearly the opposite. Although Europe’s leaders continue to insist that the problem is too much spending in debtor nations, the real problem is too little spending in Europe as a whole. And their efforts to fix matters by demanding ever harsher austerity have played a major role in making the situation worse.

 

The story so far: In the years leading up to the 2008 crisis, Europe, like America, had a runaway banking system and a rapid buildup of debt. In Europe’s case, however, much of the lending was across borders, as funds from Germany flowed into southern Europe. This lending was perceived as low risk. Hey, the recipients were all on the euro, so what could go wrong?

 

For the most part, by the way, this lending went to the private sector, not to governments. Only Greece ran large budget deficits during the good years; Spain actually had a surplus on the eve of the crisis.

Then the bubble burst. Private spending in the debtor nations fell sharply. And the question European leaders should have been asking was how to keep those spending cuts from causing a Europe-wide downturn.

 

Instead, however, they responded to the inevitable, recession-driven rise in deficits by demanding that all governments — not just those of the debtor nations — slash spending and raise taxes. Warnings that this would deepen the slump were waved away. “The idea that austerity measures could trigger stagnation is incorrect,” declared Jean-Claude Trichet, then the president of the European Central Bank. Why? Because “confidence-inspiring policies will foster and not hamper economic recovery.”

 

But the confidence fairy was a no-show.

Wait, there’s more. During the years of easy money, wages and prices in southern Europe rose substantially faster than in northern Europe. This divergence now needs to be reversed, either through falling prices in the south or through rising prices in the north. And it matters which: If southern Europe is forced to deflate its way to competitiveness, it will both pay a heavy price in employment and worsen its debt problems. The chances of success would be much greater if the gap were closed via rising prices in the north.

 

But to close the gap through rising prices in the north, policy makers would have to accept temporarily higher inflation for the euro area as a whole. And they’ve made it clear that they won’t. Last April, in fact, the European Central Bank began raising interest rates, even though it was obvious to most observers that underlying inflation was, if anything, too low.

 

And it’s probably no coincidence that April was also when the euro crisis entered its new, dire phase. Never mind Greece, whose economy is to Europe roughly as greater Miami is to the United States. At this point, markets have lost faith in the euro as a whole, driving up interest rates even for countries like Austria and Finland, hardly known for profligacy. And it’s not hard to see why. The combination of austerity-for-all and a central bank morbidly obsessed with inflation makes it essentially impossible for indebted countries to escape from their debt trap and is, therefore, a recipe for widespread debt defaults, bank runs and general financial collapse.

 

I hope, for our sake as well as theirs, that the Europeans will change course before it’s too late. But, to be honest, I don’t believe they will. In fact, what’s much more likely is that we will follow them down the path to ruin.

 

For in America, as in Europe, the economy is being dragged down by troubled debtors — in our case, mainly homeowners. And here, too, we desperately need expansionary fiscal and monetary policies to support the economy as these debtors struggle back to financial health. Yet, as in Europe, public discourse is dominated by deficit scolds and inflation obsessives.

 

So the next time you hear someone claiming that if we don’t slash spending we’ll turn into Greece, your answer should be that if we do slash spending while the economy is still in a depression, we’ll turn into Europe. In fact, we’re well on our way.

 

Come far fuori  l’euro, di Paul Krugman

New York Times 1 dicembre 2011

 

Può essere salvato l’euro? Non molto tempo fa ci veniva detto che l’esito peggiore possibile era il default della Grecia. Oggi sembra anche troppo probabile un disastro assai più grande.

E’ vero, la pressione del mercato si era un po’ attenuata mercoledì, dopo che le banche centrali avevano annunciato con grande  evidenza una espansione delle linee di credito (che, nei fatti, difficilmente comporta una qualche effettiva differenza). Ma persino gli ottimisti ora vedono l’Europa indirizzata verso la recessione, mentre i pessimisti mettono in guardia sulla possibilità che l’euro divenga l’epicentro di un’altra crisi finanziaria globale.

Come si è giunti ad un punto così negativo? La risposta che ci viene data di continuo è che la crisi dell’euro è stata provocata dalla irresponsabilità nella gestione della finanza pubblica. Accendete la vostra televisione e con tutta probabilità troverete un esperto che dichiara che se l’America non taglia la spesa pubblica finiremo come la Grecia. La Greciaaaaa!

Ma la verità è quasi quella opposta. Sebbene i dirigenti europei continuino ad insistere  che il problema è la spesa eccessiva delle nazioni debitrici, il vero problema è la spesa troppo piccola dell’Europa nel suo complesso. E i loro sforzi di metter riparo alla questione attraverso una austerità sempre più dura hanno giocato un ruolo importante nel rendere la situazione peggiore.

La storia sino a questo punto: negli anni che portarono alla crisi del 2008, l’Europa, come l’America, ebbe un sistema bancario fuori controllo e un rapido aumento del debito. Nel caso dell’Europa, tuttavia, gran parte dei prestiti avvenivano fuori dai confini nazionali, nella forma di flussi di capitali dalla Germania ai paesi dell’Europa meridionale. Questi prestiti erano percepiti come rischi modesti. I destinatari erano tutti sulle spalle dell’euro, cosa sarebbe mai potuto andar storto?

 

Per la massima parte, per inciso, questi prestiti andarono al settore privato e non ai Governi. Solo la Grecia gestì ampi deficit di bilancio negli anni buoni; all’epoca della crisi la Spagna aveva in effetti un avanzo di amministrazione.

Poi la bolla scoppiò. La spesa privata delle nazioni debitrici cadde drasticamente. E la domanda alla quale i dirigenti europei avrebbero dovuto rispondere era quella di come evitare che quei tagli alla spesa provocassero una caduta in tutto il continente.

Tuttavia, al posto di ciò, essi risposero alla inevitabile crescita dei deficit guidata dalla recessione chiedendo che tutti i governi – non soltanto quelli delle nazioni debitrici – tagliassero le spese ed alzassero le tasse. Gli ammonimenti secondo i quali in questo modo si sarebbe approfondita la depressione vennero accantonati. “L’idea secondo la quale le misure di austerità potrebbero innescare una stagnazione è infondata”, dichiarò Jean-Claude Trichet, allora Presidente della Banca Centrale Europea. Perché? Perché “politiche che ispirino fiducia incoraggeranno anziché ostacolare la ripresa dell’economia”.

Ma la ‘fata turchina della fiducia’ non apparve.

Attenzione, ci fu anche altro. Durante gli anni della moneta facile, salari e prezzi nell’Europa meridionale crebbero in modo sostanzialmente più veloce che nell’Europa del nord. Questo divario oggi necessita di un inversione, o attraverso una caduta dei prezzi nel meridione o attraverso una crescita al nord. E il modo è importante: se l’Europa del sud è spinta alla deflazione per ritrovare la strada della competitività, essa pagherà un prezzo pesante in termini di occupazione ed anche peggiorerà i suoi problemi del debito. Le possibilità di un successo sarebbero molto più grandi se il differenziale fosse ridotto attraverso una crescita dei prezzi al nord.

Ma per ridurre il differenziale attraverso prezzi crescenti al nord, i politici dovrebbero accettare una temporanea inflazione più elevata nel complesso dell’area euro. Essi hanno chiarito di non averne alcuna intenzione. Lo scorso aprile, di fatto, la Banca Centrale Europea cominciò ad innalzare i tassi di interesse, anche se risultava evidente alla maggioranza degli osservatori che l’inflazione sottostante era, semmai, troppo bassa.

Non fu probabilmente una coincidenza se l’aprile fu anche il momento in cui la crisi dell’euro entrò in un nuova fase spaventosa. Non fu a causa della Grecia, la cui economia sta a quella europea grosso modo come quella di Miami agli Stati Uniti. A quel punto, i mercati avevano perso la fiducia nell’euro in quanto tale, spingendo in alto i tassi di interesse persino in paesi come l’Austria e la Finlandia, noti per la loro oculatezza. Non è difficile capire perché. La combinazione tra ‘l’austerità-per-tutti’ e una Banca Centrale morbosamente ossessionata dall’inflazione rende fondamentalmente impossibile per i paesi indebitati di sfuggire alla loro trappola del debito ed è, di conseguenza, una ricetta per default da debito di ampie dimensioni, per “assalti agli sportelli” e per un collasso finanziario generale.

Io spero, per il bene nostro e loro, che gli europei cambino direzione prima che sia troppo tardi. Ma, ad esser franco, non credo che lo faranno. Di fatto, è molto più probabile che li seguiremo nel precipizio.

 

Perché in America come in Europa le economie sono state trascinate in basso da debitori inguaiati – nel caso nostro, principalmente da proprietari di abitazioni. Ed anche qua abbiamo disperatamente bisogno di politiche di espansione monetaria e delle finanza pubblica per sostenere l’economia nel mentre quei debitori combattono per ritrovare condizioni di salute nelle loro finanze. Tuttavia, nello stesso modo che in Europa, il dibattito pubblico è dominato dai saccenti del deficit e dagli ossessionati dall’inflazione.

Così, la prossima volta che sentirete qualcuno affermare che se non tagliamo la spesa finiremo come in Grecia, la vostra risposta dovrebbe essere che se tagliassimo la spesa pubblica mentre l’economia è ancora in depressione, davvero finiremmo come in Europa. Di fatto, siamo sulla buona strada.  

 

 

 

 

Send in the Clueless

By PAUL KRUGMAN
Published: December 4, 2011

There are two crucial things you need to understand about the current state of American politics. First, given the still dire economic situation, 2012 should be a year of Republican triumph. Second, the G.O.P. may nonetheless snatch defeat from the jaws of victory — because Herman Cain was not an accident.

 

Think about what it takes to be a viable Republican candidate today. You have to denounce Big Government and high taxes without alienating the older voters who were the key to G.O.P. victories last year — and who, even as they declare their hatred of government, will balk at any hint of cuts to Social Security and Medicare (death panels!).

 

And you also have to denounce President Obama, who enacted a Republican-designed health reform and killed Osama bin Laden, as a radical socialist who is undermining American security.

So what kind of politician can meet these basic G.O.P. requirements? There are only two ways to make the cut: to be totally cynical or to be totally clueless.

 

Mitt Romney embodies the first option. He’s not a stupid man; he knows perfectly well, to take a not incidental example, that the Obama health reform is identical in all important respects to the reform he himself introduced in Massachusetts — but that doesn’t stop him from denouncing the Obama plan as a vast government takeover that is nothing like what he did. He presumably knows how to read a budget, which means that he must know that defense spending has continue to rise under the current administration, but this doesn’t stop him from pledging to reverse Mr. Obama’s “massive defense cuts.”

 

Mr. Romney’s strategy, in short, is to pretend that he shares the ignorance and misconceptions of the Republican base. He isn’t a stupid man — but he seems to play one on TV.

Unfortunately from his point of view, however, his acting skills leave something to be desired, and his insincerity shines through. So the base still hungers for someone who really, truly believes what every candidate for the party’s nomination must pretend to believe. Yet as I said, the only way to actually believe the modern G.O.P. catechism is to be completely clueless.

And that’s why the Republican primary has taken the form it has, in which a candidate nobody likes and nobody trusts has faced a series of clueless challengers, each of whom has briefly soared before imploding under the pressure of his or her own cluelessness. Think in particular of Rick Perry, a conservative true believer who seemingly had everything it took to clinch the nomination — until he opened his mouth.

 

So will Newt Gingrich suffer the same fate? Not necessarily.

Many observers seem surprised that Mr. Gingrich’s, well, colorful personal history isn’t causing him more problems, but they shouldn’t be. If hypocrisy is the tribute vice pays to virtue, conservatives often seem inclined to accept that tribute, voting for candidates who publicly espouse conservative moral principles whatever their personal behavior. Did I mention that David Vitter is still in the Senate?

And Mr. Gingrich has some advantages none of the previous challengers had. He is by no means the deep thinker he imagines himself to be, but he’s a glib speaker, even when he has no idea what he’s talking about. And my sense is that he’s also very good at doublethink — that even when he knows what he’s saying isn’t true, he manages to believe it while he’s saying it. So he may not implode like his predecessors.

 

The larger point, however, is that whoever finally gets the Republican nomination will be a deeply flawed candidate. And these flaws won’t be an accident, the result of bad luck regarding who chose to make a run this time around; the fact that the party is committed to demonstrably false beliefs means that only fakers or the befuddled can get through the selection process.

Of course, given the terrible economic picture and the tendency of voters to blame whoever holds the White House for bad times, even a deeply flawed G.O.P. nominee might very well win the presidency. But then what?

The Washington Post quotes an unnamed Republican adviser who compared what happened to Mr. Cain, when he suddenly found himself leading in the polls, to the proverbial tale of the dog who had better not catch that car he’s chasing. “Something great and awful happened, the dog caught the car. And of course, dogs don’t know how to drive cars. So he had no idea what to do with it.”

The same metaphor, it seems to me, might apply to the G.O.P. pursuit of the White House next year. If the dog actually catches the car — the actual job of running the U.S. government — it will have no idea what to do, because the realities of government in the 21st century bear no resemblance to the mythology all ambitious Republican politicians must pretend to believe. And what will happen then?

 

Costretti all’inettitudine [64], di Paul Krugman

New York Times 4 dicembre 2011

 

 

Ci sono due cose fondamentali che si devono sapere sull’attuale condizione della politica americana. La prima: considerata la perdurante tremenda situazione economica, il 2012 dovrebbe essere l’anno del trionfo repubblicano. La seconda: nonostante ciò il Partito Repubblicano può riuscire nell’impresa di trasformare in sconfitta una vittoria quasi certa, perché Herman Cain non è stato un incidente [65].  

Si pensi a cosa serve per essere un possibile candidato repubblicano al giorno d’oggi. Si deve denunciare lo Stato assistenziale e le tasse elevate senza alienarsi i vecchi voti che furono la chiave delle vittorie del Partito Repubblicano l’anno passato, e si deve denunciare chiunque esiti dinanzi al minimo cenno di tagli alla Previdenza Sociale ed a Medicare (vi ricordate le “giurie della morte”!), ancorché dichiari la propria avversione al governo.

E si deve anche denunciare il Presidente Obama, colui che ha promosso una riforma sanitaria già progettata da repubblicani[66] e che ha fatto fuori Osama Bin Laden, come un socialista radicale che ha messo a repentaglio la sicurezza degli americani.

Quali sono, dunque, le caratteristiche che deve possedere un uomo politico che voglia soddisfare  queste condizioni di base del Partito Repubblicano? Ci sono solo due modi per essere adeguati al compito: o essere del tutto cinici o essere del tutto sprovveduti.

Mitt Romney incarna la prima soluzione. Non è uno stupido; sa perfettamente, per prendere un esempio non casuale, che la riforma sanitaria di Obama è identica in tutti i suoi aspetti importanti alla riforma che lui stesso introdusse nel Massachusetts – la qual cosa non gli impedisce di denunciare il piano di Obama come una generale acquisizione di controllo da parte del Governo, del tutto diversa da quello che fece lui. Si può presumere che sappia come leggere un bilancio, il che significa che deve essere al corrente che la spesa per la difesa ha continuato a crescere sotto la attuale amministrazione, ma questo non gli impedisce di dichiarare il suo impegno a ribaltare i “massici tagli alla difesa” di Obama.

