Articoli sul NYT

Articoli sul New York Times dal 1 gennaio 2012 al 6 maggio 2012

 

 

 

Nobody Understands DebtBy PAUL KRUGMAN

Published: January 1, 2012

In 2011, as in 2010, America was in a technical recovery but continued to suffer from disastrously high unemployment. And through most of 2011, as in 2010, almost all the conversation in Washington was about something else: the allegedly urgent issue of reducing the budget deficit.

 

This misplaced focus said a lot about our political culture, in particular about how disconnected Congress is from the suffering of ordinary Americans. But it also revealed something else: when people in D.C. talk about deficits and debt, by and large they have no idea what they’re talking about — and the people who talk the most understand the least.

Perhaps most obviously, the economic “experts” on whom much of Congress relies have been repeatedly, utterly wrong about the short-run effects of budget deficits. People who get their economic analysis from the likes of the Heritage Foundation have been waiting ever since President Obama took office for budget deficits to send interest rates soaring. Any day now!

 

And while they’ve been waiting, those rates have dropped to historical lows. You might think that this would make politicians question their choice of experts — that is, you might think that if you didn’t know anything about our postmodern, fact-free politics.

But Washington isn’t just confused about the short run; it’s also confused about the long run. For while debt can be a problem, the way our politicians and pundits think about debt is all wrong, and exaggerates the problem’s size.

 

Deficit-worriers portray a future in which we’re impoverished by the need to pay back money we’ve been borrowing. They see America as being like a family that took out too large a mortgage, and will have a hard time making the monthly payments.

This is, however, a really bad analogy in at least two ways.

First, families have to pay back their debt. Governments don’t — all they need to do is ensure that debt grows more slowly than their tax base. The debt from World War II was never repaid; it just became increasingly irrelevant as the U.S. economy grew, and with it the income subject to taxation.

 

Second — and this is the point almost nobody seems to get — an over-borrowed family owes money to someone else; U.S. debt is, to a large extent, money we owe to ourselves.

This was clearly true of the debt incurred to win World War II. Taxpayers were on the hook for a debt that was significantly bigger, as a percentage of G.D.P., than debt today; but that debt was also owned by taxpayers, such as all the people who bought savings bonds. So the debt didn’t make postwar America poorer. In particular, the debt didn’t prevent the postwar generation from experiencing the biggest rise in incomes and living standards in our nation’s history.

 

But isn’t this time different? Not as much as you think.

It’s true that foreigners now hold large claims on the United States, including a fair amount of government debt. But every dollar’s worth of foreign claims on America is matched by 89 cents’ worth of U.S. claims on foreigners. And because foreigners tend to put their U.S. investments into safe, low-yield assets, America actually earns more from its assets abroad than it pays to foreign investors. If your image is of a nation that’s already deep in hock to the Chinese, you’ve been misinformed. Nor are we heading rapidly in that direction.

 

 

Now, the fact that federal debt isn’t at all like a mortgage on America’s future doesn’t mean that the debt is harmless. Taxes must be levied to pay the interest, and you don’t have to be a right-wing ideologue to concede that taxes impose some cost on the economy, if nothing else by causing a diversion of resources away from productive activities into tax avoidance and evasion. But these costs are a lot less dramatic than the analogy with an overindebted family might suggest.

 

And that’s why nations with stable, responsible governments — that is, governments that are willing to impose modestly higher taxes when the situation warrants it — have historically been able to live with much higher levels of debt than today’s conventional wisdom would lead you to believe. Britain, in particular, has had debt exceeding 100 percent of G.D.P. for 81 of the last 170 years. When Keynes was writing about the need to spend your way out of a depression, Britain was deeper in debt than any advanced nation today, with the exception of Japan.

 

Of course, America, with its rabidly antitax conservative movement, may not have a government that is responsible in this sense. But in that case the fault lies not in our debt, but in ourselves.

So yes, debt matters. But right now, other things matter more. We need more, not less, government spending to get us out of our unemployment trap. And the wrongheaded, ill-informed obsession with debt is standing in the way.

 

Nessuno capisce il debito, di Paul Krugman

New York Times 1 gennaio 2012

 

Nel 2011, come nel 2010, l’America era tecnicamente in ripresa ma continuava a soffrire di una disoccupazione disastrosamente elevata. E per l’intero 2011, come per il 2010, quasi tutto il dibattito a Washington ha riguardato altro: il tema che si pretendeva improrogabile della riduzione del deficit del bilancio.

 

La fuorviante concentrazione su quel tema la diceva lunga sulla nostra cultura politica e, in particolare, su quanto il Congresso non sia in sintonia con le sofferenze degli americani comuni. Ma essa rivelava anche qualcos’altro: quando la gente a Washington parla di debito e di deficit, in linea di massima non ha idea di ciò di cui parla – e quelli che parlano di più sono quelli che ne capiscono di meno.

Come forse ci si doveva aspettare, gli “esperti” economici ai quali il Congresso si affida hanno sbagliato più volte e completamente sugli effetti a breve termine dei deficit di bilancio. La gente che deriva le proprie analisi dell’economia dai personaggi della Heritage Foundation aveva atteso sin dal momento in cui Obama era entrato in funzione perché il deficit del bilancio spedisse alle stelle i tassi di interesse. Ogni giorno poteva esser buono!

E nel mentre erano in attesa, quei tassi crollavano ai loro minimi storici. Potreste pensare che questo abbia aperto un interrogativo negli uomini politici a proposito degli esperti che si scelgono – o meglio, potreste pensarlo se non foste al corrente di cosa è diventata la nostra politica post-moderna, libera da ogni riscontro sui fatti.

Ma Washington non si è soltanto confusa sugli effetti a breve termine; si è anche confusa su quelli a lungo termine. Il fatto è che, se il debito può essere un problema, il modo nel quale i nostri uomini politici ed i nostri addetti ai lavori ragionano del debito è del tutto sbagliato, ed esagera l’entità del problema.

Gli ossessionati del debito ritraggono un futuro nel quale saremo impoveriti dalla necessità di restituire i soldi che abbiamo preso a prestito. Essi guardano all’America come ad una famiglia che abbia contratto un mutuo troppo grande e che avrà momenti difficili nel far fronte alle rate mensili.

Tuttavia, questa è una cattiva analogia, almeno in due sensi.

In primo luogo, le famiglie devono restituire il loro debito. I governi non devono farlo – tutto quello di cui hanno bisogno è che il debito cresca più lentamente della loro base fiscale. Il debito derivante dalla Seconda Guerra Mondiale non venne mai restituito; divenne semplicemente sempre meno rilevante dinanzi alla crescita dell’economia americana, e con essa del reddito soggetto alle imposte.

In secondo luogo – e questo è il punto che quasi nessuno sembra comprendere – una famiglia sovra-indebitata deve soldi a qualcun altro; il debito americano sono, in larga misura, soldi che dobbiamo a noi stessi.

Era evidentemente così a proposito del debito che fu necessario per vincere la Seconda Guerra Mondiale. I contribuenti erano in croce per un debito significativamente più elevato, come percentuale del PIL, rispetto al debito odierno;  ma quel debito era dovuto ad altri contribuenti, ad esempio a coloro che aveva acquistato buoni del Tesoro. In tal modo il debito non rese l’America postbellica più povera. In particolare, il debito non impedì alla generazione postbellica di conoscere la più grande crescita nei redditi e nei livelli di vita della storia della nostra nazione.

Ma i tempi non sono oggi diversi? Non quanto potete pensare.

 

E’ vero che oggi gli stranieri hanno ampi diritti negli Stati Uniti, inclusa una discreta somma di obbligazioni sul debito federale [1]. Ma il valore di ogni dollaro di obbligazioni straniere sull’America è bilanciato dal valore di 89 centesimi di obbligazioni americane sulle nazioni estere. E poiché gli stranieri tendono a collocare i loro investimenti negli Stati Uniti in assets sicuri a basso rendimento, l’America effettivamente guadagna di più dai suoi assets all’estero di quanto non paghi agli investitori stranieri. Se avete l’immagine di una nazione che è già stata data interamente in pegno ai cinesi, siete stati male informati. E neanche ci stiamo dirigendo rapidamente in quella direzione.

Ora, il fatto che il debito federale non sia affatto simile ad un mutuo per il futuro dell’America non significa che il debito sia innocuo. Si devono imporre tasse per pagare gli interessi, e non è necessario essere ideologi della destra per ammettere che le tasse comportano un qualche costo all’economia, se non altro perché provocano una distrazione di energie dalle attività produttive alla elusione ad alla evasione [2].  Ma questi costi sono molto meno drammatici di quanto l’analogia con un famiglia sovra indebitata potrebbe suggerire.

E questa è la ragione per la quale governi stabili e responsabili – vale a dire, governi che sanno imporre tasse leggermente superiori quando la situazione lo richiede – sono stati storicamente capaci di convivere con livelli di debito assai più elevati di quanto l’odierna convenzionale saggezza[3] spingerebbe a credere. L’Inghilterra, in particolare, ha avuto un debito eccedente il 100 per cento del PIL per 81 degli ultimi 170 anni. Quando Keynes scriveva a proposito dell’uso della spesa pubblica per uscire dalla depressione, l’Inghilterra si trovava con un debito più profondo di qualsiasi altra nazione avanzata dei nostri giorni, ad eccezione del Giappone.

 

Ovviamente, l’America con il suo movimento conservatore rabbiosamente anti-tasse, potrebbe non avere un governo responsabile di quel genere. Ma in quel caso la colpa non sarebbe del debito, bensì di noi stessi.  

 

 Dunque, è vero, il debito è importante. Ma in questo momento contano di più altre cose. Abbiamo bisogno di maggiore, non di minore, spesa pubblica per tirarci fuori dalla trappola di liquidità. E la fuorviante e inattendibile ossessione del debito costituisce un ostacolo.

 

 

 

Bain, Barack and Jobs

By PAUL KRUGMAN
Published: January 5, 2012

America’s recovery from recession has been so slow that it mostly doesn’t seem like a recovery at all, especially on the jobs front. So, in a better world, President Obama would face a challenger offering a serious critique of his job-creation policies, and proposing a serious alternative.

Instead, he’ll almost surely face Mitt Romney.

Mr. Romney claims that Mr. Obama has been a job destroyer, while he was a job-creating businessman. For example, he told Fox News: “This is a president who lost more jobs during his tenure than any president since Hoover. This is two million jobs that he lost as president.” He went on to declare, of his time at the private equity firm Bain Capital, “I’m very happy in my former life; we helped create over 100,000 new jobs.”

 

 

But his claims about the Obama record border on dishonesty, and his claims about his own record are well across that border.

Start with the Obama record. It’s true that 1.9 million fewer Americans have jobs now than when Mr. Obama took office. But the president inherited an economy in free fall, and can’t be held responsible for job losses during his first few months, before any of his own policies had time to take effect. So how much of that Obama job loss took place in, say, the first half of 2009?

 

The answer is: more than all of it. The economy lost 3.1 million jobs between January 2009 and June 2009 and has since gained 1.2 million jobs. That’s not enough, but it’s nothing like Mr. Romney’s portrait of job destruction.

 

Incidentally, the previous administration’s claims of job growth always started not from Inauguration Day but from August 2003, when Bush-era employment hit its low point. By that standard, Mr. Obama could say that he has created 2.5 million jobs since February 2010.

 

So Mr. Romney’s claims about the Obama job record aren’t literally false, but they are deeply misleading. Still, the real fun comes when we look at what Mr. Romney says about himself. Where does that claim of creating 100,000 jobs come from?

Well, Glenn Kessler of The Washington Post got an answer from the Romney campaign. It’s the sum of job gains at three companies that Mr. Romney “helped to start or grow”: Staples, The Sports Authority and Domino’s.

 

Mr. Kessler immediately pointed out two problems with this tally. It’s “based on current employment figures, not the period when Romney worked at Bain,” and it “does not include job losses from other companies with which Bain Capital was involved.” Either problem, by itself, makes nonsense of the whole claim.

On the point about using current employment, consider Staples, which has more than twice as many stores now as it did back in 1999, when Mr. Romney left Bain. Can he claim credit for everything good that has happened to the company in the past 12 years? In particular, can he claim credit for the company’s successful shift from focusing on price to focusing on customer service (“That was easy”), which took place long after he had left the business world?

 

 

Then there’s the bit about looking only at Bain-connected companies that added jobs, ignoring those that reduced their work forces or went out of business. Hey, if pluses count but minuses don’t, everyone who spends a day playing the slot machines comes out way ahead!

In any case, it makes no sense to look at changes in one company’s work force and say that this measures job creation for America as a whole.

Suppose, for example, that your chain of office-supply stores gains market share at the expense of rivals. You employ more people; your rivals employ fewer. What’s the overall effect on U.S. employment? One thing’s for sure: it’s a lot less than the number of workers your company added.

Better yet, suppose that you expand in part not by beating your competitors, but by buying them. Now their employees are your employees. Have you created jobs?

The point is that Mr. Romney’s claims about being a job creator would be nonsense even if he were being honest about the numbers, which he isn’t.

At this point, some readers may ask whether it isn’t equally wrong to say that Mr. Romney destroyed jobs. Yes, it is. The real complaint about Mr. Romney and his colleagues isn’t that they destroyed jobs, but that they destroyed good jobs.

When the dust settled after the companies that Bain restructured were downsized — or, as happened all too often, went bankrupt — total U.S. employment was probably about the same as it would have been in any case. But the jobs that were lost paid more and had better benefits than the jobs that replaced them. Mr. Romney and those like him didn’t destroy jobs, but they did enrich themselves while helping to destroy the American middle class.

 

 

And that reality is, of course, what all the blather and misdirection about job-creating businessmen and job-destroying Democrats is meant to obscure.

 

La Bain, Obama e i posti di lavoro, di Paul Krugman

New York Times 5 gennaio 2012

La ripresa dell’America dalla recessione è stata così lenta che fondamentalmente non sembra affatto una ripresa, specialmente sul fronte dei posti di lavoro. Così, in un mondo migliore, il Presidente Obama dovrebbe fronteggiare uno sfidante capace di offrire una critica seria alle sue politiche per la creazione di posti di lavoro, e di proporre una alternativa seria.

Quasi sicuramente, invece, dovrà vedersela con Mitt Romney.

Romney sostiene che Obama è stato un distruttore di posti di lavoro, mentre lui ne avrebbe creati  come impresario. Ha detto, per esempio a Fox News: “Questo è un Presidente che ha perso più posti di lavoro durante il suo mandato di tutti gli altri presidenti dall’epoca di Hoover. Voglio dire, ne ha persi due milioni mentre era Presidente”. Ed ha proseguito dichiarando, a proposito del suo periodo nell’impresa di private equity [4]  Bain Capital, “Sono soddisfatto della mia attività precedente; abbiamo contribuito a creare oltre 100.000 nuovi posti di lavoro”.

Ma le sue affermazioni su Obama confinano con la disonestà, mentre quelle sulle sue prestazioni vanno ben oltre quel limite.

 

Cominciamo con il record di Obama. E’ vero che 1 milione e 900 mila americani in meno hanno il lavoro oggi, rispetto a quando Obama entrò in carica, Ma il Presidente ereditò un’economia in caduta libera, e non può essere ritenuto responsabile per la perdita dei posti di lavoro durante i suoi primi pochi mesi, prima che una qualsiasi delle sue politiche avesse il tempo di produrre effetti. Dunque, quanto di quella perdita di posti di lavoro attribuita ad Obama è intervenuta, diciamo, nella prima metà del 2009?

La risposta è: una parte ben superiore al tutto. L’economia perse 3 milioni e 100 mila posti di lavoro tra gennaio del 2009 e giugno del 2009, e da allora ha riguadagnato un milione e 200 mila posti di lavoro. Non è abbastanza, ma è tutt’altra cosa dall’immagine di  distruzione di posti di lavoro che ne ha fatto Romney.

Per inciso, le pretese della precedente amministrazione relativamente ad una crescita di posti di lavoro sono sempre partite non dall’ Inauguration Day [5] ma dall’agosto del 2003, quando l’occupazione degli anni di Bush toccò il suo punto più basso. Con quel metodo, Obama potrebbe dire di aver creato 2 milioni e 500 mila posti di lavoro dal febbraio del 2010.

Dunque, le affermazioni di Romney a proposito del record di Obama in materia di lavoro non sono false alla lettera, ma sono del tutto ingannevoli. Tuttavia, la parte davvero divertente viene quando si guarda a quello che Romney ha detto di se stesso. Da dove viene la pretesa di aver creato 100.000 posti di lavoro?

Ebbene, Glenn Kessler del Washington Post ha ottenuto una risposta nel corso della campagna presidenziale di Romney. Si tratta della somma dei posti di lavoro guadagnati di tre imprese che il signor Romney ha “aiutato a decollare o a crescere”: la Staples, la The Sports Authority e la Domino’s.

Kessler ha subito messo in evidenza due problemi in quel conteggio. Esso è “basato sui dati attuali dell’occupazione, non su quelli relativi al periodo in cui egli lavorò alla Bain” e “non comprende le perdite di posti di lavoro da parte di altre società delle quali Bain Capital si era occupata”. Entrambi quegli aspetti, da soli tolgono ogni senso all’intera pretesa.

Per quanto riguarda l’utilizzo dei dati sull’occupazione attuale, si consideri la Staples, che ha più del il doppio dei negozi che aveva nel passato 1999, quando il signor Romney lasciò la Bain. Può egli pretendere un riconoscimento per tutte le cose buone che sono accadute a quella società nei 12 anni trascorsi? In particolare, può pretendere un riconoscimento per il cambiamento di successo, operato da quella società passando dal concentrarsi sui prezzi al concentrarsi sui servizi alla clientela (“Quello fu facile”), che avvenne dopo che Romney aveva lasciato il mondo degli affari?

 

C’è poi l’aspetto relativo al guardare solo agli incrementi di occupazione nelle società collegate alla Bain, ignorando quelle che hanno ridotto le forze di lavoro o sono uscite dagli affari. Ehi, se contano i più ma non contano i meno, verrebbe fuori che  quelli che passano le giornate giocando alle slot machines sono i più avanti di tutti!

In ogni caso è un nonsenso guardare ai mutamenti nell’occupazione di una impresa ed affermare che questa è una misura della creazione di posti di lavoro per l’America nel suo complesso.

Si supponga, ad esempio, che la vostra catena di negozi di materiale per uffici aumenti la sua quota di mercato a danno dei rivali. Voi occupate più gente, i vostri rivali di meno. Qual’è l’effetto generale per l’occupazione degli Stati Uniti? Una cosa è certa: è inferiore al numero di nuovi occupati nella vostra impresa.

Meglio ancora, si supponga che in una certa misura voi siate cresciuti non sconfiggendo i vostri competitori, ma acquistando le loro società. Ora i loro occupati sono vostri occupati. Avete creato posti di lavoro?

Il punto è che la pretesa del signor Romney di essere un creatore di posti di lavoro non starebbe in piedi anche se fosse onesto con i numeri, il che non è.

 

A questo punto, alcuni lettori potrebbero chiedere se non sia altrettanto sbagliato affermare che Romney abbia distrutto posti di lavoro. Si, è così. L’effettiva denuncia, a proposito di Romney e dei suoi colleghi, non riguarda l’aver distrutto posti di lavoro, ma l’averne distrutti di buoni.

Quando tutti i giochi erano fatti [6] dopo che le imprese che la Bain aveva ristrutturato erano state ridimensionate – o, come accadeva anche troppo spesso, erano finite in bancarotta – l’occupazione totale degli Stati Uniti era probabilmente grosso modo la stessa che sarebbe stata in ogni caso. Ma posti di lavoro pagati di più e con maggiori sussidi, avevano rimpiazzato altri posti di lavoro. Il signor Romney e quelli come lui non avevano distrutto posti di lavoro, ma si erano arricchiti dando una mano a distruggere la classe media americana.

 

Ed è quella la realtà che tutte le chiacchiere e i depistaggi sugli impresari che creano lavoro ed i Democratici che lo distruggono, hanno avuto lo scopo di oscurare.

 

 

 

 

 

 

 

 

America’s Unlevel Field

By PAUL KRUGMAN
Published: January 8, 2012
  •  Last month President Obama gave a speech invoking the spirit of Teddy Roosevelt on behalf of progressive ideals — and Republicans were not happy. Mitt Romney, in particular, insisted that where Roosevelt believed that “government should level the playing field to create equal opportunities,” Mr. Obama believes that “government should create equal outcomes,” that we should have a society where “everyone receives the same or similar rewards, regardless of education, effort and willingness to take risk.”

As many people were quick to point out, this portrait of the president as radical redistributionist was pure fiction. What hasn’t been as widely noted, however, is that Mr. Romney’s picture of himself as a believer in a level playing field is just as fictional. Where is the evidence that he or his party cares at all about equality of opportunity?

Let’s talk for a minute about the actual state of the playing field.

Americans are much more likely than citizens of other nations to believe that they live in a meritocracy. But this self-image is a fantasy: as a report in The Times last week pointed out, America actually stands out as the advanced country in which it matters most who your parents were, the country in which those born on one of society’s lower rungs have the least chance of climbing to the top or even to the middle.

And if you ask why America is more class-bound in practice than the rest of the Western world, a large part of the reason is that our government falls down on the job of creating equal opportunity.

The failure starts early: in America, the holes in the social safety net mean that both low-income mothers and their children are all too likely to suffer from poor nutrition and receive inadequate health care. It continues once children reach school age, where they encounter a system in which the affluent send their kids to good, well-financed public schools or, if they choose, to private schools, while less-advantaged children get a far worse education.

 

 

Once they reach college age, those who come from disadvantaged backgrounds are far less likely to go to college — and vastly less likely to go to a top-tier school — than those luckier in their parentage. At the most selective, “Tier 1” schools, 74 percent of the entering class comes from the quarter of households that have the highest “socioeconomic status”; only 3 percent comes from the bottom quarter.

 

And if children from our society’s lower rungs do manage to make it into a good college, the lack of financial support makes them far more likely to drop out than the children of the affluent, even if they have as much or more native ability. One long-term study by the Department of Education found that students with high test scores but low-income parents were less likely to complete college than students with low scores but affluent parents — loosely speaking, that smart poor kids are less likely than dumb rich kids to get a degree.

 

 

It’s no wonder, then, that Horatio Alger stories, tales of poor kids who make good, are much less common in reality than they are in legend — and much less common in America than they are in Canada or Europe. Which brings me back to those, like Mr. Romney, who claim to believe in equality of opportunity. Where is the evidence for that claim?

 

Think about it: someone who really wanted equal opportunity would be very concerned about the inequality of our current system. He would support more nutritional aid for low-income mothers-to-be and young children. He would try to improve the quality of public schools. He would support aid to low-income college students. And he would support what every other advanced country has, a universal health care system, so that nobody need worry about untreated illness or crushing medical bills.

 

If Mr. Romney has come out for any of these things, I’ve missed it. And the Congressional wing of his party seems determined to make upward mobility even harder. For example, Republicans have tried to slash funds for the Women, Infants and Children program, which helps provide adequate nutrition to low-income mothers and their children; they have demanded cuts in Pell grants, which are designed to help lower-income students afford college.

 

And they have, of course, pledged to repeal a health reform that, for all its imperfections, would finally give Americans the guaranteed care that everyone else in the advanced world takes for granted.

 

So where is the evidence that Mr. Romney or his party actually believes in equal opportunity? Judging by their actions, they seem to prefer a society in which your station in life is largely determined by that of your parents — and in which the children of the very rich get to inherit their estates tax-free. Teddy Roosevelt would not have approved.

 

L’accidentato campo da gioco dell’America, di Paul Krugman

New York Times 8 gennaio 2012

 

Il mese scorso il Presidente Obama tenne un discorso invocando lo spirito di Teddy Roosevelt [7]nel nome degli ideali di progresso – ed i Repubblicani non furono contenti. In particolare Mitt Romney ripeté che mentre Roosevelt credeva che “il Governo dovrebbe livellare il campo di gioco per creare uguali opportunità”, Obama crede che “il Governo dovrebbe imporre eguali risultati”, che noi dovremmo avere una società nella quale “ognuno riceve uguali o simili riconoscimenti, a prescindere dall’istruzione, dall’impegno e dalla disponibilità a correre rischi”.

Come molti hanno agevolmente messo in evidenza, questo ritratto del Presidente come un redistribuzionista radicale era fantasia pura. Quello che è stato ampiamente notato, tuttavia, è che la presentazione di se stesso da parte di Romney, come di uno che crede in un campo da gioco regolare, è altrettanto fantasiosa.  Dove sono le prove che lui ed il suo partito si preoccupano per davvero dell’eguaglianza delle opportunità?

Consentitemi di ragionare brevemente delle attuali condizioni di quel campo da gioco.

Gli americani sembrano credere molto più dei cittadini degli altri paesi di vivere in una meritocrazia. Ma questo autoritratto è una immaginazione: come ha messo in evidenza un servizio di The Times della scorsa settimana, l’America si distingue come la nazione avanzata nella quale contano di più i genitori dai quali si proviene, il paese nel quale coloro che sono nati sugli ultimi scalini della società hanno le minori possibilità di risalire, in cima o anche sulla metà della scala sociale.

E se vi chiedete per quale ragione l’America sia nella pratica più costretta al classismo del resto del mondo occidentale, una larga parte della spiegazione è che i nostri governi non sono riusciti nel compito di creare pari opportunità.

Quella incapacità comincia sin dall’inizio: in America, i buchi nella rete della sicurezza sociale comportano che sia le madri con redditi bassi che i loro bambini hanno grandi probabilità di soffrire per una alimentazione più povera e di ricevere un assistenza sanitaria inadeguata. Essa continua una volta che i bambini raggiungono l’età della scuola, quando fanno la conoscenza di un sistema nel quale i ricchi mandano i loro figli in scuole pubbliche di buona qualità e ben finanziate, oppure, se preferiscono, in scuole private, mentre i bambini più svantaggiati ricevono una istruzione di gran lunga peggiore.

 

Una volta che raggiungono l’età, coloro che provengono da condizioni più svantaggiate è molto meno probabile che vadano all’Università – ed enormemente meno probabile che accedano ad un istituto di alto livello – rispetto a quelli che sono più fortunati nella loro provenienza. Alle scuole più selettive di primo livello, il 74 per cento delle classi di ingresso provengono dal quarto delle famiglie che hanno la condizione socio-economica più elevata, mentre soltanto il 3 per cento viene dalle famiglie del quarto più sfavorito.

E se i ragazzi che vengono dai gradini più bassi della società cercano di farcela in una buona università, la mancanza di sostegni finanziari li rende di gran lunga più esposti all’abbandono dei ragazzi dei ceti abbienti, anche se sono dotati di notevole o comunque di maggiore diposizione. Una ricerca sul lungo periodo a cura del Dipartimento dell’Istruzione ha messo in evidenza che gli studenti con elevati punteggi attitudinali ma con genitori con redditi bassi hanno avuto minori probabilità di completare l’università degli studenti con bassi punteggi ma con genitori ricchi – ovvero, per dirla un po’ semplicisticamente, che i ragazzi intelligenti ma poveri è meno probabile che ottengano la laurea dei ragazzi tardivi ma ricchi.

 

No fa meraviglia, dunque, che i racconti di Horatio Alger [8], storie di ragazzi poveri che facevano fortuna, siano nella realtà molto meno comuni che nella leggenda – e molto meno comuni in America di quanto non lo siano in Canada o in Europa. Il che mi riporta a coloro i quali, come il signor Romney, affermano di credere nell’eguaglianza delle opportunità. Dov’è la prova di quella pretesa?

Riflettiamoci: qualcuno che effettivamente voglia pari opportunità dovrebbe essere assai preoccupato delle diseguaglianze del nostro attuale sistema. Dovrebbe sostenere maggiori aiuti alimentari per le future madri e per i bambini piccoli. Dovrebbe cercare di migliorare la qualità delle scuole pubbliche. Dovrebbe sostenere gli aiuti agli studenti universitari con bassi redditi. E dovrebbe sostenere quello che ogni altro paese avanzato possiede, un sistema di assistenza sanitaria di tipo universalistico, tale da consentire a tutti di non dover temere di ammalarsi senza ricevere cure o di restare schiacciati dal costo dei trattamenti sanitari.

Se il signor Romney si è impegnato per una qualsiasi di queste cose, io non me ne sono accorto. E la componente congressuale del suo partito sembra determinata a rendere persino più ardua la mobilità verso l’alto. Ad esempio, i Repubblicani hanno cercato di tagliare i fondi del programma per le donne, i neonati ed i bambini, che contribuisce a fornire una alimentazione più adeguata alle madri a basso reddito ed ai loro figli, ed hanno chiesto tagli alle borse di studio che sono destinate ad aiutare gli studenti a reddito più basso nel sostenere i costi dell’Università.

 

Per non dire, naturalmente, che hanno promesso la abrogazione di una riforma sanitaria che, con tutte le sue imperfezioni, finalmente darebbe agli americani quella assistenza garantita che è assicurata ad ognuno nel mondo avanzato.

Dov’è, dunque, la prova che il signor Romney o il suo partito credono effettivamente nelle pari opportunità? A giudicare dai loro atti, essi sembrano preferire una società nella quale la posizione di ognuno nel corso della propria esistenza è soprattutto determinata dalla posizione dei propri genitori – e nella quale i figli dei più abbienti ottengono di ereditare i loro patrimoni esentasse. Teddy Roosevelt non sarebbe stato d’accordo.