La strategia di Romney, in sostanza, esige che egli condivida l’ignoranza e la disinformazione della base repubblicana. Non è stupido, ma in televisione fa la parte dello stupido.

Tuttavia, sfortunatamente dal suo punto di vista, la sua attitudine alla azione lascia a desiderare, e la sua insincerità traspare. Con il che la base resta col desiderio di qualcuno che creda effettivamente, sinceramente a quello che ogni candidato alla nomina di quel partito è tenuto a credere. E però, come ho detto, l’unico modo per credere effettivamente al catechismo odierno del Partito Repubblicano è essere completamente sprovveduti.

E questa è la ragione per la quale le primarie repubblicane hanno preso la forma che hanno, per la quale un candidato che non piace a nessuno e a cui nessuno crede deve fronteggiare un serie di sfidanti sprovveduti, ognuno dei quali ha il suo momento di fortuna prima di essere travolto dalla spinta della di lui o di lei medesima sprovvedutezza. Si pensi in particolare a Rick Perry, un vero credente conservatore cha ha in apparenza tutto quello che serve ad afferrare la nomination, finché non apre la bocca.

Cosicché a Newt Gingrich [67]toccherà la stessa sorte? Non necessariamente.

 

Molti osservatori sembrano sorpresi dal fatto che la storia personale del signor Gingrich, una storia diciamo un po’ colorita, non gli stia provocando problemi maggiori, ma non dovrebbero.  Se l’ipocrisia è il tributo che il vizio deve pagare alla virtù, i conservatori sembrano essere sempre disposti ad accettare un tributo del genere,  votando per candidati che in pubblico adottano principi morali conservatori a prescindere dalla loro condotta privata. Devo ricordare il caso di David Vitter [68]che è tuttora al Senato?

E Gingrich ha qualche vantaggio che i precedenti sfidanti non avevano. Egli non è in nessun senso quel profondo pensatore che pensa di essere, ma è un parlatore disinvolto, anche quando non ha la minima idea di cosa si stia parlando. E la mia sensazione è che sia anche molto addestrato al pensiero duplice – vale a dire che anche quando sa di non dire la verità, mostra di credere a quello che dice. Per questa ragione potrebbe non essere travolto come i suoi predecessori.

La questione più generale, tuttavia, è che chiunque alla fine otterrà la nomination repubblicana, risulterà essere un candidato pieno di seri difetti. E questi difetti non verranno per caso, non saranno il risultato di una scelta sfortunata nel mettere qualcuno in corsa per questa occasione; il fatto che il partito dipenda da convinzioni dimostrabilmente false comporta che solo falsificatori o confusionari  possano passare attraverso il processo di selezione.

Naturalmente, dato il quadro economico sconfortante e le tendenza degli elettori a incolpare dei tempi cattivi l’inquilino di turno alla Casa Bianca, persino un disastrato candidato repubblicano potrebbe ben vincere la presidenza. Ma poi cosa accadrebbe?

Il Washington Post cita un anonimo consigliere repubblicano che ha paragonato quello che è accaduto a Cain, nel momento in cui si è improvvisamente trovato in cima ai pronostici,  alla famosa storiella di quel cane che avrebbe fatto bene a non raggiungere la macchina che stava inseguendo. “Accadde qualcosa di grande e di terribile, il cane raggiunse la macchina. E naturalmente i cani non sanno come guidare le macchine. Così egli non aveva idea di cosa farci.”

La stessa metafora, mi parte, potrebbe essere applicata al proposito del Partito repubblicano di conquistare la Casa Bianca l’anno prossimo. Se il cane effettivamente raggiungesse la macchina – ovvero il vero e proprio impegno di governare gli Stati Uniti – non avrebbe nessuna idea di cosa fare, perché le realtà di un governo del ventunesimo secolo non hanno somiglianza alcuna con la mitologia alla quale tutti gli uomini politici repubblicani che ambiscono alla presidenza devono far finta di credere. Cosa succederà a quel punto?

 

 

 

All the G.O.P.’s Gekkos

By PAUL KRUGMAN
Published: December 8, 2011

 

Almost a quarter of a century has passed since the release of the movie “Wall Street,” and the film seems more relevant than ever. The self-righteous screeds of financial tycoons denouncing President Obama all read like variations on Gordon Gekko’s famous “greed is good” speech, while the complaints of Occupy Wall Street sound just like what Gekko says in private: “I create nothing. I own,” he declares at one point; at another, he asks his protégé, “Now you’re not naïve enough to think we’re living in a democracy, are you, buddy?”

Yet, with the benefit of hindsight, we can see that the movie went a little off at the end. It closes with Gekko getting his comeuppance, and justice served thanks to the diligence of the Securities and Exchange Commission. In reality, the financial industry just kept getting more and more powerful, and the regulators were neutered.

And, according to the prediction market Intrade, there’s a 45 percent chance that a real-life Gordon Gekko will be the next Republican presidential nominee.

I am not, of course, the first person to notice the similarity between Mitt Romney’s business career and the fictional exploits of Oliver Stone’s antihero. In fact, the labor-backed group Americans United for Change is using “Romney-Gekko” as the basis for an ad campaign. But there’s an issue here that runs deeper than potshots against Mr. Romney.

 

For the current orthodoxy among Republicans is that we mustn’t even criticize the wealthy, let alone demand that they pay higher taxes, because they’re “job creators.” Yet the fact is that quite a few of today’s wealthy got that way by destroying jobs rather than creating them. And Mr. Romney’s business history offers a very good illustration of that fact.

The Los Angeles Times recently surveyed the record of Bain Capital, the private equity firm that Mr. Romney ran from 1984 to 1999. As the report notes, Mr. Romney made a lot of money over those years, both for himself and for his investors. But he did so in ways that often hurt ordinary workers.

Bain specialized in leveraged buyouts, buying control of companies with borrowed money, pledged against those companies’ earnings or assets. The idea was to increase the acquired companies’ profits, then resell them.

But how were profits to be increased? The popular image — shaped in part by Oliver Stone — is that buyouts were followed by ruthless cost-cutting, largely at the expense of workers who either lost their jobs or found their wages and benefits cut. And while reality is more complex than this image — some companies have expanded and added workers after a leveraged buyout — it contains more than a grain of truth. One recent analysis of “private equity transactions” — the kind of buyouts and takeovers Bain specialized in — noted that business in general is always both creating and destroying jobs, and that this is also true of companies that were buyout or takeover targets. However, job creation at the target firms is no greater than in similar firms that aren’t targets, while “gross job destruction is substantially higher.”

 

 

 

So Mr. Romney made his fortune in a business that is, on balance, about job destruction rather than job creation. And because job destruction hurts workers even as it increases profits and the incomes of top executives, leveraged buyout firms have contributed to the combination of stagnant wages and soaring incomes at the top that has characterized America since 1980.

 

Now I’ve just said that the leveraged buyout industry as a whole has been a job destroyer, but what about Bain in particular? Well, by at least one criterion, Bain during the Romney years seems to have been especially hard on workers, since four of its top 10 targets by dollar value ended up going bankrupt. (Bain, nonetheless, made money on three of those deals.) That’s a much higher rate of failure than is typical even of companies going through leveraged buyouts — and when the companies went under, many workers ended up losing their jobs, their pensions, or both.

 

So what do we learn from this story? Not that Mitt Romney the businessman was a villain. Contrary to conservative claims, liberals aren’t out to demonize or punish the rich. But they do object to the attempts of the right to do the opposite, to canonize the wealthy and exempt them from the sacrifices everyone else is expected to make because of the wonderful things they supposedly do for the rest of us.

 

The truth is that what’s good for the 1 percent, or even better the 0.1 percent, isn’t necessarily good for the rest of America — and Mr. Romney’s career illustrates that point perfectly. There’s no need, and no reason, to hate Mr. Romney and others like him. We do, however, need to get such people paying more in taxes — and we shouldn’t let myths about “job creators” get in the way.

 

Tutti i Gekko del Partito Repubblicano, di Paul Krugman

New York Times, 8 dicembre 2011

 

 

E’ passato quasi un quarto di secolo dall’uscita del film “Wall Street” ed esso sembra più attuale che mai. Le ‘tirate’ moralistiche dei Tycoon della finanza che denunciano il Presidente Obama si possono tutte leggere come variazioni sul tema del famoso discorso sulla “avidità che fa bene” di Gordon Gekko, mentre le proteste di Occupy Wall Street sembrano davvero simili a quello che Gekko dice in privato: “Io non creo niente. Io posseggo”, dichiara in un punto; mentre in un altro, chiede al suo ‘protetto’: “Amico mio, ora non sarai così ingenuo da pensare che viviamo in una democrazia?”

Tuttavia, con il senno di poi, si può riconoscere che il film si era un po’ fatto prendere la mano sul finale. Esso finisce con Gekko che ottiene quello che si è meritato, e con la giustizia ristabilita, grazie alla diligenza della Commissione Titoli e Scambi [69]. Nella realtà, il settore finanziario si è semplicemente preso ulteriore potere, ed i controllori sono stati messi fuori gioco.

E, secondo il ‘mercato delle previsioni’ Intrade [70], c’è un 45 per cento di probabilità che un Gordon Gekko in carne ed ossa sarà il prossimo candidato Repubblicano alle elezioni presidenziali.

Non sono, naturalmente, il primo che nota la somiglianza tra la carriera di Mitt Romney e le immaginarie prestazioni dell’antieroe di Oliver Stone. Di fatto, il gruppo di lavoro Americani Uniti per il cambiamento (che gode di sostegno pubblico [71]) sta utilizzando il tema del confronto tra Romney e Gekko come base di una campagna pubblicitaria. Ma qua c’è una questione più profonda di un semplice tiro al bersaglio nei confronti del signor Romney.

Perché, per la corrente ortodossia dei repubblicani, noi non dovremmo  neppure criticare i ricchi, per non dire chiedere che paghino maggiori tasse, in quanto sarebbero “creatori di posti di lavoro”. Tuttavia, il fatto è che un numero considerevole di ricchi agisce in modo da distruggere e non da creare posti di lavoro. E la storia della carriera di del signor Romney offre un esempio molto pertinente.

Il Los Angeles Time di recente ha svolto un’indagine sulle prestazioni di Bain Capital, la “private equity [72] che il signor Romney gestì dal 1984 al 1999. Come osserva il rapporto, il signor Romney fece un sacco di soldi in quegli anni sia per sé che per i suoi investitori. Ma li fece in modi che spesso offendono i normali lavoratori.

La Bain era specializzata in leveraged buyouts [73], l’acquisto del controllo di società con capitali presi a prestito, garantiti dai patrimoni o dai profitti di quelle società. L’idea era quella di far crescere i profitti delle società acquisite e poi di rivenderle.

Ma come venivano incrementati quei profitti? L’immagine popolare – in parte formatasi a seguito del film di Oliver Stone – è che a quei rilevamenti facevano seguito spietati tagli dei costi, in gran parte  spese di lavoratori che perdevano il loro posto di lavoro o vedevano tagliati i loro salari e sussidi. E se la realtà è più complessa di questa immagine – alcune società si sono ampliate ed hanno realizzato nuova occupazione a seguito dei rilevamenti – essa contiene senz’altro un po’ di verità. Una recente analisi delle transazioni da parte di “private equities” – il genere di rilevamenti e di acquisizioni in cui era specializzata la Bain – ha messo in evidenza che, in termini generali, l’affare consiste sempre sia nel creare che nel distruggere posti di lavoro, e che questo è vero anche nel caso delle società che erano gli obbiettivi del rilevamento o dell’acquisizione. Tuttavia, la creazione di posti di lavoro nelle “imprese obbiettivo” non è maggiore di quello di imprese analoghe che non costituiscono oggetti di quelle operazioni, mentre “la distruzione lorda di posti di lavoro è sostanzialmente più elevata”.

Così, il signor Romney ha fatto fortuna in una attività che, in media, riguarda più la distruzione che la creazione di posti di lavoro. E poiché la distruzione di posti di lavoro colpisce i lavoratori anche mentre accresce i profitti ed i redditi dei dirigenti di più alto livello, quelle imprese di leveraged buyout hanno contribuito a quella combinazione di salari stagnanti e di incrementi sproporzionati dei redditi degli amministratori che ha caratterizzato l’America a partire dal 1980.

Abbiamo appena detto che il settore in generale del leveraged buyout ha prevalentemente distrutto posti di lavoro; ma cosa si può dire in particolare della Bain? Ebbene, almeno da un punto di vista, la Bain durante gli anni di Romney sembra essere stata particolarmente dura con i lavoratori, dal momento che quattro su dieci delle sue “imprese obbiettivo”, a seguito dell’apprezzamento del dollaro, finirono con l’andare fallite (nondimeno, la Bain fece soldi in tre di questi affari). Si tratta di un tasso di fallimenti assai più elevato di quello che è tipico anche delle imprese che passano da leveraged buyouts – e quando le imprese fecero bancarotta, molti lavoratori finirono col perdere il posto di lavoro, la loro pensione, o entrambi.

Cosa si apprende da questo racconto? Non che il signor Romney sia un pessimo uomo d’affari. Contrariamente alle affermazioni dei conservatori, i progressisti non intendono demonizzare o punire i ricchi. Ma essi certamente si oppongono ai tentativi della destra di fare l’opposto, di canonizzare la ricchezza e di esentare i ceti più abbienti dai sacrifici che ci si aspetta da parte di tutti gli altri, per le supposte meraviglie che costoro avrebbero realizzato per la collettività.

La verità è che quello che è buono per l’uno per cento, o meglio ancora per lo 0,1 per cento della società, non è necessariamente buono per il resto dell’America – e la carriera del signor Romney illustra perfettamente questa circostanza. Non c’è alcun bisogno né alcuna ragione di odiare il signor Romney o altre persone simili a lui. Tuttavia, abbia davvero bisogno di far pagare a questa gente più tasse – e non dovremmo consentire che prendano piede i miti sui “creatori di posti di lavoro”.

 

 

 

Depression and Democracy

By PAUL KRUGMAN
Published: December 11, 2011

It’s time to start calling the current situation what it is: a depression. True, it’s not a full replay of the Great Depression, but that’s cold comfort. Unemployment in both America and Europe remains disastrously high. Leaders and institutions are increasingly discredited. And democratic values are under siege.

On that last point, I am not being alarmist. On the political as on the economic front it’s important not to fall into the “not as bad as” trap. High unemployment isn’t O.K. just because it hasn’t hit 1933 levels; ominous political trends shouldn’t be dismissed just because there’s no Hitler in sight.

 

Let’s talk, in particular, about what’s happening in Europe — not because all is well with America, but because the gravity of European political developments isn’t widely understood.

First of all, the crisis of the euro is killing the European dream. The shared currency, which was supposed to bind nations together, has instead created an atmosphere of bitter acrimony.

Specifically, demands for ever-harsher austerity, with no offsetting effort to foster growth, have done double damage. They have failed as economic policy, worsening unemployment without restoring confidence; a Europe-wide recession now looks likely even if the immediate threat of financial crisis is contained. And they have created immense anger, with many Europeans furious at what is perceived, fairly or unfairly (or actually a bit of both), as a heavy-handed exercise of German power.

Nobody familiar with Europe’s history can look at this resurgence of hostility without feeling a shiver. Yet there may be worse things happening.

Right-wing populists are on the rise from Austria, where the Freedom Party (whose leader used to have neo-Nazi connections) runs neck-and-neck in the polls with established parties, to Finland, where the anti-immigrant True Finns party had a strong electoral showing last April. And these are rich countries whose economies have held up fairly well. Matters look even more ominous in the poorer nations of Central and Eastern Europe.

Last month the European Bank for Reconstruction and Development documented a sharp drop in public support for democracy in the “new E.U.” countries, the nations that joined the European Union after the fall of the Berlin Wall. Not surprisingly, the loss of faith in democracy has been greatest in the countries that suffered the deepest economic slumps.

And in at least one nation, Hungary, democratic institutions are being undermined as we speak.

One of Hungary’s major parties, Jobbik, is a nightmare out of the 1930s: it’s anti-Roma (Gypsy), it’s anti-Semitic, and it even had a paramilitary arm. But the immediate threat comes from Fidesz, the governing center-right party.

 

Fidesz won an overwhelming Parliamentary majority last year, at least partly for economic reasons; Hungary isn’t on the euro, but it suffered severely because of large-scale borrowing in foreign currencies and also, to be frank, thanks to mismanagement and corruption on the part of the then-governing left-liberal parties. Now Fidesz, which rammed through a new Constitution last spring on a party-line vote, seems bent on establishing a permanent hold on power.

 

The details are complex. Kim Lane Scheppele, who is the director of Princeton’s Law and Public Affairs program — and has been following the Hungarian situation closely — tells me that Fidesz is relying on overlapping measures to suppress opposition. A proposed election law creates gerrymandered districts designed to make it almost impossible for other parties to form a government; judicial independence has been compromised, and the courts packed with party loyalists; state-run media have been converted into party organs, and there’s a crackdown on independent media; and a proposed constitutional addendum would effectively criminalize the leading leftist party.

Taken together, all this amounts to the re-establishment of authoritarian rule, under a paper-thin veneer of democracy, in the heart of Europe. And it’s a sample of what may happen much more widely if this depression continues.

It’s not clear what can be done about Hungary’s authoritarian slide. The U.S. State Department, to its credit, has been very much on the case, but this is essentially a European matter. The European Union missed the chance to head off the power grab at the start — in part because the new Constitution was rammed through while Hungary held the Union’s rotating presidency. It will be much harder to reverse the slide now. Yet Europe’s leaders had better try, or risk losing everything they stand for.

 

 

And they also need to rethink their failing economic policies. If they don’t, there will be more backsliding on democracy — and the breakup of the euro may be the least of their worries.

 

Depressione e democrazia, di Paul Krugman

New York Times, 11 dicembre 2011

 

E’ tempo di cominciare a chiamare la situazione attuale per quello che è: una depressione. E’ vero, non è una completa ripetizione della Grande Depressione, ma questo è un conforto modesto. La disoccupazione resta disastrosamente elevata sia in America che in Europa.  Leaders ed istituzioni sono sempre più screditati. I valori della democrazia sono sotto assedio.

Quanto all’ultimo punto, non lo dico per allarmismo. Sul fronte politico come su quello dell’economia è importante non cascare nella trappola del “non è peggio di …”. L’alta disoccupazione non va bene anche se non ha raggiunto i livelli del 1933; tendenze politiche inquietanti dovrebbero essere rigettate anche se non c’è un Hitler alle viste.

Lasciatemi parlare, in particolare, di cosa sta succedendo in Europa – non perché in America vada tutto bene, ma perché la gravità degli sviluppi politici europei non è pienamente compresa.

 

Prima di tutto, la crisi dell’euro sta uccidendo il sogno europeo. La valuta comune, che si pensava unisse le nazioni, sta invece creando una atmosfera di aspra acrimonia.

 

In particolare, la richiesta di forme di austerità persino più dure, non bilanciata da alcuno sforzo di sostenere la crescita, ha fatto un danno duplice. E’ fallita come politica economica ed ha peggiorato la disoccupazione senza restituire fiducia; una recessione nell’intera Europa ora appare probabile, anche se l’immediata minaccia di una crisi finanziaria venisse contenuta. Essa ha creato una rabbia sconfinata, con molti europei che sono furiosi, sentendola, giustamente o ingiustamente (o, di fatto, in tutti e due i modi) come un esercizio del ruvido potere della Germania.

Nessuno che abbia familiarità con la storia europea può guardare a questa ripresa di ostilità senza avvertire un brivido. E tuttavia forse stanno accadendo cose anche peggiori.

 

 

I populisti di destra stanno crescendo: dall’Austria, dove il Freedom Party (i cui dirigenti sono soliti avere rapporti con i neo-nazisti) corre nei sondaggi alla pari con i partiti tradizionali, alla Finlandia, dove il partito anti-immigranti True Finns ha avuto un forte successo elettorale lo scorso aprile. E si tratta di paesi ricchi, le cui economie hanno retto abbastanza bene. La situazione appare ancora più inquietante nelle nazioni più povere dell’Europa Centrale ed orientale.

Il mese scorso la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo ha documentato la brusca caduta del sostegno alla democrazia da parte dell’opinione pubblica nei paesi della “nuova Unione Europea”, quelle nazioni che si sono unite all’Unione Europea dopo la caduta del muro di Berlino. In un modo che non sorprende, la perdita di fiducia nella democrazia è stata più grande nei paesi che hanno sofferto le cadute più gravi dell’economia.

Nel mentre parliamo, almeno in una nazione, l’Ungheria, le istituzioni democratiche sono sotto minaccia.

Uno dei principali partiti ungheresi, lo Jobbick [74],  è un incubo da anni ’30: è contro i Rom, è antisemita e possiede anche una armata paramilitare. Ma la minaccia immediata viene dal Fidezs [75], il partito di governo di centro-destra.

 

L’anno passato il Fidezs ha conquistato una schiacciante maggioranza nel Parlamento, almeno in parte per ragioni economiche; l’Ungheria non è nell’euro, ma subisce le severe conseguenze di un indebitamento su larga scala in valuta straniera, nonché, ad essere franchi, le conseguenze della cattiva gestione e della corruzione da parte dei partiti della sinistra liberal che governavano in precedenza. Oggi il Fidezs, che la primavera scorsa impose una nuova Costituzione con una rigida maggioranza di partito, sembra essere ben deciso ad esercitare una presa permanente sul potere.

I particolari sono un po’ complicati. Kim Lane Scheppele, che è direttore del programma “Legislazione ed affari pubblici” dell’Università di Princeton – ed ha seguito da vicino la situazione ungherese – mi dice che il Fidezs sta pensando di mettere in atto misure eccezionali per sopprimere l’opposizione. Una proposta di legge elettorale stabilisce distretti truffaldini creati allo scopo di rendere quasi impossibile agli altri partiti di formare un governo; l’indipendenza del potere giudiziario è stata compromessa è i tribunali sono stati riempiti di seguaci del partito; i media di proprietà statali sono stati trasformati in organi di partito ed è in atto un giro di vite nei confronti dei media indipendenti; una proposta di modifica della Costituzione in pratica metterebbe fuori legge il gruppo dirigente del partito della sinistra.

Considerato nel suo complesso, tutto questo corrisponde alla restaurazione di regole autoritarie, sotto una sottile patina democratica, nel cuore dell’Europa. Ed è un esempio di cosa può accadere in forme più generali se la depressione prosegue.

Non è chiaro cosa possa essere fatto per questa deriva autoritaria dell’Ungheria. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, va detto a suo merito, si è molto occupato del caso, ma esso è fondamentalmente una questione europea. L’Unione Europea ha perso l’occasione all’inizio per prendere le distanze da quella vera e propria occupazione di potere – in parte perché la nuova Costituzione è stata imposta nel mentre all’Ungheria toccava di presiedere la presidenza a rotazione dell’Unione.  Sarà ora molto difficile risalire la china. Tuttavia i dirigenti europei devono provarci, o rischiano perdere di tutto quello che rappresentano.

Ed hanno anche bisogno di ripensare ai loro fallimenti nelle politiche economiche. Se non lo facessero, ci sarebbero altre scivolate sul terreno della democrazia – e la disgregazione dell’euro potrebbe diventare l’ultima delle loro preoccupazioni.

 

 

 

 

G.O.P. Monetary Madness

By PAUL KRUGMAN
Published: December 15, 2011

 

Apparently the desperate search of Republicans for someone they can nominate not named Willard M. Romney continues. New polls suggest that in Iowa, at least, we have already passed peak Gingrich. Next up: Representative Ron Paul.

In a way, that makes sense. Mr. Romney isn’t trusted because he’s seen as someone who cynically takes whatever positions he thinks will advance his career — a charge that sticks because it’s true. Mr. Paul, by contrast, has been highly consistent. I bet you won’t find video clips from a few years back in which he says the opposite of what he’s saying now.

Unfortunately, Mr. Paul has maintained his consistency by ignoring reality, clinging to his ideology even as the facts have demonstrated that ideology’s wrongness. And, even more unfortunately, Paulist ideology now dominates a Republican Party that used to know better.

 

I’m not talking here about Mr. Paul’s antiwar views or his less well-known views on civil and reproductive rights, which would horrify liberals who think of him as a good guy. I’m talking, instead, about his views on economics.

Mr. Paul identifies himself as a believer in “Austrian” economics — a doctrine that it goes without saying rejects John Maynard Keynes but is almost equally vehement in rejecting the ideas of Milton Friedman. For Austrians see “fiat money,” money that is just printed without being backed by gold, as the root of all economic evil, which means that they fiercely oppose the kind of monetary expansion Friedman claimed could have prevented the Great Depression — and which was actually carried out by Ben Bernanke this time around.

 

O.K., a brief digression: the Federal Reserve doesn’t actually print money (the Treasury does that). But the Fed does control the “monetary base,” the sum of bank reserves and currency in circulation. So when people talk about Mr. Bernanke printing money, what they really mean is that the Fed expanded the monetary base.

 

And there has, indeed, been a huge expansion of the monetary base. After Lehman Brothers fell, the Fed began lending large sums to banks as well as buying a wide range of other assets, in a (successful) attempt to stabilize financial markets, in the process adding large amounts to bank reserves. In the fall of 2010, the Fed began another round of purchases, in a less successful attempt to boost economic growth. The combined effect of these actions was that the monetary base more than tripled in size.

 

Austrians, and for that matter many right-leaning economists, were sure about what would happen as a result: There would be devastating inflation. One popular Austrian commentator who has advised Mr. Paul, Peter Schiff, even warned (on Glenn Beck’s TV show) of the possibility of Zimbabwe-style hyperinflation in the near future.

 

So here we are, three years later. How’s it going? Inflation has fluctuated, but, at the end of the day, consumer prices have risen just 4.5 percent, meaning an average annual inflation rate of only 1.5 percent. Who could have predicted that printing so much money would cause so little inflation? Well, I could. And did. And so did others who understood the Keynesian economics Mr. Paul reviles. But Mr. Paul’s supporters continue to claim, somehow, that he has been right about everything.

 

Still, while the original proponents of the doctrine won’t ever admit that they were wrong — my experience is that nobody in the political world ever admits to having been wrong about anything — you might think that having been so completely off-base about something so central to their belief system would have caused the Austrians to lose popularity, even within the G.O.P. After all, as recently as the Bush years, many Republicans were all for printing money when the economy slumps. “Aggressive monetary policy can reduce the depth of a recession,” declared the 2004 Economic Report of the President.

 

What has happened instead, however, is that hard-money doctrine and paranoia about inflation have taken over the party, even as the predicted inflation keeps failing to materialize. For example, in February, Representative Paul Ryan, who is somewhat inexplicably regarded as the party’s deep thinker on matters economic, harangued Mr. Bernanke on how terrible it is to “debase” a currency and pointed to a rise in commodity prices in late 2010 and early 2011 as evidence that inflation was finally coming. Commodity prices have plunged since then, but there is no sign that Mr. Ryan or anyone else is having second thoughts.

 

Now, it’s still very unlikely that Ron Paul will become president. But, as I said, his economic doctrine has, in effect, become the official G.O.P. line, despite having been proved utterly wrong by events. And what will happen if that doctrine actually ends up being put into action? Great Depression, here we come.

 

Follia monetaria del Partito Repubblicano, di Paul Krugman

New York Times 16 dicembre 2011

 

In apparenza, la ricerca disperata, da parte dei Repubblicani di qualcuno da poter candidare che non si chiami Willard M. Romney, è ancora in corso. I nuovi sondaggi indicano che, con lo Iowa, è già stato superato il punto più alto di Gingrich. Prossimamente in arrivo, il membro della Camera dei Rappresentanti Ron Paul.

Il tutto avviene in un modo significativo. Romney non è creduto, perché è visto come colui che può prendere per cinismo qualsiasi posizione pensi gli gioverà alla carriera – accusa dalla quale non si libera perché è vera. Paul, all’opposto, è altamente coerente. Scommetto con voi che non troverete un video di questi ultimi anni nel quale egli abbia detto l’opposto di quanto sta dicendo oggi.

Sfortunatamente, il signor Paul ha mantenuto la sua coerenza ignorando la realtà, aggrappandosi alla sua ideologia anche quando i fatti l’avevano dimostrata priva di fondamento. E, ancora più sfortunatamente, l’ideologia paulista è oggi incontrastata nel Partito Repubblicano, che pure possedeva un tempo migliori conoscenze.

Non sto parlando qua dei suoi punti di vista contro la guerra o dei suoi meno noti punti di vista in materia di diritti civili o di maternità e paternità consapevoli, che farebbero orrore ai progressisti che pensano sia una buona persona. Penso, invece, ai suoi punti di vista in materia economica.

Paul si definisce come un seguace della teoria economica “austriaca” [76], una dottrina che rigetta, non c’è bisogno di dirlo, John Maynard Keynes ma rigetta con quasi altrettanta veemenza le idee di Milton Friedman. Infatti, gli austriaci considerano le “autorizzazioni monetarie”, ovvero il denaro che viene immesso in circolazione senza una copertura in oro, come la radice di tutti i mali dell’economia, il che significa che si oppongono strenuamente a quel genere di espansione monetaria che (anche) Friedman sosteneva avrebbe consentito di prevenire la Grande Depressione – e che effettivamente è stata messa in atto da Ben Bernanke in questo periodo.