 

 

 

America Isn’t a Corporation

By PAUL KRUGMAN
Published: January 12, 2012
 

 “And greed — you mark my words — will not only save Teldar Paper, but that other malfunctioning corporation called the U.S.A.”

That’s how the fictional Gordon Gekko finished his famous “Greed is good” speech in the 1987 film “Wall Street.” In the movie, Gekko got his comeuppance. But in real life, Gekkoism triumphed, and policy based on the notion that greed is good is a major reason why income has grown so much more rapidly for the richest 1 percent than for the middle class.

 

Today, however, let’s focus on the rest of that sentence, which compares America to a corporation. This, too, is an idea that has been widely accepted. And it’s the main plank of Mitt Romney’s case that he should be president: In effect, he is asserting that what we need to fix our ailing economy is someone who has been successful in business.

 

In so doing, he has, of course, invited close scrutiny of his business career. And it turns out that there is at least a whiff of Gordon Gekko in his time at Bain Capital, a private equity firm; he was a buyer and seller of businesses, often to the detriment of their employees, rather than someone who ran companies for the long haul. (Also, when will he release his tax returns?) Nor has he helped his credibility by making untenable claims about his role as a “job creator.”

But there’s a deeper problem in the whole notion that what this nation needs is a successful businessman as president: America is not, in fact, a corporation. Making good economic policy isn’t at all like maximizing corporate profits. And businessmen — even great businessmen — do not, in general, have any special insights into what it takes to achieve economic recovery.

Why isn’t a national economy like a corporation? For one thing, there’s no simple bottom line. For another, the economy is vastly more complex than even the largest private company.

Most relevant for our current situation, however, is the point that even giant corporations sell the great bulk of what they produce to other people, not to their own employees — whereas even small countries sell most of what they produce to themselves, and big countries like America are overwhelmingly their own main customers.

 

Yes, there’s a global economy. But six out of seven American workers are employed in service industries, which are largely insulated from international competition, and even our manufacturers sell much of their production to the domestic market.

And the fact that we mostly sell to ourselves makes an enormous difference when you think about policy.

Consider what happens when a business engages in ruthless cost-cutting. From the point of view of the firm’s owners (though not its workers), the more costs that are cut, the better. Any dollars taken off the cost side of the balance sheet are added to the bottom line.

But the story is very different when a government slashes spending in the face of a depressed economy. Look at Greece, Spain, and Ireland, all of which have adopted harsh austerity policies. In each case, unemployment soared, because cuts in government spending mainly hit domestic producers. And, in each case, the reduction in budget deficits was much less than expected, because tax receipts fell as output and employment collapsed.

 

Now, to be fair, being a career politician isn’t necessarily a better preparation for managing economic policy than being a businessman. But Mr. Romney is the one claiming that his career makes him especially suited for the presidency. Did I mention that the last businessman to live in the White House was a guy named Herbert Hoover? (Unless you count former President George W. Bush.)

 

And there’s also the question of whether Mr. Romney understands the difference between running a business and managing an economy.

Like many observers, I was somewhat startled by his latest defense of his record at Bain — namely, that he did the same thing the Obama administration did when it bailed out the auto industry, laying off workers in the process. One might think that Mr. Romney would rather not talk about a highly successful policy that just about everyone in the Republican Party, including him, denounced at the time.

 

But what really struck me was how Mr. Romney characterized President Obama’s actions: “He did it to try to save the business.” No, he didn’t; he did it to save the industry, and thereby to save jobs that would otherwise have been lost, deepening America’s slump. Does Mr. Romney understand the distinction?

America certainly needs better economic policies than it has right now — and while most of the blame for poor policies belongs to Republicans and their scorched-earth opposition to anything constructive, the president has made some important mistakes. But we’re not going to get better policies if the man sitting in the Oval Office next year sees his job as being that of engineering a leveraged buyout of America Inc.

 

L’America non è una impresa, di Paul Krugman

New York Times 12 gennaio 2012

 

“E l’avidità – tieni a mente le mie parole – non salverà solo la ‘Teldar Paper’, ma anche l’altra traballante impresa chiamata America.”

 

Questo è il modo in cui l’immaginario Gordon Gekko finisce il suo famoso discorso “L’avidità è un bene” nel film “Wall Street” del 1987. Nel film Gekko ha alla fine quello che si merita. Ma nella realtà, il “gekkismo” ha trionfato, e la politica basata sul concetto che l’avidità è una buona cosa è una importante ragione per la quale i redditi sono cresciuti così più rapidamente per l’1 per cento dei più ricchi  che non per le classi medie.

Oggi, tuttavia, permettetemi di concentrami sulla parte restante di quella frase, nella quale si paragona l’America ad una impresa. Anche questa è una idea che è stata largamente accettata. Ed è il punto principale della tesi secondo la quale Mitt Romney dovrebbe essere Presidente: in effetti, egli sta sostenendo che ciò di cui abbiamo bisogno per riparare la nostra malridotta economia è qualcuno che abbia avuto successo negli affari.

 

Facendo così, naturalmente, è come se avesse invitato ad una valutazione ravvicinata della sua carriera di impresario. Ed è venuto fuori che ai suoi tempi  c’era almeno un pizzico di Gordon Gekko  nella Bain Capital [9]; egli, piuttosto che gestire società nel lungo periodo, le acquistava e le vendeva, spesso a detrimento dei loro occupati (per inciso, quando si deciderà a fornire copia delle sue ricevute fiscali?). Né hanno giovato alla sua credibilità le insostenibili pretese sul suo ruolo di “creatore di posti di lavoro”.

Ma c’è un problema più profondo nell’intero argomento secondo il quale la nazione avrebbe bisogno di un impresario come Presidente: in realtà, l’America non è un’impresa. Fare una buona politica economica non è affatto come massimizzare i profitti di una impresa. E gli uomini di affari – persino i grandi dirigenti di imprese – non hanno, in generale, nessuna particolare predisposizione a comprendere cosa ci voglia per ottenere una ripresa dell’economia.

Perché un’economia nazionale è una cosa diversa da una impresa? Da una parte, non è solo una questione di profitti. Dall’altra, l’economia è assai più complessa persino della più grande impresa privata.

E tuttavia la cosa più rilevante nella nostra situazione attuale, è che persino le imprese gigantesche vendono la gran parte di quello che producono non ai propri occupati, ma ad altra gente – mentre persino i paesi più piccoli vendono quasi tutto quello che producono a se stessi, e i grandi paesi come l’America sono in modo assolutamente prevalente i principali clienti di se stessi.

 

Si, esiste l’economia globale. Ma sei lavoratori americani su sette sono impiegati nei servizi, che sono largamente isolati dalla competizione internazionale, e persino il nostro settore manifatturiero vende gran parte della sua produzione al mercato interno.

 

E la circostanza per la quale si vende principalmente a se stessi fa una enorme differenza quando si ragiona delle scelte di fondo.

Si consideri a cosa accade quando una impresa si impegna in uno spietato taglio dei costi. Dal punto di vista dei proprietari dell’impresa (sebbene non dei suoi lavoratori) più i costi si tagliano, meglio è. Ogni dollaro tolto dalla parte del bilancio relativa ai costi viene aggiunto ai guadagni.

 

Ma la storia è assai diversa se si guarda ad un Governo che abbatte le sue spese a fronte di una economia depressa. Si guardi alla Grecia, alla Spagna e all’Irlanda, che hanno tutte adottato rigide politiche di austerità. In tutti i casi la disoccupazione è schizzata alle stelle, perché i tagli alla spesa pubblica colpiscono principalmente i produttori nazionali. E in tutti i casi la riduzione dei deficit di bilancio è risultata inferiore alle attese, perché le entrate fiscali sono cadute dal momento che la produzione e l’occupazione sono collassate.

 

Ora, ad essere onesti, fare una carriera politica non è necessariamente  un apprendistato migliore per la gestione di una politica economica, di quanto non lo sia essere un dirigente di impresa. Ma quello che il signor Romney sostiene è  che la sua carriera lo rende particolarmente adatto per la Presidenza. Debbo ricordare che l’ultimo inquilino della Casa Bianca che proveniva da un impresa era un signore chiamato Herbert Hoover [10] (e lasciamo pure da parte il precedente Presidente George W. Bush)? 

In realtà, c’è piuttosto da chiedersi se Romney capisca la differenza tra gestire una impresa e governare un’economia.

 

Come molti osservatori, io sono rimasto alquanto perplesso dei suoi recenti argomenti a proposito delle sue prestazioni alla Bain  – in modo particolare il fatto che egli si sarebbe comportato nello stesso modo della Amministrazione Obama quando, nel salvataggio dell’industria automobilistica, furono messi a casa lavoratori. Si poteva ritenere che Romney avesse preferito tacere a proposito di un chiaro episodio di successo della politica del governo, che all’epoca venne denunciato proprio da tutti nel Partito Repubblicano, lui compreso. 

Ma quello che mi ha lasciato sbalordito è il modo in cui Romney ha descritto le iniziative del Presidente Obama: “Egli lo fece per salvare l’impresa”. No, non fu così: egli lo fece per salvare l’industria dell’auto, e di conseguenza per salvare posti di lavoro che altrimenti si sarebbero persi, aggravando la crisi dell’America. Capisce il signor Romney la differenza?

 

L’America ha certamente bisogno di politiche economiche migliori di quelle di cui dispone in questo momento – e se gran parte della responsabilità per la miseria delle sue politiche va attribuita ai repubblicani e alla loro opposizione indiscriminata a qualunque proposta costruttiva, il Presidente ha fatto alcuni errori rilevanti. Ma non avremo politiche migliori se l’uomo che siederà nella Stanza Ovale nei prossimi anni considererà il suo compito come se si trattasse di progettare una sorta di acquisizione manovrata [11] della America Spa.  

 

 

 

 

 

 

 

How Fares the Dream?

By PAUL KRUGMAN
Published: January 15, 2012

 “I have a dream,” declared Martin Luther King, in a speech that has lost none of its power to inspire. And some of that dream has come true. When King spoke in the summer of 1963, America was a nation that denied basic rights to millions of its citizens, simply because their skin was the wrong color. Today racism is no longer embedded in law. And while it has by no means been banished from the hearts of men, its grip is far weaker than once it was.

To say the obvious: to look at a photo of President Obama with his cabinet is to see a degree of racial openness — and openness to women, too — that would have seemed almost inconceivable in 1963. When we observe Martin Luther King’s Birthday, we have something very real to celebrate: the civil rights movement was one of America’s finest hours, and it made us a nation truer to its own ideals.

 

Yet if King could see America now, I believe that he would be disappointed, and feel that his work was nowhere near done. He dreamed of a nation in which his children “will not be judged by the color of their skin but by the content of their character.” But what we actually became is a nation that judges people not by the color of their skin — or at least not as much as in the past — but by the size of their paychecks. And in America, more than in most other wealthy nations, the size of your paycheck is strongly correlated with the size of your father’s paycheck.

Goodbye Jim Crow, hello class system.

Economic inequality isn’t inherently a racial issue, and rising inequality would be disturbing even if there weren’t a racial dimension. But American society being what it is, there are racial implications to the way our incomes have been pulling apart. And in any case, King — who was campaigning for higher wages when he was assassinated — would surely have considered soaring inequality an evil to be opposed.

 

 

So, about that racial dimension: In the 1960s it was widely assumed that ending overt discrimination would improve the economic as well as legal status of minority groups. And at first this seemed to be happening. Over the course of the 1960s and 1970s substantial numbers of black families moved into the middle class, and even into the upper middle class; the percentage of black households in the top 20 percent of the income distribution nearly doubled.

But around 1980 the relative economic position of blacks in America stopped improving. Why? An important part of the answer, surely, is that circa 1980 income disparities in the United States began to widen dramatically, turning us into a society more unequal than at any time since the 1920s.

Think of the income distribution as a ladder, with different people on different rungs. Starting around 1980, the rungs began moving ever farther apart, adversely affecting black economic progress in two ways. First, because many blacks were still on the lower rungs, they were left behind as income at the top of the ladder soared while income near the bottom stagnated. Second, as the rungs moved farther apart, the ladder became harder to climb.

 

The Times recently reported on a well-established finding that still surprises many Americans when they hear about it: although we still see ourselves as the land of opportunity, we actually have less intergenerational economic mobility than other advanced nations. That is, the chances that someone born into a low-income family will end up with high income, or vice versa, are significantly lower here than in Canada or Europe.

And there’s every reason to believe that our low economic mobility has a lot to do with our high level of income inequality.

Last week Alan Krueger, chairman of the president’s Council of Economic Advisers, gave an important speech about income inequality, presenting a relationship he dubbed the “Great Gatsby Curve.” Highly unequal countries, he showed, have low mobility: the more unequal a society is, the greater the extent to which an individual’s economic status is determined by his or her parents’ status. And as Mr. Krueger pointed out, this relationship suggests that America in the year 2035 will have even less mobility than it has now, that it will be a place in which the economic prospects of children largely reflect the class into which they were born.

 

 

That is not a development we should meekly accept.

Mitt Romney says that we should discuss income inequality, if at all, only in “quiet rooms.” There was a time when people said the same thing about racial inequality. Luckily, however, there were people like Martin Luther King who refused to stay quiet. And we should follow their example today. For the fact is that rising inequality threatens to make America a different and worse place — and we need to reverse that trend to preserve both our values and our dreams.

 

Com’è finita col sogno?, di Paul Krugman

New York Times 15 gennaio 2012

 

“Io ho un sogno”, dichiarò Martin Luther King in un discorso che non ha perso niente della sua carica ispiratrice. E qualcosa di quel sogno è diventato realtà. Quando King parlava era l’estate del 1963, l’America era una nazione che negava diritti fondamentali a milioni dei suoi cittadini, semplicemente perché la loro pelle era del colore sbagliato. Oggi il razzismo non ha più posto nella legge. E se non è in alcun modo scomparso dal cuore degli uomini, la sua presa è molto minore di quanto era un tempo.

Per fare un esempio lampante: si guardi una foto del Presidente Obama e del suo gabinetto e si constati quella assenza di pregiudizi razziali – ed anche di pregiudizi contro le donne – che sarebbe sembrata quasi inconcepibile nel 1963. Quando si celebra l’anniversario di Martin Luther King, festeggiamo una circostanza molto vera: il movimento dei diritti civili è stato uno degli episodi più belli dell’America, e ha fatto di noi una nazione più corrispondente ai propri ideali.

Tuttavia se King potesse vedere l’America di oggi, penso che sarebbe deluso e che sentirebbe che in suo lavoro non è neanche lontanamente terminato. Egli sognava una nazione nella quale i propri figli “non (sarebbero stati) giudicati per il colore della loro pelle ma per il contenuto del loro carattere”. Quello che in effetti siamo diventati è una nazione che non giudica le persone per il colore della pelle – almeno non nella stessa misura del passato –  ma per l’entità del loro stipendio. E in America, più che in quasi tutte le altre nazioni ricche, l’entità del vostro compenso è strettamente correlata con lo stipendio di vostro padre.

 

Abbiamo salutato Jim Crow [12] per ritrovarci con un sistema di discriminazione di classe.

La diseguaglianza economica non è un tema intrinsecamente razziale, le crescenti diseguaglianze sarebbero inquietanti anche se non avessero effetti razziali. Ma poiché la società americana è quello che è, ci sono implicazioni razziali nel modo in cui i vostri redditi sono stati fatti a pezzi. E in ogni caso, King – che stava conducendo una campagna per salari più alti nel momento in cui venne assassinato – avrebbe sicuramente considerato questa crescita impressionante di disuguaglianza come un male contro il quale combattere.

Dunque, a proposito degli aspetti razziali: nel 1960 era generalmente riconosciuto che la fine della aperta discriminazione avrebbe migliorato la condizione economica così come quella legale delle minoranze. E all’inizio sembrava che questo stesse accadendo. Nel corso degli anni ’60 e ’70 un numero rilevante di famiglie di colore venne a far parte delle classi medie; la percentuale di nuclei familiari neri tra il 20 per cento della popolazione con redditi più elevati, quasi raddoppiò.

 

Ma attorno al 1980 la posizione economica relativa dei neri in America smise di migliorare. Perché? Una parte importante della risposta, certamente, sta nel fatto che attorno al 1980 le disparità di reddito negli Stati Uniti cominciarono ad allargarsi in modo drammatico, trasformandoci nella società più ineguale di ogni tempo, a partire dagli anni ’20.

Si pensi alla distribuzione del reddito come ad una scala, con le persone distribuite sui diversi gradini. A cominciare da circa il 1980, i gradini cominciarono a distanziarsi sempre di più, influenzando negativamente il progresso economico dei negri in due modi. Il primo, poiché molti di loro erano ancora sui gradini più bassi, essi furono lasciati indietro dal momento che il reddito dei più ricchi saliva alle stelle e il reddito di quelli più in basso stagnava. Il secondo, come i gradini si distanziarono, divenne più difficile salire la scala.

 

Di recente, The Times ha dato notizia di una non sorprendente scoperta che tuttavia meraviglia molti americani quando ne sentono parlare: sebbene noi ci consideriamo come la terra delle opportunità, effettivamente abbiamo molta minore mobilità economica intergenerazionale degli altri paesi avanzati. Vale a dire, le possibilità di chi è nato in una famiglia a basso reddito di finire con un reddito alto, o viceversa, sono significativamente più basse qua che in Canada o in Europa.

E ci sono tutte le ragioni per credere che la nostra bassa mobilità economica abbia a che con il nostro alto livello di diseguaglianze di reddito.

La scorsa settimana Alan Krueger, coordinatore del Consiglio dei Consulenti Economici del Presidente, ha tenuto una importante conferenza sulla diseguaglianza dei redditi, presentando una relazione che ha soprannominato la “Curva del Grande Gatsby”. Paesi con forti diseguaglianze, ha mostrato, hanno bassa mobilità: più una società è diseguale, più grande è la misura nella quale la condizione economica di un uomo o di una donna è determinata dalla condizione  dei suoi genitori. E come il signor Krueger ha messo in evidenza, questa relazione suggerisce che l’America nel 2035 avrà ancora meno mobilità di quella che ha adesso, cioè sarà un posto nel quale le prospettive economiche dei bambini rifletteranno in larga parte la classe nella quale sono nati.

 

Non è una prospettiva che dovremmo accettare docilmente.

 

 

Mitt Romney dice che dovremmo discutere di ineguaglianza dei redditi, se proprio dobbiamo, in “ambienti riservati”. Una volta la gente diceva la stessa cosa a proposito delle diseguaglianze razziali. Tuttavia, fortunatamente, ci furono persone come Martin Luther King che rifiutarono di starsene calmi, ed oggi noi dovremmo seguire il loro esempio. Perché il fatto è che la crescente diseguaglianza minaccia di rendere l’America un luogo diverso e peggiore – e noi abbiamo bisogno di invertire quella tendenza, in modo da conservare sia i nostri valori che i nostri sogni.

 

 

 

 

 

Taxes at the Top

By PAUL KRUGMAN
Published: January 19, 2012

Call me peculiar, but I’m actually enjoying the spectacle of Mitt Romney doing the Dance of the Seven Veils — partly out of voyeurism, of course, but also because it’s about time that we had this discussion.

The theme of his dance, for those who haven’t been paying attention, is taxes — his own taxes. Although disclosure of tax returns is standard practice for political candidates, Mr. Romney has never done so, and, at first, he tried to stonewall the issue even in a presidential race. Then he said that he probably pays only about 15 percent of his income in taxes, and he hinted that he might release his 2011 return.

 

Even then, however, he will face pressure to release previous returns, too — like his father, who released 12 years of returns back when he made his presidential run. (The elder Romney, by the way, paid 37 percent of his income in taxes).

And the public has a right to see the back years: By 2011, with the campaign looming, Mr. Romney may have rearranged his portfolio to minimize awkward issues like his accounts in the Cayman Islands or his use of the justly reviled “carried interest” tax break.

But the larger question isn’t what Mitt Romney’s tax returns have to say about Mitt Romney; it’s what they have to say about U.S. tax policy. Is there a good reason why the rich should bear a startlingly light tax burden?

 

For they do. If Mr. Romney is telling the truth about his taxes, he’s actually more or less typical of the very wealthy. Since 1992, the I.R.S. has been releasing income and tax data for the 400 highest-income filers. In 2008, the most recent year available, these filers paid only 18.1 percent of their income in federal income taxes; in 2007, they paid only 16.6 percent. When you bear in mind that the rich pay little either in payroll taxes or in state and local taxes — major burdens on middle-class families — this implies that the top 400 filers faced lower taxes than many ordinary workers.

The main reason the rich pay so little is that most of their income takes the form of capital gains, which are taxed at a maximum rate of 15 percent, far below the maximum on wages and salaries. So the question is whether capital gains — three-quarters of which go to the top 1 percent of the income distribution — warrant such special treatment.

 

Defenders of low taxes on the rich mainly make two arguments: that low taxes on capital gains are a time-honored principle, and that they are needed to promote economic growth and job creation. Both claims are false.

When you hear about the low, low taxes of people like Mr. Romney, what you need to know is that it wasn’t always thus — and the days when the superrich paid much higher taxes weren’t that long ago. Back in 1986, Ronald Reagan — yes, Ronald Reagan — signed a tax reform equalizing top rates on earned income and capital gains at 28 percent. The rate rose further, to more than 29 percent, during Bill Clinton’s first term.

Low capital gains taxes date only from 1997, when Mr. Clinton struck a deal with Republicans in Congress in which he cut taxes on the rich in return for creation of the Children’s Health Insurance Program. And today’s ultralow rates — the lowest since the days of Herbert Hoover — date only from 2003, when former President George W. Bush rammed both a tax cut on capital gains and a tax cut on dividends through Congress, something he achieved by exploiting the illusion of triumph in Iraq.

Correspondingly, the low-tax status of the very rich is also a recent development. During Mr. Clinton’s first term, the top 400 taxpayers paid close to 30 percent of their income in federal taxes, and even after his tax deal they paid substantially more than they have since the 2003 cut.

 

So is it essential that the rich receive such a big tax break? There is a theoretical case for according special treatment to capital gains, but there are also theoretical and practical arguments against such special treatment. In particular, the huge gap between taxes on earned income and taxes on unearned income creates a perverse incentive to arrange one’s affairs so as to make income appear in the “right” category.

And the economic record certainly doesn’t support the notion that superlow taxes on the superrich are the key to prosperity. During that first Clinton term, when the very rich paid much higher taxes than they do now, the economy added 11.5 million jobs, dwarfing anything achieved even during the good years of the Bush administration.

So Mr. Romney’s tax dance is doing us all a service by highlighting the unwise, unjust and expensive favors being showered on the upper-upper class. At a time when all the self-proclaimed serious people are telling us that the poor and the middle class must suffer in the name of fiscal probity, such low taxes on the very rich are indefensible.

 

Le tasse sui più ricchi, di Paul Krugman

New York Times 19 gennaio 2012

 

Direte che sono strano, ma sto effettivamente gustandomi lo spettacolo di Mitt Romney che fa la ‘Danza dei Sette Veli’ – non tanto per voyeurismo, naturalmente, ma anche per il momento in cui è capitata questa discussione.

 

Il tema della sua danza, per coloro ai quali fosse sfuggito,  sono le tasse – le sue proprie tasse. Sebbene la rivelazione della dichiarazione fiscale sia un prassi consueta per i candidati politici – il signor Romney non l’ha mai fatta e, in un primo momento, aveva cercato di fare orecchi da mercante persino nella competizione presidenziale. In quella occasione aveva dichiarato di pagare probabilmente circa il 15 per cento del proprio reddito in tasse, e aveva fatto cenno al fatto che avrebbe potuto esibire la sua dichiarazione dei redditi del 2011.

Anche a quel punto, tuttavia, egli dovrà fare i conti con la richiesta di far conoscere anche le sue dichiarazioni precedenti – come accadde a suo padre, il quale mise a disposizione 12 anni di precedenti dichiarazioni nel momento in cui fu in competizione per la Presidenza (il vecchio Romney, per inciso, pagava il 37 per cento del suo reddito in tasse).

E l’opinione pubblica ha diritto a conoscere le dichiarazioni passate: nel 2011, con la campagna presidenziale imminente, il signor Romney poteva aver aggiustato il suo portafoglio per minimizzare aspetti imbarazzanti come i suoi conti nelle Isole Cayman o il suo utilizzo dei giustamente vituperati sgravi fiscali sul cosiddetto “interesse acquisito” [13].

Ma il tema più generale non è quello di cosa ci dicono le dichiarazioni fiscali di Mitt Romney a proposito di Mitt Romney, quanto quello che esse ci dicono a proposito della politica fiscale degli Stati Uniti. C’è qualche buona ragione per la quale i ricchi debbano sopportare un carico fiscale così sorprendentemente leggero?

 

Perché di questo si tratta. Se il signor Romney sta dicendo la verità a proposito delle sue tasse, egli si trova più o meno nelle condizioni di una tipica persona molto ricca. Dal 1992, l’IRS [14] ha pubblicato i dati sui redditi e sulle tasse delle posizioni dei 400 redditi più elevati. Nel 2008, l’anno utilizzabile più recente, questi contribuenti pagavano soltanto il 18,1 per cento del loro reddito in tasse federali corrispondenti; nel 2006, pagavano soltanto il 16,6 per cento. Quando si tiene presente che i ricchi pagano poco di tasse sugli stipendi ai livelli degli Stati e delle comunità locali – i maggiori carichi sono sulle famiglie delle classi medie – se ne deduce che le 400 posizioni più alte fanno fronte ad oneri fiscali minori di molti normali lavoratori.

La principale ragione per la quale i ricchi pagano così poco è che una gran parte dei loro redditi prende la forma di profitti sui capitali, che sono tassati ad una aliquota massima del 15 per cento, assai inferiore all’aliquota massima sui salari e sugli stipendi. Dunque la domanda è se per i profitti sui capitali – tre quarti dei quali vanno all’1 per cento di coloro che stanno più in alto nella distribuzione del reddito – è giustificato un tale trattamento speciale.

I difensori delle basse tasse sui ricchi avanzano principalmente due argomenti: che le basse tasse sui capitali sono un principio rispettato da tempo, e che sono necessarie per promuovere la crescita economica e la creazione di posti di lavoro. Entrambe sono affermazioni false.

Quando sentite parlare delle tasse davvero molto basse di persone come Romney, dovete sapere che non è sempre stato così – e che i tempi nei quali i super ricchi pagavano tasse assai superiori non sono tanto lontani. Nel passato 1986 Ronald Reagan – proprio Ronald Reagan – deliberò un riforma fiscale che stabiliva le stesse massime aliquote fiscali al 28 per cento, per i profitti da capitale e per i redditi da lavoro. La aliquota venne ulteriormente innalzata, a più del 29 per cento, durante il primo mandato presidenziale di Bill Clinton.

Le basse tasse sui profitti da capitale datano soltanto dal 1997, quando Clinton concluse un accordo nel Congresso con i Repubblicani con il quale tagliò le tasse sui ricchi in cambio della creazione del Programma per la Assicurazione Sanitaria dei Bambini. E le attuali aliquote bassissime – le più basse dai giorni di Herbert Hoover – datano soltanto dal 2003, quando il precedente Presidente George W. Bush impose al Congresso sia un taglio fiscale sui profitti da capitale che sui dividendi, cose che ottenne sfruttando l’illusione di un trionfo in Iraq.

 

Di conseguenza, la condizione delle basse tasse per i più ricchi è anch’essa uno sviluppo recente. Durante il primo mandato di Clinton, i primi 400 contribuenti pagavano quasi il 30 per cento del loro reddito in tasse federali, e persino dopo l’accordo fiscale da lui concluso pagavano sostanzialmente di più di quello che hanno pagato  a seguito dei tagli del 2003.

 

Dunque, è indispensabile che i ricchi ricevano tali sgravi fiscali? C’è in teoria un argomento per concedere un trattamento speciale ai profitti da capitale, ma ci sono anche argomenti teorici o pratici che si oppongono a tale trattamento. In particolare, la grande differenza tra le tasse sui redditi da lavoro e le tasse sui redditi non da lavoro crea un incentivo perverso ad aggiustare i propri affari in modo che il reddito finisca con l’apparire nella categoria “giusta”.

 

E gli andamenti dell’economia certamente non supportano l’idea che tasse super basse sui super ricchi siano la chiave della prosperità. Durante il primo mandato di Clinton, quando le persone più abbienti pagavano tasse maggiori di oggi, l’economia crebbe di 11,5 milioni, un risultato che fa impallidire quanto si ottenne persino negli anni buoni della amministrazione Bush.

 

Dunque la danza sulle tasse del signor Romney sta facendo un servizio a tutti noi, evidenziando gli insensati, ingiusti e costosi favori con i quali è stata ricoperta la classe dei magnati. In un epoca nella quale tutte le sedicenti persone serie ci raccontano che i poveri ed i componenti delle classi medie devono soffrire in nome della virtù della finanza pubblica, tasse così basse sui più ricchi sono ingiustificabili.

 

 

 

 

Is Our Economy Healing?

By PAUL KRUGMAN
Published: January 22, 2012

 

How goes the state of the union? Well, the state of the economy remains terrible. Three years after President Obama’s inauguration and two and a half years since the official end of the recession, unemployment remains painfully high.

But there are reasons to think that we’re finally on the (slow) road to better times. And we wouldn’t be on that road if Mr. Obama had given in to Republican demands that he slash spending, or the Federal Reserve had given in to Republican demands that it tighten money.

Why am I letting a bit of optimism break through the clouds? Recent economic data have been a bit better, but we’ve already had several false dawns on that front. More important, there’s evidence that the two great problems at the root of our slump — the housing bust and excessive private debt — are finally easing.