 

Qua è il caso di una breve digressione: la Federal Reserve, in effetti, non stampa moneta (è il Tesoro che lo fa). Ma la Fed controlla la “base monetaria”, ovvero la somma delle riserve bancarie e della valuta in circolazione. Così, quando la gente parla del signor Bernanke che stampa moneta, intende in effetti che la Fed allarga la base monetaria.

 

E c’è stata di sicuro un’ampia espansione della base monetaria. Dopo la caduta di Lehman Brothers, la Fed cominciò a dare in prestito grandi somme alle banche così come ad acquistare una vasta gamma di altri assets,  nel tentativo che ebbe successo di stabilizzare i mercati finanziari, in un processo che aumentò grandemente le riserve bancarie. Nell’autunno del 2010, la Fed diede inizio ad un altro ciclo di acquisti, nel tentativo, che ebbe minore successo, di incoraggiare la crescita dell’economia. L’effetto combinato di queste azioni è stato che le dimensioni della base monetaria si sono più che triplicate.

 

Gli ‘Austriaci’, e per la stessa ragione molti economisti orientati verso la destra, erano sicuri di quale sarebbe stato il risultato: ci sarebbe stata una inflazione devastante. Un popolare commentatore di tendenze ‘austriache’ che è stato consulente di Paul, Peter Schiff, arrivò persino ad ammonire (nel corso della trasmissione  televisiva di Glenn Beck) sulla possibilità nel prossimo futuro di una iperinflazione del genere di quella dello Zimbabwe.

Dunque, siamo a questo punto, tre anni dopo. Cosa sta accadendo? L’inflazione ha fluttuato ma, alla fine della festa, i prezzi al consumo sono cresciuti del 4,5 per cento, il che significa una media annua dell’1,5 per cento. Chi avrebbe pronosticato che mettendo in circolo così tanta moneta si sarebbe provocata una inflazione così modesta? Bene, io l’avrei fatto, e lo feci. E lo stesso fecero altri che capiscono le teorie economiche keynesiane che il signor Paul disprezza. Eppure i sostenitori del signor Paul continuano in qualche modo a pretendere che egli abbia avuto ragione in ogni aspetto.

Tuttavia, se coloro che formularono per primi quelle previsioni [77] non avrebbero mai ammesso di aver torto – nella mia esperienza non c’è mai nessuno nelle cose della politica che ammette di aver torto su qualcosa – si può ritenere che l’essere finiti così fuori posto su un aspetto centrale della loro dottrina avrebbe loro provocato una diminuzione di popolarità, anche all’interno del Partito Repubblicano.  Dopo tutto, di recente come negli anni di Bush, molti repubblicani sono stati favorevoli a ‘stampare moneta’ a fronte di crisi dell’economia. “Una aggressiva politica monetaria può ridurre la profondità della recessione”, recitava il Rapporto Economico del Presidente nel 2004.

Quello che è invece successo, tuttavia, è stato che la dottrina sulla moneta forte e la paranoia dell’inflazione si sono diffuse nel partito, anche se la prevista inflazione ha continuato a non materializzarsi. Ad esempio, in febbraio il congressista Paul Ryan, che è considerato abbastanza inesplicabilmente come il profondo pensatore del partito sulle cose dell’economia, arringò Bernanke su quanto fosse terribile “svalutare” una moneta e indicò in una crescita dei prezzi delle materie prime sulla fine del 2010 e all’inizio del 2011 la prova che l’inflazione stava alla fine arrivando. Da quel momento i prezzi delle materie prime sono rapidamente sprofondati, ma non c’è alcun segno di ripensamento da parte del signor Ryan né di qualcun altro.

Ora, al momento è abbastanza improbabile che Ron Paul divenga Presidente. Ma, come ho detto, la sua dottrina economica è diventata, in effetti, la linea ufficiale del Partito Repubblicano, nonostante che si sia mostrata del tutto sbagliata alla prova dei fatti. E cosa accadrà se quella dottrina finirà effettivamente con l’essere tradotta in azione? Grande Depressione, stiamo arrivando.      

 

 

 

Will China Break?

By PAUL KRUGMAN
Published: December 18, 2011

 

Consider the following picture: Recent growth has relied on a huge construction boom fueled by surging real estate prices, and exhibiting all the classic signs of a bubble. There was rapid growth in credit — with much of that growth taking place not through traditional banking but rather through unregulated “shadow banking” neither subject to government supervision nor backed by government guarantees. Now the bubble is bursting — and there are real reasons to fear financial and economic crisis.

Am I describing Japan at the end of the 1980s? Or am I describing America in 2007? I could be. But right now I’m talking about China, which is emerging as another danger spot in a world economy that really, really doesn’t need this right now.

 

I’ve been reluctant to weigh in on the Chinese situation, in part because it’s so hard to know what’s really happening. All economic statistics are best seen as a peculiarly boring form of science fiction, but China’s numbers are more fictional than most. I’d turn to real China experts for guidance, but no two experts seem to be telling the same story.

Still, even the official data are troubling — and recent news is sufficiently dramatic to ring alarm bells.

The most striking thing about the Chinese economy over the past decade was the way household consumption, although rising, lagged behind overall growth. At this point consumer spending is only about 35 percent of G.D.P., about half the level in the United States.

So who’s buying the goods and services China produces? Part of the answer is, well, we are: as the consumer share of the economy declined, China increasingly relied on trade surpluses to keep manufacturing afloat. But the bigger story from China’s point of view is investment spending, which has soared to almost half of G.D.P.

 

 

The obvious question is, with consumer demand relatively weak, what motivated all that investment? And the answer, to an important extent, is that it depended on an ever-inflating real estate bubble. Real estate investment has roughly doubled as a share of G.D.P. since 2000, accounting directly for more than half of the overall rise in investment. And surely much of the rest of the increase was from firms expanding to sell to the burgeoning construction industry.

 

Do we actually know that real estate was a bubble? It exhibited all the signs: not just rising prices, but also the kind of speculative fever all too familiar from our own experiences just a few years back — think coastal Florida.

And there was another parallel with U.S. experience: as credit boomed, much of it came not from banks but from an unsupervised, unprotected shadow banking system. There were huge differences in detail: shadow banking American style tended to involve prestigious Wall Street firms and complex financial instruments, while the Chinese version tends to run through underground banks and even pawnshops. Yet the consequences were similar: in China as in America a few years ago, the financial system may be much more vulnerable than data on conventional banking reveal.

Now the bubble is visibly bursting. How much damage will it do to the Chinese economy — and the world?

Some commentators say not to worry, that China has strong, smart leaders who will do whatever is necessary to cope with a downturn. Implied though not often stated is the thought that China can do what it takes because it doesn’t have to worry about democratic niceties.

 

To me, however, these sound like famous last words. After all, I remember very well getting similar assurances about Japan in the 1980s, where the brilliant bureaucrats at the Ministry of Finance supposedly had everything under control. And later, there were assurances that America would never, ever, repeat the mistakes that led to Japan’s lost decade — when we are, in reality, doing even worse than Japan did.

 

For what it’s worth, statements about economic policy from Chinese officials don’t strike me as being especially clear-headed. In particular, the way China has been lashing out at foreigners — among other things, imposing a punitive tariff on imports of U.S.-made autos that will do nothing to help its economy but will help poison trade relations — does not sound like a mature government that knows what it’s doing.

And anecdotal evidence suggests that while China’s government may not be constrained by rule of law, it is constrained by pervasive corruption, which means that what actually happens at the local level may bear little resemblance to what is ordered in Beijing.

I hope that I’m being needlessly alarmist here. But it’s impossible not to be worried: China’s story just sounds too much like the crack-ups we’ve already seen elsewhere. And a world economy already suffering from the mess in Europe really, really doesn’t need a new epicenter of crisis.

 

Si spezzerà, la Cina? Di Paul Krugman

New York Times 18 dicembre 2011

 

 

Considerate il quadro seguente: la recente crescita ha potuto contare su una vasta esplosione dell’edilizia innescata da una crescita dei valori immobiliari, che mostrava tutti i classi segni di una bolla. C’è stata una rapida espansione del credito – gran parte di quella crescita ha preso piede non attraverso il tradizionale sistema bancario, ma attraverso “banche ombra” prive di regole non soggette alla supervisione del governo né sostenute dalle sue garanzie. Ora la bolla sta esplodendo – e ci sono ragioni effettive per temere una crisi finanziaria ed economica.

Sto descrivendo il Giappone degli anni ’80? O sto descrivendo l’America del 2007? Potrebbe essere. Sennonché in questo momento sto parlando della Cina, che sta emergendo come un altro luogo di pericolo in una economia mondiale che davvero non avrebbe bisogno di niente di simile in questo momento.

Sono stato riluttante ad esprimere un giudizio sulla situazione cinese, in parte perché è molto difficile capire cosa sta realmente accadendo. Tutte le statistiche economiche  sono in larga misura una forma particolarmente noiosa di fantascienza, ma i dati della Cina sono più fantasiosi di tutti gli altri. Potrei rivolgermi al consiglio di persone effettivamente esperte, ma non ce ne sono due che sembrino raccontare la stessa storia.

 

Tuttavia, persino i dati ufficiali segnalano problemi – e le notizie recenti sono abbastanza spettacolari da costituire un campanello d’allarme.

La cosa più impressionante dell’economia cinese nel corso del trascorso decennio è stato il modo il cui i consumi delle famiglie, per quanto in crescita, siano rimasti indietro rispetto alla crescita generale. A questo punto, la spesa per i consumi costituisce appena circa il 35 per cento del PIL, attorno alla metà del livello degli Stati Uniti.

Dunque, chi sta acquistando i beni ed i servizi che la Cina produce? Parte della risposta è che, in effetti, li stiamo acquistando noi: nel momento in cui la percentuale dei consumi nell’economia è scesa, la Cina si è affidata in modo crescente ai surplus commerciali per tenere in piedi il settore manifatturiero. Ma dal punto di vista della Cina l’aspetto più importante è stata la spesa in investimenti, che è schizzata a quasi alla metà del PIL.

Il quesito naturale è, che cosa è stato all’origine di quegli investimenti, data una domanda di consumi relativamente debole? E la risposta, in buona misura, è che essa è dipesa dalla bolla in continua espansione del settore immobiliare. A partire dell’anno 2000 l’investimento nel settore immobiliare è quasi raddoppiato come percentuale del PIL, realizzando da solo più della metà della crescita generale degli investimenti. E sicuramente una gran parte della crescita restante è venuta da imprese che hanno ampliato le vendite alla fiorente industria delle costruzioni.

Sappiamo per davvero che nel settore immobiliare si è trattato di una bolla? Ne ha avuto tutte le apparenze: non solo i prezzi crescenti, ma anche quel genere di febbre speculativa che ci è anche troppo familiare per le nostre stesse esperienze di alcuni anni orsono – si pensi alla costa della Florida.

E c’è un altro parallelo con l’esperienza degli Stati Uniti: al momento in cui il credito è esploso, esso non proveniva dalle banche ma da un incontrollato, sistema bancario ombra [78] privo di protezioni. Nei particolari ci sono state differenze profonde: il sistema bancario ombra  ha teso a coinvolgere imprese di prestigio di Wall Street e strumenti finanziari complessi, mentre la versione cinese ha teso a svilupparsi attraverso banche sotterranee e perfino usurai. Tuttavia le conseguenze sono state simili: in Cina come nell’America di pochi anno fa, il sistema finanziario può essere molto più vulnerabile di quanto dicano i dati sulle banche convenzionali.

 

 

Ora la bolla sta visibilmente esplodendo. Quanto danno farà all’economia cinese ed al mondo intero?

 

Alcuni commentatori ci dicono di non preoccuparci, avendo la Cina dirigenti sicuri ed intelligenti che faranno tutto quello che è necessario per essere all’altezza di una caduta dell’economia. Viene sottinteso, sebbene non ammesso di frequente, il pensiero per il quale la Cina può fare quello che serve giacché non ha da preoccuparsi di sottigliezze democratiche.

Tutte queste, però, mi sembrano come le ultime parole famose. Dopo tutto, mi ricordo benissimo che si avevano analoghe rassicurazioni nel caso del Giappone degli anno ’80, dove si pensava che i brillanti funzionari del Ministero delle Finanze avessero tutto sotto controllo. E, successivamente, quando ci furono le assicurazioni che l’America non avrebbe mai e poi mai ripetuto gli errori che avevano portato i Giappone al “decennio perduto”, mentre, in realtà, ci comportammo persino peggio di quanto aveva fatto il Giappone.

Per quanto può contare, le dichiarazioni sulla politica economica da parte dei dirigenti cinesi non mi danno l’impressione di essere particolarmente lucide. In particolare, il modo in cui la Cina si è scagliata contro i paesi esteri – tra le altre cose imponendo una tariffa punitiva sulle auto costruite negli Stati Uniti, che non aiuterà in niente la sua economia ma contribuirà ad avvelenare le relazioni commerciali – non sembrano proprie di un governo saggio che sa quello che fa.

Vari aneddoti sembrano indicare che se il Governo cinese non subisce le restrizioni delle regole della legge, esso è limitato da una corruzione estesa, il che significa che quello che effettivamente accade ai livelli locali potrebbe solo pallidamente assomigliare a quanto si orchestra a Pechino.

Spero, in questo caso,  di essere inutilmente allarmista. Ma è impossibile non essere preoccupati: la storia della Cina sembra assomigliare a quei collassi nervosi che abbiamo già sperimentato altrove. E una economia mondiale già in sofferenza a causa del disordine europeo, davvero non avrebbe proprio bisogno di un nuovo epicentro di crisi.  

 

 

 

 

 

The Post-Truth Campaign

By PAUL KRUGMAN
Published: December 22, 2011

 

Suppose that President Obama were to say the following: “Mitt Romney believes that corporations are people, and he believes that only corporations and the wealthy should have any rights. He wants to reduce middle-class Americans to serfs, forced to accept whatever wages corporations choose to pay, no matter how low.”

How would this statement be received? I believe, and hope, that it would be almost universally condemned, by liberals as well as conservatives. Mr. Romney did once say that corporations are people, but he didn’t mean it literally; he supports policies that would be good for corporations and the wealthy and bad for the middle class, but that’s a long way from saying that he wants to introduce feudalism.

But now consider what Mr. Romney actually said on Tuesday: “President Obama believes that government should create equal outcomes. In an entitlement society, everyone receives the same or similar rewards, regardless of education, effort, and willingness to take risk. That which is earned by some is redistributed to the others.”

 

And in an interview the same day, Mr. Romney declared that the president “is going to put free enterprise on trial.”

This is every bit as bad as my imaginary Obama statement. Mr. Obama has never said anything suggesting that he holds such views, and, in fact, he goes out of his way to praise free enterprise and say that there’s nothing wrong with getting rich. His actual policy proposals do involve a rise in taxes on high-income Americans, but only back to their levels of the 1990s. And no matter how much the former Massachusetts governor may deny it, the Affordable Care Act established a national health system essentially identical to the one he himself established at a state level in 2006.