On housing: as everyone now knows (but oh, the abuse heaped on anyone pointing it out while it was happening!), we had a monstrous housing bubble between 2000 and 2006. Home prices soared, and there was clearly a lot of overbuilding. When the bubble burst, construction — which had been the economy’s main driver during the alleged “Bush boom” — plunged.

 

But the bubble began deflating almost six years ago; house prices are back to 2003 levels. And after a protracted slump in housing starts, America now looks seriously underprovided with houses, at least by historical standards.

So why aren’t people going out and buying? Because the depressed state of the economy leaves many people who would normally be buying homes either unable to afford them or too worried about job prospects to take the risk.

But the economy is depressed, in large part, because of the housing bust, which immediately suggests the possibility of a virtuous circle: an improving economy leads to a surge in home purchases, which leads to more construction, which strengthens the economy further, and so on. And if you squint hard at recent data, it looks as if something like that may be starting: home sales are up, unemployment claims are down, and builders’ confidence is rising.

 

Furthermore, the chances for a virtuous circle have been rising, because we’ve made significant progress on the debt front.

That’s not what you hear in public debate, of course, where all the focus is on rising government debt. But anyone who has looked seriously at how we got into this slump knows that private debt, especially household debt, was the real culprit: it was the explosion of household debt during the Bush years that set the stage for the crisis. And the good news is that this private debt has declined in dollar terms, and declined substantially as a percentage of G.D.P., since the end of 2008.

 

There are, of course, still big risks — above all, the risk that trouble in Europe could derail our own incipient recovery. And thereby hangs a tale — a tale told by a recent report from the McKinsey Global Institute.

The report tracks progress on “deleveraging,” the process of bringing down excessive debt levels. It documents substantial progress in the United States, which it contrasts with failure to make progress in Europe. And while the report doesn’t say this explicitly, it’s pretty clear why Europe is doing worse than we are: it’s because European policy makers have been afraid of the wrong things.

 

In particular, the European Central Bank has been worrying about inflation — even raising interest rates during 2011, only to reverse course later in the year — rather than worrying about how to sustain economic recovery. And fiscal austerity, which is supposed to limit the increase in government debt, has depressed the economy, making it impossible to achieve urgently needed reductions in private debt. The end result is that for all their moralizing about the evils of borrowing, the Europeans aren’t making any progress against excessive debt — whereas we are.

Back to the U.S. situation: my guarded optimism should not be taken as a statement that all is well. We have already suffered enormous, unnecessary damage because of an inadequate response to the slump. We have failed to provide significant mortgage relief, which could have moved us much more quickly to lower debt. And even if my hoped-for virtuous circle is getting under way, it will be years before we get to anything resembling full employment.

 

But things could have been worse; they would have been worse if we had followed the policies demanded by Mr. Obama’s opponents. For as I said at the beginning, Republicans have been demanding that the Fed stop trying to bring down interest rates and that federal spending be slashed immediately — which amounts to demanding that we emulate Europe’s failure.

And if this year’s election brings the wrong ideology to power, America’s nascent recovery might well be snuffed out.

 

La nostra economia sta guarendo?, di Paul Krugman

New York Times 22 gennaio 2012

 

 

Qual è lo ‘stato dell’Unione’? Ebbene, le condizioni dell’economia restano gravissime. Tre anni dopo l’inizio del mandato di Obama e a due anni e mezzo dalla fine ufficiale della recessione, la disoccupazione rimane penosamente alta.

 

Ma ci sono ragioni per ritenere che siamo finalmente sulla (lenta) strada di tempi migliori. E non saremmo su questa strada se Obama avesse acconsentito alle richieste repubblicane per un taglio generalizzato alla spesa pubblica, o se la Federal Reserve avesse accettato di sottostare alle richieste repubblicane per una restrizione monetaria.

Perché mi consento una pausa di ottimismo, pure in mezzo alle nuvole? I recenti dati dell’economia sono apparsi un po’ migliori, ma su quel fronte abbiamo già avuto svariate false aurore. E’ più importante il segnale secondo il quale i due grandi fattori all’origine della nostra caduta – la bolla immobiliare e l’eccessivo debito privato – si stanno finalmente allentando.

Sulle abitazioni: come tutti sanno (ma attenzione, gli eccessi si ebbero nel mentre qualcuno faceva notare quello che stava accadendo! [15]), abbiamo avuto una bolla immobiliare mostruosa dal 2000 al 2006. I prezzi delle case schizzarono alle stelle, e ci fu chiaramente una attività edilizia esagerata. Quando la bolla scoppiò, crollò il settore delle costruzioni, che era stato il principale vettore dell’economia durante il preteso “boom” di Bush.

Ma la bolla cominciò a sgonfiarsi quasi sei anni fa, mentre i prezzi delle case sono tornati ai livelli del 2003. E una volta avviata una prolungata crisi immobiliare, oggi l’America si ritrova seriamente sprovvista di abitazioni, almeno secondo i suoi standards storici.

 

Perché, dunque, la gente non accenna a comprare? Perché le condizioni depresse dell’economia mettono molte persone, che in condizioni normali acquisterebbero alloggi, nelle condizioni di non poterselo permettere, e le lasciano troppe preoccupate sulle prospettive del loro lavoro per assumere rischi.

Sennonché l’economia è depressa in larga parte a causa del crollo immobiliare, il che fa intravedere la possibilità di un circolo virtuoso: una economia che migliora porta ad una crescita degli acquisti di alloggi, che a loro volta portano a maggiore attività edilizia, il che rafforza ulteriormente l’economia, e via dicendo. E se aguzzate la vista sulle statistiche recenti, pare che stia partendo un fenomeno del genere: le vendite di case salgono, le richieste dei sussidi di disoccupazione scendono, la fiducia dei costruttori si rafforza.

Inoltre, le possibilità di un circolo virtuoso sono migliorate, perché si sono fatti progressi significativi sul fronte del debito.

La qualcosa non la sentite dire nel dibattito politico, naturalmente, dato che esso resta focalizzato sul tema del crescente debito pubblico. Ma tutti quelli che si sono occupati seriamente di come siamo finiti in questa crisi, sanno che il vero responsabile era il debito privato, specialmente il debito delle famiglie; fu l’esplosione del debito privato durante gli anni di Bush che preparò il terreno alla crisi. E la buona notizia è che questo debito privato è sceso in termini di dollari ed è sostanzialmente sceso come percentuale del PIL, a cominciare dalla fine del 2008.

Ci sono ancora, naturalmente, grandi rischi – soprattutto il rischio che i guai dell’Europa facciano deragliare la nostra stessa incipiente ripresa. E c’è tutta una storia a questo proposito – un storia raccontata da un recente rapporto del Mc Kinsey Global Institute [16].  

Il rapporto segue l’evoluzione del cosiddetto “deleveraging”, ovvero della riduzione dei livelli eccessivi di debito. Esso documenta un progresso sostanziale degli Stati Uniti, in contrasto con la mancanza di miglioramenti in Europa. E se questo il rapporto non lo dice esplicitamente, è abbastanza chiara la ragione per la quale l’Europa sta facendo peggio di noi: i responsabili della politica europea si sono spaventati per le cose sbagliate.

In particolare la Banca Centrale Europea si è preoccupata dell’inflazione – persino aumentando i tassi di interesse nel 2011, per poi invertire successivamente la marcia nel corso dell’anno – piuttosto di preoccuparsi di come sostenere la ripresa dell’economia. E l’austerità della finanza pubblica, che si riteneva contenesse la crescita del debito pubblico, ha depresso l’economia, rendendo impossibile il perseguimento di riduzioni urgentemente indispensabili nel debito privato. Il risultato finale è che, a causa di tutta la loro retorica moralistica sui mali dell’indebitamento, gli europei non stanno facendo alcun progresso sul debito eccessivo, mentre noi li stiamo facendo.

Tornando alla situazione americana: il mio prudente ottimismo non dovrebbe essere scambiato con una dichiarazione di scampato pericolo. Abbiamo già patito grandissimi inutili danni a causa di una risposta inadeguata alla crisi. Non siamo riusciti a fornire un sollievo significativo sui mutui, che ci avrebbe spinti molto più rapidamente ad un debito inferiore. Ed anche se il mio fiduciosamente atteso circolo virtuoso si mettesse in moto, ci vorrebbero anni prima che esso produca effetti che assomiglino alla piena occupazione.

 

Ma le cose sarebbero potute andar peggio; sarebbero andate peggio se avessimo seguito le politiche che venivano richieste dagli oppositori di Obama. Perché, come ho detto all’inizio, i Repubblicani avevano chiesto che la Fed smettesse di provare ad abbassare i tassi di interesse e che la spesa pubblica federale fosse immediatamente tagliata – il che corrispondeva a chiedere che emulassimo gli insuccessi dell’Europa.

E se le elezioni di quest’anno portassero al potere l’ideologia sbagliata, la nascente ripresa dell’America potrebbe davvero spengersi.

 

 

 

 

 

Jobs, Jobs and Cars

By PAUL KRUGMAN
Published: January 26, 2012

Mitch Daniels, the former Bush budget director who is now Indiana’s governor, made the Republicans’ reply to President Obama’s State of the Union address. His performance was, well, boring. But he did say something thought-provoking — and I mean that in the worst way.

For Mr. Daniels tried to wrap his party in the mantle of the late Steve Jobs, whom he portrayed as a great job creator — which is one thing that Jobs definitely wasn’t. And if we ask why Apple has created so few American jobs, we get an insight into what is wrong with the ideology dominating much of our politics.

Mr. Daniels first berated the president for his “constant disparagement of people in business,” which happens to be a complete fabrication. Mr. Obama has never done anything of the sort. He went on: “The late Steve Jobs — what a fitting name he had — created more of them than all those stimulus dollars the president borrowed and blew.”

 

Clearly, Mr. Daniels doesn’t have much of a future in the humor business. But, more to the point, anyone who reads The New York Times knows that his assertion about job creation was completely false: Apple employs very few people in this country.

A big report in The Times last Sunday laid out the facts. Although Apple is now America’s biggest U.S. corporation as measured by market value, it employs only 43,000 people in the United States, a tenth as many as General Motors employed when it was the largest American firm.

Apple does, however, indirectly employ around 700,000 people in its various suppliers. Unfortunately, almost none of those people are in America.

Why does Apple manufacture abroad, and especially in China? As the article explained, it’s not just about low wages. China also derives big advantages from the fact that so much of the supply chain is already there. A former Apple executive explained: “You need a thousand rubber gaskets? That’s the factory next door. You need a million screws? That factory is a block away.”

 

This is familiar territory to students of economic geography: the advantages of industrial clusters — in which producers, specialized suppliers, and workers huddle together to their mutual benefit — have been a running theme since the 19th century.

 

And Chinese manufacturing isn’t the only conspicuous example of these advantages in the modern world. Germany remains a highly successful exporter even with workers who cost, on average, $44 an hour — much more than the average cost of American workers. And this success has a lot to do with the support its small and medium-sized companies — the famed Mittelstand — provide to each other via shared suppliers and the maintenance of a skilled work force.

The point is that successful companies — or, at any rate, companies that make a large contribution to a nation’s economy — don’t exist in isolation. Prosperity depends on the synergy between companies, on the cluster, not the individual entrepreneur.

But the current Republican worldview has no room for such considerations. From the G.O.P.’s perspective, it’s all about the heroic entrepreneur, the John Galt, I mean Steve Jobs-type “job creator” who showers benefits on the rest of us and who must, of course, be rewarded with tax rates lower than those paid by many middle-class workers.

 

And this vision helps explain why Republicans were so furiously opposed to the single most successful policy initiative of recent years: the auto industry bailout.

The case for this bailout — which Mr. Daniels has denounced as “crony capitalism” — rested crucially on the notion that the survival of any one firm in the industry depended on the survival of the broader industry “ecology” created by the cluster of producers and suppliers in America’s industrial heartland. If G.M. and Chrysler had been allowed to go under, they would probably have taken much of the supply chain with them — and Ford would have gone the same way.

 

Fortunately, the Obama administration didn’t let that happen, and the unemployment rate in Michigan, which hit 14.1 percent as the bailout was going into effect, is now down to a still-terrible-but-much-better 9.3 percent. And the details aside, much of Mr. Obama’s State of the Union address can be read as an attempt to apply the lessons of that success more broadly.

So we should be grateful to Mr. Daniels for his remarks Tuesday. He got his facts wrong, but he did, unintentionally, manage to highlight an important philosophical difference between the parties. One side believes that economies succeed solely thanks to heroic entrepreneurs; the other has nothing against entrepreneurs, but believes that entrepreneurs need a supportive environment, and that sometimes government has to help create or sustain that supportive environment.

And the view that it takes more than business heroes is the one that fits the facts.

 

Posti di lavoro, ancora posti di lavoro e automobili, di Paul Krugman

New York Times 26 gennaio 2012

Mitch Daniels, il precedente Direttore al Bilancio di Bush che oggi è Governatore dell’Indiana, ha scritto la risposta dei Repubblicani al discorso del Presidente Obama sullo Stato dell’Unione. Francamente è stata una prestazione noiosa, eppure ne è venuto qualcosa di stimolante – intendo nel senso peggiore.

Perché il signor Daniels ha cercato di mettere il suo partito nei panni dell’ultimo Steve Jobs, che ha ritratto come una grande creatore di posti di lavoro – che è qualcosa che davvero Jobs non era. E se ci chiediamo perché Apple abbia creato così pochi posti di lavoro, abbiamo una sorta di illuminazione su cosa è sbagliato nell’ideologia che domina gran parte della nostra politica.

In primo luogo Daniels ha rimproverato il Presidente per il suo “continuo denigrare le persone impegnate nelle imprese”, la qualcosa si dà il caso che sia una invenzione completa. Obama non ha mai fatto niente del genere. Egli ha così proseguito: “L’ultimo Steve Jobs – che nome adatto aveva! [17]–  ne creò di più (di posti di lavoro) di quei dollari delle misure di sostegno che il Presidente ha preso a prestito e sperperato”.

 

Chiaramente, il signor Daniels non ha una particolare predisposizione all’umorismo. Ma, per stare sul tema, tutti i lettori del New York Times sanno che la sua affermazione sui posti di lavoro era completamente falsa: Apple impiega davvero poca gente in questo paese.

Il bel rapporto del Times di sabato scorso espone i fatti. Sebbene oggi Apple sia la più grande società americana in termini di valore di mercato, essa occupa soltanto 43.000 persone negli Stati Uniti, un decimo di quelli che occupava la General Motors quando era la più grande impresa americana.

Apple, tuttavia, dà davvero indirettamente lavoro  a 700.000 persone tra i suoi vari fornitori. Sfortunatamente, quasi nessuno di loro vive in America.

 

 

Perché Apple produce all’estero, specialmente in Cina? Come spiega l’articolo, questo non dipende solo dai bassi salari. La Cina trae grandi vantaggi anche dal fatto che una gran parte della catena dell’offerta si trova già là. Un precedente dirigente di Apple spiegava: “Avete bisogno di un migliaio di guarnizioni di gomma? C’è una fabbrica alla porta accanto. Avete bisogno di un milione di viti? C’è una fabbrica al prossimo caseggiato.”

Questo è un campo familiare a coloro che studiano la geografia economica: i vantaggi dei distretti industriali – nei quali i produttori, i fornitori specializzati ed i lavoratori si stringono assieme nel loro comune interesse – sono stati un tema corrente sin dal diciannovesimo secolo.

 

E il settore manifatturiero cinese non è l’unico esempio considerevole di questi vantaggi nel mondo odierno. La Germania resta un esportatore di elevato successo anche con lavoratori che costano, in media, 44 dollari all’ora – molto di più del costo medio dei lavoratori americani. E questo successo ha molto a che fare con il sostegno che le sue piccole e medie imprese – il famoso Mittelstand [18]si prestano l’una con l’altra attraverso fornitori comuni ed il mantenimento di una forza lavoro specializzata.

Il punto è che queste imprese di successo – o, in ogni caso, le imprese che danno una grande contributo all’economia di una nazione – non esistono in condizioni di isolamento. La prosperità dipende dalle sinergie tra le imprese, dal distretto, non dall’imprenditore individuale.

Ma, nella attuale concezione del mondo dei repubblicani, non c’è posto per considerazioni del genere. Nella prospettiva del Partito Repubblicano tutto dipende dall’eroico imprenditore, il John Galt [19]della situazione, voglio dire il “creatore di posti di lavoro” alla Steve Jobs, che inonda di benefici la collettività e che deve naturalmente essere ricompensato con livelli fiscali più bassi di quelli che sono applicati a molti lavoratori delle classe media [20].

 

E questa visione spiega perché i Repubblicani si erano opposti così furiosamente all’unica grande iniziativa politica di successo di questi anni: il salvataggio dell’industria dell’auto.

 

L’argomento a favore di questo salvataggio – che il signor Daniels ha denunciato come “capitalismo clientelare” – si poggiò fondamentalmente sull’idea che la sopravvivenza di una impresa dell’industria consiste nella sopravvivenza del più generale ambiente industriale creato dal distretto di produttori e di fornitori nel cuore industriale dell’America. Se alla General Motors ed alla Chrysler fosse stato permesso di fallire, esse probabilmente si sarebbero portate dietro gran parte della catena dell’offerta – e la Ford sarebbe andata per la stessa strada.

Fortunatamente la Amministrazione Obama non consentì che questo accadesse, e il tasso di disoccupazione in Michigan, che toccava il 14,1 per cento al momento in cui il salvataggio veniva messo in atto, è oggi all’ancora terribile ma molto migliore 9,3 per cento. E, a parte i dettagli, gran parte del discorso di Obama sullo Stato dell’Unione può essere letto come un tentativo più generale di applicare la lezione di quel successo.

Dovremmo dunque essere grati a Daniels per le sue osservazioni di martedì. Egli ha addotto esempi sbagliati, ma, senza averne l’intenzione, è riuscito ad illuminare una importante differenza filosofica tra i partiti. Una parte crede che le economie abbiano successo unicamente grazie ad eroici imprenditori; l’altra non ha niente contro gli imprenditori, ma crede che essi abbiano bisogno di un ambiente favorevole, e che qualche volta il Governo debba aiutare a creare o a sostenere quell’ambiente favorevole.

 

E il punto di vista secondo il quale ci vuole di più che l’eroismo degli imprenditori è quello che meglio si adatta ai fatti.

 

 

 

 

The Austerity Debacle

By PAUL KRUGMAN
Published: January 29, 2012

Last week the National Institute of Economic and Social Research, a British think tank, released a startling chart comparing the current slump with past recessions and recoveries. It turns out that by one important measure — changes in real G.D.P. since the recession began — Britain is doing worse this time than it did during the Great Depression. Four years into the Depression, British G.D.P. had regained its previous peak; four years after the Great Recession began, Britain is nowhere close to regaining its lost ground.

 

 

Nor is Britain unique. Italy is also doing worse than it did in the 1930s — and with Spain clearly headed for a double-dip recession, that makes three of Europe’s big five economies members of the worse-than club. Yes, there are some caveats and complications. But this nonetheless represents a stunning failure of policy.

And it’s a failure, in particular, of the austerity doctrine that has dominated elite policy discussion both in Europe and, to a large extent, in the United States for the past two years.

O.K., about those caveats: On one side, British unemployment was much higher in the 1930s than it is now, because the British economy was depressed — mainly thanks to an ill-advised return to the gold standard — even before the Depression struck. On the other side, Britain had a notably mild Depression compared with the United States.

 

Even so, surpassing the track record of the 1930s shouldn’t be a tough challenge. Haven’t we learned a lot about economic management over the last 80 years? Yes, we have — but in Britain and elsewhere, the policy elite decided to throw that hard-won knowledge out the window, and rely on ideologically convenient wishful thinking instead.

Britain, in particular, was supposed to be a showcase for “expansionary austerity,” the notion that instead of increasing government spending to fight recessions, you should slash spending instead — and that this would lead to faster economic growth. “Those who argue that dealing with our deficit and promoting growth are somehow alternatives are wrong,” declared David Cameron, Britain’s prime minister. “You cannot put off the first in order to promote the second.”

 

How could the economy thrive when unemployment was already high, and government policies were directly reducing employment even further? Confidence! “I firmly believe,” declared Jean-Claude Trichet — at the time the president of the European Central Bank, and a strong advocate of the doctrine of expansionary austerity — “that in the current circumstances confidence-inspiring policies will foster and not hamper economic recovery, because confidence is the key factor today.”

Such invocations of the confidence fairy were never plausible; researchers at the International Monetary Fund and elsewhere quickly debunked the supposed evidence that spending cuts create jobs. Yet influential people on both sides of the Atlantic heaped praise on the prophets of austerity, Mr. Cameron in particular, because the doctrine of expansionary austerity dovetailed with their ideological agendas.

 

 

Thus in October 2010 David Broder, who virtually embodied conventional wisdom, praised Mr. Cameron for his boldness, and in particular for “brushing aside the warnings of economists that the sudden, severe medicine could cut short Britain’s economic recovery and throw the nation back into recession.” He then called on President Obama to “do a Cameron” and pursue “a radical rollback of the welfare state now.”

 

Strange to say, however, those warnings from economists proved all too accurate. And we’re quite fortunate that Mr. Obama did not, in fact, do a Cameron.

Which is not to say that all is well with U.S. policy. True, the federal government has avoided all-out austerity. But state and local governments, which must run more or less balanced budgets, have slashed spending and employment as federal aid runs out — and this has been a major drag on the overall economy. Without those spending cuts, we might already have been on the road to self-sustaining growth; as it is, recovery still hangs in the balance.

And we may get tipped in the wrong direction by Continental Europe, where austerity policies are having the same effect as in Britain, with many signs pointing to recession this year.

 

The infuriating thing about this tragedy is that it was completely unnecessary. Half a century ago, any economist — or for that matter any undergraduate who had read Paul Samuelson’s textbook “Economics” — could have told you that austerity in the face of depression was a very bad idea. But policy makers, pundits and, I’m sorry to say, many economists decided, largely for political reasons, to forget what they used to know. And millions of workers are paying the price for their willful amnesia.

 

La débâcle dell’austerità, di Paul Krugman

New York Times 29 gennaio 2012

La scorsa settimana, il National Institute of Economic and Social Research, una organizzazione intellettuale britannica, ha rilasciato un sorprendente diagramma che compara la crisi attuale con le precedenti recessioni e riprese. Viene fuori che per quanto attiene ad un dato importante – i cambiamenti nel PIL reale dal momento in cui è iniziata la recessione – l’Inghilterra sta facendo peggio questa volta che non nel periodo della Grande Depressione. In quattro anni di quella Depressione, l’Inghilterra aveva riguadagnato il livello del suo precedente punto più alto; quattro anni dopo l’inizio della Grande Recessione [21], l’Inghilterra non è affatto vicina a recuperare il terreno perduto.

 

Né il caso dell’Inghilterra è unico. Anche l’Italia sta facendo peggio che negli anni ’30 – e con la Spagna chiaramente indirizzata verso una ricaduta nella recessione, questo significa che tre delle cinque più grandi economie europee fanno parte di quello che possiamo chiamare il club dei “peggio-di-allora”. Nondimeno, rappresenta una prova sensazionale di insuccesso della politica.

E si tratta, in particolare, dell’insuccesso della dottrina dell’austerità, che ha dominato il dibattito politico delle classi dirigenti sia in Europa che, in larga misura, negli Stati Uniti negli ultimi due anni.

 

E’ il caso di aggiungere due avvertimenti: da una parte la disoccupazione britannica era molto più alta negli anni ’30 di quanto non sia oggi, perché l’economia inglese era depressa anche prima che colpisse la Depressione – principalmente grazie ad un improvvido ritorno al gold-standard. D’altra parte, l’Inghilterra conobbe una Depressione considerevolmente più leggera, al confronto con quella degli Stati Uniti.

Ciononostante, superare il precedente degli anni ’30 non dovrebbe essere una sfida impossibile. Non abbiamo appreso tante cose sulla gestione dell’economia negli ultimi 80 anni? In effetti è così, sennonché in Inghilterra e dappertutto, le classi dirigenti hanno deciso di buttare quelle conoscenze apprese con fatica dalla finestra, per affidarsi ideologicamente, invece, ad un comodo ottimismo di maniera.

 

Si era supposto, in particolare, che  l’Inghilterra fosse un caso esemplare di “austerità espansiva”, l’idea che per combattere le recessioni piuttosto che accrescere la spesa pubblica si dovesse abbatterla – e che questo avrebbe più velocemente portato alla crescita economica. “Coloro che sostengono che fare i conti con il nostro deficit e promuovere la crescita sia in qualche modo in alternativa, si sbagliano”, aveva dichiarato il Primo Ministro britannico David Cameron. “Non si può rinviare il primo allo scopo di promuovere la seconda”.

Come poteva l’economia riprendersi, quando lo disoccupazione era già elevata e le politiche del governo erano orientate a ridurre l’occupazione ancora di più? Con la fiducia! “Credo fermamente” dichiarò Jean-Claude Trichet – a quel tempo Presidente della Banca Centrale Europea e forte sostenitore della dottrina della austerità espansiva – “che nelle attuali circostanze, le  politiche che ispirano fiducia favoriscano piuttosto che intralciare la ripresa dell’economia, perché è la fiducia oggi il fattore-chiave”.

 

 

Invocazioni di quel genere alla ‘fata turchina della fiducia’ non sono mai state plausibili; ricercatori presso il Fondo Monetario Internazionale e  altrove hanno rapidamente ridimensionato le prove immaginarie secondo le quali i tagli alla spesa creano posti di lavoro. Tuttavia, gente influente da entrambe le sponde dell’Atlantico colmò di elogi i profeti dell’austerità, il signor Cameron in particolare, perché la dottrina dell’austerità espansiva combaciava alla perfezione con i loro programmi ideologici.

 

 

 

Così, nell’ottobre del 2010 David Broder [22], che virtualmente incarnava la saggezza convenzionale, elogiò il signor Cameron per il suo coraggio, e in particolare per “aver messo da parte gli ammonimenti degli economisti, secondo i quali l’improvvisa e severa medicina avrebbe compromesso la ripresa economica dell’Inghilterra e risospinto il paese nella recessione”. Invitò in quella occasione il Presidente Obama a “fare il Cameron” ed a proporsi “da subito un radicale ribaltamento dello stato assistenziale”.

Strano a dirsi, tuttavia, quegli ammonimenti da parte di economisti si sono mostrati anche troppo precisi. E noi siamo abbastanza fortunati che Obama, in fin dei conti, non si sia comportato come Cameron.

Il che non significa che nella politica americana tutto vada a gonfie vele. E’ vero, il governo federale ha evitato quella austerità ad oltranza. Ma il governi locali e degli Stati, che più o meno devono tenere i loro bilanci in equilibrio, hanno tagliato le spese e l’occupazione nel mentre si esaurivano gli aiuti federali – e questa è stato un grave condizionamento dell’economia generale. Senza quei tagli alla spesa, potremmo già essere sulla strada di una crescita capace di reggersi da sola; invece, la ripresa è ancora in bilico.

Inoltre, noi possiamo essere sbilanciati nella direzione sbagliata dall’Europa continentale, nella quale le politiche di austerità stanno provocando gli stessi effetti che in Inghilterra, con molti segni che indicano una recessione per quest’anno.

Quello che manda fuori dai gangheri in questa tragedia, è che essa non era affatto necessaria. Mezzo secolo fa ogni economista – ma anche, entro quei limiti, ogni studente universitario che avesse letto il libro di testo “Economics” di Paul Samuelson – vi avrebbe detto che, a fronte di una depressione, l’austerità era una pessima idea. Ma gli uomini politici, gli addetti ai lavori e, dispiace dirlo, molti economisti hanno deciso, in gran parte per ragioni politiche, di scordarsi di quello che normalmente sapevano. E milioni di lavoratori stanno pagando il prezzo della loro volontaria amnesia.

 

 

 

 

Romney Isn’t Concerned

By PAUL KRUGMAN
Published: February 2, 2012

If you’re an American down on your luck, Mitt Romney has a message for you: He doesn’t feel your pain. Earlier this week, Mr. Romney told a startled CNN interviewer, “I’m not concerned about the very poor. We have a safety net there.”

 

Faced with criticism, the candidate has claimed that he didn’t mean what he seemed to mean, and that his words were taken out of context. But he quite clearly did mean what he said. And the more context you give to his statement, the worse it gets.

First of all, just a few days ago, Mr. Romney was denying that the very programs he now says take care of the poor actually provide any significant help. On Jan. 22, he asserted that safety-net programs — yes, he specifically used that term — have “massive overhead,” and that because of the cost of a huge bureaucracy “very little of the money that’s actually needed by those that really need help, those that can’t care for themselves, actually reaches them.”

 

This claim, like much of what Mr. Romney says, was completely false: U.S. poverty programs have nothing like as much bureaucracy and overhead as, say, private health insurance companies. As the Center on Budget and Policy Priorities has documented, between 90 percent and 99 percent of the dollars allocated to safety-net programs do, in fact, reach the beneficiaries. But the dishonesty of his initial claim aside, how could a candidate declare that safety-net programs do no good and declare only 10 days later that those programs take such good care of the poor that he feels no concern for their welfare?

Also, given this whopper about how safety-net programs actually work, how credible was Mr. Romney’s assertion, after expressing his lack of concern about the poor, that if the safety net needs a repair, “I’ll fix it”?