 

 

Over all, Mr. Obama’s positions on economic policy resemble those that moderate Republicans used to espouse. Yet Mr. Romney portrays the president as the second coming of Fidel Castro and seems confident that he will pay no price for making stuff up.

Welcome to post-truth politics.

Why does Mr. Romney think he can get away with this kind of thing? Well, he has already gotten away with a series of equally fraudulent attacks. In fact, he has based pretty much his whole campaign around a strategy of attacking Mr. Obama for doing things that the president hasn’t done and believing things he doesn’t believe.

For example, in October Mr. Romney pledged that as president, “I will reverse President Obama’s massive defense cuts.” That line presumably plays well with Republican audiences, but what is he talking about? The defense budget has continued to grow steadily since Mr. Obama took office.

 

Then there’s Mr. Romney’s frequent suggestion that the president has gone around the world “apologizing for America.” This is a popular theme on the right — but the so-called Obama apology tour is a complete fabrication, assembled by taking quotes out of context.

As Greg Sargent of The Washington Post has pointed out, there’s a common theme to these whoppers and a number of other things Mr. Romney has said: the strategy is clearly to portray the president as a suspect character, someone who doesn’t share American values. And since Mr. Obama has done and said nothing to justify this portrait, Mr. Romney just invents stuff to make his case.

 

But won’t there be some blowback? Won’t Mr. Romney pay a price for running a campaign based entirely on falsehoods? He obviously thinks not, and I’m afraid he may be right.

Oh, Mr. Romney will probably be called on some falsehoods. But, if past experience is any guide, most of the news media will feel as though their reporting must be “balanced,” which means that every time they point out that a Republican lied they have to match it with a comparable accusation against a Democrat — even if what the Democrat said was actually true or, at worst, a minor misstatement.

This isn’t an abstract speculation. Politifact, the project that is supposed to enforce truth in politics, has declared Democratic claims that Republicans voted to end Medicare its “Lie of the Year.” It did so even though Republicans did indeed vote to dismantle Medicare as we know it and replace it with a voucher scheme that would still be called “Medicare,” but would look nothing like the current program — and would no longer guarantee affordable care.

 

So here’s my forecast for next year: If Mr. Romney is in fact the Republican presidential nominee, he will make wildly false claims about Mr. Obama and, occasionally, get some flack for doing so. But news organizations will compensate by treating it as a comparable offense when, say, the president misstates the income share of the top 1 percent by a percentage point or two.

 

 

The end result will be no real penalty for running an utterly fraudulent campaign. As I said, welcome to post-truth politics.

 

La campagna elettorale del “dopo-verità”, di Paul Krugman

New York Times 22 dicembre 2011

 

 

Supponete che il Presidente Obama avesse detto la cosa seguente: “Mitt Romney [79]crede che le imprese siano la stessa cosa dei cittadini, in più crede che solo le grandi imprese ed i ricchi dovrebbero avere dei diritti. Vuole ridurre gli americani a servi della gleba, costretti ad accettare qualsiasi salario che le imprese decidano di pagare, per quanto basso esso sia.”

Che reazione ci sarebbe stata a questa dichiarazione? Credo e spero che essa sarebbe universalmente condannata, dai progressisti allo stesso modo dei conservatori. Romney [80]disse una volta che le imprese sono la stessa cosa delle persone, ma non intendeva dirlo alla lettera; egli sostiene politiche che andrebbero bene per e grandi imprese ed i ricchi e male per le classi medie, ma da qui a dire che voglia introdurre il feudalesimo ce ne corre.

Ma si consideri adesso quello che Romney ha detto effettivamente giovedì: “Il Presidente Obama crede che il Governo dovrebbe fornire a ciascuno gli stessi sbocchi. In una società dominata dai diritti, ognuno riceve un compenso simile od eguale, a prescindere dall’istruzione, dalla fatica e dalla voglia di prendersi rischi.  Quello che è guadagnato da qualcuno, viene redistribuito agli altri.”

 

E, in una intervista dello stesso giorno, Romney ha dichiarato che il Presidente “sta cercando di mettere la libera impresa sul banco degli accusati”.

Questa è esattamente la stessa cosa della immaginario dichiarazione che ho attribuito ad Obama. Obama non ha mai detto niente che suggerisse convinzioni di quel genere, eppure, in effetti, è fuori dal suo stile incensare la libera impresa e dire che non c’è niente di male ad essere ricchi. Le sue effettive proposte politiche includono davvero un aumento delle tasse sugli americani ad alto reddito, ma solo per riportarle ai livelli del 1990. E, per quanto il passato Governatore del Massachusetts  lo neghi, la Legge per l’Assistenza Sostenibile dà vita ad un sistema sanitario nazionale sostanzialmente identico a quello messo in piedi da lui stesso nel 2006, al livello di quello Stato.

Dopo tutto, le posizioni di politica economica di Obama somigliano a quelle che sono soliti sposare i repubblicani moderati. Tuttavia Romney ritrae il Presidente come una sorta di successore di Fidel Castro e sembra ben convinto di non dover pagare alcun prezzo ad inventarsi cose del genere.

 

Benvenuta la politica del “dopo-verità”!

 

 

Perché Romney pensa di potersela cavare con questo genere di cose? Ebbene, egli se l’è già cavata con una sequela di attacchi parimenti truffaldini. In sostanza, egli ha basato una buona parte della sua campagna su una strategia con la quale attacca Obama per cose che egli non ha mai fatto né creduto.

 

Ad esempio, nell’ottobre Romney promise che come Presidente avrebbe “fatto marcia indietro su una serie di massicci tagli alla Difesa del Presidente Obama”. Una linea del genere presumibilmente soddisfa la platea repubblicana, ma di cosa si sta parlando? Il bilancio della Difesa ha continuato a crescere stabilmente sin da quando Obama è entrato in carica.

C’è poi l’allusione frequente di Romney, secondo la quale il Presidente andrebbe in giro per il mondo a “porgere scuse per conto dell’America”. Questo è un tema popolare a destra – ma il cosiddetto ‘giro delle scuse’ di Obama è una invenzione assoluta, fabbricata con citazioni fuori contesto.

 

Come ha sottolineato Greg Sargent del Washington Post, c’è una ispirazione comune in queste frottole nonché in un certo numero di altre cose che Romney ha detto: la strategia è chiaramente quella di presentare una carattere “sui generis” del Presidente, come qualcuno che non condivide i valori americani. E dal momento che Obama non ha detto né fatto niente che giustifichi quel ritratto, Romney semplicemente si inventa roba che faccia al caso suo.

Ma cose del genere non dovrebbero avere l’effetto di un boomerang? Romney non dovrebbe pagare un prezzo per una campagna basata interamente su falsità? E’ evidente che egli pensa di non doverlo fare, e temo che abbia ragione.

E’ vero, probabilmente Romney verrà richiamato per alcune falsità. Ma, se l’esperienza passata indica qualcosa, gran parte dei media riterrà di dover “equilibrare” i propri resoconti, il che significa che ogni volta che un repubblicano dirà una bugia riterranno di doverla bilanciare con una accusa simile verso un democratico – anche se quello che ha detto il democratico fosse stato effettivamente veritiero o, nel peggiore dei casi, un discorso inaccurato di secondaria importanza.

Non si tratta di una ipotesi astratta. Politifact [81], il progetto che si pensava servisse a rafforzare la verità nella politica, ha giudicato le affermazioni dei Democratici secondo le quali i Repubblicani votarono per la fine di Medicare come la propria “Bugia dell’Anno”. Lo ha fatto anche se i Repubblicani davvero votarono per smantellare il Medicare che conosciamo e per rimpiazzarlo con un sistema di vouchers che sarebbe ancora chiamato “Medicare”, ma non avrebbe più niente a che fare con il programma attuale, e non garantirebbe più una assistenza sostenibile.

Ecco dunque le mie previsioni per il prossimo anno: se il signor Romney sarà effettivamente il candidato presidenziale dei Repubblicani, egli utilizzerà a iosa false affermazioni su Obama, e, di quando in quando, avrà qualche critica al riguardo. Ma le sedi dei notiziari troveranno una compensazione considerando alla stregua di una offesa paragonabile, ad esempio, l’imprecisione del Presidente a proposito della quota di reddito complessivo degli americani più ricchi, per un punto percentuale o due.

Alla fine non ci sarà alcuna penalizzazione per aver gestito la campagna elettorale in termini completamente truffaldini. Come ho detto, benvenuta la politica del “dopo-verità”!

  

 

 

 

 

 

 

Springtime for Toxics

By PAUL KRUGMAN
Published: December 25, 2011

Here’s what I wanted for Christmas: something that would make us both healthier and richer. And since I was just making a wish, why not ask that Americans get smarter, too?

Surprise: I got my wish, in the form of new Environmental Protection Agency standards on mercury and air toxics for power plants. These rules are long overdue: we were supposed to start regulating mercury more than 20 years ago. But the rules are finally here, and will deliver huge benefits at only modest cost.

 

So, naturally, Republicans are furious. But before I get to the politics, let’s talk about what a good thing the E.P.A. just did.

As far as I can tell, even opponents of environmental regulation admit that mercury is nasty stuff. It’s a potent neurotoxicant: the expression “mad as a hatter” emerged in the 19th century because hat makers of the time treated fur with mercury compounds, and often suffered nerve and mental damage as a result.

 

Hat makers no longer use mercury (and who wears hats these days?), but a lot of mercury gets into the atmosphere from old coal-burning power plants that lack modern pollution controls. From there it gets into the water, where microbes turn it into methylmercury, which builds up in fish. And what happens then? The E.P.A. explains: “Methylmercury exposure is a particular concern for women of childbearing age, unborn babies and young children, because studies have linked high levels of methylmercury to damage to the developing nervous system, which can impair children’s ability to think and learn.”

 

That sort of sounds like something we should regulate, doesn’t it?

The new rules would also have the effect of reducing fine particle pollution, which is a known source of many health problems, from asthma to heart attacks. In fact, the benefits of reduced fine particle pollution account for most of the quantifiable gains from the new rules. The key word here is “quantifiable”: E.P.A.’s cost-benefit analysis only considers one benefit of mercury regulation, the reduced loss in future wages for children whose I.Q.’s are damaged by eating fish caught by freshwater anglers. There are without doubt many other benefits to cutting mercury emissions, but at this point the agency doesn’t know how to put a dollar figure on those benefits.

Even so, the payoff to the new rules is huge: up to $90 billion a year in benefits compared with around $10 billion a year of costs in the form of slightly higher electricity prices. This is, as David Roberts of Grist says, a very big deal.

And it’s a deal Republicans very much want to kill.

With everything else that has been going on in U.S. politics recently, the G.O.P.’s radical anti-environmental turn hasn’t gotten the attention it deserves. But something remarkable has happened on this front. Only a few years ago, it seemed possible to be both a Republican in good standing and a serious environmentalist; during the 2008 campaign John McCain warned of the dangers of global warming and proposed a cap-and-trade system for carbon emissions. Today, however, the party line is that we must not only avoid any new environmental regulations but roll back the protection we already have.

 

And I’m not exaggerating: during the fight over the debt ceiling, Republicans tried to attach riders that, as Time magazine put it, would essentially have blocked the E.P.A. and the Interior Department from doing their jobs.

Oh, by the way, you may have heard reports to the effect that Jon Huntsman is different. And he did indeed once say: “Conservation is conservative. I’m not ashamed to be a conservationist.” Never mind: he, too, has been assimilated by the anti-environmental Borg, denouncing the E.P.A.’s “regulatory reign of terror,” and predicting that the new rules will cause blackouts by next summer, which would be a neat trick considering that the rules won’t even have taken effect yet.

 

 

More generally, whenever you hear dire predictions about the effects of pollution regulation, you should know that special interests always make such predictions, and are always wrong. For example, power companies claimed that rules on acid rain would disrupt electricity supply and lead to soaring rates; none of that happened, and the acid rain program has become a shining example of how environmentalism and economic growth can go hand in hand.

 

But again, never mind: mindless opposition to “job killing” regulations is now part of what it means to be a Republican. And I have to admit that this puts something of a damper on my mood: the E.P.A. has just done a very good thing, but if a Republican — any Republican — wins next year’s election, he or she will surely try to undo this good work.

Still, for now at least, those who care about the health of their fellow citizens, and especially of the nation’s children, have something to celebrate.

 

Primavera senza sostanze tossiche, di Paul Krugman

New York Times 25 dicembre 2011

 

Questo è quello che vorrei per Natale: qualcosa che ci faccia star meglio di salute e ci renda più ricchi. E, già che ci siamo con i desideri, perché non chiedere che gli Americani diventino anche un po’ più furbi?

 

Sorpresa: il mio desiderio è stato esaudito nella forma dei nuovi standards sul mercurio e sulle emissioni tossiche [82] per gli impianti energetici. Queste regole arrivano con grande ritardo: si cominciò a pensare di dare regole al mercurio più di 20 anni orsono. Ma oggi le regole finalmente ci sono, e ci daranno grandi benefici con un costo del tutto modesto.

 

Con il che, naturalmente, i Repubblicani sono furiosi. Ma prima di occuparmi degli aspetti politici, fatemi dire quale ottima cosa l’EPA [83] abbia finalmente deciso.

Per quello che ne so, anche gli oppositori delle regolamentazioni ambientali ammettono che il mercurio sia una sostanza terribile. E’ un potente neuro tossico: l’espressione “matto come un produttore di cappelli [84]” venne fuori nel diciannovesimo secolo perché i produttori di cappelli di quel tempo trattavano le pellicce con componenti al mercurio, e soffrivano spesso di conseguenti danni mentali ed al sistema nervoso.

I produttori di cappelli non usano più il mercurio (del resto, chi si mette più i cappelli?), ma un bel po’ di mercurio finisce nell’atmosfera dai vecchi impianti energetici alimentati a carbone che difettano di moderni controlli ambientali. Dall’aria finisce nell’acqua, dove i microbi lo trasformano in metilmercurio, che si accumula nei pesci. Che accade a quel punto? Spiegano all’EPA: “L’esposizione al metilmercurio è in particolare preoccupante per le donne in età fertile, per i bambini piccoli e per quelli in gestazione, giacché gli studi hanno mostrato una connessione tra alti livelli di metilmercurio ed i danni allo sviluppo del sistema nervoso, tali da compromettere la capacità di pensare e di apprendere dei bambini”.

Qualcosa che sembrerebbe dovessimo regolare, non vi pare?

Le nuove regole avrebbero anche l’effetto di ridurre l’inquinamento da polveri sottili [85], che è una fonte riconosciuta di molti problemi alla salute, dall’asma alle sofferenze cardiache. Di fatto, i benefici della riduzione dell’inquinamento da polveri sottili, rappresentano la parte principale dei miglioramenti quantificabili derivanti dalle nuove regole. In questo caso la parola chiave è “quantificabile”: l’analisi costi-benefici dell’EPA considera soltanto il singolo vantaggio derivante dalla regolazione del mercurio, la minore perdita nei salari futuri nel caso di bambini il cui quoziente intellettuale sia stato danneggiato dal mangiare pesce preso da pescatori di acqua dolce.