 

 

Now, the truth is that the safety net does need repair. It provides a lot of help to the poor, but not enough. Medicaid, for example, provides essential health care to millions of unlucky citizens, children especially, but many people still fall through the cracks: among Americans with annual incomes under $25,000, more than a quarter — 28.7 percent — don’t have any kind of health insurance. And, no, they can’t make up for that lack of coverage by going to emergency rooms.

Similarly, food aid programs help a lot, but one in six Americans living below the poverty line suffers from “low food security.” This is officially defined as involving situations in which “food intake was reduced at times during the year because [households] had insufficient money or other resources for food” — in other words, hunger.

So we do need to strengthen our safety net. Mr. Romney, however, wants to make the safety net weaker instead.

 

Specifically, the candidate has endorsed Representative Paul Ryan’s plan for drastic cuts in federal spending — with almost two-thirds of the proposed spending cuts coming at the expense of low-income Americans. To the extent that Mr. Romney has differentiated his position from the Ryan plan, it is in the direction of even harsher cuts for the poor; his Medicaid proposal appears to involve a 40 percent reduction in financing compared with current law.

So Mr. Romney’s position seems to be that we need not worry about the poor thanks to programs that he insists, falsely, don’t actually help the needy, and which he intends, in any case, to destroy.

 

Still, I believe Mr. Romney when he says he isn’t concerned about the poor. What I don’t believe is his assertion that he’s equally unconcerned about the rich, who are “doing fine.” After all, if that’s what he really feels, why does he propose showering them with money?

And we’re talking about a lot of money. According to the nonpartisan Tax Policy Center, Mr. Romney’s tax plan would actually raise taxes on many lower-income Americans, while sharply cutting taxes at the top end. More than 80 percent of the tax cuts would go to people making more than $200,000 a year, almost half to those making more than $1 million a year, with the average member of the million-plus club getting a $145,000 tax break.

 

And these big tax breaks would create a big budget hole, increasing the deficit by $180 billion a year — and making those draconian cuts in safety-net programs necessary.

Which brings us back to Mr. Romney’s lack of concern. You can say this for the former Massachusetts governor and Bain Capital executive: He is opening up new frontiers in American politics. Even conservative politicians used to find it necessary to pretend that they cared about the poor. Remember “compassionate conservatism”? Mr. Romney has, however, done away with that pretense.

At this rate, we may soon have politicians who admit what has been obvious all along: that they don’t care about the middle class either, that they aren’t concerned about the lives of ordinary Americans, and never were.

 

Romney non è preoccupato, di Paul Krugman

New York Times 2 febbraio 2012

 

Se siete americani un po’ alle basse con la fortuna, Mitt Romney ha un messaggio per voi: le vostre pene non lo emozionano. Agli inizi di questa settimana, il signor Romney ha detto ad uno sbigottito intervistatore della CNN: “Non sono preoccupato per i più poveri. Per loro abbiamo una rete di sicurezza.”

Assalito dalle critiche, il candidato ha sostenuto di non aver inteso dire quello che sembrava intendesse, e che le sue parole erano state astratte dal loro contesto. Ma è abbastanza chiaro che egli intendesse dire quello che ha detto. E più contesto aggiungete al suo discorso, peggio è.

Prima di tutto, solo alcuni giorni fa, aveva affermato di non prevedere alcun significativo aiuto  proprio per quei programmi che oggi dice si prendono cura dei poveri. Il 22 Gennaio, dichiarò che i programmi della rete della sicurezza – usò specificamente proprio quel termine – hanno “massicce spese generali”, e che a causa dei costi di una vasta burocrazia “molto poco del denaro di cui hanno effettivamente bisogno quelli che non bastano a se stessi ed hanno davvero bisogno d’aiuto, effettivamente li raggiunge.”

La affermazione, come gran parte di quello che Romney dice, era completamente falsa: i programmi per la povertà degli Stati Uniti non hanno per niente la burocrazia e le spese generali che hanno, ad esempio, le compagnie private della assicurazione sanitaria. Come ha documentato il Center on Budget and Policy Priorities, tra il 90 ed il 99 per cento dei dollari allocati presso i programmi della sicurezza sociale, nei fatti, raggiungono per davvero i beneficiari. Ma, a parte la disonestà della sua iniziale affermazione, come ha potuto un candidato dichiarare che i programmi delle rete di sicurezza non operano bene e solo dieci giorni dopo dichiarare che essi si prendono una tale buona cura dei poveri, che egli non sente alcuna preoccupazione per la loro assistenza?

Inoltre, considerata quella bufala su come i programmi della sicurezza effettivamente funzionano, quanto è credibile Romney quando afferma, dopo aver negato alcuna preoccupazione per i poveri, qualora quelle reti di sicurezza avessero bisogno di essere riviste: “io le riparerò”?

 

Ora, la verità è che la rete della sicurezza sociale non ha bisogno di essere riparata. Essa fornisce molto aiuto ai poveri, ma non abbastanza. Medicaid, ad esempio, fornisce assistenza sanitaria a milioni di cittadini sfortunati, in particolare bambini, ma c’è troppa gente che ancora passa inosservata: tra gli americani con redditi annuali inferiori ai 25.000 dollari, più di un quarto – il 28,7 per cento – non hanno alcuna forma di assicurazione sanitaria. E non è vero che essi possano ovviare a questa mancanza di copertura rivolgendosi al pronto soccorso.

In modo simile, i programmi della assistenza alimentare sono di grande aiuto, ma un americano su sei che vivono al di sotto della linea di povertà soffre di “bassa sicurezza alimentare”. Questa  è la definizione ufficiale che comprende le situazioni nelle quali “il consumo di cibo viene a volte ridotto durante l’anno a causa della mancanza di soldi (nelle famiglie) o di altri modi per alimentarsi” – fame, in altre parole.

Abbiamo dunque bisogno di rafforzare le nostre reti della sicurezza sociale. I signor Romney, tuttavia, le vuole piuttosto indebolire.

In particolare, il candidato ha appoggiato il programma del parlamentare Paul Ryan per tagli drastici nella spesa federale – con circa due terzi dei proposti tagli alle spesa che deriverebbero dagli esborsi verso gli americani a reddito basso. Nella misura in cui Romney ha differenziato la sua posizione dal programma Ryan, lo ha fatto nel senso di tagli ancora più duri nei confronti dei poveri; la sua proposta su Medicaid pare che comporti una riduzione del 40 per cento nei finanziamenti  al confronto con la legislazione attuale.

Dunque, la posizione di Romney sembra essere quella secondo la quale non abbiamo bisogno di preoccuparci per i poveri grazie a quei programmi che egli insiste falsamente a sostenere non aiutano effettivamente i bisognosi, e che, in ogni caso, intende distruggere.

Tuttavia, io credo a Romney quando afferma di non essere preoccupato per i poveri. Quello a cui non credo è la sua affermazione per la quale sarebbe egualmente non preoccupato per i ricchi, che se la stanno “cavando assai bene”. Dopo tutto, se è quello che egli realmente sente, perché mai propone di inondarli di denaro?

E stiamo parlando di montagne di denaro. Secondo l’indipendente Tax Policy Center, il piano fiscale di Romney in effetti aumenterebbe le tasse su molti americani a basso reddito, mentre le taglierebbe nettamente sui più ricchi. Più dell’80 per cento degli sgravi fiscali andrebbe alle persone che realizzano più di 200.000 dollari all’anno, quasi la metà a coloro che realizzano più di un milione di dollari all’anno, con una media di benefici fiscali per ogni componente del gruppo degli ultramilionari pari a 145.000 dollari.

E questi grandi sgravi fiscali creerebbero un grande buco nel bilancio, accrescendo il deficit per circa 180 miliardi di dollari all’anno – e rendendo necessari quei tagli draconiani ai programmi per le reti della sicurezza sociale.

Il che ci riporta al punto della mancanza di preoccupazione da parte di Romney. Si può dire questo del precedente Governatore del Massachusetts nonché amministratore della Bain Capital: egli sta aprendo nuove frontiere nella politica americana. Persino gli uomini politici conservatori erano soliti ritenere necessario atteggiarsi ad una certa preoccupazione verso i poveri. Ricordate il “conservatorismo compassionevole” [23]?  Ebbene, Romney ha liquidato quella finzione.

Di questo passo, avremo tra breve politici che ammetteranno quello che è sempre stato chiaro: che non si preoccupano neppure delle classi medie, che non si preoccupano affatto della vita degli americani comuni, né mai se ne sono preoccupati.

  

 

 

 

Things Are Not O.K.

By PAUL KRUGMAN
Published: February 5, 2012

In a better world — specifically, a world with a better policy elite — a good jobs report would be cause for unalloyed celebration. In the world we actually inhabit, however, every silver lining comes with a cloud. Friday’s report was, in fact, much better than expected, and has made many people, myself included, more optimistic. But there’s a real danger that this optimism will be self-defeating, because it will encourage and empower the purge-and-liquidate crowd.

 

 

So, about that jobs report: it was genuinely good, certainly compared with the dreariness that has become the norm. Notably, for once falling unemployment was the real thing, reflecting growing availability of jobs rather than workers dropping out of the labor force, and hence out of the unemployment measure.

 

 

Furthermore, it’s not hard to see how this recovery could become self-sustaining. In particular, at this point America is seriously under-housed by historical standards, because we’ve built very few houses in the six years since the housing bubble popped. The main thing standing in the way of a housing bounce-back is a sharp fall in household formation — econospeak for lots of young adults living with their parents because they can’t afford to move out. Let enough Americans find jobs and get homes of their own, and housing, which got us into this slump, could start to power us out.

 

That said, our economy remains deeply depressed. As the Economic Policy Institute points out, we started 2012 with fewer workers employed than in January 2001 — zero growth after 11 years, even as the population, and therefore the number of jobs we needed, grew steadily. The institute estimates that even at January’s pace of job creation it would take us until 2019 to return to full employment.

 

And we should never forget that the persistence of high unemployment inflicts enormous, continuing damage on our economy and our society, even if the unemployment rate is gradually declining. Bear in mind, in particular, the fact that long-term unemployment — the percentage of workers who have been out of work for six months or more — remains at levels not seen since the Great Depression. And each month that this goes on means more Americans permanently alienated from the work force, more families exhausting their savings, and, not least, more of our fellow citizens losing hope.

 

So this encouraging employment report shouldn’t lead to any slackening in efforts to promote recovery. Full employment is still a distant dream — and that’s unacceptable. Policy makers should be doing everything they can to get us back to full employment as soon as possible.

 

Unfortunately, that’s not the way many people with influence on policy see it.

Very early in this slump — basically, as soon as the threat of complete financial collapse began to recede — a significant number of people within the policy community began demanding an early end to efforts to support the economy. Some of their demands focused on the fiscal side, with calls for immediate austerity despite low borrowing costs and high unemployment. But there have also been repeated demands that the Fed and its counterparts abroad tighten money and raise interest rates.

 

 

What’s the reasoning behind those demands? Well, it keeps changing. Sometimes it’s about the alleged risk of inflation: every uptick in consumer prices has been met with calls for tighter money now now now. And the inflation hawks at the Fed and elsewhere seem undeterred either by the way the predicted explosion of inflation keeps not happening, or by the disastrous results last April when the European Central Bank actually did raise rates, helping to set off the current European crisis.

 

But there’s also a sort of freestanding opposition to low interest rates, a sense that there’s something wrong with cheap money and easy credit even in a desperately weak economy. I think of this as the urge to purge, after Andrew Mellon, Herbert Hoover’s Treasury secretary, who urged him to let liquidation run its course, to “purge the rottenness” that he believed afflicted America.

 

And every time we get a bit of good news, the purge-and-liquidate types pop up, saying that it’s time to stop focusing on job creation.

Sure enough, no sooner were the new numbers out than James Bullard, the president of the St. Louis Fed, declared that the new numbers make further Fed action to promote growth unnecessary. And the sad truth is that the good jobs numbers have definitely made it less likely that the Fed will take the expansionary action it should.

So here’s what needs to be said about the latest numbers: yes, we’re doing a bit better, but no, things are not O.K. — not remotely O.K. This is still a terrible economy, and policy makers should be doing much more than they are to make it better.

 

Le cosa non vanno bene, di Paul Krugman

New York Times, 5 febbraio 2012

 

In un mondo migliore – in particolare in un mondo con migliori classi dirigenti – un rapporto positivo sui posti di lavoro provocherebbe una vera e propria festa. Nel mondo nel quale ci troviamo a vivere, tuttavia, ogni cenno d’ottimismo s’accompagna con una nuvola. Il rapporto di venerdì è stato, in effetti, molto migliore di quanto non ci si aspettasse ed ha reso molte persone, incluso il sottoscritto, più ottimistiche. Ma c’è un pericolo effettivo che quell’ottimismo finisca con l’essere dannoso, nella misura in cui incoraggerà e darà un pretesto alla moltitudine dei fanatici dell’austerità [24].

 

Dunque, a proposito del rapporto sui posti di lavoro: esso è davvero buono, lo è certamente se confrontato con la desolazione a cui si si stava abituando. In particolare, una buona volta la diminuzione della disoccupazione è stata un fatto reale, riflettendo una maggiore disponibilità di posti di lavoro invece che di lavoratori espulsi dalle forze di lavoro, e quindi a prescindere dal dato della disoccupazione.

 

Inoltre, non è difficile vedere come questa ripresa potrebbe essere capace di sostenersi da sola. In particolare, a questo punto l’America è seriamente al di sotto dei suoi standards abitativi, perché a partire dallo scoppio della bolla immobiliare abbiamo davvero costruito poche case negli ultimi sei anni. La cosa principale che sta ostacolando un rimbalzo della attività edilizia è una brusca caduta nella formazione delle famiglie – una specie di “passaparola” [25] per tanti giovani adulti che vivono con i loro genitori perché non possono permettersi di uscire di casa. Facciamo in modo che un numero sufficiente di americani trovino lavoro e si procurino alloggi per loro conto e il settore immobiliare, che ci ha messi in questa depressione, potrebbe cominciare a darci la spinta per uscirne.

Ciò detto, la nostra economia resta profondamente depressa. Come lo Economic Policy Institute sottolinea, abbiamo cominciato il 2012 con minori lavoratori occupati che nel gennaio del 2011 – crescita zero dopo 11 anni, anche se la popolazione, e di conseguenza il numero di posti di lavoro di cui abbiamo bisogno, è cresciuta costantemente. L’istituto stima che persino con il ritmo di creazione dei posti di lavoro di gennaio, ci vorrà sino al 2019 per tornare alla piena occupazione.

E neanche dovremmo dimenticare che la persistenza di una elevata disoccupazione infligge un enorme, continuo danno alla nostra economia ed alla nostra società, anche se il tasso di disoccupazione diminuisce gradualmente. Si consideri in particolare che la disoccupazione di lungo periodo – la percentuale di lavoratori che sono rimasti fuori dal lavoro per sei mesi o più – resta a livelli che non si erano visti dalla Grande Depressione. E ogni mese che questa situazione va avanti comporta un numero maggiore di americani permanentemente estraniati dalle forze di lavoro, un numero maggiore di famiglie che danno fondo ai loro risparmi, e, non meno importante, un numero maggiore di nostri concittadini che perdono la speranza.

Dunque, questo incoraggiante rapporto sull’occupazione non dovrebbe condurre ad alcun allentamento negli sforzi per promuovere la ripresa. La piena occupazione è ancora un sogno distante – e questo è inaccettabile. Gli uomini politici dovrebbero fare tutto quello che è nelle loro possibilità per riportarci alla piena occupazione prima possibile.

Sfortunatamente, non sono in molti a vedere le cose in quel modo, tra quelli che hanno influenza sulla politica.

Molto prematuramente in questa crisi – fondamentalmente, appena la minaccia di un generale collasso finanziario cominciò a venir meno –  un significativo numero di persone all’interno della comunità politica cominciò a chiedere la fine di ogni sforzo di sostegno all’economia. Alcune delle loro richieste si concentravano sull’aspetto delle finanze pubbliche, con la richiesta di una immediata austerità nonostante il basso costo dell’indebitamento e l’elevata disoccupazione. Ma ci sono anche state ripetute richieste perché la Fed e le altre banche centrali straniere procedessero a restrizioni monetarie ed aumentassero i tassi di interesse.

Quale ragionamento sta dietro tali richieste? Ebbene, esso continua a cambiare. Talvolta riguarda il preteso rischio di inflazione: ogni lieve incremento dei prezzi al consumo è stato accolta con richieste di urgentissima restrizione monetaria. E i falchi dell’inflazione, alla Fed ed in tutti gli altri luoghi, procedono imperterriti a prescindere dal fatto che la prevista esplosione della inflazione continui a non materializzarsi, o dai risultati disastrosi dello scorso aprile, quando la Banca Centrale Europea effettivamente aumentò i tassi, dando un contributo a far esplodere la attuale crisi europea. 

Ma c’è anche un sorta di distinta e separata opposizione ai bassi tassi di interesse, il senso che ci sia qualcosa di sbagliato nel denaro a buon mercato e nel credito facile, pure in una economia disperatamente debole. La definirei come l’ansia di procedere ad un purga, come quando Andrew Mellon, il Segretario al Tesoro di Herbert Hoover, spingeva quest’ultimo a consentire che i fallimenti andassero per la loro strada, in modo da “purgare il marciume” che egli riteneva affliggesse l’America.

E ogni volta che abbiamo un brandello di buona notizia, saltano fuori i fanatici del “purga e liquida”, dicendo che è venuto il momento di smetterla di concentrarsi sulla creazione di posti di lavoro.

Tanto è vero che James Ballard, il Presidente della Fed di St. Louis, appena resi noti i nuovi dati, ha dichiarato che essi rendono inutile una ulteriore iniziativa della Fed per promuovere la crescita. E la triste verità è che i buoni dati sui posti di lavoro hanno definitivamente reso meno probabile  la iniziativa espansionistica che sarebbe necessaria da parte della Fed.

Ecco dunque cosa c’è bisogno che si dica a proposito degli ultimi dati: si, stiamo facendo un po’ meglio, ma no, le cose non vanno bene, sono ben lontane dall’andar bene. La condizione dell’economia è tuttora terribile, e gli uomini politici dovrebbero fare molto di più di quello che fanno per renderla migliore. 

 

 

 

 

 

 

 

Money and Morals

By PAUL KRUGMAN
Published: February 9, 2012

Lately inequality has re-entered the national conversation. Occupy Wall Street gave the issue visibility, while the Congressional Budget Office supplied hard data on the widening income gap. And the myth of a classless society has been exposed: Among rich countries, America stands out as the place where economic and social status is most likely to be inherited.

So you knew what was going to happen next. Suddenly, conservatives are telling us that it’s not really about money; it’s about morals. Never mind wage stagnation and all that, the real problem is the collapse of working-class family values, which is somehow the fault of liberals.

But is it really all about morals? No, it’s mainly about money.

 

To be fair, the new book at the heart of the conservative pushback, Charles Murray’s “Coming Apart: The State of White America, 1960-2010,” does highlight some striking trends. Among white Americans with a high school education or less, marriage rates and male labor force participation are down, while births out of wedlock are up. Clearly, white working-class society has changed in ways that don’t sound good.

 

But the first question one should ask is: Are things really that bad on the values front?

 

Mr. Murray and other conservatives often seem to assume that the decline of the traditional family has terrible implications for society as a whole. This is, of course, a longstanding position. Reading Mr. Murray, I found myself thinking about an earlier diatribe, Gertrude Himmelfarb’s 1996 book, “The De-Moralization of Society: From Victorian Virtues to Modern Values,” which covered much of the same ground, claimed that our society was unraveling and predicted further unraveling as the Victorian virtues continued to erode.

 

Yet the truth is that some indicators of social dysfunction have improved dramatically even as traditional families continue to lose ground. As far as I can tell, Mr. Murray never mentions either the plunge in teenage pregnancies among all racial groups since 1990 or the 60 percent decline in violent crime since the mid-90s. Could it be that traditional families aren’t as crucial to social cohesion as advertised?

 

Still, something is clearly happening to the traditional working-class family. The question is what. And it is, frankly, amazing how quickly and blithely conservatives dismiss the seemingly obvious answer: A drastic reduction in the work opportunities available to less-educated men.

 

Most of the numbers you see about income trends in America focus on households rather than individuals, which makes sense for some purposes. But when you see a modest rise in incomes for the lower tiers of the income distribution, you have to realize that all — yes, all — of this rise comes from the women, both because more women are in the paid labor force and because women’s wages aren’t as much below male wages as they used to be.

For lower-education working men, however, it has been all negative. Adjusted for inflation, entry-level wages of male high school graduates have fallen 23 percent since 1973. Meanwhile, employment benefits have collapsed. In 1980, 65 percent of recent high-school graduates working in the private sector had health benefits, but, by 2009, that was down to 29 percent.

So we have become a society in which less-educated men have great difficulty finding jobs with decent wages and good benefits. Yet somehow we’re supposed to be surprised that such men have become less likely to participate in the work force or get married, and conclude that there must have been some mysterious moral collapse caused by snooty liberals. And Mr. Murray also tells us that working-class marriages, when they do happen, have become less happy; strange to say, money problems will do that.

 

One more thought: The real winner in this controversy is the distinguished sociologist William Julius Wilson.

Back in 1996, the same year Ms. Himmelfarb was lamenting our moral collapse, Mr. Wilson published “When Work Disappears: The New World of the Urban Poor,” in which he argued that much of the social disruption among African-Americans popularly attributed to collapsing values was actually caused by a lack of blue-collar jobs in urban areas. If he was right, you would expect something similar to happen if another social group — say, working-class whites — experienced a comparable loss of economic opportunity. And so it has.

So we should reject the attempt to divert the national conversation away from soaring inequality toward the alleged moral failings of those Americans being left behind. Traditional values aren’t as crucial as social conservatives would have you believe — and, in any case, the social changes taking place in America’s working class are overwhelmingly the consequence of sharply rising inequality, not its cause.

 

Soldi e principi morali, di Paul Krugman

New York Times 9 febbraio 2012

 

Di recente l’ineguaglianza ha fatto di nuovo ingresso nel dibattito nazionale. Occupy Wall Street ha dato visibilità al tema, mentre il Congressional Budget Office [26] ha offerto dati impressionanti sull’allargamento delle differenze di reddito. E il mito di una società senza classi è stato messo a nudo: tra i paesi ricchi, l’America risalta come il luogo nel quale lo status economico e sociale è più probabile che venga ereditato.

In questo modo sono apparse chiare le prossime mosse. All’improvviso, i conservatori hanno cominciato a dirci che non era una questione di soldi, ma di principi morali. Non conta la stagnazione dei salari e tutto il resto, il vero problema è il collasso di valori delle famiglie della classe lavoratrice, che in qualche modo rappresenta il fallimento dei progressisti.

Ma tutto questo ha a che fare con i principi morali? No, ha a che fare soprattutto con i soldi.

Ad essere onesti, il nuovo libro che è al cuore di tutto il chiasso [27] dei conservatori, “L’America bianca va in frantumi. 1960-2010”  di Charles Murray, illumina davvero alcune tendenze impressionanti. Tra gli americani bianchi con una istruzione medio-superiore o anche inferiore, le percentuali dei matrimoni e della partecipazione maschile alle forze di lavoro [28] sono in calo, mentre le nascite fuori dal matrimonio sono in crescita. Chiaramente, la società dei lavoratori bianchi è cambiata in modi che non sembrano positivi.

 

Ma la prima domanda alla quale si dovrebbe rispondere è: si tratta di cose così negative dal punto di vista dei valori?

 

 

Il signor Murray ed altri conservatori sembrano assumere che il declino della famiglia tradizionale abbia implicazioni terribili per la società nel suo complesso. E’ evidente che si tratta di un concetto di vecchia data. Leggendo Murray, mi sono ritrovato a pensare ad una precedente diatriba; il libro di Gertrude Himmelfarb del 1996 “La de-moralizzazione della società: dalle virtù vittoriane ai valori odierni” che riguardava in gran parte gli stessi temi, sosteneva che la nostra società si stesse sfilacciando e prevedeva un ulteriore degrado se le virtù vittoriane avessero continuato ad erodersi.

Tuttavia la verità è che alcuni indicatori del malessere sociale hanno avuto un miglioramento spettacolare, pure in presenza di una continua perdita di terreno della famiglia tradizionale. Per quanto ho visto, Murray non fa mai menzione né della caduta verticale delle gravidanze tra le giovanissime in tutti i gruppi razziali a partire dal 1990, né del declino dei crimini violenti a partire dalla metà degli anni ’90. Potrebbe darsi che le famiglie tradizionali non siano così cruciali per la coesione sociale come si era pubblicizzato.

Inoltre, è chiaro che qualcosa sta accadendo ai valori tradizionali della famiglia delle classi lavoratrici. La domanda è cosa. Ed è francamente sbalorditiva la rapidità e la spensieratezza con la quale i conservatori mettono da parte la risposta apparentemente più ovvia: una drastica riduzione delle opportunità di lavoro a disposizione degli uomini meno istruiti.

 

Gran parte dei dati che si leggono a proposito delle tendenze dei redditi in America si concentrano sulle famiglie invece che sugli individui, la qualcosa per alcuni scopi ha un senso. Ma quando si constata un modesto aumento dei redditi per le fasce più basse della distribuzione del reddito, si deve comprendere che tutta – si, proprio tutta – questa crescita viene dalle donne, sia perché ci sono più donne tra la forza lavoro retribuita, sia perché i salari delle donne non sono così inferiori a quelli degli uomini come erano un tempo.

Per i lavoratori maschi con istruzione inferiore, tuttavia, le cose sono andate male. A partire dal 1973, i salari iniziali corretti per l’inflazione dei maschi con istruzione medio-superiore [29] sono caduti del 23 per cento. Nel frattempo, i contributi sociali [30] sono precipitati. Nel 1980, il 65 per cento dei lavoratori con recente diploma occupati nel settore privato avevano i contributi sanitari, ma, dal 2009, sono scesi al 29 per cento [31].

Dunque, siamo diventati una società nella quale gli uomini meno istruiti hanno grandi difficoltà a trovare posti di lavoro con salari decenti e buoni contributi sociali. Tuttavia sembra che in qualche modo si sia sorpresi che per persone del genere sia diventato meno facile impegnarsi nel lavoro o sposarsi, per concludere che ci dev’essere stato un qualche misterioso collasso morale provocato dai liberals con la puzza sotto il naso. E il signor Murray ci dice anche che i matrimoni tra i lavoratori, quando hanno luogo, sono meno felici. Ma guarda che stranezza, non saranno problemi di soldi?  

Un altro pensiero: chi esce davvero vincitore da questa controversia è l’illustre sociologo William Julius Wilson.

Nel passato 1996, lo stesso anno nel quale la signora Himmelfarb si lamentava del degrado morale, Wilson pubblicò “Quando scompare il lavoro: il nuovo mondo della miseria urbana”, nel quale sosteneva che gran parte del disordine tra gli afro-americani comunemente attribuito alla crisi dei valori fosse effettivamente provocato dalla mancanza di posti di lavoro industriali nelle aree urbane. Se aveva ragione, vi aspettereste che qualcosa di simile accada se un altro gruppo sociale – ad esempio, i lavoratori bianchi –  facesse una paragonabile esperienza di scarsità di opportunità economiche. Questo è quanto è accaduto.

Dovremmo dunque respingere il tentativo di spostare il dibattito nazionale dalle crescenti ineguaglianze ai pretesi fallimenti morali di quegli americani che sono stati lasciati indietro. I valori tradizionali non sono così fondamentali come i conservatori vorrebbero farci credere – e, in ogni caso, i cambiamenti sociali in atto nella classe operaia americana sono in modo preponderante la conseguenza di una brusca, crescente ineguaglianza, non la loro causa.

 

 

 

 

Severe Conservative Syndrome

By PAUL KRUGMAN
Published: February 12, 2012

Mitt Romney has a gift for words — self-destructive words. On Friday he did it again, telling the Conservative Political Action Conference that he was a “severely conservative governor.”

As Molly Ball of The Atlantic pointed out, Mr. Romney “described conservatism as if it were a disease.” Indeed. Mark Liberman, a linguistics professor at the University of Pennsylvania, provided a list of words that most commonly follow the adverb “severely”; the top five, in frequency of use, are disabled, depressed, ill, limited and injured.

 

That’s clearly not what Mr. Romney meant to convey. Yet if you look at the race for the G.O.P. presidential nomination, you have to wonder whether it was a Freudian slip. For something has clearly gone very wrong with modern American conservatism.

Start with Rick Santorum, who, according to Public Policy Polling, is the clear current favorite among usual Republican primary voters, running 15 points ahead of Mr. Romney. Anyone with an Internet connection is aware that Mr. Santorum is best known for 2003 remarks about homosexuality, incest and bestiality. But his strangeness runs deeper than that.

 

For example, last year Mr. Santorum made a point of defending the medieval Crusades against the “American left who hates Christendom.” Historical issues aside (hey, what are a few massacres of infidels and Jews among friends?), what was this doing in a 21st-century campaign?

Nor is this only about sex and religion: he has also declared that climate change is a hoax, part of a “beautifully concocted scheme” on the part of “the left” to provide “an excuse for more government control of your life.” You may say that such conspiracy-theorizing is hardly unique to Mr. Santorum, but that’s the point: tinfoil hats have become a common, if not mandatory, G.O.P. fashion accessory.

 

Then there’s Ron Paul, who came in a strong second in Maine’s caucuses despite widespread publicity over such matters as the racist (and conspiracy-minded) newsletters published under his name in the 1990s and his declarations that both the Civil War and the Civil Rights Act were mistakes. Clearly, a large segment of his party’s base is comfortable with views one might have thought were on the extreme fringe.

 

Finally, there’s Mr. Romney, who will probably get the nomination despite his evident failure to make an emotional connection with, well, anyone. The truth, of course, is that he was not a “severely conservative” governor. His signature achievement was a health reform identical in all important respects to the national reform signed into law by President Obama four years later. And in a rational political world, his campaign would be centered on that achievement.

But Mr. Romney is seeking the Republican presidential nomination, and whatever his personal beliefs may really be — if, indeed, he believes anything other than that he should be president — he needs to win over primary voters who really are severely conservative in both his intended and unintended senses.

So he can’t run on his record in office. Nor was he trying very hard to run on his business career even before people began asking hard (and appropriate) questions about the nature of that career.

Instead, his stump speeches rely almost entirely on fantasies and fabrications designed to appeal to the delusions of the conservative base. No, President Obama isn’t someone who “began his presidency by apologizing for America,” as Mr. Romney declared, yet again, a week ago. But this “Four-Pinocchio Falsehood,” as the Washington Post Fact Checker puts it, is at the heart of the Romney campaign.

How did American conservatism end up so detached from, indeed at odds with, facts and rationality? For it was not always thus. After all, that health reform Mr. Romney wants us to forget followed a blueprint originally laid out at the Heritage Foundation!

 

My short answer is that the long-running con game of economic conservatives and the wealthy supporters they serve finally went bad. For decades the G.O.P. has won elections by appealing to social and racial divisions, only to turn after each victory to deregulation and tax cuts for the wealthy — a process that reached its epitome when George W. Bush won re-election by posing as America’s defender against gay married terrorists, then announced that he had a mandate to privatize Social Security.

 

 

Over time, however, this strategy created a base that really believed in all the hokum — and now the party elite has lost control.

 

The point is that today’s dismal G.O.P. field — is there anyone who doesn’t consider it dismal? — is no accident. Economic conservatives played a cynical game, and now they’re facing the blowback, a party that suffers from “severe” conservatism in the worst way. And the malady may take many years to cure.

 

Grave sindrome conservatrice, di Paul Krugman

New York Times 12 febbraio 2012

Mitt Romney ha il dono delle parole – parole autodistruttive. Venerdì ne ha combinata un’altra, dicendo alla Conferenza di Iniziativa Politica dei conservatori di essere stato “un Governatore gravemente [32]conservatore”.

 

Come su The Atlantic ha sottolineato Molly Ball, Romney “ha descritto il conservatorismo come se fosse una malattia”. Proprio così. Mark Liberman, un professore di linguistica all’Università della Pennsylvania, ha fornito una lista di parole che più comunemente seguono l’avverbio “gravemente”; le prime cinque, in ordine di frequenza, sono disabile, depresso, ammalato, limitato e ferito.

Non era quello il concetto che il signor Romney intendeva trasmettere. Tuttavia, se guardate alla competizione per la nomination presidenziale del Partito Repubblicano,  viene da chiedersi se non sia stato un lapsus freudiano. Perché qualcosa sta veramente andando storto nel conservatorismo di questi tempi.

Si comincia con Rick Santorum, il quale, secondo Pubblic Policy Polling, è chiaramente l’attuale favorito tra gli elettori tradizionali delle primarie repubblicane, con circa 15 punti di vantaggio su Romney. Chiunque abbia una connessione con Internet si è accorto che il signor Santorum è soprattutto conosciuto per le sue osservazioni del 2003 sulla omosessualità, l’incesto e la depravazione. Ma le sue stranezze vanno più nel profondo.

Ad esempio, lo scorso anno Santorum avanzò l’argomento della difesa delle crociate medioevali contro “la sinistra americana che odia la Cristianità”. A parte gli aspetti storici (suvvia, cosa volete che siano alcuni massacri di infedeli e, per restare tra gli amici, di Ebrei), che cosa ha a che fare questo con una campagna elettorale del ventunesimo secolo?

Né si è trattato soltanto di sesso e di religione: egli ha anche dichiarato che il cambiamento climatico è una bufala, parte di uno “schema architettato a bella posta” da parte della “sinistra” per fornire “un pretesto ad un maggiore controllo statale sulla vostra vita”. Potete notare che questa teorizzazione cospirativa non è un requisito esclusivo di Santorum, ma il punto è proprio lì: il tema del ‘lavaggio del cervello’ [33] è diventato un accessorio consueto, se non obbligatorio, della moda repubblicana.

C’è poi Ron Paul, che è arrivato buon secondo nei caucus del Maine nonostante una diffusa pubblicità su faccende quali le circolari razziste (e ispirate al cospirativismo) che vennero pubblicate a suo nome negli anni ‘90 e le sue dichiarazioni secondo le quali sia la Guerra Civile che la legislazione sui diritti civili furono errori. Chiaramente, una componente ampia della base del suo partito si trova a suo agio con punti di vista che una volta si poteva pensare fossero di frange fanatiche.

Infine c’è il signor Romney, che probabilmente otterrà la nomination nonostante la sua evidente difficoltà ad entrare in qualche sintonia praticamente con tutti. La verità, come è noto, è che egli non è stato un Governatore “gravemente conservatore”. Il suo successo personale fu una riforma sanitaria identica in tutti gli aspetti fondamentali alla riforma nazionale convertita in legge dal Presidente Obama quattro anni orsono. E, in un mondo politico razionale, la sua campagna avrebbe dovuto essere centrata su quel successo.

Ma il signor Romney sta cercando la nomination presidenziale repubblicana, e qualsiasi siano i suoi convincimenti personali – ammesso che egli creda a qualcosa d’altro che il suo diritto ad essere presidente – egli ha bisogno di vincere presso elettori alle primarie che sono per davvero ‘gravemente’ conservatori, in tutti i sensi intenzionali od inconsci.

 

Dunque, egli non può ci intrattenere con le sue prestazioni di governante. Neanche stava seriamente cercando di intrattenerci con la sua carriera di uomo d’affari, anche prima che la gente cominciasse a rivolgergli sgradevoli (ed appropriate) domande sulla natura della sua carriera.

Piuttosto, i suoi comizi si fondano quasi per intero su fantasie ed invenzioni rivolte ad attrarre le illusioni della base conservatrice. No, il Presidente Obama non è qualcuno che “ha cominciato la sua presidenza porgendo le scuse per conto dell’America”, come Romney ha dichiarato, ancora una volta, una settimana fa. Ma questa “bugia alla Pinocchio di quarto livello” [34], come nota il Washington Post Fact Checker [35], è il cuore della campagna elettorale di Romney.

Come è successo che il conservatorismo americano si sia talmente distaccato, se non proprio venuto in conflitto, con i fatti e la razionalità? Perché non è stato sempre così. Dopo tutto, quella riforma sanitaria che Romney vorrebbe ci scordassimo seguiva le tracce di un modello originariamente escogitato alla Heritage Foundation [36].

La mia risposta in breve è che l’onda lunga della truffa di coloro che sostengono la conservazione in economia e dei ricchi patrocinatori di cui sono al servizio, finalmente mostra la corda. Per decenni il Partito Repubblicano ha vinto le elezioni appellandosi alle divisioni sociali e razziali, al solo scopo di indirizzarsi dopo ogni vittoria verso la deregolamentazione ed i tagli alle tasse dei ricchi – un processo che raggiunse il suo compendio quando George W. Bush ottenne la rielezione presentandosi come il difensore dell’America contro il terrorismo ed i matrimoni dei gay,  salvo poi annunciare di aver ricevuto il mandato a privatizzare la Previdenza Sociale.

 

Tuttavia, con il tempo, questa strategia ha finito col dar vita ad una base che ha effettivamente creduto in tutte quelle stupidaggini – ed ora il gruppo dirigente del Partito ne ha perso il controllo.

 

Il punto è che quell’odierno penoso terreno che occupa il Partito Repubblicano – c’è qualcuno che non lo considera penoso? – non è un incidente. I sostenitori della conservazione economica hanno giocato una partita cinica, ed oggi ne fronteggiano il contraccolpo, un partito che soffre di “grave” conservatorismo nel peggiore dei modi. E può darsi che occorrano molti anni per curare la malattia.

 

 

 

 

 

Moochers Against Welfare

By PAUL KRUGMAN
Published: February 16, 2012

 

First, Atlas shrugged. Then he scratched his head in puzzlement.

Modern Republicans are very, very conservative; you might even (if you were Mitt Romney) say, severely conservative. Political scientists who use Congressional votes to measure such things find that the current G.O.P. majority is the most conservative since 1879, which is as far back as their estimates go.

 

And what these severe conservatives hate, above all, is reliance on government programs. Rick Santorum declares that President Obama is getting America hooked on “the narcotic of dependency.” Mr. Romney warns that government programs “foster passivity and sloth.” Representative Paul Ryan, the chairman of the House Budget Committee, requires that staffers read Ayn Rand’s “Atlas Shrugged,” in which heroic capitalists struggle against the “moochers” trying to steal their totally deserved wealth, a struggle the heroes win by withdrawing their productive effort and giving interminable speeches.

 

Many readers of The Times were, therefore, surprised to learn, from an excellent article published last weekend, that the regions of America most hooked on Mr. Santorum’s narcotic — the regions in which government programs account for the largest share of personal income — are precisely the regions electing those severe conservatives. Wasn’t Red America supposed to be the land of traditional values, where people don’t eat Thai food and don’t rely on handouts?

 

The article made its case with maps showing the distribution of dependency, but you get the same story from a more formal comparison. Aaron Carroll of Indiana University tells us that in 2010, residents of the 10 states Gallup ranks as “most conservative” received 21.2 percent of their income in government transfers, while the number for the 10 most liberal states was only 17.1 percent.

Now, there’s no mystery about red-state reliance on government programs. These states are relatively poor, which means both that people have fewer sources of income other than safety-net programs and that more of them qualify for “means-tested” programs such as Medicaid.

By the way, the same logic explains why there has been a jump in dependency since 2008. Contrary to what Mr. Santorum and Mr. Romney suggest, Mr. Obama has not radically expanded the safety net. Rather, the dire state of the economy has reduced incomes and made more people eligible for benefits, especially unemployment benefits. Basically, the safety net is the same, but more people are falling into it.

 

But why do regions that rely on the safety net elect politicians who want to tear it down? I’ve seen three main explanations.

 

First, there is Thomas Frank’s thesis in his book “What’s the Matter With Kansas?”: working-class Americans are induced to vote against their own interests by the G.O.P.’s exploitation of social issues. And it’s true that, for example, Americans who regularly attend church are much more likely to vote Republican, at any given level of income, than those who don’t.

Still, as Columbia University’s Andrew Gelman points out, the really striking red-blue voting divide is among the affluent: High-income residents of red states are overwhelmingly Republican; high-income residents of blue states only mildly more Republican than their poorer neighbors. Like Mr. Frank, Mr. Gelman invokes social issues, but in the opposite direction. Affluent voters in the Northeast tend to be social liberals who would benefit from tax cuts but are repelled by things like the G.O.P.’s war on contraception.

 

 

Finally, Cornell University’s Suzanne Mettler points out that many beneficiaries of government programs seem confused about their own place in the system. She tells us that 44 percent of Social Security recipients, 43 percent of those receiving unemployment benefits, and 40 percent of those on Medicare say that they “have not used a government program.”

 

Presumably, then, voters imagine that pledges to slash government spending mean cutting programs for the idle poor, not things they themselves count on. And this is a confusion politicians deliberately encourage. For example, when Mr. Romney responded to the new Obama budget, he condemned Mr. Obama for not taking on entitlement spending — and, in the very next breath, attacked him for cutting Medicare.

 

The truth, of course, is that the vast bulk of entitlement spending goes to the elderly, the disabled, and working families, so any significant cuts would have to fall largely on people who believe that they don’t use any government program.

The message I take from all this is that pundits who describe America as a fundamentally conservative country are wrong. Yes, voters sent some severe conservatives to Washington. But those voters would be both shocked and angry if such politicians actually imposed their small-government agenda.

 

Scrocconi contro il Welfare, di Paul Krugman

New York Times 16 febbraio 2012

 

 

All’inizio, Atlante scrollò le spalle. Poi si grattò la testa per lo sconcerto [37].

 

Gli attuali Repubblicani sono per davvero molto conservatori; potreste dire persino (se foste Mitt Romney [38]) che sono ‘gravemente’ conservatori. Gli scienziati della politica che usano le votazioni sugli atti congressuali per misurare cose del genere [39], pensano che la attuale maggioranza del Partito Repubblicano sia la più conservatrice dal 1879, che è quanto più indietro nel tempo possano andare con le loro stime.

 

E quello che questi ‘gravi’ conservatori odiano soprattutto è il dipendere dai programmi del governo federale. Rick Santorum afferma che il Presidente Obama ha inchiodato l’America al “narcotico della dipendenza”. Romney ammonisce che i programmi del Governo “incoraggiano passività e pigrizia”. Il congressista Paul Ryan, Presidente della Commissione Bilancio della Camera, ha preteso che i funzionari leggessero l’ “Atlas shrugged” di Ayn Rand, nel quale capitalisti eroici combattono i “parassiti” che cercano di sottrarre loro la meritata ricchezza, battaglia che gli eroi vincono con l’arma dello sciopero delle attività produttive e con discorsi interminabili [40].

Per queste ragioni, molti lettori di The Times [41], sono stati sorpresi nel leggere, in un eccellente articolo pubblicato la scorsa settimana, che le regioni dell’America che maggiormente dipendono dal ‘narcotico’ del signor Santorum – le regioni nelle quali i programmi del Governo rappresentano la parte principale del reddito delle persone – sono precisamente le regioni che eleggono quegli indefettibili conservatori. Non si riteneva che l’America che vota repubblicano fosse la terra dei valori tradizionali, dove la gente non mangia thai food e non si affida all’elemosina?

L’articolo sostiene la sua tesi con mappe che mostrano la distribuzione della dipendenza, ma si arriva alla stessa conclusione con un confronto più sofisticato. Aaron Carroll dell’Università dell’Indiana ci dice che nel 2010 i residenti dei dieci Stati che Gallup classifica come “i più conservatori” ricevevano il 21,2 per cento del loro reddito da trasferimenti federali [42], mentre il dato dei dieci Stati più progressisti era soltanto il 17,1 per cento.

No, non c’è alcun mistero nel fatto che gli Stati conservatori [43] facciano conto sui programmi federali.   Questi Stati sono relativamente poveri, il che significa sia che la gente ha minori risorse di reddito oltre le reti della sicurezza sociale, sia che la maggior parte di loro hanno i requisiti per i programmi basati sulla ‘verifica del reddito’, come Medicaid.

Per inciso, con la stessa logica si spiega perché c’è stato un salto nella dipendenza a partire dal 2008. Contrariamente a quello che suggeriscono Santorum e Romney, Obama non ha radicalmente esteso la rete della protezione sociale. Piuttosto, il terribile stato dell’economia ha ridotto i redditi ed ha reso le persone idonee ai contributi, specialmente ai sussidi della disoccupazione. Fondamentalmente, la rete della sicurezza è rimasta la stessa, ma ci è finito dentro un numero maggiore di individui.

Ma perché le regioni che si affidano alla rete della protezione sociale sono anche quelle che eleggono uomini politici che vogliono demolirla? Individuo tre principali spiegazioni.

In primo luogo, c’è la tesi di Thomas Frank nel suo libro “Cosa non va nel Kansas?”: la classe operaia americana è indotta a votare contro i suoi interessi per la strumentalizzazione dei temi sociali da parte del Partito Repubblicano. Ed è vero che, ad esempio, gli americani che vanno regolarmente in chiesa è molto più probabile che votino repubblicano, per ogni livello di reddito, di quelli che non lo fanno.

Inoltre, come indica Andrew Gelman della Columbia University, la divisione che effettivamente impressiona tra voti conservatori e progressisti risiede nella ricchezza: i residenti con alti redditi degli Stati conservatori votano repubblicano in dimensioni schiaccianti; i residenti con alti redditi degli Stati progressisti votano repubblicano solo leggermente di più dei loro concittadini più poveri. Allo stesso modo di Frank, anche Gelman invoca motivazioni sociali, ma nella direzione opposta. Gli elettori ricchi nel Nord Est tendono ad essere progressisti sulle tematiche sociali: vorrebbero beneficiare degli sgravi fiscali ma sono respinti da argomenti come la lotta contro la contraccezione del Partito Repubblicano.

Infine, Suzanne Mettler della Cornell University mette in evidenza come molti beneficiari dei programmi federali  sembrano essere confusi quanto alla loro stessa collocazione nel sistema. Ella ci informa che il 44 per cento di coloro che ricevono la previdenza [44], il 43 per cento di coloro che ricevono contributi di disoccupazione ed il 40 per cento degli assistiti da Medicare affermano di “non fruire di una programma di assistenza federale”.

Si può dunque presumere che gli elettori si immaginino che la promessa di abbattere la spesa pubblica federale significhi tagliare i programmi per i poveri nullafacenti, e non aspetti che sono nel loro stesso interesse. Questa, del resto, è una confusione che gli uomini politici incoraggiano a bella posta. Ad esempio, quando Romney ha replicato al nuovo Bilancio di Obama, egli lo ha condannato per non essersi accanito sulla spesa pubblica sui diritti sociali – salvo, nel passaggio immediatamente successivo, attaccarlo per i tagli a Medicare.

La verità, naturalmente, è che la parte di gran lunga prevalente della spesa pubblica sui diritti va agli anziani, ai disabili e alle famiglie dei lavoratori, cosicché ogni taglio significativo finirebbe col colpire in larga parte proprio quelle persone che pensano di non fruire di alcun programma federale.

 

Il messaggio che traggo da tutto questo è che gli addetti ai lavori che descrivono l’America come un paese fondamentalmente conservatore, sbagliano. E’ vero, gli elettori mandano a Washington una buona fetta di conservatori autentici. Ma quegli stessi elettori sarebbero sia stupefatti che arrabbiati se politici di quella fatta mettessero davvero in atto il loro programma di restrizione delle politiche sociali [45]

 

 

   

 

 

 

 

Pain Without Gain

By PAUL KRUGMAN
Published: February 19, 2012

 

Last week the European Commission confirmed what everyone suspected: the economies it surveys are shrinking, not growing. It’s not an official recession yet, but the only real question is how deep the downturn will be.

And this downturn is hitting nations that have never recovered from the last recession. For all America’s troubles, its gross domestic product has finally surpassed its pre-crisis peak; Europe’s has not. And some nations are suffering Great Depression-level pain: Greece and Ireland have had double-digit declines in output, Spain has 23 percent unemployment, Britain’s slump has now gone on longer than its slump in the 1930s.

 

Worse yet, European leaders — and quite a few influential players here — are still wedded to the economic doctrine responsible for this disaster.

For things didn’t have to be this bad. Greece would have been in deep trouble no matter what policy decisions were taken, and the same is true, to a lesser extent, of other nations around Europe’s periphery. But matters were made far worse than necessary by the way Europe’s leaders, and more broadly its policy elite, substituted moralizing for analysis, fantasies for the lessons of history.

Specifically, in early 2010 austerity economics — the insistence that governments should slash spending even in the face of high unemployment — became all the rage in European capitals. The doctrine asserted that the direct negative effects of spending cuts on employment would be offset by changes in “confidence,” that savage spending cuts would lead to a surge in consumer and business spending, while nations failing to make such cuts would see capital flight and soaring interest rates. If this sounds to you like something Herbert Hoover might have said, you’re right: It does and he did.

 

Now the results are in — and they’re exactly what three generations’ worth of economic analysis and all the lessons of history should have told you would happen. The confidence fairy has failed to show up: none of the countries slashing spending have seen the predicted private-sector surge. Instead, the depressing effects of fiscal austerity have been reinforced by falling private spending.

 

Furthermore, bond markets keep refusing to cooperate. Even austerity’s star pupils, countries that, like Portugal and Ireland, have done everything that was demanded of them, still face sky-high borrowing costs. Why? Because spending cuts have deeply depressed their economies, undermining their tax bases to such an extent that the ratio of debt to G.D.P., the standard indicator of fiscal progress, is getting worse rather than better.

 

Meanwhile, countries that didn’t jump on the austerity train — most notably, Japan and the United States — continue to have very low borrowing costs, defying the dire predictions of fiscal hawks.

Now, not everything has gone wrong. Late last year Spanish and Italian borrowing costs shot up, threatening a general financial meltdown. Those costs have now subsided, amid general sighs of relief. But this good news was actually a triumph of anti-austerity: Mario Draghi, the new president of the European Central Bank, brushed aside the inflation-worriers and engineered a large expansion of credit, which was just what the doctor ordered.

So what will it take to convince the Pain Caucus, the people on both sides of the Atlantic who insist that we can cut our way to prosperity, that they are wrong?

After all, the usual suspects were quick to pronounce the idea of fiscal stimulus dead for all time after President Obama’s efforts failed to produce a quick fall in unemployment — even though many economists warned in advance that the stimulus was too small. Yet as far as I can tell, austerity is still considered responsible and necessary despite its catastrophic failure in practice.

The point is that we could actually do a lot to help our economies simply by reversing the destructive austerity of the last two years. That’s true even in America, which has avoided full-fledged austerity at the federal level but has seen big spending and employment cuts at the state and local level. Remember all the fuss about whether there were enough “shovel ready” projects to make large-scale stimulus feasible? Well, never mind: all the federal government needs to do to give the economy a big boost is provide aid to lower-level governments, allowing these governments to rehire the hundreds of thousands of schoolteachers they have laid off and restart the building and maintenance projects they have canceled.

 

 

 

Look, I understand why influential people are reluctant to admit that policy ideas they thought reflected deep wisdom actually amounted to utter, destructive folly. But it’s time to put delusional beliefs about the virtues of austerity in a depressed economy behind us.

 

Sofferenze inutili, di Paul Krugman

New York Times 19 febbraio 2012

 

 

La scorsa settimana la Commissione Europea ha confermato quello che tutti sospettavano: le economie sotto la sua osservazione sono in calo, non in crescita. Non è ancora una recessione ufficiale, ma l’unica effettiva domanda è quanto la regressione sarà profonda.

E questa flessione colpisce nazioni che non si erano ancora riprese dalla recessione precedente. Perché con tutti i guai dell’America, il suo prodotto interno lordo alla fine ha superato il punto più alto precedente alla crisi; quello dell’Europa, no. Ed alcune nazioni sono in sofferenza a livelli da Grande Depressione: la Grecia e l’Irlanda hanno cali di produzione a due cifre, la Spagna ha una disoccupazione al 23 per cento, la crisi dell’Inghilterra a questo punto ha superato la durata di quella degli anni ’30.

Cosa ancora peggiore, i dirigenti europei, nonché un numero considerevole di soggetti influenti, continuano ad essere fedeli alla dottrina economica responsabile di questo disastro.

 

Perché non era necessario che le cose fossero così negative. La Grecia sarebbe stata in gravi difficoltà a prescindere dalle decisioni politiche che venivano prese, e lo stesso è vero, in misura minore, per altre nazioni della periferia dell’ Europa. Ma i problemi sono stati aggravati molto più del necessario dal modo in cui i responsabili europei, e più in generale le classi dirigenti, hanno confuso i moralismi con le analisi, le fantasie con le lezioni della storia.

In particolare, nei primi mesi del 2010 le economie dell’austerità – l’insistenza secondo la quale i Governi dovevano abbattere la spesa pubblica pur in presenza di una elevata disoccupazione – facevano furore nella capitali europee. Quella dottrina asseriva che i diretti effetti negativi dei tagli della spesa sull’occupazione sarebbero stati bilanciati da mutamenti nella “fiducia”, che i tagli selvaggi alla spesa pubblica avrebbero provocato un incremento nei consumi e negli investimenti, mentre i paesi incapaci di attuare tali tagli  avrebbero conosciuto fughe di capitali e tassi di interesse alle stelle. Se in questo sentite qualcosa che vi richiama alla mente quello che disse Herbert Hoover, non avete torto: tale e quale.

Ora i risultati si vedono – e sono esattamente quelli che l’analisi economica di tre generazioni e le lezioni della storia  avrebbero dovuto suggerire. La “fata turchina della fiducia” [46] non si è materializzata: nessuno dei paesi che hanno abbattuto la spesa pubblica hanno visto la crescita annunciata della domanda privata. Piuttosto, gli effetti depressivi dell’austerità sulle finanze pubbliche hanno rafforzato la caduta della spesa privata.

Inoltre, i mercati delle obbligazioni continuano a rifiutarsi di collaborare. Persino i ragazzi prodigio dell’austerità, i paesi che, come il Portogallo e l’Irlanda, hanno fatto tutto quello che veniva loro richiesto, sono ancora alle prese con costi di indebitamento alle stelle. Come mai? Perché i tagli alle spese hanno depresso profondamente le loro economie, mettendo a repentaglio le loro basi fiscali in una misura tale che il rapporto del debito sul PIL, l’indicatore consueto di ogni progresso nella finanza pubblica, sta peggiorando anziché migliorare.

Nel frattempo, i paesi che non sono saltati sul treno dell’austerità – i casi più rilevanti del Giappone e degli Stati Uniti –  continuano ad avere costi di indebitamento molto bassi, sfidando le previsioni terribili dei falchi della finanza pubblica.

In questo momento, non tutto sta andando male. Sulla fine dell’anno passato i costi del debito della Spagna e dell’Italia erano cresciuti rapidamente, con la minaccia di un generale tracollo finanziario. Quei costi oggi sono scesi, in mezzo a diffusi sospiri di sollievo. Ma questa buona notizia è stata in effetti un trionfo dell’anti-austerità: Mario Draghi, il nuovo Presidente della Banca Centrale Europea, ha messo da parte gli ‘ansiosi dell’inflazione’ ed ha architettato una ampia espansione del credito, che era l’unica cura prevista in casi del genere.

Dunque, cosa ci vorrà per convincere del proprio errore il ‘Partito della Sofferenza’, la gente che sulle opposte sponde dell’Atlantico ripete che possiamo sacrificare il nostro percorso verso la prosperità?

Dopo tutto, i soliti noti erano stati rapidi nel decretare la fine dell’idea del sostegno pubblico per tutto il tempo in cui gli sforzi di Obama non parevano riuscire a provocare una veloce diminuzione della disoccupazione – anche se molti economisti avevano messo in guardia in anticipo sul fatto che quelle misure di sostegno fossero troppo piccole. Tuttavia, per quanto posso vedere, l’austerità viene ancora considerata una misura saggia e necessaria, nonostante il suo pratico catastrofico fallimento.

Il punto è che potremmo effettivamente fornire un notevole aiuto alle nostre economie, semplicemente invertendo la austerità distruttiva degli ultimi due anni.  Questo è vero anche in America, che ha evitato il pieno dispiegarsi di politiche di austerità al livello federale, ma ha conosciuto tagli al grosso della spesa pubblica e dell’occupazione ai livelli degli Stati e delle comunità locali. Ricordate tutto quel chiasso sul fatto che non avevamo abbastanza progetti immediatamente cantierabili [47] che rendessero fattibili misure di sostegno su larga scala? Ebbene, non ce n’è bisogno: tutto quello che il Governo federale deve fare per dare una spinta all’economia è fornire aiuto ai livelli istituzionali inferiori [48], consentendo a questi governi di riassumere le centinaia di migliaia di maestri che erano stati licenziati e di far ripartire le opere pubbliche ed i progetti di manutenzione che erano stati cancellati.

Si badi, io posso comprendere il motivo per cui le persone influenti siano riluttanti nell’ammettere che le idee politiche che avevano pensato riflettessero profonda saggezza, in realtà si siano rivelate una totale e distruttiva follia. Ma è venuto il momento di metterci alle spalle i convincimenti illusori sulle virtù dell’austerità nelle economie depresse.   

 

 

 

 

 

Romney’s Economic Closet

By PAUL KRUGMAN
Published: February 23, 2012

According to Michael Kinsley, a gaffe is when a politician accidently tells the truth. That’s certainly what happened to Mitt Romney on Tuesday, when in a rare moment of candor — and, in his case, such moments are really, really rare — he gave away the game.

Speaking in Michigan, Mr. Romney was asked about deficit reduction, and he absent-mindedly said something completely reasonable: “If you just cut, if all you’re thinking about doing is cutting spending, as you cut spending you’ll slow down the economy.” A-ha. So he believes that cutting government spending hurts growth, other things equal.

The right’s ideology police were, predictably, aghast; the Club for Growth quickly denounced the statement as showing that Mr. Romney is “not a limited-government conservative.” On the contrary, insisted the club, “If we balanced the budget tomorrow on spending cuts alone, it would be fantastic for the economy.” And a Romney spokesman tried to walk back the remark, claiming, “The governor’s point was that simply slashing the budget, with no affirmative pro-growth policies, is insufficient to get the economy turned around.”

 

But that’s not what the candidate said, and it’s very unlikely that it’s what he meant. Almost surely, he is, in fact, a closet Keynesian.

How do we know this? Well, for one thing, Mr. Romney is not a stupid man. And while his grasp of world affairs does sometimes seem shaky, he has to be aware of the havoc austerity policies are wreaking in Greece, Ireland and elsewhere.

Beyond that, we know who he turns to for economic advice; heading the list are Glenn Hubbard of Columbia University and N. Gregory Mankiw of Harvard. While both men are loyal Republican spear-carriers — each served for a time as chairman of George W. Bush’s Council of Economic Advisers — both also have long track records as professional economists. And what these track records suggest is that neither of them believes any of the propositions that have become litmus tests for would-be G.O.P. presidential candidates.