Anche in questo modo, il beneficio prodotto dalle nuove regole è grande: sino a 90 miliardi di dollari all’anno, confrontati con 10 miliardi di dollari all’anno di costi nella forma di prezzi dell’elettricità leggermente più alti. Questo è quello che David Roberts di Grist [86]definisce un grande affare.

 

Ed è l’affare che i Repubblicani vorrebbero con tutto il cuore togliere di mezzo.

 

Con tutto quello che sta succedendo di recente nella politica americana, la deriva antiambientalista del Partito Repubblicano non ha avuto l’attenzione che merita. Invece su questo fronte è successo qualcosa di rilevante. Soltanto pochi anni fa, sembrava possibile essere repubblicani di buona reputazione ed anche seri ambientalisti; durante la campagna elettorale del 2008 John McCain metteva in guardia dai pericoli del riscaldamento globale e proponeva un sistema “cap-and-trade” [87] per le emissioni di carbonio. Oggi, tuttavia, la linea del Partito è che dovremmo non solo evitare nuove regolamentazioni ambientali ma anche riportare indietro le forme di protezione che già abbiamo.

Non sto esagerando: durante la battaglia sul tetto del debito, i Repubblicani cercarono di includere clausole che, come rivelò Time Magazine, avrebbero sostanzialmente impedito all’EPA e al Dipartimento degli Affari Interni di fare il proprio lavoro.

 

E, tra parentesi, potreste aver sentito resoconti relativi alla efficacia (delle nuove regole) che per John Huntsman [88] sarebbe diversa. Egli, in effetti, in una occasione egli disse: “Il pensiero conservatore è … conservativo. Io non mi vergogno di essere un conservazionista”. Non è importante: anche lui è ormai stato assimilato dall’universo Borg dell’antiambientalismo [89], che denuncia il “burocratico regno del terrore” dell’EPA e prevede che le nuove regole provocheranno blackout sin dalla prossima estate, il che sarebbe uno scherzo fantastico, se si considera che a quella data le nuove regole non saranno ancora entrate in funzione.

Più in generale, in ogni occasione nella quale sentirete previsioni terribili sugli effetti delle regole contro l’inquinamento, dovrete tenere a mente che interessi particolari sono sempre alla base di tali previsioni, e che essi sono sempre forti. Ad esempio, le imprese energetiche affermarono che le regole contro le piogge acide avrebbero distrutto l’offerta di elettricità e fatto schizzare i prezzi alle stelle; non avvenne niente del genere, ed il programma sulle piogge acide è diventato un esempio luminoso di come  ambientalismo e crescita economica possono andare mano nella mano.

 

Ma, ancora una volta, questo non conta: la opposizione imperterrita ai regolamenti che “ammazzano” il lavoro è oggi una componente di ciò che significa essere repubblicani. E devo ammettere che questo mette un po’ di sordina al mio umore: l’EPA ha appena fatto un’ottima cosa, ma se un repubblicano – un qualsiasi repubblicano – vincesse le elezioni dell’anno prossimo, uomo o donna che sia, sicuramente cercherà di disfare quest’ottima cosa.

Tuttavia, almeno per ora, coloro che si preoccupano per la salute dei loro concittadini, e in particolare dei bambini americani, hanno qualcosa da festeggiare.

 

 

 

 

Keynes Was Right

By PAUL KRUGMAN
Published: December 29, 2011

 “The boom, not the slump, is the right time for austerity at the Treasury.” So declared John Maynard Keynes in 1937, even as F.D.R. was about to prove him right by trying to balance the budget too soon, sending the United States economy — which had been steadily recovering up to that point — into a severe recession. Slashing government spending in a depressed economy depresses the economy further; austerity should wait until a strong recovery is well under way.

 

Unfortunately, in late 2010 and early 2011, politicians and policy makers in much of the Western world believed that they knew better, that we should focus on deficits, not jobs, even though our economies had barely begun to recover from the slump that followed the financial crisis. And by acting on that anti-Keynesian belief, they ended up proving Keynes right all over again.

 

In declaring Keynesian economics vindicated I am, of course, at odds with conventional wisdom. In Washington, in particular, the failure of the Obama stimulus package to produce an employment boom is generally seen as having proved that government spending can’t create jobs. But those of us who did the math realized, right from the beginning, that the Recovery and Reinvestment Act of 2009 (more than a third of which, by the way, took the relatively ineffective form of tax cuts) was much too small given the depth of the slump. And we also predicted the resulting political backlash.

 

So the real test of Keynesian economics hasn’t come from the half-hearted efforts of the U.S. federal government to boost the economy, which were largely offset by cuts at the state and local levels. It has, instead, come from European nations like Greece and Ireland that had to impose savage fiscal austerity as a condition for receiving emergency loans — and have suffered Depression-level economic slumps, with real G.D.P. in both countries down by double digits.

 

 

This wasn’t supposed to happen, according to the ideology that dominates much of our political discourse. In March 2011, the Republican staff of Congress’s Joint Economic Committee released a report titled “Spend Less, Owe Less, Grow the Economy.” It ridiculed concerns that cutting spending in a slump would worsen that slump, arguing that spending cuts would improve consumer and business confidence, and that this might well lead to faster, not slower, growth.

 

They should have known better even at the time: the alleged historical examples of “expansionary austerity” they used to make their case had already been thoroughly debunked. And there was also the embarrassing fact that many on the right had prematurely declared Ireland a success story, demonstrating the virtues of spending cuts, in mid-2010, only to see the Irish slump deepen and whatever confidence investors might have felt evaporate.

 

Amazingly, by the way, it happened all over again this year. There were widespread proclamations that Ireland had turned the corner, proving that austerity works — and then the numbers came in, and they were as dismal as before.

Yet the insistence on immediate spending cuts continued to dominate the political landscape, with malign effects on the U.S. economy. True, there weren’t major new austerity measures at the federal level, but there was a lot of “passive” austerity as the Obama stimulus faded out and cash-strapped state and local governments continued to cut.

 

Now, you could argue that Greece and Ireland had no choice about imposing austerity, or, at any rate, no choices other than defaulting on their debts and leaving the euro. But another lesson of 2011 was that America did and does have a choice; Washington may be obsessed with the deficit, but financial markets are, if anything, signaling that we should borrow more.

 

Again, this wasn’t supposed to happen. We entered 2011 amid dire warnings about a Greek-style debt crisis that would happen as soon as the Federal Reserve stopped buying bonds, or the rating agencies ended our triple-A status, or the superdupercommittee failed to reach a deal, or something. But the Fed ended its bond-purchase program in June; Standard & Poor’s downgraded America in August; the supercommittee deadlocked in November; and U.S. borrowing costs just kept falling. In fact, at this point, inflation-protected U.S. bonds pay negative interest: investors are willing to pay America to hold their money.

 

 

 

The bottom line is that 2011 was a year in which our political elite obsessed over short-term deficits that aren’t actually a problem and, in the process, made the real problem — a depressed economy and mass unemployment — worse.

The good news, such as it is, is that President Obama has finally gone back to fighting against premature austerity — and he seems to be winning the political battle. And one of these years we might actually end up taking Keynes’s advice, which is every bit as valid now as it was 75 years ago.

 

Keynes aveva ragione, di Paul Krugman

New York Times 29 dicembre 2011

 

“Il momento giusto perché il Tesoro metta in atto politiche di austerità è quello della espansione, non della crisi”. Così si pronunciò John Maynard Keynes nel 1937, proprio allorquando Franklin Delano Roosevelt  era in procinto di dargli ragione cercando di mettere troppo presto in equilibrio il bilancio e rispedendo l’economia degli Stati Uniti – che sino a quel punto aveva conosciuto una ripresa regolare – in un grave recessione. Ridurre la spesa pubblica in una economia depressa la deprime ulteriormente; per l’austerità si dovrebbe attendere che una solida ripresa sia già in atto.

Sfortunatamente, nell’ultima parte del 2010 ed agli inizi del 2011, gli uomini politici e i responsabili pubblici in gran parte del mondo occidentale hanno pensato di saperne di più, ovvero che ci si dovesse concentrare su deficit e non sui posti di lavoro, anche se le nostre economia avevano appena cominciato a riprendersi dalla depressione che era seguita alla crisi finanziaria. E, agendo sulla base di quel convincimento anti-keynesiano, hanno finito ancora una volta per dare ragione a Keynes.

Nel dichiarare la confermata giustezza della teoria economica keynesiana io sono, come è noto, in totale contrasto con l’opinione più diffusa. In particolare a Washington, l’insuccesso del pacchetto delle misure di sostegno di Obama nel produrre una espansione dell’occupazione viene generalmente considerato come la conferma che la spesa pubblica non può creare posti di lavoro. Ma coloro tra noi  che avevano fatto i conti avevano compreso, proprio sin dal primo momento, che il Recovery and Reinvestment Act del 2009 (più di un terzo del quale, sia detto per inciso, aveva la forma relativamente inefficace degli sgravi fiscali) era troppo piccolo, considerata la profondità della depressione. Ed avevano previsto il conseguente boomerang politico.

In questo senso, il vero e proprio test per la teoria economica keynesiana non è venuto tanto dal tentativo del governo federale degli Stati Uniti di dare un sostegno senza entusiasmo all’economia, peraltro bilanciandolo con tagli ai livelli degli Stati e degli enti locali. E’ venuto, piuttosto, da nazioni europee come la Grecia e l’Irlanda che hanno dovuto imporre una selvaggia restrizione delle finanza pubblica come condizione per ricevere prestiti di emergenza – ed hanno pagato il prezzo di una caduta dell’economia a livelli di depressione, con un crollo a due cifre del PIL reale in ambedue i paesi.

Sulla base dell’ideologia che imperversa nel dibattito politico dei nostri tempi, questo non era previsto che accadesse. Nel marzo del 2011, il gruppo di lavoro repubblicano all’interno della Commissione Congiunta sull’Economia del Congresso, aveva pubblicato un rapporto dal titolo “Meno spesa, meno debiti, economia in crescita”. In esso si mettevano in ridicolo le preoccupazioni secondo le quali tagliare la spesa pubblica in una situazione di crisi avrebbe peggiorato le cose, sostenendo che i tagli alla spesa pubblica avrebbero migliorato i consumi e la fiducia delle imprese, e che questo avrebbe portato ad una crescita più rapida e non certo più lenta.

Già a quel momento avrebbero dovuto saperne di più: i pretesi esempi storici di una “austerità espansiva” che essi utilizzavano per sostenere la loro tesi erano già stati del tutto destituiti di fondamento. C’era stata anche la imbarazzante circostanza per la quale molti a destra, sulla metà del 2010, a dimostrazione delle virtù dei tagli alla spesa pubblica, avevano prematuramente classificato l’Irlanda come una storia di successo, per poi dover constatare un peggioramento della crisi irlandese, nonché lo svanire di ogni sentimento di fiducia tra gli investitori.

La qualcosa, per inciso, è incredibilmente accaduta di nuovo quest’anno. C’erano stati proclami generali secondo i quali l’Irlanda aveva finalmente risalito la china, a conferma della bontà dell’austerità – dopodiché sono arrivati i numeri, penosi come quelli precedenti.

Tuttavia l’insistenza per tagli immediati alla spesa pubblica ha continuato a dominare il paesaggio politico, con effetti maligni sull’economia americana. E’ vero, non ci sono state nuove importanti misure di austerità al livello federale, ma c’è stata un bel po’ di austerità “passiva” dal momento che sono svaniti gli effetti delle misure di sostegno di Obama e sono proseguiti i tagli dei governi statali e locali in dissesto.

Ora, si può ritenere che la Grecia e l’Irlanda non avessero altra scelta se non imporre l’austerità, o, perlomeno, nessuna altra scelta se non l’inadempienza sui loro debiti e l’abbandono dell’euro. Ma un’altra lezione del 2011 è stata che l’America aveva ed ha una possibilità; Washington può essere ossessionata dal deficit, ma i mercati finanziari stanno, semmai, segnalando che dovremmo ricorrere maggiormente al prestito.

Anche questo non si era supposto che accadesse. Siamo entrati nel 2011 in mezzo a terribili ammonimenti sul fatto che una crisi da debito sul modello della Grecia sarebbe intervenuta nel momento in cui la Federal Reserve avesse cessato di acquistare obbligazioni, oppure allorquando le agenzie di rating avessero revocato il nostro status da’ tripla A’, ovvero quando la potentissima supercommissione [90] non fosse riuscita a raggiungere un accordo, o cose del genere. Invece la Fed ha interrotto i suoi programmi di acquisto dei bonds a giugno; Standard&Poor ha declassato l’America in agosto; la supercommissione è arrivata a novembre ad un punto morto; e i costi dell’indebitamento americano hanno semplicemente continuato a diminuire. Di fatto, a questo punto, i bonds statunitensi indicizzati dall’inflazione pagano un interesse negativo: gli investitori sono disposti a pagare perché l’America conservi i loro soldi.

La morale della storia è che il 2012 è stato un anno nel quale le nostre classi dirigenti sono rimaste ossessionate da deficit a breve termine che non costituivano, in effetti, alcun problema mentre, nel suo svolgersi, ha peggiorato gli effettivi problemi di una economia depressa e di una disoccupazione di massa.

 

La buona notizia, a quanto pare, è che il Presidente Obama è tornato finalmente a battersi contro la prematura austerità, e sembra che stia vincendo la sua battaglia politica. Prima o poi, noi potremmo effettivamente finire col far nostro il consiglio di Keynes, che in tutti i suoi aspetti è valido oggi come 75 anni orsono

 

 

 

 



[1] Per un ritratto dell’impegno e delle competenze della signora Warren, si può leggere il primo articolo del file “Krugman. Periodo 12”, dal titolo “La battaglia sulla Warren”.

[2] Il significato di “independent” è anche quello di “non dipendere da contributi e finanziamenti pubblici”.

[3] La curva di Laffer è una ‘curva a campana’ che mette in relazione l’aliquota di imposta con le entrate fiscali. Fu impiegata da Arthur Laffer, economista dell’University of Southern California (California meridionale, Usa) per convincere l’allora candidato repubblicano alle presidenziali del 1980, Ronald Reagan, a diminuire le imposte dirette. Pare che, nel corso di un pranzo in un ristorante, gli avesse disegnato la ‘curva’ su un foglietto, impressionandolo fortemente!

[4] “Politics” è la politica dei partiti nelle sedi istituzionali della società e in un paese; “policy” la politica in quanto “principi o azioni adottate o proposte da una organizzazione o da un individuo”. Ovvero, nel linguaggio ordinario, la differenza tra la ‘cattiva politica’ e quella buona.

[5] La moneta israeliana, ovvero il “siclo” o “nuovo siclo”.

[6] Lett. : “it trumps standing up for …” = ” … sorpassa il lottare per ..”.