 

Consider Mr. Mankiw, in particular. Modern Republicans detest Keynes; Mr. Mankiw is the editor of a collection of papers titled “New Keynesian Economics.” In an early edition of his best-selling textbook, he dismissed supply-side economics — the doctrine embraced by the sainted Ronald Reagan — as the creation of “charlatans and cranks.” And, in 2009, he called for higher inflation as a solution to the economic crisis, a position anathema to Republicans like Representative Paul Ryan, the chairman of the House Budget Committee, who warn ominously about the evil of “debasing” our currency.

Given his advisers, then, it seems safe to assume that what Mr. Romney blurted out Tuesday reflected his real economic beliefs — as opposed to the nonsense he pretends to believe, because it’s what the Republican base wants to hear.

 

And therein lies the reason Mr. Romney acts the way he does, why he is running a campaign of almost pathological dishonesty.

 

For he is. Every one of the Romney campaign’s major themes, from the attacks on President Obama for going around the world apologizing for America (he didn’t), to the insistence that Romneycare and Obamacare are very different (they’re virtually identical), to the claim that Mr. Obama has lost millions of jobs (which is only true if you count the first few months of his administration, before any of his policies had taken effect), is either an outright falsehood or deeply deceptive. Why the nonstop mendacity?

 

 

As I see it, it comes down to the cynicism underlying the whole enterprise. Once you’ve decided to hide your beliefs and say whatever you think will get you the nomination, to pretend to agree with people you privately believe are fools, why worry at all about truth?

What this diagnosis implies, of course, is that the many people on the right who don’t trust Mr. Romney, who don’t believe that he’s truly committed to their political faith, are correct in their suspicions. He’s playing a role, and it’s anyone’s guess what lies beneath the mask.

So should those who don’t share the right’s faith be comforted by the evidence that Mr. Romney doesn’t believe anything he’s saying? Should we, in particular, assume that, once elected, he would actually follow sensible economic policies? Alas, no.

 

For the cynicism and lack of moral courage that have been so evident in the campaign wouldn’t suddenly vanish once Mr. Romney entered the Oval Office. If he doesn’t dare disagree with economic nonsense now, why imagine that he would become willing to challenge that nonsense later? And bear in mind that if elected, he would be watched like a hawk for signs of apostasy by the very people he’s trying so desperately to appease right now.

The truth is that Mr. Romney is so deeply committed to insincerity that neither side can trust him to do what it considers to be the right thing.

 

Il segreto economico di Romney, di Paul Krugman

New York Times 23 febbraio 2012

Secondo Michael Kinsley [49], una gaffe è quando un uomo politico dice accidentalmente la verità. E’ quello che sicuramente è successo martedì a Mitt Romney, quando in una raro momento di sincerità – e, nel suo caso, quei momenti sono davvero molto rari – è uscito dal suo schema.

 

Parlando nel Michigan, il signor Romney era stato interrogato sulla riduzione del deficit, e ha affermato distrattamente qualcosa di completamente ragionevole: “Se fate solo tagli, se non fate altro che pensare a far tagli alla spesa pubblica, i vostri tagli freneranno l’economia”. Ma guarda! Dunque egli crede che i tagli alla spesa pubblica, a parità di condizioni, danneggino la crescita.

 

Il servizio d’ordine della destra addetto all’ideologia  è rimasto, prevedibilmente, inorridito: il Club per la Crescita [50] ha subito denunciato il discorso come una prova che Romney “non (sarebbe) un conservatore anti-statalista”. Al contrario, ha ribadito il Club, “ se si mettesse in equilibrio il bilancio sin da domani sulla base di tagli alla spesa, per l’economia sarebbe fantastico”. E un portavoce di Romney ha cercato di tornare indietro sulla riflessione, dichiarando: “L’osservazione del Governatore era che il semplice ridimensionamento del bilancio, senza alcuna politica positiva a favore della crescita, sarebbe insufficiente a rimettere in sesto l’economia”.

Ma non è questo che aveva detto il candidato, ed è improbabile che fosse quello che intendeva dire. E’ quasi certo, infatti, che egli sia un keynesiano camuffato [51].

Come lo sappiamo? Ebbene, intanto Romney non è uno stupido, e, se la sua padronanza degli affari del mondo talvolta sembra proprio malcerta, egli deve essere consapevole della devastazione che le politiche di austerità stanno provocando in Grecia, in Irlanda e un po’ dappertutto.

 

Inoltre, sappiamo a chi si rivolge per i consigli sull’economia; in cima alla lista ci sono Glenn Hubbard della Columbia University e N. Gregory Mankiw di Harvard. Se sono entrambi fedeli comparse repubblicane – presiedettero entrambi l’organo di consulenza economica del Presidente George W. Bush – hanno anche lunghi trascorsi come economisti di professione. E quei trascorsi ci dicono che né l’uno né l’altro crede ad alcuno di quei concetti che sono diventati una specie di cartina di tornasole per gli aspiranti candidati del Partito Repubblicano.

Si consideri, in particolare, il signor Mankiw. I repubblicani odierni detestano Keynes; Mankiw è editore di una collana di saggi dal titolo “Economie neo keynesiane”. In una prima edizione del suo più diffuso libro di testo, egli liquidò le politica “dal lato dell’offerta” [52] – la dottrina abbracciata dal canonizzato Ronald Reagan – come un prodotto di “stregoni [53]e ciarlatani”. E, nel 2009, egli si pronunciò a favore di una inflazione più elevata come soluzione alla crisi economica, un anatema per repubblicani come il congressista Paul Ryan, il Presidente della Commissione Bilancio della Camera, che non perde occasione per mettere sinistramente in guardia dal maleficio della “svalutazione” della moneta.

Considerati questi consiglieri, dunque, sembrano non esserci dubbi sul fatto che l’espressione ‘di sen sfuggita’ a Romney  martedì scorso corrispondesse ai suoi effettivi convincimenti economici – che sono altra cosa dalle insensatezze che la base repubblicana vuole sentirsi dire e alle quali finge di credere.

E qua sta la ragione per la quale Romney si comporta nel modo in cui si comporta, conducendo una campagna di quasi patologica disonestà.

 

Perché di questo si tratta. Ognuno dei principali temi della campagna di Romney, dagli attacchi al Presidente Obama per il suo andare in giro per il mondo a porgere le scuse da parte dell’America (cosa che non ha mai fatto), alla insistenza sulla assoluta differenza tra la politica sanitaria di Romney e quella di Obama (che sono virtualmente identiche), alla pretesa seconda la quale Obama avrebbe perso milioni di posti di lavoro (la qualcosa è vera solo alla condizione che si includano i primissimi mesi della sua amministrazione, quando nessuna delle sue politiche aveva prodotto alcun effetto), le sue sono o falsificazioni belle e buone o mistificazioni profonde. Perché queste menzogne senza limite?

Per come la vedo io, esse dipendono dal cinismo che soggiace all’intero progetto. Una volta che si è deciso di nascondere ciò in cui si crede e di dire tutto quello che si pensa giovi ad ottenere la nomina, di fingere di essere d’accordo con individui che in privato si è convinti siano sciocchi, di quale mai verità ci si deve più preoccupare?

Quello che questa diagnosi implica, naturalmente, è che le molte persone che a destra non credono in Romney, che non credono che egli sia onestamente impegnato sui loro convincimenti politici, non hanno torto nei loro sospetti. Egli sta recitando una parte,  e ognuno può fare congetture su quello che si nasconde dietro la maschera.

Dunque, coloro che non condividono i convincimenti della destra dovrebbero essere confortati dal fatto che Romney non è affatto convinto di quanto viene dicendo? Dovrebbero, in particolare, attendersi che egli, una volta eletto, in effetti si orienterebbe verso politiche economiche sensate? Niente affatto.

Perché il cinismo e la mancanza di coraggio morale che sono venuti talmente in evidenza nella campagna elettorale, non svanirebbero all’improvviso una volta che il signor Romney fosse entrato nella ‘stanza ovale’. Se egli non osa dissentire oggi dall’insensatezza economica, perché immaginarsi che potrebbe aver voglia di sfidare quell’insensatezza successivamente? Mettetevi in testa che se fosse eletto, proprio le persone che egli sta cercando così disperatamente di tranquillizzare, lo guarderebbero a vista come falchi da ogni segno di apostasia.

La verità è che il signor Romney è intrinsecamente votato all’insincerità che né una parte né l’altra possono far conto che finisca col fare quello che ritiene giusto.

 

 

 

What Ails Europe?

By PAUL KRUGMAN
Published: February 26, 2012

Lisbon

Things are terrible here, as unemployment soars past 13 percent. Things are even worse in Greece, Ireland, and arguably in Spain, and Europe as a whole appears to be sliding back into recession.

Why has Europe become the sick man of the world economy? Everyone knows the answer. Unfortunately, most of what people know isn’t true — and false stories about European woes are warping our economic discourse.

Read an opinion piece about Europe — or, all too often, a supposedly factual news report — and you’ll probably encounter one of two stories, which I think of as the Republican narrative and the German narrative. Neither story fits the facts.

The Republican story — it’s one of the central themes of Mitt Romney’s campaign — is that Europe is in trouble because it has done too much to help the poor and unlucky, that we’re watching the death throes of the welfare state. This story is, by the way, a perennial right-wing favorite: back in 1991, when Sweden was suffering from a banking crisis brought on by deregulation (sound familiar?), the Cato Institute published a triumphant report on how this proved the failure of the whole welfare state model.

 

Did I mention that Sweden, which still has a very generous welfare state, is currently a star performer, with economic growth faster than that of any other wealthy nation?

But let’s do this systematically. Look at the 15 European nations currently using the euro (leaving Malta and Cyprus aside), and rank them by the percentage of G.D.P. they spent on social programs before the crisis. Do the troubled GIPSI nations (Greece, Ireland, Portugal, Spain, Italy) stand out for having unusually large welfare states? No, they don’t; only Italy was in the top five, and even so its welfare state was smaller than Germany’s.

 

So excessively large welfare states didn’t cause the troubles.

Next up, the German story, which is that it’s all about fiscal irresponsibility. This story seems to fit Greece, but nobody else. Italy ran deficits in the years before the crisis, but they were only slightly larger than Germany’s (Italy’s large debt is a legacy from irresponsible policies many years ago). Portugal’s deficits were significantly smaller, while Spain and Ireland actually ran surpluses.

 

Oh, and countries that aren’t on the euro seem able to run large deficits and carry large debts without facing any crises. Britain and the United States can borrow long-term at interest rates of around 2 percent; Japan, which is far more deeply in debt than any country in Europe, Greece included, pays only 1 percent.

In other words, the Hellenization of our economic discourse, in which we’re all just a year or two of deficits from becoming another Greece, is completely off base.

So what does ail Europe? The truth is that the story is mostly monetary. By introducing a single currency without the institutions needed to make that currency work, Europe effectively reinvented the defects of the gold standard — defects that played a major role in causing and perpetuating the Great Depression.

More specifically, the creation of the euro fostered a false sense of security among private investors, unleashing huge, unsustainable flows of capital into nations all around Europe’s periphery. As a consequence of these inflows, costs and prices rose, manufacturing became uncompetitive, and nations that had roughly balanced trade in 1999 began running large trade deficits instead. Then the music stopped.

If the peripheral nations still had their own currencies, they could and would use devaluation to quickly restore competitiveness. But they don’t, which means that they are in for a long period of mass unemployment and slow, grinding deflation. Their debt crises are mainly a byproduct of this sad prospect, because depressed economies lead to budget deficits and deflation magnifies the burden of debt.

 

Now, understanding the nature of Europe’s troubles offers only limited benefits to the Europeans themselves. The afflicted nations, in particular, have nothing but bad choices: either they suffer the pains of deflation or they take the drastic step of leaving the euro, which won’t be politically feasible until or unless all else fails (a point Greece seems to be approaching). Germany could help by reversing its own austerity policies and accepting higher inflation, but it won’t.

 

For the rest of us, however, getting Europe right makes a huge difference, because false stories about Europe are being used to push policies that would be cruel, destructive, or both. The next time you hear people invoking the European example to demand that we destroy our social safety net or slash spending in the face of a deeply depressed economy, here’s what you need to know: they have no idea what they’re talking about.

 

Cosa affligge l’Europa?, di Paul Krugman

New York Times 26 febbraio 2012

 

Lisbona.

 

Le cose qua sono terribili, con la disoccupazione schizzata al 13 per cento. Le cose vanno persino peggio in Grecia ed Irlanda e, probabilmente, in Spagna, e l’Europa intera sembra stia scivolando nella recessione.

Perché l’Europa è diventata la grande ammalata dell’economia mondiale? Tutti sanno la risposta. Malauguratamente, la gran parte di quello che la gente conosce non è vero – e racconti infondati sulle disgrazie dell’Europa stanno distorcendo il nostro dibattito economico.

Leggete un commento sull’Europa – o, anche troppo spesso, presunti resoconti di notizie oggettive – e probabilmente vi imbatterete in una delle due ricostruzioni, che io definisco come il racconto dei repubblicani e quello dei tedeschi. Nessuno dei due attiene ai fatti.

Il racconto dei repubblicani – uno dei temi preferiti della campagna elettorale di Mitt Romney – è che l’Europa è nei guai perché è stato fatto troppo per venire incontro ai poveri ed ai disgraziati, che stiamo assistendo all’agonia dello stato assistenziale. Per inciso, si tratta di un racconto da sempre prediletto dalla destra: nel passato 1991, quando la Svezia era in sofferenza per una crisi bancaria provocata a colpi di deregolamentazione (vi suona familiare?), il Cato Institute pubblicò un rapporto trionfale su come questa dimostrasse il fallimento dell’intero modello dello stato assistenziale.

E’ il caso di rammentare che la Svezia, che ha tuttora uno stato assistenziale molto generoso, ha attualmente il primato tra le nazioni ricche, con una crescita dell’economia più veloce di ogni altra?

Ma consentitemi di essere più preciso. Si guardi alle 15 nazioni europee che attualmente utilizzano l’euro (lasciando da parte Malta e Cipro), e classifichiamole sulla base delle percentuali del PIL che esse spendevano per i programmi sociali prima della crisi. Le nazioni in difficoltà del cosiddetto gruppo GIPSI (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna ed Italia) risaltano per avere stati assistenziali generosi in modo così inconsueto? Niente affatto; solo l’Italia era tra le prime cinque, con un modello assistenziale assai più modesto di quello della Germania.

Dunque, l’ampiezza degli stati assistenziali non è stata la causa dei guai.

 

A seguire, viene la spiegazione dei tedeschi, secondo la quale tutto ha a che fare con l’irresponsabilità delle politiche della finanza pubblica. E’ un racconto che si attaglia alla Grecia, ma a nessun altro. L’Italia realizzava deficit negli anni precedenti alla crisi, ma erano solo leggermente più ampi di quelli della Germania (l’ampio debito italiano è un’eredità di politiche irresponsabili di molti anni addietro). I deficit del Portogallo erano significativamente più modesti; mentre la Spagna e l’Irlanda avevano addirittura avanzi di amministrazione.

Per non dire che i paesi che non sono nell’euro sembrano capaci di gestire ampi deficit e di sostenere debiti elevati senza doversi misurare con alcuna crisi. L’Inghilterra e gli Stati Uniti possono prendere prestiti  a lungo termine a tassi di interesse attorno al 2 per cento; il Giappone, che è indebitato in modo assai più rilevante di ogni paese europeo, inclusa la Grecia, paga interessi soltanto dell’1 per cento.

In altre parole, la “ellenizzazione” del nostro dibattito economico, secondo la quale ci sono appena un anno o due di deficit per finire come la Grecia, è completamente infondata.

Dunque, cosa affligge l’Europa? La verità è che la spiegazione è in gran parte monetaria. Introducendo un valuta unica senza le istituzioni indispensabili a farla funzionare, l’Europa in pratica ha reinventato i difetti del gold standard – difetti che giocarono un ruolo principale nel provocare e nel far proseguire la Grande Depressione.

Più in particolare, la creazione dell’euro ha incoraggiato un falso senso di sicurezza tra gli investitori privati, dando origine a flussi di capitali ampi ed insostenibili in tutte le nazioni della periferia dell’Europa. Come conseguenza di questi flussi, costi e prezzi sono cresciuti, il settore manifatturiero è diventato non competitivo, e nazioni che avevano bilance commerciali grosso modo in equilibrio nel 1999 hanno invece cominciato a gestire ampi disavanzi commerciali. Poi la musica è finita.

Se le nazioni periferiche avessero ancora la loro moneta, potrebbero far ricorso alla svalutazione per recuperare rapidamente competitività, e in effetti lo farebbero. Ma esse non possono farlo, il che significa che esse si trovano dinanzi ad un lungo periodo di disoccupazione di massa e di lenta, opprimente deflazione. La loro crisi del debito è principalmente un sottoprodotto di questa triste prospettiva, perché economie depresse conducono a deficit di bilancio e la deflazione ingigantisce il peso del debito.

Ora, la comprensione della natura dei guai dell’Europa offre benefici solo limitati agli europei. Le nazioni in difficoltà, in particolare, non hanno altro che pessime possibilità: sia che patiscano le conseguenze della deflazione sia che prendano la drastica decisione di lasciare l’euro, la qualcosa non sarebbe politicamente fattibile sino a che e senza che tutto il resto venga meno (un aspetto che la Grecia sembra stia prendendo in considerazione). La Germania potrebbe essere di aiuto invertendo le sue politiche di austerità ed accettando una maggiore inflazione, ma non vuole farlo.

Per tutti noi, tuttavia, capire bene l’Europa fa una grande differenza, perché le false spiegazioni sull’Europa vengono usate per avanzare la proposta di politiche che sarebbero dolorose, distruttive, o entrambe le cose. La prossima volte che sentite persone che invocano l’esempio europeo per chiedere che si distrugga la nostra rete dei programmi di sicurezza sociale o che si abbatta la spesa pubblica a fronte di una economia profondamente depressa, ecco quello che vi serve sapere: quella gente non ha idea di ciò di cui parla.

 

 

 

 

 

 

Four Fiscal Phonies

By PAUL KRUGMAN
Published: March 1, 2012

Mitt Romney is very concerned about budget deficits. Or at least that’s what he says; he likes to warn that President Obama’s deficits are leading us toward a “Greece-style collapse.”

So why is Mr. Romney offering a budget proposal that would lead to much larger debt and deficits than the corresponding proposal from the Obama administration?

Of course, Mr. Romney isn’t alone in his hypocrisy. In fact, all four significant Republican presidential candidates still standing are fiscal phonies. They issue apocalyptic warnings about the dangers of government debt and, in the name of deficit reduction, demand savage cuts in programs that protect the middle class and the poor. But then they propose squandering all the money thereby saved — and much, much more — on tax cuts for the rich.

 

And nobody should be surprised. It has been obvious all along, to anyone paying attention, that the politicians shouting loudest about deficits are actually using deficit hysteria as a cover story for their real agenda, which is top-down class warfare. To put it in Romneyesque terms, it’s all about finding an excuse to slash programs that help people who like to watch Nascar events, even while lavishing tax cuts on people who like to own Nascar teams.

 

O.K., let’s talk about the numbers.

The nonpartisan Committee for a Responsible Federal Budget recently published an overview of the budget proposals of the four “major” Republican candidates and, in a separate report, examined the latest Obama budget. I am not, by the way, a big fan of the committee’s general role in our policy discourse; I think it has been pushing premature deficit reduction and diverting attention from the more immediately urgent task of reducing unemployment. But the group is honest and technically competent, so its evaluation provides a very useful reference point.

 

And here’s what it tells us: According to an “intermediate debt scenario,” the budget proposals of Newt Gingrich, Rick Santorum, and Mitt Romney would all lead to much higher debt a decade from now than the proposals in the 2013 Obama budget. Ron Paul would do better, roughly matching Mr. Obama. But if you look at the details, it turns out that Mr. Paul is assuming trillions of dollars in unspecified and implausible spending cuts. So, in the end, he’s really a spendthrift, too.

Is there any way to make the G.O.P. proposals seem fiscally responsible? Well, no — not unless you believe in magic. Sure enough, voodoo economics is making a big comeback, with Mr. Romney, in particular, asserting that his tax cuts wouldn’t actually explode the deficit because they would promote faster economic growth and this would raise revenue.

And you might find this plausible if you spent the past two decades sleeping in a cave somewhere. If you didn’t, you probably remember that the same people now telling us what great things tax cuts would do for growth assured us that Bill Clinton’s tax increase in 1993 would lead to economic disaster, while George W. Bush’s tax cuts in 2001 would create vast prosperity. Somehow, neither of those predictions worked out.

 

So the Republicans screaming about the evils of deficits would not, in fact, reduce the deficit — and, in fact, would do the opposite. What, then, would their policies accomplish? The answer is that they would achieve a major redistribution of income away from working-class Americans toward the very, very rich.

Another nonpartisan group, the Tax Policy Center, has analyzed Mr. Romney’s tax proposal. It found that, compared with current policy, the proposal would actually raise taxes on the poorest 20 percent of Americans, while imposing drastic cuts in programs like Medicaid that provide a safety net for the less fortunate. (Although right-wingers like to portray Medicaid as a giveaway to the lazy, the bulk of its money goes to children, disabled, and the elderly.)

 

But the richest 1 percent would receive large tax cuts — and the richest 0.1 percent would do even better, with the average member of this elite group paying $1.1 million a year less in taxes than he or she would if the high-end Bush tax cuts are allowed to expire.

 

There’s one more thing you should know about the Republican proposals: Not only are they fiscally irresponsible and tilted heavily against working Americans, they’re also terrible policy for a nation suffering from a depressed economy in the short run even as it faces long-run budget problems.

Put it this way: Are you worried about a “Greek-style collapse”? Well, these plans would slash spending in the near term, emulating Europe’s catastrophic austerity, even while locking in budget-busting tax cuts for the future.

 

The question now is whether someone offering this toxic combination of irresponsibility, class warfare, and hypocrisy can actually be elected president.

 

I quattro ipocriti dell’austerità [54], di Paul Krugman

New York Times 1 marzo 2012

Il signor Romney è molto preoccupato per i deficit di bilancio. O almeno questo è quello che dice: gli piace ammonire che i deficit del Presidente Obama ci starebbero portando ad un “collasso sul modello greco”.

 

Perché dunque Romney presenta una proposta di bilancio che condurrebbe ad un debito ed a deficit assai maggiori delle corrispondenti proposte della Amministrazione Obama?

Come capite, Romney non è isolato nella sua ipocrisia. Di fatto, tutti e quattro i candidati presidenziali repubblicani più rilevanti ancora in lizza sono degli ipocriti dell’austerità. Essi ammanniscono ammonimenti apocalittici sui pericoli del debito pubblico e, in nome della riduzione del deficit, chiedono tagli selvaggi ai programmi che proteggono le classi medie ed  i meno abbienti. Sennonché propongono di scialacquare tutti i soldi risparmiati  in quel modo – e molti, molti di più – in sgravi fiscali ai ricchi.

Nessuno si dovrebbe sorprendere. E’ evidente da sempre, a chiunque abbia prestato attenzione, che gli uomini politici che si strappano le vesti sui deficit, in effetti usano quell’isteria per i loro veri programmi, che poi sono un rivolgimento da cima a fondo dei rapporti sociali. Per dirla in termini “romneysiani”, tutto consiste nel trovare una scusa per tagliare quei programmi che danno una mano alla gente che ama guardare le gare del Nascar[55], al tempo stesso regalando tagli delle tasse alla gente che invece ama possedere le squadre del Nascar.

 

Bene, diamo dunque un’occhiata ai numeri.

La Commissione indipendente per un Bilancio federale Responsabile recentemente ha pubblicato una analisi complessiva delle proposte di bilancio dei quattro “principali” candidati repubblicani e, in un distinto rapporto, ha esaminato l’ultimo Bilancio di Obama. Per inciso, io non sono un grande sostenitore del ruolo che in generale ha quella Commissione nel nostro dibattito politico; penso che essa abbia spinto in modo prematuro alla riduzione del deficit ed abbia contribuito a spostare l’attenzione dal compito ben più urgente della riduzione della disoccupazione. Ma è un gruppo di persone oneste e tecnicamente competenti, cosicché la sua valutazione ci fornisce un punto di riferimento molto utile.

Ed ecco quello che ci dicono: secondo uno “scenario intermedio del debito”, le proposte di bilancio di Newt Gingrich, Rick Santorum e Mitt Romney condurrebbero di qua a dieci anni ad un debito molto più elevato delle proposte del Bilancio per il 2013 di Obama. Ron Paul farebbe meglio, grosso modo eguagliando Obama. Ma, se si guarda ai dettagli, viene fuori che il signor Paul ipotizza migliaia di miliardi di dollari  di tagli alla spesa non specificati ed improbabili. Dunque, alla fine, anche lui è un vero e proprio spendaccione.

C’è qualche modo per far apparire responsabili le proposte di finanza pubblica dei repubblicani? Ebbene, no, a meno che non si creda nella magia. E’ vero, l’economia vodoo [56] è di nuovo in piena auge, in particolare con il signor Romney, il quale sostiene che i suoi tagli alle tasse non farebbero effettivamente esplodere il deficit, giacché promuoverebbero un crescita economica più rapida ed un conseguente innalzamento delle entrate.

E questo potreste trovarlo plausibile se aveste passato gli ultimi due decenni addormentati in una grotta. Se non è stato così, dovreste ricordare che la stessa gente che oggi ci racconta quali meraviglie farebbero i tagli delle tasse alla crescita è la stessa che ci assicurava che gli aumenti fiscali di Bill Clinton del 1993 avrebbero portato l’economia al disastro, e che gli sgravi fiscali di George W. Bush del 2001 avrebbero creato grande prosperità. Sennonché né l’una né l’altra delle due previsioni si è avverata.

Dunque, gli strepiti dei repubblicani sui mali del deficit, nei fatti, non ridurrebbero il deficit, al contrario. Cosa provocherebbero, dunque? La risposta è che si avrebbe il risultato di una importante redistribuzione del reddito, dai lavoratori americani verso i ceti più abbienti.

 

 

Un altro gruppo indipendente, il Tax Policy Center, ha analizzato la proposta di Romney in materia di tasse ed ha trovato che, a confronto con la politica attuale, essa effettivamente accrescerebbe le tasse sul 20 per cento degli americani più poveri, mentre costringerebbe a tagli drastici su programmi come Medicaid, che fornisce un rete di protezione ai meno fortunati (sebbene la destra ami dipingere Medicaid come un incentivo gratuito all’indolenza, gran parte di quel denaro va ai bambini, ai disabili, agli anziani).

 

Ma l’uno per cento dei più ricchi riceverebbe ampi sgravi fiscali – ed ai ricchissimi dello 0,1 per cento andrebbe persino meglio, con il componente medio di questo gruppo di privilegiati che pagherebbe 1,1 milioni di dollari di tasse all’anno in meno rispetto a quello che dovrebbe pagare se si facesse in modo che gli sgravi fiscali dell’epoca di Bush andassero a scadenza [57].

C’è un’altra cosa che si deve sapere sulle proposte dei repubblicani: non solo sono fiscalmente irresponsabili e pesantemente ostili agli americani che lavorano, sono anche una politica assurda per una nazione che nell’immediato sta soffrendo per la depressione economica, pur misurandosi con i problemi di bilancio di più lungo periodo.

Diciamo così: siete preoccupati di un “collasso sul modello greco”? Ebbene, questi programmi taglierebbero la spesa nell’immediato, emulando la catastrofica austerità dell’Europa, e nel contempo metterebbero al sicuro regali fiscali tali da far saltare il bilancio nel futuro.

 

A questo punto la domanda è se qualcuno che propone questa velenosa mistura di irresponsabilità, di spirito classista e di ipocrisia possa davvero essere eletto Presidente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

States of Depression

By PAUL KRUGMAN
Published: March 4, 2012

The economic news is looking better lately. But after previous false starts — remember “green shoots”? — it would be foolish to assume that all is well. And in any case, it’s still a very slow economic recovery by historical standards.

There are several reasons for this slowness, with the most important being the overhang of household debt that is a legacy of the housing bubble. But one significant factor in our continuing economic weakness is the fact that government in America is doing exactly what both theory and history say it shouldn’t: slashing spending in the face of a depressed economy.

In fact, if it weren’t for this destructive fiscal austerity, our unemployment rate would almost certainly be lower now than it was at a comparable stage of the “Morning in America” recovery during the Reagan era.

 

Notice that I said “government in America,” not “the federal government.” The federal government has been pursuing what amount to contractionary policies as the last vestiges of the Obama stimulus fade out, but the big cuts have come at the state and local level. These state and local cuts have led to a sharp fall in both government employment and government spending on goods and services, exerting a powerful drag on the economy as a whole.

One way to dramatize just how severe our de facto austerity has been is to compare government employment and spending during the Obama-era economic expansion, which began in June 2009, with their tracks during the Reagan-era expansion, which began in November 1982.

Start with government employment (which is mainly at the state and local level, with about half the jobs in education). By this stage in the Reagan recovery, government employment had risen by 3.1 percent; this time around, it’s down by 2.7 percent.

 

Next, look at government purchases of goods and services (as distinct from transfers to individuals, like unemployment benefits). Adjusted for inflation, by this stage of the Reagan recovery, such purchases had risen by 11.6 percent; this time, they’re down by 2.6 percent.