[7] Ventiseiesimo Presidente degli Stati Uniti, nel 1901 (a seguito della uccisione del Presidente William McKinley, di cui era vice) e successivamente nel 1904. Assai attivo anche successivamente agli incarichi presidenziali, arrivò a fondare un “terzo partito” nel 1912, l’unico terzo partito che nella storia americana abbia avuto una qualche importanza (nelle elezioni del 1912 il suo “Partito Progressista” ebbe meno consensi dei Democratici, ma più dei Repubblicani). Repubblicano, artefice di una politica sociale riformatrice ed anche di politiche ambientali innovative, populista, inventore di neologismi (oltre a quello nel testo, ad esempio, coniò l’espressione di “muckraker” – “spalaletame” – per un certo giornalismo dell’epoca).

[8] “potential good will” è la “potenziale buona disponibilità” della gente; dunque la credibilità di chi la riceve.

[9] Uno dei significati di “weigh in” è, informalmente, “dare un energico contributo ad una competizione o ad una tesi”.

[10] La “norma-Volcker” è una proposta dell’ex Presidente della Fed Paul Volcker – nominato da Obama presidente del Comitato di Consulenza per la Ripresa Economica nel febbraio del 2009 – relativa a quanto si spiega nel testo.

[11] “to go viral”, lett. “diventare/avere conseguenze virali”, cioè avere vasta diffusione.

[12] Oliver Wendell Holmes, (18091894) è stato un medico, insegnante e scrittore statunitense.

[13] Will e Limbaugh sono presentatori radiotelevisivi.

[14] “Masters of the Universe” – i signori dell’Universo – è probabilmente una espressione corrente a seguito della enorme fortuna che negli anni ’80 ebbe una serie di giocattoli di personaggi pseudo mitici che ebbe grande fortuna tra i bambini americani.

[15] John Galt (da non confondere con un omonimo scrittore scozzese) dovrebbe essere il personaggio di un romanzo di Ayn Rand, un ingegnere-inventore-self made man che prima inventa un motore straordinario e poi viene via da una fabbrica i cui proprietari avevano in mente regole troppo collettivistiche, per dar vita ad un movimento anticollettivistico e venire successivamente arrestato e addirittura torturato.  L’ossessione americana contro il collettivismo è tale che non sono rari casi letterari del genere, dove si immaginano situazioni apertamente inverosimili. Ma nell’editoriale Galt è prototipo di un difensore dei principi buoni del capitalismo.

[16] Il “mago” della Apple recentemente deceduto.

[17] “with few strings attached” significa “senza limitazioni” (“senza coda di conseguenze”).

[18] “sliming” è  il gettare melma (o bava) su altri.

[19] Ovvero, il luogo nel quale comincia il racconto di Lewis Carrol “Alice nel paese delle meraviglie”.

[20] Una “corporation” americana nel settore degli  istituti finanziari “ombra”.

[21] “villain”, il “cattivo soggetto”.

[22] Altro personaggio di “Alice”: il gatto del Cheshire, nella versione italiana tradotto con “Stregatto”.

[23] Rick Perry, Governatore del Texas ed uno dei candidati repubblicani in lizza alle primarie per le elezioni presidenziali del 2012, va famoso per la capigliatura fluente (altrove Krugman lo definì “Bellachioma”).

[24] Sono gli altri candidati al momento più favoriti. Romney è l’ex Governatore repubblicano del Massachusetts; Cain un imprenditore di colore – il fondatore di “The Godfather Pizza” –  che al momento pare nella miglior posizione nei sondaggi.

[25] “outrage constraint” – lett. “obbligo della indignazione” – è una espressione tecnica non facilmente traducibile, che sembra avere il carattere di una sorta di istituto di prassi o para giuridico e che si trova in studi sull’argomento dei pagamenti degli amministratori delegati delle imprese. Ad esempio, quello dei professori Bebchuck e Fried sulal rivista Michigan Law Review del maggio del 2005.

[26] “to trickle down” significa “colare goccia a goccia verso il basso”. Il termine ha la sua storia, tant’è che una politica economica del “trickle down” era il modo in cui frequentemente ci si riferiva al reaganismo.

[27] Il precedente Herman Cain, come Rick Perry e Mitt Romney, sono al momento i principali candidati impegnati nella procedura delle primarie del Partito Repubblicano.

[28] Una “trade association” è una organizzazione creata dalle imprese di uno specifico settore industriale, la quale opera in attività quali consulenze, formazione, donazioni politiche, lobbying, editoria.

[29] Il “moltiplicatore” è l’effetto per il quale investimenti che creano posti di lavoro aggiuntivi comportano incrementi occupazionali indiretti, in conseguenza di una crescita della domanda aggregata determinata dai nuovi occupati. L’idea fu elaborata negli anni ’30 con la Teoria Generale di Keynes e con la collaborazione dell’economista suo allievo Richard Kahn, in quel  caso il riferimento era agli effetti derivanti da nuovi posti di lavoro creati attraverso un incremento della spesa pubblica.

[30] Nel 2003 Romney era Governatore del Massachusetts.

[31] Da almeno due anni le Persone Molto Serie – con la maiuscola – sono per Krugman tutti coloro che distribuiscono ricette di austerità e di immediato taglio dei deficit, in una crisi caratterizzata dal crollo della domanda, da tassi di interesse bassi (almeno nei paesi come gli USA, l’Inghilterra, il Giappone o la Germania, che possono disporre di una politica monetaria autonoma, ovvero che hanno una moneta nazionale) e da una inflazione anch’essa bassa. Anche detti “austerians”, ovvero i patiti dell’austerità.

[32] Letteralmente “pratfalls” sono le “natiche”. Anche nel senso di “culate” (come nella frase “I went rollerblading too, but after all those pratyfalls I’m never going again” = “Andavo a pattinare, ma dopo tutte quelle culate non ci vado più”). Ci teniamo si una traduzione più rispettosa.

[33] Il “bank ran” o ’assalto agli sportelli, come si sa, è la decisione di tutti coloro che detengono depositi di ritirarli dinanzi a notizie di possibile insolvenza delle banche, con il che tale contemporanea pretesa induce al default l’intero sistema finanziario.

[34] Esponente del Partito Repubblicano americano.

[35] Il termine inglese “fiscal”, diversamente dall’analogo italiano “fiscale”, non indica soltanto qualcosa che attiene al pagamento o alla riscossione delle tasse, ma più in generale anche qualcosa che attiene alla finanza pubblica, all’utilizzo del denaro proveniente dalle tasse. In questo secondo caso, ovviamente, non può essere tradotto con “fiscale”. La “fiscal policy” non è solo la politica fiscale, ma più in generale la politica degli equilibri di bilancio e della spesa pubblica. Ciononostante, se la “fiscal policy” è in senso lato la “politica finanziaria”, essa non include gli aspetti che propriamente attengono alla politica monetaria. Ad esempio, gli acquisti di obbligazioni da parte di una Banca Centrale, o la svalutazione di una moneta, appartengono alla “monetary policy” e non alla “fiscal policy”. In pratica, la “fiscal policy” è tutto ciò che concerne l’esazione e l’utilizzo delle tasse dei contribuenti, mentre in italiano l’aggettivo “fiscale” riguarda soltanto la fase della contribuzione e non quella dell’utilizzo.

[36] Anche qua, proviamo a chiarire definitivamente. “Spending” è la spesa, ed in effetti può letteralmente significare sia la spesa del settore pubblico che di quello privato. Di solito, per corrispondere all’espressione italiana di “spesa pubblica” si precisa con il termine “government spending”, mentre la spesa privata dei consumatori e degli investimenti delle imprese è “private spending”. Ciononostante, quando si parla di “spending cuts” ci si riferisce implicitamente al “tagli della spesa pubblica”; se ci si riferisse, ad esempio, ai tagli della spesa di una azienda, sarebbe il contesto a chiarirlo.

[37] “not lack” è una doppia negazione, “non in mancanza di ..”.

[38] Più alla lettera, ‘Keynesiani degli armamamenti”; il termine guerrafondaio è un pochino più forte e di tradizione che per lo stesso Krugman risulterebbe imbarazzante.

[39] E’ il nome di una società californiana recentemente fallita, che operava nel settore delle energie alternative. Prima del definitivo fallimento, era stata fatta aggetto di aiuti pubblici.

[40] Sarebbe “la importanza percepita della fiducia dell’economia/del sistema delle imprese”; ma traduco con “fiducia attesa” perché ne linguaggio economico di Keynes il concetto è precisamente quello: il ruolo dei soggetti economici si misura nelle loro  ‘attese’ soggettive (di risparmio, di consumo, di profitto), che costituiscono variabili di fondamentale importanza. Che poi tale ‘fiducia attesa’ da parte delle imprese sia del tutto esagerata nella congiuntura attuale, è un’altra questione.

[41] Si consideri che nel linguaggio politico americano “populism”, che non può essere tradotto diversamente da “populismo”, non ha necessariamente lo stesso significato negativo che in italiano. E’ ‘populista’ una politica che in qualche modo rompe la separatezza tra istituzioni, partiti ed elettori; parla il linguaggio di questi ultimi, ammette un loro possibile ruolo diretto. Talvolta questo può essere esagerato e negativo, ma non sempre e necessariamente.

[42] Si tratta di un ufficio federale di sperimentata ‘indipendenza’, prezioso nel fornire studi e statistiche attinenti le problematiche e gli ‘effetti’ della attività di governo.

[43] La traduzione del termine “middle-class” mette inevitabilmente a confronto due diverse storie della cultura politica. Nella cultura politica americana “classe-media” è ideologia, progetto ed anche storia effettiva degli Stati Uniti. L’ultimo aspetto è particolarmente rilevante, nel senso che la storia reale americana si muove effettivamente, e in particolare così è letta, verso i due poli di una maggiore eguaglianza o di una maggiore diseguaglianza (nel primo caso, naturalmente, il New Deal ma anche gli anni successivi alla seconda guerra mondiale, compresa la Presidenza Eisenhower; nel secondo, il periodo precedente e successivo alla Prima Guerra Mondiale e quello comprendente Reagan ed i Bush). Il fatto che si realizzi o meno il paradigma di una società di “middle-class” è un metro di misura utilizzato, naturalmente in modo più o meno coerente, sia dalla destra che dalla sinistra americana. In italiano il singolare “classe media” non potrebbe avere quel significato ideologico e progettuale, ed anche l’espressione sociologicamente più cauta di “ceto medio”, non a caso, spesso è utilizzata nella versione al plurale. Del resto, nessuna traduzione può dar conto contestualmente di queste diversità.

[44] Negli Stati Uniti la strada dell’istruzione universitaria si imbocca dal college, al termine della high school, che equivale al nostro liceo. Da quel momento sono tre i passaggi che portano al “Ph. D.” (dal latino Philosophiae Doctor), il titolo di studio più qualificato, che corrisponde al dottorato. Il primo livello di istruzione universitaria dopo il diploma di scuola superiore è rappresentato dai corsi a livello undergraduate che possono avere durata biennale e quadriennale. I primi due anni hanno un valore propedeutico, mentre gli ultimi sono quelli della specializzazione. Il titolo di studio concesso dal college è il “Bachelor” (“Bachelor of arts” per le materie umanistiche, “Bachelor of science” per quelle scientifiche, oppure “Bachelor’s degree” per l’amministrazione, l’architettura, la giurisprudenza, la pedagogia e così via).

Esistono poi l’Associate of Applied science o altri titoli di associate denominati con la disciplina di specializzazione che mirano all’occupazione immediata in ambito tecnico o semiprofessionale. Questi corsi sono focalizzati sulla disciplina scelta e poco adatti a proseguire gli studi. I College biennali offrono spesso studi orientati ad acquisire specifiche competenze lavorative attestati al termine con Certificates o Diplomas.

Tutto ciò considerato, l’espressione usata nell’articolo (“college degrees”) può essere tradotta con “corsi di preparazione professionale di livello universitario”, purché sia chiaro che per “livello universitario” si intende soltanto “successivo alla scuola secondaria superiore”, giacché in quei casi raramente si procede oltre.

 

[45] Il riferimento è ad una delle forme possibili di pagamento della assicurazione sanitaria, a carico diretto delle aziende. La tendenza delle aziende ad evitare quel costo, che presumibilmente viene concordato in contratti di lavoro aziendali o locali, è uno degli aspetti che incide concretamente nella condizione dei lavoratori americani e, non a caso, è uno degli aspetti presi in considerazione dalla riforma di Obama. Che però non è ancora in funzione in ogni suo aspetto ed è oggetto di una iniziativa repubblicana di abrogazione.

[46] Ci si riferisce al movimento di protesta di questi mesi, l’ Occupy Wall Street.

[47] Ovvero, di quel segmento nella scala percentuale.

[48] E’ un testo universitario di base di economia.

[49] Un governo “pick winners” è un governo che “sceglie i vincitori”.

[50] Vedi nota 39 all’editoriale del 30 ottobre 2011.

[51] Ovvero, come si è capito, Medicare Advantage è un particolare sottoprogramma di Medicare, che opera a vantaggio di chi lo sceglie e, probabilmente di anziani che hanno maggiore autonomia finanziaria. Ma, al contrario del nome, non sembra fornire particolari vantaggi.

[52] Come si comprende, la pantomima iniziale simula l’incredulità dinanzi ad una supercommissione bipartizan, che a tutt’oggi somiglia ad un indecifrabile  oggetto spaziale.

[53] “Social Security” è il nome del programma previdenziale del Governo Federale.

[54] Nati intorno al 1940 per aiutare le famiglie povere, i Food Stamps somigliano alle nostre social card. Servono per comprare cibo e possono richiederli famiglie a basso reddito, disoccupati o ragazze madri. Considerati un timbro di povertà, qualcosa di cui vergognarsi, finora non erano stati molto usati. La svolta è avvenuta nell’Ottobre del 2008, quando il programma di aiuti statale ha cambiato il nome e, in parte, lo scopo. Oggi i Food Stamps rientrano in un programma di assistenza (SNAP) che vuole aiutare gli americani a nutrire meglio i propri figli. Sono carte di credito come in Italia, ma utilizzabili solo nei negozi alimentari. A seconda dei componenti della famiglia e del reddito, il contributo può arrivare a 500 dollari mensili. Nel 2009 li hanno chiesti 36 milioni di americani, cioè  il 12% della popolazione, in pratica un bambino su quattro si nutre grazie agli aiuti. È un numero enorme, eppure altri 15 milioni di americani che ne avrebbero diritto non li chiedono.

[55] Le “unfunded wars” sono le guerre di Bush, che in pratica vennero decise sulla base di un meccanismo di finanziamento “a pié di lista”, nella sostanza contrario alle regole finanziarie degli Stati Uniti, nonché tale da comportare a consuntivo spese per definizione fuori controllo.