And the gap persists even when you do include transfers, some of which have stayed high precisely because unemployment is still so high. Adjusted for inflation, Reagan-era spending rose 10.2 percent in the first 10 quarters of recovery, Obama-era spending only 2.6 percent.

Why did government spending rise so much under Reagan, with his small-government rhetoric, while shrinking under the president so many Republicans insist is a secret socialist? In Reagan’s case, it’s partly about the arms race, but mainly about state and local governments doing what they are supposed to do: educate a growing population of children, invest in infrastructure for a growing economy.

Under President Obama, however, the dire fiscal condition of state and local governments — the result of a sustained slump, which in turn was caused largely by that private debt explosion before 2008 — has led to forced spending cuts. The fiscal straits of lower-level governments could and should have been alleviated by aid from Washington, which remains able to borrow at incredibly low interest rates. But this aid was never provided on a remotely adequate scale.

 

This policy malpractice is doing double damage to America. On one side, it’s helping lose the future — because that’s what happens when you neglect education and public investment. At the same time, it’s hurting us right now, by helping keep growth low and unemployment high.

We’re talking big numbers here. If government employment under Mr. Obama had grown at Reagan-era rates, 1.3 million more Americans would be working as schoolteachers, firefighters, police officers, etc., than are currently employed in such jobs.

And once you take the effects of public spending on private employment into account, a rough estimate is that the unemployment rate would be 1.5 percentage points lower than it is, or below 7 percent — significantly better than the Reagan economy at this stage.

 

One implication of this comparison is that conservatives who love to compare Reagan’s record with Mr. Obama’s should think twice. Aside from the fact that recoveries from financial crises are almost always slower than ordinary recoveries, in reality Reagan was much more Keynesian than Mr. Obama, faced with an obstructionist G.O.P., has ever managed to be.

More important, however, there is now an easy answer to anyone asking how we can accelerate our economic recovery. By all means, let’s talk about visionary ideas; but we can take a big step toward full employment just by using the federal government’s low borrowing costs to help state and local governments rehire the schoolteachers and police officers they laid off, while restarting the road repair and improvement projects they canceled or put on hold.

 

Stati di depressione, di Paul Krugman

New York Times 4 marzo 2012

 

Negli ultimi tempi le notizie economiche sembrano migliori. Ma dopo le precedenti false partenze – ricordate i “verdi germogli”? [58] – sarebbe sciocco prenderle per buone. E, in ogni caso, si tratta ancora di una ripresa molto lenta, a confronto con le serie storiche.

 

Ci sono varie ragioni per questa lentezza, e la più importante di esse è l’eccesso di debito delle famiglie che è un portato della bolla immobiliare. Ma un significativo fattore per la perdurante debolezza della nostra economia è il fatto che la pubblica amministrazione americana sta facendo esattamente quello che sia la teoria che la storia dicono non dovrebbe fare: i tagli di spesa a fronte di un’economia depressa.

Di fatto, se non fosse per questa distruttiva austerità delle finanze pubbliche [59], il nostro tasso di disoccupazione sarebbe quasi certamente più basso di quando non fosse stato nella paragonabile fase di ripresa dell’epoca di Reagan, che venne chiamata “E’ giorno in America” [60].

 

Si noti che ho detto “amministrazione pubblica americana”, non “governo federale”. Il governo federale ha portato avanti qualcosa che in pratica corrisponde a politiche restrittive al momento in cui le ultime tracce dello stimulus di Obama sono svanite, ma i grandi tagli sono venuti dagli Stati e dai livelli locali. Questi tagli statali e locali hanno provocato una brusca caduta sia nell’occupazione pubblica che nella spesa pubblica per beni e servizi, esercitando un potente salasso sull’economia nel suo complesso.

Un modo per drammatizzare quanto sia stata severa la nostra austerità de facto, consiste nel confrontare occupazione e spesa pubblica nel periodo di ripresa della espansione economica, che cominciò nel giugno del 2009, con i dati relativi dell’epoca di espansione sotto Reagan, che cominciò nel novembre del 1982.

Cominciamo con l’occupazione del settore pubblico (che è principalmente nei livelli istituzionali statali e locali, con circa la metà dei posti di lavoro nell’istruzione). A questo stadio della ripresa reaganiana, l’occupazione del settore pubblico era cresciuta del 3,1 per cento; di questi tempi è calata del 2,7 per cento.

Guardiamo poi agli acquisti di beni e servizi (distinti dai trasferimenti finanziari alle persone, quali i sussidi di disoccupazione). Corretti dall’inflazione, allo stesso punto della ripresa del periodo di Reagan tali acquisti erano cresciuti dell’ 11,6 per cento; questa volta, sono calati del 2,6 per cento.

E la differenza persiste anche qualora si includessero i trasferimenti, alcuni dei quali sono rimasti elevati proprio perché la disoccupazione è ancora elevata. Corretta per l’inflazione, la spesa pubblica dell’epoca Reagan crebbe del 10,2 per cento nei primi dieci trimestri della ripresa, solo del 2,6 per cento nel corrispondente periodo di Obama.

Perché la spesa pubblica incrementò così tanto sotto Reagan, con tutta la sua retorica anti-governamentale, mentre si restringe sotto un Presidente che molti Repubblicani si ostinano a definire come un socialista camuffato? Nel caso di Reagan, questo in parte dipese dalla corsa agli armamenti, ma principalmente dal fatto che gli Stati e le istituzioni locali fecero quello che dovrebbero fare: istruire un numero crescente di bambini, investire nelle infrastrutture per una economia in crescita.

Sotto il Presidente Obama, tuttavia, le terribili condizioni finanziarie degli Stati e delle istituzioni locali – risultato di una crisi prolungata, a sua volta provocata in gran parte dalla esplosione del debito privato prima del 2008 – hanno condotto a forzosi tagli di spesa. Le ristrettezze finanziarie dei livelli più bassi della amministrazione potevano e dovevano essere alleviate da aiuti da Washington, che è tuttora nelle condizioni di prendere soldi a prestito a tassi incredibilmente bassi. Ma questo aiuto non è mai stato fornito in dimensioni neanche lontanamente adeguate.

Questa negligenza della politica sta provocando un duplice danno all’America. Da una parte, contribuisce a rubare il futuro – perché questo è quello che accade quando si trascura l’istruzione e l’investimento pubblico. Nello stesso tempo, ci danneggia nell’immediato, contribuendo a tenere la crescita bassa e la disoccupazione elevata.

In questo caso, stiamo parlando di grosse cifre. Se l’occupazione pubblica sotto Obama fosse cresciuta ai tassi dell’epoca di Reagan, 1,3 milioni di americani in più starebbero lavorando come insegnanti, pompieri, poliziotti etc., a confronto con coloro che sono attualmente occupati in tali mansioni.

 

E una volta che mettete nel conto gli effetti della spesa pubblica sulla occupazione nel settore privato, una stima all’ingrosso porterebbe ad un tasso di disoccupazione di 1,5 punti percentuali più basso di quello attuale, ovvero al di sotto del 7 per cento – significativamente migliore rispetto all’economia di Reagan a questa stadio della ripresa.

Una implicazione di questo confronto è che i conservatori che amano paragonare le prestazioni di Reagan con quelle di Obama dovrebbero pensarci due volte. A parte il fatto che le riprese da tracolli finanziari sono sempre più lente delle normali riprese, in realtà Reagan fu molto più keynesiano di quanto Obama, costretto a fare i conti con l’ostruzionismo del Partito Repubblicano, sia mai riuscito ad essere.

 

E’ più importante il fatto, tuttavia, che non ci sia ad oggi alcuna risposta a tutti quelli che chiedono come si possa accelerare la nostra ripresa economica. Certamente, si tratta di idee visionarie: ma noi potremmo fare un grande passo in avanti verso la piena occupazione solo utilizzando i bassi costi di indebitamento del governo federale  per aiutare gli Stati e le istituzioni locali a riassumere gli insegnanti ed i poliziotti che avevano licenziato, nel mentre ri ricomincerebbe a riparare le strade e a migliorare i progetti che erano stati cancellati o sospesi.   

 

       

 

 

 

Ignorance Is Strength

By PAUL KRUGMAN
Published: March 8, 2012

One way in which Americans have always been exceptional has been in our support for education. First we took the lead in universal primary education; then the “high school movement” made us the first nation to embrace widespread secondary education. And after World War II, public support, including the G.I. Bill and a huge expansion of public universities, helped large numbers of Americans to get college degrees.

 

 

But now one of our two major political parties has taken a hard right turn against education, or at least against education that working Americans can afford. Remarkably, this new hostility to education is shared by the social conservative and economic conservative wings of the Republican coalition, now embodied in the persons of Rick Santorum and Mitt Romney.

 

And this comes at a time when American education is already in deep trouble.

About that hostility: Mr. Santorum made headlines by declaring that President Obama wants to expand college enrollment because colleges are “indoctrination mills” that destroy religious faith. But Mr. Romney’s response to a high school senior worried about college costs is arguably even more significant, because what he said points the way to actual policy choices that will further undermine American education.

 

 

Here’s what the candidate told the student: “Don’t just go to one that has the highest price. Go to one that has a little lower price where you can get a good education. And, hopefully, you’ll find that. And don’t expect the government to forgive the debt that you take on.”

Wow. So much for America’s tradition of providing student aid. And Mr. Romney’s remarks were even more callous and destructive than you may be aware, given what’s been happening lately to American higher education.

For the past couple of generations, choosing a less expensive school has generally meant going to a public university rather than a private university. But these days, public higher education is very much under siege, facing even harsher budget cuts than the rest of the public sector. Adjusted for inflation, state support for higher education has fallen 12 percent over the past five years, even as the number of students has continued to rise; in California, support is down by 20 percent.

 

One result has been soaring fees. Inflation-adjusted tuition at public four-year colleges has risen by more than 70 percent over the past decade. So good luck on finding that college “that has a little lower price.”

 

Another result is that cash-strapped educational institutions have been cutting back in areas that are expensive to teach — which also happen to be precisely the areas the economy needs. For example, public colleges in a number of states, including Florida and Texas, have eliminated entire departments in engineering and computer science.

The damage these changes will inflict — both to our nation’s economic prospects and to the fading American dream of equal opportunity — should be obvious. So why are Republicans so eager to trash higher education?

 

It’s not hard to see what’s driving Mr. Santorum’s wing of the party. His specific claim that college attendance undermines faith is, it turns out, false. But he’s right to feel that our higher education system isn’t friendly ground for current conservative ideology. And it’s not just liberal-arts professors: among scientists, self-identified Democrats outnumber self-identified Republicans nine to one.

 

 

I guess Mr. Santorum would see this as evidence of a liberal conspiracy. Others might suggest that scientists find it hard to support a party in which denial of climate change has become a political litmus test, and denial of the theory of evolution is well on its way to similar status.

 

But what about people like Mr. Romney? Don’t they have a stake in America’s future economic success, which is endangered by the crusade against education? Maybe not as much as you think.

After all, over the past 30 years, there has been a stunning disconnect between huge income gains at the top and the struggles of ordinary workers. You can make the case that the self-interest of America’s elite is best served by making sure that this disconnect continues, which means keeping taxes on high incomes low at all costs, never mind the consequences in terms of poor infrastructure and an undertrained work force.

 

And if underfunding public education leaves many children of the less affluent shut out from upward mobility, well, did you really believe that stuff about creating equality of opportunity?

So whenever you hear Republicans say that they are the party of traditional values, bear in mind that they have actually made a radical break with America’s tradition of valuing education. And they have made this break because they believe that what you don’t know can’t hurt them.

 

L’ignoranza è forza, di Paul Krugman

New York Times 8 marzo 2012

 

Un aspetto per il quale noi americani siamo sempre stati straordinari è stato il nostro impegno per l’istruzione. Anzitutto, fummo noi a guidare il mondo verso il traguardo della  educazione primaria universale; poi il “movimento per la scuola superiore” fece di noi la prima nazione ad adottare l’educazione secondaria estesa a tutti. E dopo la Seconda Guerra Mondiale, il sostegno pubblico, inclusi il G.I. Bill [61] ed una grande espansione delle università pubbliche, aiutò un largo numero di americani ad ottenere la laurea.

Ma oggi uno dei due nostri maggiori partiti politici ha assunto una posizione reazionaria contro l’istruzione, o almeno contro quell’istruzione che gli americani che lavorano possono permettersi. In modo significativo, questa nuova ostilità verso il sistema educativo è stata condivisa dai settori della conservazione sociale ed economica della coalizione repubblicana, impersonati da Rick Santorum e da Mitt Romney.

E questo avviene in un periodo nel quale l’istruzione americana è già in profonde difficoltà.

 

A proposito di quella ostilità: il signor Santorum è andato sulle prime pagine dei giornali dichiarando che il Presidente Obama vuole ampliare le iscrizioni alle università perché esse sono “fabbriche di indottrinamento” che distruggono la fede religiosa. Ma la risposta di Romney ad uno studente dell’ultimo anno della scuola superiore preoccupato dei costi dell’Università è stata probabilmente anche più significativa, perché ciò che ha detto è indicativo del modo in cui le scelte politiche attuali metteranno domani a repentaglio il sistema educativo americano.

 

Ecco cosa ha detto il candidato allo studente: “Semplicemente, non andare a quella che costa di più. Vai a quella che ha un costo un po’ più basso ma nella quale puoi ottenere una buona istruzione. Se tutto va bene la troverai. E non aspettarti che il Governo ti condoni il debito che ti accolli”.

Per la miseria! E questo è il benservito alla tradizione americana degli interventi per il diritto allo studio. E le osservazioni del signor Romney sono state ancor più insensibili ed offensive di quanto vi potete immaginare, considerato quello che di recente sta accadendo all’istruzione superiore.

Per le ultime due generazioni, scegliere una scuola meno costosa ha significato, in generale, andare ad una università pubblica anziché ad una privata. Ma di questi tempi, l’educazione pubblica superiore è davvero sotto assedio, dovendo fronteggiare tagli di bilancio persino più gravi del resto del settore pubblico. Corretto per l’inflazione, il sostegno per l’istruzione superiore è diminuito del 12 per cento nei cinque anni passati, anche se il numero degli studenti ha continuato a crescere; in California, quel sostegno è diminuito del 20 per cento.

 

 Una conseguenza è stata che le tasse scolastiche sono salite alle stelle. Corrette dall’inflazione, le tasse per le università pubbliche di quattro anni sono cresciute di più del 70 per cento nel corso del decennio passato. Ci vuole dunque un po’ di fortuna per trovare una università “che abbia un prezzo un po’ più basso”.

Un altro risultato è stato che gli istituti educativi in gravi difficoltà di bilancio sono tornati a tagliare nelle aree dell’insegnamento che erano troppo costose – il che, per la precisione, è accaduto anche alle aree che sono necessarie all’insegnamento dell’economia. Per esempio, università pubbliche in un certo numero di Stati, hanno eliminato interi dipartimenti di ingegneria e di scienze informatiche.

Il danno che questi mutamenti provocheranno, sia alle prospettive economiche del paese che al sempre più esiguo sogno americano delle eguali opportunità, dovrebbe essere evidente. Perché dunque i Repubblicani sono così impazienti di mandare al macero l’istruzione superiore?

 

Non è difficile capire cosa è che sta guidando l’ala del Partito che sta con il signor Santorum. La sua particolare affermazione, secondo la quale la frequentazione delle università mina la fede religiosa è evidentemente falsa. Ma egli ha ragione nel sentire che il nostro sistema educativo superiore non sia un terreno fertile per la attuale ideologia conservatrice. E non solo per i docenti delle materie umanistiche; tra gli scienziati coloro che si dichiarano Democratici sono più numerosi di coloro che si dichiarano Repubblicani in un rapporto di nove ad uno.

 

Suppongo che il signor Santorum vedrebbe in questo la prova di una cospirazione progressista. Altri potrebbero suggerire che gli scienziati trovano difficile sostenere un partito nel quale la negazione dei cambiamenti climatici è diventata un sorta di cartina di tornasole, per non dire che il diniego delle teorie evoluzioniste sta per ottenere un analogo riconoscimento.

Ma che dire di persone come Romney? Non sono quelli come lui, che scommettono sul futuro successo economico dell’America, ad essere danneggiati dalla crociata contro l’istruzione? Forse non tanto quanto si possa ritenere.

Dopo tutto, nei trenta anni passati, c’è stata una sensazionale disconnessione tra gli enormi incrementi di reddito dei più ricchi e le lotte dei lavoratori comuni. Si può fare l’ipotesi che l’interesse proprio delle èlites  dell’America sia meglio servito assicurandosi che quella disconnessione prosegua, il che significa tenere le tasse basse sugli redditi più elevati a tutti i costi, senza badare alle conseguenze in termini di miseria delle infrastrutture e di una forza lavoro con bassi livelli formativi.

E se un istruzione pubblica con minori sostegni esclude molti figli delle popolazione meno abbiente da una mobilità verso l’alto, ebbene, ma credete che roba del genere abbia davvero a che fare con l’eguaglianza di opportunità?

 

Così, ogni volta che sentirete dire che i Repubblicani sono il partito dei valori tradizionali, ricordatevi che essi hanno prodotto una rottura radicale con la tradizione americana sul valore dell’istruzione. E l’hanno fatto perché credono che tutto quello che non apprendete non può far loro alcun danno.

 

 

 

 

 

 

What Greece Means

By PAUL KRUGMAN
Published: March 11, 2012

So Greece has officially defaulted on its debt to private lenders. It was an “orderly” default, negotiated rather than simply announced, which I guess is a good thing. Still, the story is far from over. Even with this debt relief, Greece — like other European nations forced to impose austerity in a depressed economy — seems doomed to many more years of suffering.

 

And that’s a tale that needs telling. For the past two years, the Greek story has, as one recent paper on economic policy put it, been “interpreted as a parable of the risks of fiscal profligacy.” Not a day goes by without some politician or pundit intoning, with the air of a man conveying great wisdom, that we must slash government spending right away or find ourselves turning into Greece, Greece I tell you.

 

Just to take one recent example, when Mitch Daniels, the governor of Indiana, delivered the Republican reply to the State of the Union address, he insisted that “we’re only a short distance behind Greece, Spain and other European countries now facing economic catastrophe.” By the way, apparently nobody told him that Spain had low government debt and a budget surplus on the eve of the crisis; it’s in trouble thanks to private-sector, not public-sector, excess.

 

But what Greek experience actually shows is that while running deficits in good times can get you in trouble — which is indeed the story for Greece, although not for Spain — trying to eliminate deficits once you’re already in trouble is a recipe for depression.

 

These days, austerity-induced depressions are visible all around Europe’s periphery. Greece is the worst case, with unemployment soaring to 20 percent even as public services, including health care, collapse. But Ireland, which has done everything the austerity crowd wanted, is in terrible shape too, with unemployment near 15 percent and real G.D.P. down by double digits. Portugal and Spain are in similarly dire straits.

 

 

And austerity in a slump doesn’t just inflict vast suffering. There is growing evidence that it is self-defeating even in purely fiscal terms, as the combination of falling revenues due to a depressed economy and worsened long-term prospects actually reduces market confidence and makes the future debt burden harder to handle. You have to wonder how countries that are systematically denying a future to their young people — youth unemployment in Ireland, which used to be lower than in the United States, is now almost 30 percent, while it’s near 50 percent in Greece — are supposed to achieve enough growth to service their debt.

 

This was not what was supposed to happen. Two years ago, as many policy makers and pundits began calling for a pivot from stimulus to austerity, they promised big gains in return for the pain. “The idea that austerity measures could trigger stagnation is incorrect,” Jean-Claude Trichet, then the president of the European Central Bank, declared in June 2010. Instead, he insisted, fiscal discipline would inspire confidence, and this would lead to economic growth.

 

And every slight uptick in an austerity economy has been hailed as proof that the policy works. Irish austerity has been proclaimed a success story not once but twice, first in the summer of 2010, then again last fall; each time the supposed good news quickly evaporated.

You may ask what alternative countries like Greece and Ireland had, and the answer is that they had and have no good alternatives short of leaving the euro, an extreme step that, realistically, their leaders cannot take until all other options have failed — a state of affairs that, if you ask me, Greece is rapidly approaching.

 

Germany and the European Central Bank could take action to make that extreme step less necessary, both by demanding less austerity and doing more to boost the European economy as a whole. But the main point is that America does have an alternative: we have our own currency, and we can borrow long-term at historically low interest rates, so we don’t need to enter a downward spiral of austerity and economic contraction.

 

So it is time to stop invoking Greece as a cautionary tale about the dangers of deficits; from an American point of view, Greece should instead be seen as a cautionary tale about the dangers of trying to reduce deficits too quickly, while the economy is still deeply depressed. (And yes, despite some better news lately, our economy is still deeply depressed.)

 

Il significato della Grecia, di Paul Krugman

New York Times 11 marzo 2012

 

Dunque la Grecia è ufficialmente andata in default nel suo debito verso i creditori. Si è trattato di un default “ordinato”, ovvero negoziato anziché semplicemente annunziato, il che suppongo sia una buona cosa. Tuttavia, la storia è lungi dall’essersi chiusa. Anche con questo alleggerimento del debito, la Grecia – come altre nazioni europee costrette ad imporre l’austerità a fronte di economie depresse – sembra destinata ancora a molti anni di patimenti.

Ed è una storia che merita di essere raccontata. Negli ultimi due anni, la storia della Grecia, come chiarisce un saggio recente di politica economica [62], è stata “interpretata come una parabola dei rischi dello sperpero della finanza pubblica”. Non è trascorso un giorno senza che un uomo politico o un esperto non intonassero, con l’aria di persone che trasmettono una superiore saggezza, il ritornello secondo il quale senza un taglio immediato alla spesa pubblica ci si sarebbe ritrovati nientedimeno che nelle identiche condizioni della Grecia.

 

Solo per portare un esempio recente, quando Mitch Daniels, il Governatore dell’Indiana, ha pronunciato la replica repubblicana al discorso sullo Stato dell’Unione, egli ha sostenuto che “siamo davvero a poco distanza dalla Grecia, dalla Spagna e dalle altre nazioni europee che in questo momento fanno i conti con la catastrofe delle loro economie”. Per inciso, a quanto pare nessuno gli aveva detto che la Spagna aveva un basso debito pubblico ed un avanzo di amministrazione all’epoca della crisi; essa è nei guai grazie agli eccessi del settore privato, non di quello pubblico.

Ma quello che l’esperienza della Grecia effettivamente dimostra è che, mentre gestire deficit nei tempi buoni può mettere nei guai – e quella è in effetti stata la storia della Grecia, ma non della Spagna – cercare di eliminare i deficit una volta che siete già nei guai è la ricetta sicura per la depressione.

 

In questi giorni, depressioni indotte dall’austerità sono visibili in tutta la periferia dell’Europa. La Grecia è il caso peggiore, con una disoccupazione schizzata al 20 per cento nel mentre i servizi pubblici, compresa l’assistenza sanitaria, sono al collasso. Ma l’Irlanda, che ha fatto tutto quello che il pubblico dell’austerità voleva, è anch’essa in una condizione terribile, con una disoccupazione vicina al 15 per cento e un PIL reale sceso di una doppia cifra. Il Portogallo e la Spagna sono anch’essi in terribili ristrettezze.

 

E l’austerità in una crisi non infligge soltanto ampie sofferenze. C’è una evidenza crescente che essa sia autopunitiva persino in termini di mera finanza pubblica, dato che la combinazione tra una caduta delle entrate dovuta alla economia depressa ed il peggioramento delle prospettive di lungo termine effettivamente riduce la fiducia del mercato e rende più difficile da gestire il peso del debito futuro. Ci si deve chiedere in che modo si possa pensare che paesi che negano sistematicamente il futuro alle loro giovani generazioni – la disoccupazione giovanile in Irlanda, che di solito era più bassa di quella degli Stati Uniti,  è ora quasi al 30 per cento, mentre in Grecia è vicina al 50 per cento – crescano abbastanza per il loro servizio del debito.

Questo non era quello che si era immaginato che accadesse. Due anni orsono, quando molti uomini politici e addetti ai lavori iniziarono a chiedere di spostare il baricentro dalle misure di sostegno all’austerità, promettevano grandi risultati in cambio di quella sofferenza. “L’idea che le misure di austerità inneschino la stagnazione non è corretta”, dichiarò nel giugno del 2010 Jean-Claude Trichet, allora Presidente della Banca Centrale Europea. Sostenne invece che la disciplina finanziaria avrebbe ispirato fiducia e che questa avrebbe portato alla crescita dell’economia.

Ed ogni leggero movimento in una economia dell’austerità veniva acclamato come la prova delle efficacia di quella politica. L’austerità irlandese è stata proclamata un racconto di successo non una ma due volte, dapprima nell’estate del 2010, poi ancora nello scorso autunno, ed ogni volta le sedicenti buone notizie sono rapidamente svanite.

Ci si può chiedere quali alternative avessero paesi come la Grecia e l’Irlanda, e la risposta è che essi non avevano e non hanno alcuna alternativa all’infuori che uscire dall’euro, una passo estremo che, realisticamente, i loro dirigenti non possono intraprendere finché ogni altra opzione non sia fallita – uno stato delle cose che, se volete la mia opinione, la Grecia sta rapidamente cominciando a considerare.

La Germania e la Banca Centrale Europea dovrebbero assumere iniziative per rendere non indispensabile quel passo estremo, sia chiedendo minore austerità che incoraggiando maggiormente l’economia europea nel suo complesso. Ma l’aspetto fondamentale è che l’America ha davvero una alternativa: noi abbiamo la nostra valuta, possiamo indebitarci sul lungo periodo ai più bassi tassi di interesse della storia, dunque non abbiamo alcuna necessità di entrare in una spirale di austerità e di contrazione dell’economia.

E’ allora il momento di smetterla di invocare la Grecia come una sorta di  racconto istruttivo sui pericoli del deficit; da un punto di vista americano, la Grecia dovrebbe piuttosto essere considerata istruttiva per i pericoli di riduzioni subitanee del deficit, quando un’economia è ancora profondamente depressa (e non c’è dubbio che, a dispetto di qualche recente migliore notizia, la nostra economia sia ancora profondamente depressa). 

 

 

 

 

 

 

Natural Born Drillers

By PAUL KRUGMAN
Published: March 15, 2012

 

To be a modern Republican in good standing, you have to believe — or pretend to believe — in two miracle cures for whatever ails the economy: more tax cuts for the rich and more drilling for oil. And with prices at the pump on the rise, so is the chant of “Drill, baby, drill.” More and more, Republicans are telling us that gasoline would be cheap and jobs plentiful if only we would stop protecting the environment and let energy companies do whatever they want.

 

Thus Mitt Romney claims that gasoline prices are high not because of saber-rattling over Iran, but because President Obama won’t allow unrestricted drilling in the Gulf of Mexico and the Arctic National Wildlife Refuge. Meanwhile, Stephen Moore of The Wall Street Journal tells readers that America as a whole could have a jobs boom, just like North Dakota, if only the environmentalists would get out of the way.

 

The irony here is that these claims come just as events are confirming what everyone who did the math already knew, namely, that U.S. energy policy has very little effect either on oil prices or on overall U.S. employment. For the truth is that we’re already having a hydrocarbon boom, with U.S. oil and gas production rising and U.S. fuel imports dropping. If there were any truth to drill-here-drill-now, this boom should have yielded substantially lower gasoline prices and lots of new jobs. Predictably, however, it has done neither.

 

Why the hydrocarbon boom? It’s all about the fracking. The combination of horizontal drilling with hydraulic fracturing of shale and other low-permeability rocks has opened up large reserves of oil and natural gas to production. As a result, U.S. oil production has risen significantly over the past three years, reversing a decline over decades, while natural gas production has exploded.

 

Given this expansion, it’s hard to claim that excessive regulation has crippled energy production. Indeed, reporting in The Times makes it clear that U.S. policy has been seriously negligent — that the environmental costs of fracking have been underplayed and ignored. But, in a way, that’s the point. The reality is that far from being hobbled by eco-freaks, the energy industry has been given a largely free hand to expand domestic oil and gas production, never mind the environment.

 

Strange to say, however, while natural gas prices have dropped, rising oil production and a sharp fall in import dependence haven’t stopped gasoline prices from rising toward $4 a gallon. Nor has the oil and gas boom given a noticeable boost to an economic recovery that, despite better news lately, has been very disappointing on the jobs front.

As I said, this was totally predictable.

First up, oil prices. Unlike natural gas, which is expensive to ship across oceans, oil is traded on a world market — and the big developments moving prices in that market usually have little to do with events in the United States. Oil prices are up because of rising demand from China and other emerging economies, and more recently because of war scares in the Middle East; these forces easily outweigh any downward pressure on prices from rising U.S. production. And the same thing would happen if Republicans got their way and oil companies were set free to drill freely in the Gulf of Mexico and punch holes in the tundra: the effect on prices at the pump would be negligible.

 

 

Meanwhile, what about jobs? I have to admit that I started laughing when I saw The Wall Street Journal offering North Dakota as a role model. Yes, the oil boom there has pushed unemployment down to 3.2 percent, but that’s only possible because the whole state has fewer residents than metropolitan Albany — so few residents that adding a few thousand jobs in the state’s extractive sector is a really big deal. The comparable-sized fracking boom in Pennsylvania has had hardly any effect on the state’s overall employment picture, because, in the end, not that many jobs are involved.

 

 

And this tells us that giving the oil companies carte blanche isn’t a serious jobs program. Put it this way: Employment in oil and gas extraction has risen more than 50 percent since the middle of the last decade, but that amounts to only 70,000 jobs, around one-twentieth of 1 percent of total U.S. employment. So the idea that drill, baby, drill can cure our jobs deficit is basically a joke.