[56] Come ormai è noto, la “fata turchina della fiducia” è una delle curiose espressioni utilizzate da Krugman in questi anni, per definire l’armamentario delle logiche economiche conservatrici; significa che per la destra scelte economiche ulteriormente depressive dovrebbero favorire la ripresa, in quanto sarebbero magicamente suscettibili di provocare fiducia negli operatori economici. “Turchina” lo aggiungo io, per nostalgie collodiane. Un’altra espressione è quella dei “bonds vigilantes”, ovvero degli investitori che avrebbero dovuto far schizzare in alto i tassi di interesse nella loro funzione di ‘guardianaggio’ delle politiche economiche, e non l’hanno fatto (almeno in America, Giappone, Germania ed Inghilterra).  Un’altra ancora, coniata sin dall’epoca della “supply side economics” reaganiana è quella della “vodoo economics”, ovvero di ricette economiche basate sulla magia nera.

[57] Nella accezione più generale i “college graduates” corrispondono ai laureati. Si deve, però, considerare che la polemica nella quale Krugman nuovamente interviene – se la formazione scolastica sia stata il fattore principale della crescita delle diseguaglianze nei redditi – di solito non si riferisce ai laureati in generale, che ovviamente ci sono sempre stati, ma in particolare all’aumento di quegli “undergraduates” che seguono corsi di formazione successivi alle scuole medie superiori. Questi corsi di formazione superiore avvengono anch’essi in “colleges”, sono di accesso relativamente facile e di costo non elevato, hanno un elevato contenuto di professionalizzazione specifica è in sostanza preparano  i settori a più elevata formazione dei lavoratori americani. Vale a dire quei nuclei di lavoratori che sono nelle condizioni di operare, anche nella produzione, con adeguata competenza delle nuove tecnologie e con formazione generale flessibile. Secondo l’opinione di vari conservatori, le modifiche avvenute nella scala sociale americana sarebbero in gran parte derivate dal questa novità; Krugman ha da anni invece sostenuto che questa novità, pur rilevante, non ha granché modificato le ineguaglianze nella distribuzione del reddito, e la grande modifica è stata piuttosto provocata dall’enorme arricchimento dello 0,1 % dei ricchissimi americani.

[58] Il termine inglese “fiscal”, diversamente dall’analogo italiano “fiscale”, non indica soltanto qualcosa che attiene al pagamento o alla riscossione delle tasse, ma più in generale anche qualcosa che attiene alla finanza pubblica, all’utilizzo del denaro proveniente dalle tasse. In questo secondo caso, ovviamente, non può essere tradotto con “fiscale”. La “fiscal policy” non è solo la politica fiscale, ma più in generale la politica degli equilibri di bilancio e della spesa pubblica. Ciononostante, se la “fiscal policy” è in senso lato la “politica finanziaria”, essa non include gli aspetti che propriamente attengono alla politica monetaria. Ad esempio, gli acquisti di obbligazioni da parte di una Banca Centrale, o la svalutazione di una moneta, appartengono alla “monetary policy” e non alla “fiscal policy”. In pratica, la “fiscal policy” è tutto ciò che concerne l’esazione e l’utilizzo delle tasse dei contribuenti, mentre in italiano l’aggettivo “fiscale” riguarda soltanto la fase della contribuzione e non quella dell’utilizzo.

 

[59] Il celebre inventore ed imprenditore informatico recentemente deceduto.

[60] Internal Revenue Service, ovvero la “agenzia delle entrate” del governo federale degli Stati Uniti.

[61] Una sorta di  Ufficio Studi del Congresso degli Stati Uniti – efficiente, potente ed indipendente –  che opera principalmente su tematiche finanziarie attinenti al bilancio (ad esempio, simulazioni dei costi della legislazione)

[62] La assistenza sanitaria ed ospedaliera gratuita fornita del programma Medicare si applica in forma piena per gli americani che hanno superato I 65 anni di età. I criteri di ammissibilità (“eligibility requirements”)  prevedono inoltre situazioni di patologie particolari come I soggetti bisognosi di trattamenti in dialisi o che hanno ricevuto trapianti del rene. L’ampliamento del numero delle persone assistibili è stato uno dei temi della riforma sanitaria del Presidente Obama, ma non ha riguardato principalmente Medicare, quanto il contributo federale alle persone che non hanno redditi adeguati per pagarsi le assicurazioni private e l’ampliamento degli assistibili dall’altro programma federale per gli indigenti: Medicaid.  Il dibattito attuale concerne un elevamento dell’età di ingresso degli anziani in Medicare..

[63] La Fondazione è uno dei centri più attivi e potenti della destra americana.

[64] “To send in” – oltre il semplice significato si ‘spedire/inviare’-  può avere  il significato di “far impazzire”. Ovvero di essere costretti a qualcosa.  E’ solo una ipotesi.

[65] Herman Cain – imprenditore di colore, lobbista ed apparentemente favorito nella prima fase delle primarie repubblicane – ha deciso di “rivalutare” il suo impegno a seguito delle rivelazione di una relazione extraconiugale di lunga data.

[66] Nel senso che i meccanismi della riforma della assistenza sanitaria di Obama, come ha spesso ricordato Krugman e come spiega anche successivamente, sostanzialmente riecheggiano quelli di una precedente riforma attuata, nello stato del Massachusetts, dal dirigente repubblicano Mitt Romney, allora Governatore.

[67] Altro possibile candidato repubblicano. Dirigente di vecchia data di quel Partito, all’epoca di Clinton era il suo personaggio più in vista (per un certo periodo fu “speaker” della Camera dei Rappresentanti, impegnato in un lungo braccio di ferro con il Presidente democratico. anche allora sulla questione del ‘tetto’ del debito). Il riferimento alla sua storia personale, dipende dal fatto che venne in alcune occasioni fatto oggetto di procedimenti da parte della Commissione Etica della Camera, in particolare su aspetti di regolarità fiscale.

[68] Senatore repubblicano della Louisiana, fu al centro di uno scandalo per una storia di prostituzione.

[69] La Securities and Exchange Commission (Commissione per i Titoli e gli Scambi) è l’ente governativo statunitense preposto alla vigilanza della borsa valori, analogo all’italiana Consob.

[70] è la organizzazione più potente che si occupa di “predictions market”, vale a dire che stima la probabilità di eventi di ogni genere, ma soprattutto negli ambiti della politica e dell’economia. La stima avviene, per quanto possa sembrare un po’ incredibile, attraverso un meccanismo di acquisti e vendite di “partecipazioni”. Su ogni determinata domanda (ad esempio: quante probabilità avrà Obama di essere il futuro Presidente degli Stati Uniti?) ci sono solo due possibili risposte (“Si o no”) e le risposte si acquistano o si vendono secondo una semplice logica di convenienza (vendo se giudico probabile che le probabilità siano negative, acquisto se giudico  probabile che siano positive). Se la mia Intrade previsione si avvera, le “partecipazioni” che ho acquistato ottengono un profitto, naturalmente in proporzione a quante ne ho acquistate. In sostanza: un istituto di  previsioni che funziona a seguito della costruzione di uno specifico mercato delle previsioni stesse.

[71] Non so se sia una interpretazione corretta. Il termine “labor-backed” (“lavoro sostenuto”) compare in alcuni testi che si riferiscono a leggi federali o statali in materia di contratti di lavoro; arguisco che sia una tipologia di prestazioni e che “backed” sia una forma di sostegno …

[72] Il private equity è un’attività finanziaria mediante la quale un investitore istituzionale rileva quote di una società target (obiettivo) sia acquisendo azioni esistenti da terzi sia sottoscrivendo azioni di nuova emissione apportando nuovi capitali all’interno della target. Il Private equity include tutti gli investimenti in società non quotate su mercati regolamentati.

[73] Il leveraged buyout o LBO è una particolare tecnica di acquisizione di una società, che prevede la creazione di una società-veicolo (costituita ad hoc e detta NewCo). Fino al 2003 in Italia vi era un espresso divieto di porre in essere operazioni di LBO, poiché strumento di aggiramento per interposta persona (la NewCo) del divieto di sottoscrizione di azioni proprie (art.2357 c.c.) e del divieto di assistenza finanziaria per la sottoscrizione o l’acquisto di azioni proprie. Il leveraged buyout è stato espressamente reso lecito nell’ordinamento giuridico italiano a seguito della riforma del diritto societario del 2003, la quale ha permesso di superare i dubbi di legittimità che venivano sollevati sulla base del divieto, contenuto nel primo comma dell’art. 2358 c.c. che inibisce alle società di accordare prestiti o concedere finanziamenti per l’acquisto di proprie azioni.

[74] Il Movimento per una Ungheria Migliore (in ungherese: Jobbik Magyarországért Mozgalom – Jobbik) è un partito politico attivo in Ungheria dal 2003. Raccoglie le istanze che aveva fatto proprie il Partito Ungherese Giustizia e Vita (Magyar Igazság és Élet Pártja – MIÉP), fondato nel 1993 e dal 2006 pressoché scomparso dallo scenario politico. Il partito presenta una matrice nazional conservatrice, populista, nazionalista e di estrema destra. È stato accusato dai suoi avversari politici e da molti giornali occidentali di essere fascista e antisemita

Detiene 3 dei 22 seggi dei deputati europei ungheresi al Parlamento europeo.

 

 

[75] Fidesz – Unione Civica Ungherese (in Ungherese: Fidesz – Magyar Polgári Szövetség) è un partito politico ungherese, conservatore, populista e cristiano.

[76] Ovvero di quella altrimenti detta teoria marginalista (o ‘soggettivista’, secondo il giudizio più ideologico dei marxisti de secolo scorso), che ebbe come principali epigoni economisti di origine austriaca come Eugen Ritter von Böhm-Bawerk e Carl Menger, e come seguaci delle generazione immediatamente successiva Joseph Schumpeter e Ludwig von Mises.  In realtà, quella scuola non si compose solo di esponenti austriaci, ma anche francesi (Walras), italo-elvetici (Pareto) o svedesi (Wicksell). Krugman ha insistito, in questi anni, nel mettere in evidenza come in questa tendenza non possano essere   inclusi economisti della seconda metà del Novecento come il conservatore Milton Friedman, che erano ben diversamente consapevoli del ruolo in funzione anticiclica degli interventi monetari; anche se rigidamente ostili a politiche di spesa pubblica keynesiane.

[77] Suppongo si voglia riferire ai personaggi degli ambienti conservatori americani di cui ha detto in precedenza, e non ai teorici del secolo scorso.

[78] All’indomani della crisi finanziaria del 2008, negli Stati Uniti si è molto discusso del ruolo fondamentale – nella assunzione di rischi esagerati nel credito – di quella parte di “banche-non-banche” che avevano potuto sviluppare politiche di prestito spericolate per effetto degli ampi margini di profitto che avevano garantiti a seguito della mancanza di quelle regole che erano rimaste in vigore nelle banche tradizionali. In primo luogo, l’obbligo di mantenere quote determinate di depositi.

[79] E’ un tema sul quale Krugman aveva polemizzato nei mesi passati, ed è anche non facilmente comprensibile per la nostra cultura. A parte il fatto che nella frase sopra in riferimento a Romney è fatto in ipotesi, Romney ebbe a dire effettivamente che le “corporations” dovevano essere considerate come le persone. “Corporation” sta per “(grande) impresa” ed anche per “persona giuridica”. Quella affermazione – che le imprese-persone giuridiche devono essere considerate e  tutelate al pari delle persone fisiche – suppongo che da noi non avrebbe provocato tanto stupore. E’ probabilmente la conseguenza dell’enfasi della cultura politica americana sul diritto degli individui a prevalere su tutto quello che è collettivo ed organizzato. Dire che una impresa è come un individuo suona per loro inquietante, come dire che un settore della burocrazia è una cosa buona. Un po’ strano da intendere, se si considera che poi il lobbysmo delle corporazioni è poi ammesso alla stregua di un ‘diritto individuale’ !

[80]Forse si noterà che il termine “Mr” viene tradotto assai raramente. Nel linguaggio politico e giornalistico americano esso viene usato con una frequenza intraducibile in italiano. In lingua italiana si può dire “Signore” una prima volta per deferenza, dopodiché – soprattutto se si parla di una personalità nota – se ne fa a meno. Unica eccezione, quando il termine “signore” contenga l’implicita intenzione di indicare qualcosa di particolare (ad esempio, il comportamento riprovevole della persona alla quale ci si riferisce).

[81] Una rivista, un blog (ed un corrispondente Premio annuale) interamente dedicati alla verifica delle veridicità delle affermazioni degli uomini politici. Il Premio è alla “Bugia dell’anno”.

[82] “air toxics” è il termine tecnico con il quale si definiscono gli “air toxic pollutants”, ovvero le “emissioni inquinanti tossiche dell’aria”, dove l’aggettivo “toxic” si sostantivizza e diviene plurale, perché include il sostantivo “pollutants”.

[83] Environmental Protection Agency. E’ una Agenzia del Governo Federale che sovrintende alla legislazione ambientale, ovvero che si occupa del suo rispetto ma anche della sua implementazione.  Venne proposta dal Presidente Richard Nixon e divenne operativa nel 1970; ha circa 17.000 dipendenti.

[84] “mad as a hatter” si traduce normalmente con “matto da legare, matto come un cavallo”, ma letteralmente significa “matto come un produttore di cappelli” ed ha l’origine che Krugman spiega nell’articolo. Naturalmente, dobbiamo tradurre alla lettera, perché altrimenti non si capirebbe in che senso l’espressione sarebbe stata inventata due secoli fa, dato che i matti da legare c’erano anche prima dell’uso del mercurio.

[85] Particolato, particolato sospeso, pulviscolo atmosferico, polveri sottili, polveri totali sospese (PTS), sono termini che identificano comunemente l’insieme delle sostanze sospese in aria (fibre, particelle carboniose, metalli, silice, inquinanti liquidi o solidi). Il particolato è l’inquinante che oggi è considerato di maggiore impatto nelle aree urbane, ed è composto da tutte quelle particelle solide e liquide disperse nell’atmosfera, con un diametro che va da pochi nanometri fino ai 500 micron e oltre (cioè da miliardesimi di metro a mezzo millimetro).

[86] Un blog di una associazione ambientalistica.

[87] Il effetti il termine è traducibile, soltanto che perde tutto il vantaggio della sintesi …”sistemi di incentivo alla riduzione tramite permessi di emissione negoziabile”. Più letteralmente: “fissa un limite e commercia (i permessi)”.

[88] Impresario ed uomo politco repubblicano, già collaboratore di Reagan e di George Bush.

[89] Se Borg non è un altro uomo politico repubblicano – cosa impossibile, essendo indicato senza nome – il riferimento non può che essere  alla “razza” dei Borg, creature cibernetiche della serie Star Treck. In effetti è famoso lo slogan dei Borg:  “We are the Borg. Resistance is futile. You will be assimilated.”.

[90] Si tratta della commissione bipartizan alla quale il Congresso, su proposta dello stesso Obama, aveva affidato il compito di trovare entro il mese di novembre una copertura alle programmate riduzioni del deficit. Nel termine “superduper” il suffisso “duper” non significa propriamente niente, ed ha un effetto genericamente rafforzativo.

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