 

Why, then, are Republicans pretending otherwise? Part of the answer is that the party is rewarding its benefactors: the oil and gas industry doesn’t create many jobs, but it does spend a lot of money on lobbying and campaign contributions. The rest of the answer is simply the fact that conservatives have no other job-creation ideas to offer.

 

 

And intellectual bankruptcy, I’m sorry to say, is a problem that no amount of drilling and fracking can solve.

 

Trivellatori per vocazione, di Paul Krugman

New York Times 15 marzo 2012

 

 

 

Per essere repubblicani di buone speranze, al giorno d’oggi, si deve credere – o fingere di credere –  in due cure miracolose per ogni possibile malanno dell’economia: tagliare le tasse ai ricchi e trivellare il maggior numero di pozzi di petrolio. E con i prezzi ai distributori in crescita, arriva lo slogan del “Trivella, ragazzo, trivella”. Giorno dopo giorno, i Repubblicani ci dicono che la benzina sarebbe economica e i posti di lavoro abbondanti solo se si smettesse di proteggere l’ambiente e si lasciassero le compagnie petrolifere libere di fare quello che vogliono.

Da qui la pretesa di Mitt Romney, secondo la quale i prezzi della benzina sono alti non per il tintinnare di sciabole sull’Iran, ma perché il Presidente Obama non vuole consentire perforazioni senza limiti nel Golfo del Messico e nella Riserva Faunistica Nazionale dell’Oceano Artico. Nel frattempo, Stephen Moore del Wall Street Journal spiega ai lettori che l’America nel suo complesso potrebbe avere un boom di posti di lavoro, proprio come nel North Dakota, se solo gli ambientalisti si togliessero di mezzo.

In questo caso l’ironia della sorte è che queste pretese arrivano mentre i fatti stanno confermando quello che ognuno che sapesse fare due conti già sapeva, vale a dire che la politica energetica degli Stati Uniti ha effetti molto modesti sia sui prezzi del petrolio che sulla occupazione complessiva statunitense. Perché la verità è che noi già abbiamo un boom degli idrocarburi, con la produzione di petrolio e di gas nazionale in crescita e le importazioni americane di combustibili in calo. E se ci fosse un qualche senso nel “trivella-qua-e-subito”, questo boom avrebbe abbassato i prezzi della benzina e prodotto una quantità di nuovi posti di lavoro. Come era prevedibile, tuttavia, non ha fatto né l’una cosa né l’altra.

Perché il boom degli idrocarburi? Dipende tutto dal fracking [63]. La combinazione della trivellazione orizzontale con la fratturazione idraulica degli scisti e di altre rocce ad elevata permeabilità ha reso disponibili alla produzione grandi riserve di petrolio e di gas naturale. Come risultato, la produzione americana di petrolio è cresciuta in modo significativo negli ultimi tre anni, invertendo un declino di decenni, mentre la produzione del gas naturale è esplosa.

Data questa espansione, è arduo sostenere che l’eccessiva regolamentazione abbia paralizzato la produzione energetica. Per dire la verità, un reportage su The Times [64] ha chiarito che la politica americana è stata gravemente negligente – che i costi ambientali del fracking sono stati minimizzati ed ignorati. Ma, in qualche modo, il punto è quello. La realtà è che, lungi dall’essere paralizzata dagli ecologisti fanatici, all’industria energetica è stata data mano libera per espandere la produzione nazionale di petrolio e di gas naturale, senza darsi cura dell’ambiente.

Strano a dirsi, tuttavia, nel mentre i prezzi del gas naturale sono calati, la produzione nazionale di petrolio e la brusca caduta dalla dipendenza dalle importazioni non ha impedito ai prezzi della benzina di salire sino a 4 dollari al gallone [65]. E il boom del petrolio e del gas non ha neppure offerto un sostegno apprezzabile alla ripresa economica che, a dispetto delle ultime migliori notizie, è stata assai deludente sul fronte dei posti di lavoro.

Come ho detto, questo era del tutto prevedibile.

Partiamo da quest’ultimo aspetto[66] dei prezzi del petrolio. Diversamente dal gas naturale, che ha elevati costi di trasporto via mare, il petrolio è messo in commercio su un mercato mondiale – e le grandi novità che mettono in movimento i prezzi generalmente hanno poco a che fare con gli eventi americani. I prezzi del petrolio sono in ascesa per la crescente domanda da parte della Cina e delle altre economie emergenti, e più di recente a causa dei timori di guerre nel Medio Oriente; fenomeni di quel genere facilmente prevalgono su una qualsiasi spinta al ribasso proveniente da una maggiore produzione americana. E la stessa cosa accadrebbe se i Repubblicani andassero per la loro strada e le compagnie petrolifere fossero messe nella condizione di trivellare in libertà il Golfo del Messico e di fare buchi sulla tundra: gli effetti sui prezzi ai distributori sarebbero trascurabili.

Nel frattempo, che dire dei posti di lavoro? Devo ammettere che mi sono messo a ridere nel vedere che il Wall Street Journal sta presentando il North Dakota come l’esempio da seguire. E’ vero, il boom del petrolio in quel caso ha spinto la disoccupazione in basso del 3,2 per cento, ma quello è stato possibile perché l’intero Stato ha meno residenti dell’area metropolitana di Albany – talmente pochi residenti che l’aggiunta di un migliaio di posti di lavoro al settore estrattivo di quello Stato è davvero una considerevole quantità. Il boom del fracking della Pennsylvania, di dimensioni comparabili, ha avuto un effetto marginale sul quadro complessivo dell’occupazione di quello Stato, giacché, in fin dei conti, ha riguardato una manciata di posti di lavoro.

 

Il che ci dice che dare carta bianca alle compagnie petrolifere non è un serio programma per il lavoro. Diciamo così: l’occupazione nella estrazione di petrolio e di gas naturale è cresciuta più del 50 per cento a partire dalla metà dell’ultimo decennio, ma essa ammonta a soli 70.000 posti di lavoro, circa un ventesimo dell’1 per cento della occupazione complessiva degli Stati Uniti. Dunque, l’idea che il “Trivella, ragazzo, trivella” possa essere una cura per il nostro deficit occupazionale è una presa in giro.

Perché, dunque, i Repubblicani fingono che sia una cosa diversa? Una parte della risposta consiste nella gratitudine di quel Partito verso i suoi benefattori: l’industria del petrolio e del gas naturale non crea molti posti di lavoro, in compenso spende grandi quantità di denaro in attività di lobbying e in contributi elettorali. L’altra parte della risposta è che i conservatori non hanno semplicemente altre idee da offrire quanto a creazione di nuovi posti di lavoro.

 

E la bancarotta intellettuale, mi dispiace dirlo, è un problema che non si può risolvere con la quantità di trivellazioni o di fracking.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Hurray for Health Reform

By PAUL KRUGMAN
Published: March 18, 2012

It’s said that you can judge a man by the quality of his enemies. If the same principle applies to legislation, the Affordable Care Act — which was signed into law two years ago, but for the most part has yet to take effect — sits in a place of high honor.

Now, the act — known to its foes as Obamacare, and to the cognoscenti as ObamaRomneycare — isn’t easy to love, since it’s very much a compromise, dictated by the perceived political need to change existing coverage and challenge entrenched interests as little as possible. But the perfect is the enemy of the good; for all its imperfections, this reform would do an enormous amount of good. And one indicator of just how good it is comes from the apparent inability of its opponents to make an honest case against it.

 

To understand the lies, you first have to understand the truth. How would ObamaRomneycare change American health care?

For most people the answer is, not at all. In particular, those receiving good health benefits from employers would keep them. The act is aimed, instead, at Americans who fall through the cracks, either going without coverage or relying on the miserably malfunctioning individual, “non-group” insurance market.

 

The fact is that individual health insurance, as currently constituted, just doesn’t work. If insurers are left free to deny coverage at will — as they are in, say, California — they offer cheap policies to the young and healthy (and try to yank coverage if you get sick) but refuse to cover anyone likely to need expensive care. Yet simply requiring that insurers cover people with pre-existing conditions, as in New York, doesn’t work either: premiums are sky-high because only the sick buy insurance.

 

 

 

The solution — originally proposed, believe it or not, by analysts at the ultra-right-wing Heritage Foundation — is a three-legged stool of regulation and subsidies. As in New York, insurers are required to cover everyone; in return, everyone is required to buy insurance, so that healthy as well as sick people are in the risk pool. Finally, subsidies make those mandated insurance purchases affordable for lower-income families.

 

Can such a system work? It’s already working! Massachusetts enacted a very similar reform six years ago — yes, while Mitt Romney was governor. Jonathan Gruber of the Massachusetts Institute of Technology, who played a key role in developing both the local and the national reforms (and has published an illustrated guide to reform) has surveyed the results — and finds that Romneycare is working pretty much as advertised. The number of people without insurance has dropped sharply, the quality of care hasn’t suffered, and the program’s cost has been very close to initial projections.

 

Oh, and the budgetary cost per newly insured resident of Massachusetts was actually lower than the projected cost per American insured by the Affordable Care Act.

Given this evidence, what’s a virulent opponent of reform to do? The answer is, make stuff up.

We all know how the act’s proposal that Medicare evaluate medical procedures for effectiveness became, in the fevered imagination of the right, an evil plan to create death panels. And rest assured, this lie will be back in force once the general election campaign is in full swing.

 

For now, however, most of the disinformation involves claims about costs. Each new report from the Congressional Budget Office is touted as proof that the true cost of Obamacare is exploding, even when — as was the case with the latest report — the document says on its very first page that projected costs have actually fallen slightly. Nor are we talking about random pundits making these false claims. We are, instead, talking about people like the chairman of the House Republican Policy Committee, who issued a completely fraudulent press release after the latest budget office report.

 

 

Because the truth does not, sad to say, always prevail, there is a real chance that these lies will succeed in killing health reform before it really gets started. And that would be an immense tragedy for America, because this health reform is coming just in time.

As I said, the reform is mainly aimed at Americans who fall through the cracks in our current system — an important goal in its own right. But what makes reform truly urgent is the fact that the cracks are rapidly getting wider, because fewer and fewer jobs come with health benefits; employment-based coverage actually declined even during the “Bush boom” of 2003 to 2007, and has plunged since.

 

 

What this means is that the Affordable Care Act is the only thing protecting us from an imminent surge in the number of Americans who can’t afford essential care. So this reform had better survive — because if it doesn’t, many Americans who need health care won’t.

 

Viva la riforma sanitaria, di Paul Krugman

New York Times 18 marzo 2012

 

Si dice che si può giudicare un uomo dalla qualità dei suoi nemici. Se lo stesso principio si applicasse alle leggi, quella per l’Assistenza Sostenibile – che venne promulgata due anni orsono ma non ha per la maggior parte ancora prodotto effetti – andrebbe collocata in una posizione di tutto riguardo.

Innamorarsi di quella legge – che è nota ai suoi detrattori come la riforma sanitaria di Obama, ed ai conoscitori come la riforma di Obama-Romney [67] – non è cosa facile, considerato che è in buona parte frutto di un compromesso, dettato dall’avvertita necessità politica di cambiare il sistema assistenziale esistente, al tempo stesso sfidando al minimo possibile gli interessi costituiti. Ma la perfezione è il contrario della virtù, e con tutte le sue imperfezioni, questa riforma realizza una quantità impressionante di cose positive. Un indicatore della sua innegabile bontà consiste nella evidente incapacità dei suoi oppositori ad avanzare contro di essa anche solo una ragionevole obiezione.

Per capire le bugie, prima occorre farsi un’idea della verità. In che modo la riforma di Obama-Romney cambierebbe l’assistenza sanitaria in America?

 

Per la gran parte delle persone, la risposta è che non cambierebbe proprio niente. In particolare, coloro che ricevono buoni sussidi sanitari dai datori di lavoro li conserverebbero. La legge, piuttosto, riguarda quegli americani dei quali nessuno di accorge, sia che vadano avanti senza assistenza sia che si affidino a quel miserabile, disfunzionale mercato delle assicurazioni, che si occupa dei singoli individui non ricompresi in entità collettive [68].

Il fatto è che la assicurazione sanitaria individuale, nei modi nei quali oggi è organizzata, semplicemente non funziona. Se gli assicuratori vengono lasciati liberi di negare l’assistenza – così come avviene, ad esempio, in California – essi offrono polizze economiche ai giovani in buona salute (salvo tentare di portargliele via una volta che si ammalano), ma rifiutano di dare copertura a tutti coloro che sono indiziati di aver bisogno di una assistenza costosa. Sennonché richiedere che gli assicuratori assistano le persone con pre-esistenti problemi di salute, come a New York, neanche quello funziona: i premi assicurativi schizzano alle stelle se soltanto gli ammalati acquistano l’assicurazione.

La soluzione – agli inizi proposta, lo si creda o meno, dagli analisti della Fondazione di estrema destra Heritage – è un meccanismo di regole e di sussidi che poggia su tre gambe. Come nello Stato di New York, gli assicuratori sono tenuti a dare assistenza a tutti; in cambio, ad ognuno viene chiesto di comprare la assicurazione, in modo tale che sia le persone in salute che quelle ammalate siano comprese nella valutazione del rischio. Infine, i sussidi rendono quell’obbligo ad acquistare la assicurazione sostenibile per le famiglie di più basso reddito.

Un sistema del genere può funzionare? Ma esso sta già funzionando! Il Massachusetts promulgò una legge simile sei anni orsono, proprio quando Mitt Romney era Governatore. Jonathan Gruber del Massachusetts Institute of Technology, che ha avuto un ruolo chiave nel promuovere sia la riforma al livello di quello Stato che quella nazionale (ed ha pubblicato una guida illustrata alla riforma) ha fatto una indagine sui risultati, ed ha trovato che il sistema di assistenza voluto da Romney funziona grosso modo come viene pubblicizzato. Il numero delle persone prive di assicurazione è sceso drasticamente, la qualità della assistenza non ne ha sofferto ed il costo del programma è molto vicino alle previsioni iniziali.

E si deve aggiungere che i costi in bilancio per i residenti in Massachusetts neo-assicurati sono stati effettivamente più bassi dei costi previsti dalla Legge sulla Assistenza Sostenibile per il complesso degli assicurati degli Stati Uniti.

 

 

Data questa prova, a cosa serve un opposizione così virulenta alla riforma? La risposta è: ad alzare un polverone.

 

Sappiamo tutti che la proposta della Legge relativa alle procedure di valutazione della efficacia sanitaria di Medicare è diventata, nella fervida immaginazione della destra, un piano malefico per creare le cosiddette “giurie della morte” [69]. Potete star sicuri che, una volta che la campagna elettorale sarà in pieno svolgimento, quella menzogna tornerà alla grande.

Per il momento, tuttavia, gran parte della disinformazione ha a che vedere con i costi. Ogni nuovo rapporto da parte del Congressional Budget Office viene reclamizzato come la prova che il costo effettivo della riforma di Obama starebbe esplodendo, persino quando – come nel caso dell’ultimo rapporto – il documento afferma sin dalla primissima pagina che i costi sono in effetti leggermente diminuiti. E non stiamo dicendo che a sostenere falsità del genere sono commentatori in libera uscita. Stiamo parlando, piuttosto, di persone come il Presidente del Comitato politico del gruppo repubblicano della Camera, che ha rilasciato alla stampa un comunicato completamente falso dopo l’ultimo rapporto dell’Ufficio del Bilancio.

 

Il punto è, è sconfortante ammetterlo, che la verità non sempre prevale, e c’è la reale possibilità che queste menzogne abbiano successo nell’ammazzare, per così dire, la riforma nella culla. E questa sarebbe una immensa tragedia per l’America, giacché la riforma sanitaria non potrebbe essere più tempestiva.

Come ho detto, la riforma è rivolta agli americani che nell’attuale meccanismo passano inosservati, il che nella sua logica è un obbiettivo importante. Ma quello che rende la riforma veramente urgente è il fatto che il numero di quegli ‘utenti invisibili’ sta diventando rapidamente crescente, perché ci sono sempre meno posti di lavoro accompagnati dai sussidi sanitari; la assistenza garantita sul posto di lavoro era in effetti calata persino negli anni del cosiddetto “Bush boom”, dal 2003 al 2007, e da allora è crollata.

Questo significa che la Legge sulla Assistenza Sostenibile è l’unica cosa che ci protegge da una imminente crescita del numero degli americani che non si possono permettere le cure. Ecco perché è meglio che questa riforma sopravviva: se così non fosse, molti americani che hanno bisogno di cure sanitarie non le avrebbero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paranoia Strikes Deeper

By PAUL KRUGMAN
Published: March 22, 2012

Stop, hey, what’s that sound? Actually, it’s the noise a great political party makes when it loses what’s left of its mind. And it happened — where else? — on Fox News on Sunday, when Mitt Romney bought fully into the claim that gas prices are high thanks to an Obama administration plot.

 

This claim isn’t just nuts; it’s a sort of craziness triple play — a lie wrapped in an absurdity swaddled in paranoia. It’s the sort of thing you used to hear only from people who also believed that fluoridated water was a Communist plot. But now the gas-price conspiracy theory has been formally endorsed by the likely Republican presidential nominee.

 

Before we get to the larger implications of this endorsement, let’s get the facts on gas prices straight.

 

First, the lie: No, President Obama did not say, as many Republicans now claim, that he wanted higher gasoline prices. He did once say that a cap-and-trade system for carbon emissions would cause electricity prices to “skyrocket” — an unfortunate word choice. But saying that such a system would raise energy prices was just a factual statement, not a declaration of intent to punish American consumers. The claim that Mr. Obama wanted higher prices is a lie, pure and simple.

 

And it’s a lie wrapped in an absurdity, because the president of the United States doesn’t control gasoline prices, or even have much influence over those prices. Oil prices are set in a world market, and America, which accounts for only about a tenth of world production, can’t move those prices much. Indeed, the recent rise in gas prices has taken place despite rising U.S. oil production and falling imports.

 

Finally, there’s the paranoia, the belief that liberals in general, and Obama administration officials in particular, are trying to make driving unaffordable as part of a nefarious plot against the American way of life. And, no, I’m not exaggerating. This is what you hear even from thoroughly mainstream conservatives.

For example, last year George Will declared that the Obama administration’s support for train travel had nothing to do with relieving congestion and reducing environmental impacts. No, he insisted, “the real reason for progressives’ passion for trains is their goal of diminishing Americans’ individualism in order to make them more amenable to collectivism.” Who knew that Dagny Taggart, the railroad executive heroine of “Atlas Shrugged,” was a Commie?

 

O.K., this is all kind of funny. But it’s also deeply scary.

 

As Richard Hofstadter pointed out in his classic 1964 essay “The Paranoid Style in American Politics,” crazy conspiracy theories have been an American tradition ever since clergymen began warning that Thomas Jefferson was an agent of the Bavarian Illuminati. But it’s one thing to have a paranoid fringe playing a marginal role in a nation’s political life; it’s something quite different when that fringe takes over a whole party, to the point where candidates must share, or pretend to share, that fringe’s paranoia to receive the party’s presidential nod.

And it’s not just gas prices, of course. In fact, the conspiracy theories are proliferating so fast it’s hard to keep up. Thus, large numbers of Republicans — and we’re talking about important political figures, not random supporters — firmly believe that global warming is a gigantic hoax perpetrated by a global conspiracy involving thousands of scientists, not one of whom has broken the code of omertà. Meanwhile, others are attributing the recent improvement in economic news to a dastardly plot to withhold stimulus funds, releasing them just before the 2012 election. And let’s not even get into health reform.

 

 

Why is this happening? At least part of the answer must lie in the way right-wing media create an alternate reality. For example, did you hear about how the cost of Obamacare just doubled? It didn’t, but millions of Fox-viewers and Rush-listeners believe that it did. Naturally, people who constantly hear about the evil that liberals do are ready and willing to believe that everything bad is the result of a dastardly liberal plot. And these are the people who vote in Republican primaries.

 

 

But what about the broader electorate?

If and when he wins the nomination, Mr. Romney will try, as a hapless adviser put it, to shake his Etch A Sketch — that is, to erase the record of his pandering to the crazy right and convince voters that he’s actually a moderate. And maybe he can pull it off.

 

But let’s hope that he can’t, because the kind of pandering he has engaged in during his quest for the nomination matters. Whatever Mr. Romney may personally believe, the fact is that by endorsing the right’s paranoid fantasies, he is helping to further a dangerous trend in America’s political life. And he should be held accountable for his actions.

 

Una paranoia sempre più grave, di Paul Krugman

New York Times 22 marzo 2012

Eh no, un momento, di che si parla? In effetti, discorsi del genere si sentono quando un grande partito politico esce del tutto di senno. Ed è accaduto – dove, sennò?  – domenica su Fox News, allorquando Mitt Romney è parso abboccare interamente all’idea che i prezzi della benzina siano elevati grazie ad una macchinazione della amministrazione Obama.

Questa affermazione non è solo pazzesca; è una specie di follia al cubo – una bugia avvolta in una assurdità e infine confezionata in una ossessione. Appartiene a quel genere di argomenti che si possono sentir dire da individui che credono anche che l’acqua contenente insetticidi sia stata un complotto dei comunisti. Sennonché, in questo momento la teoria cospirativa del prezzo della benzina è stata ufficialmente fatta propria dal probabile candidato repubblicano alle elezioni presidenziali.

Prima di considerare le più ampie implicazioni di questa ufficiale adesione, cerchiamo di capire con chiarezza i fatti relativi a quei prezzi.

 

Cominciamo dalla bugia: no, il Presidente Obama non ha detto, come pretendono molti repubblicani, di volere prezzi della benzina più elevati. Disse in una occasione, utilizzando una parola infelice,  che la limitazione delle emissioni di anidride carbonica fondata sul sistema delle cosiddette ‘autorizzazioni scambiabili’ [70] avrebbe spinto “alle stelle” i prezzi dell’elettricità. Ma dire che un sistema del genere avrebbe aumentato i prezzi dell’energia era semplicemente la constatazione di un fatto, non esprimeva l’intenzione di punire i consumatori americani. La pretesa secondo la quale Obama sarebbe a favore di prezzi più alti è, puramente e semplicemente, una bugia.

 

Ed è una bugia avvolta in una assurdità, giacché il Presidente degli Stati Uniti non ha il controllo dei prezzi della benzina, e non ha nemmeno molto influenza su quei prezzi. I prezzi del petrolio sono definiti in un mercato mondiale e l’America, che realizza solo un decimo della produzione del mondo, non può spostare di molto quei prezzi. Semmai, il recente aumento dei prezzi della benzina è avvenuto nonostante la crescita della produzione di petrolio statunitense e la caduta delle importazioni.

C’è, infine, l’ossessione, il convincimento che i liberals in generale, ed i dirigenti della Amministrazione Obama in particolare, stiano cercando di rendere insostenibile l’uso dell’automobile, nell’ambito di un nefando complotto contro l’ american way of life. Si badi, non sto affatto esagerando; questo è quanto si può sentir dire persino dai conservatori più tradizionali.

 

Ad esempio, l’anno passato George Will [71] dichiarò che il sostegno della amministrazione Obama all’uso del treno non avesse niente a che fare con la attenuazione della congestione e la riduzione degli impatti ambientali. No, egli sostenne che “la reale ragione della passione dei progressisti per i treni è il loro obbiettivo di attenuare l’individualismo degli americani al fine di renderli più disponibili verso il collettivismo”. Non lo sapevate che Dagny Taggart, l’eroina che è a capo delle ferrovie nell’ “Atlas Shrugged”  [72], era una comunista?

Va bene, tutto ciò è abbastanza ridicolo, per quanto anche assai terrificante.

 

Come sottolineò Richard Hofstadter nel suo classico saggio del 1964 “Lo stile paranoide nella politica americana”, pazzesche teorie cospirative sono state una tradizione americana sin da quando i preti cominciarono ad accusare Thomas Jefferson di operare per conto di logge massoniche [73]. Ma una cosa è avere una frangia paranoide con un ruolo marginale nella vita politica di una nazione; una cosa abbastanza diversa è quando quella frangia prende in mano un intero partito politico, sino al punto in cui i candidati devono condividere, o fingere di condividere, quella ossessione paranoide se vogliono essere designati dal partito per la competizione presidenziale.

E non è, naturalmente, solo la questione dei prezzi della benzina. Di fatto, le teorie cospirative proliferano con una velocità tale che è diventato difficile tenersi al passo. Nello stesso modo, una larga parte dei repubblicani – e stiamo parlando di importanti personaggi politici, non di sostenitori casuali – credono fermamente che il riscaldamento globale sia una bufala gigantesca ordita da una cospirazione globale che coinvolge migliaia di scienziati, nessuno dei quali sarebbe venuto meno alle regole dell’omertà. Nel frattempo, altri attribuiscono il recente miglioramento delle notizie sull’economia ad un ignobile complotto consistente nel trattenere i fondi dello “stimulus” [74], salvo rilasciarli proprio prima delle elezioni del 2012. E trascuriamo di intrattenerci sui temi della riforma sanitaria.

 

Perché accade tutto questo? Almeno in parte la risposta deve dipendere dal modo in cui i media della destra creano una sorta di realtà fittizia. Ad esempio, non avete sentito che i costi della riforma sanitaria di Obama sono appena raddoppiati? Non è affatto accaduto, ma milioni di spettatori e di ascoltatori dei canali Fox e dei programmi di Rush Limbaugh [75] lo credono. Naturalmente, le persone che continuamente sentono parlare dei mali prodotti dai progressisti, sono pronte a credere e vogliono credere che ogni cosa negativa sia il prodotto di un ignobile complotto liberal. E sono queste le persone che votano nelle primarie americane.

Ma cosa dire dell’elettorato più in generale?

 

Se è quando otterrà la nomination, il signor Romney cercherà, come ha ammesso uno sventurato consigliere, di ripulire con una scossa la sua “lavagna magica” [76] – ovvero, di cancellare le tracce del suo sforzo per ingraziarsi una destra pazzesca e di convincere gli elettori della sua effettiva natura di moderato. E forse è capace di riuscirci.

Ma speriamo che non lo sia, perché il genere di compiacimento con il quale si è speso nel corso del suo tentativo di ottenere la nomina, è destinato a pesare. In qualsiasi cosa il signor Romney creda, il punto è che sostenendo le fantasie ossessive della destra, egli dà una mano a rafforzare una tendenza pericolosa nella vita politica americana. E dovrebbe essere chiamato a rispondere delle sue azioni.

 

 

 

 

 

 

Lobbyists, Guns and Money

By PAUL KRUGMAN
Published: March 25, 2012

Florida’s now-infamous Stand Your Ground law, which lets you shoot someone you consider threatening without facing arrest, let alone prosecution, sounds crazy — and it is. And it’s tempting to dismiss this law as the work of ignorant yahoos. But similar laws have been pushed across the nation, not by ignorant yahoos but by big corporations.

 

Specifically, language virtually identical to Florida’s law is featured in a template supplied to legislators in other states by the American Legislative Exchange Council, a corporate-backed organization that has managed to keep a low profile even as it exerts vast influence (only recently, thanks to yeoman work by the Center for Media and Democracy, has a clear picture of ALEC’s activities emerged). And if there is any silver lining to Trayvon Martin’s killing, it is that it might finally place a spotlight on what ALEC is doing to our society — and our democracy.

 

 

What is ALEC? Despite claims that it’s nonpartisan, it’s very much a movement-conservative organization, funded by the usual suspects: the Kochs, Exxon Mobil, and so on. Unlike other such groups, however, it doesn’t just influence laws, it literally writes them, supplying fully drafted bills to state legislators. In Virginia, for example, more than 50 ALEC-written bills have been introduced, many almost word for word. And these bills often become law.

 

Many ALEC-drafted bills pursue standard conservative goals: union-busting, undermining environmental protection, tax breaks for corporations and the wealthy. ALEC seems, however, to have a special interest in privatization — that is, on turning the provision of public services, from schools to prisons, over to for-profit corporations. And some of the most prominent beneficiaries of privatization, such as the online education company K12 Inc. and the prison operator Corrections Corporation of America, are, not surprisingly, very much involved with the organization.

 

What this tells us, in turn, is that ALEC’s claim to stand for limited government and free markets is deeply misleading. To a large extent the organization seeks not limited government but privatized government, in which corporations get their profits from taxpayer dollars, dollars steered their way by friendly politicians. In short, ALEC isn’t so much about promoting free markets as it is about expanding crony capitalism.

 

And in case you were wondering, no, the kind of privatization ALEC promotes isn’t in the public interest; instead of success stories, what we’re getting is a series of scandals. Private charter schools, for example, appear to deliver a lot of profits but little in the way of educational achievement.

But where does the encouragement of vigilante (in)justice fit into this picture? In part it’s the same old story — the long-standing exploitation of public fears, especially those associated with racial tension, to promote a pro-corporate, pro-wealthy agenda. It’s neither an accident nor a surprise that the National Rifle Association and ALEC have been close allies all along.

And ALEC, even more than other movement-conservative organizations, is clearly playing a long game. Its legislative templates aren’t just about generating immediate benefits to the organization’s corporate sponsors; they’re about creating a political climate that will favor even more corporation-friendly legislation in the future.

Did I mention that ALEC has played a key role in promoting bills that make it hard for the poor and ethnic minorities to vote?

 

Yet that’s not all; you have to think about the interests of the penal-industrial complex — prison operators, bail-bond companies and more. (The American Bail Coalition has publicly described ALEC as its “life preserver.”) This complex has a financial stake in anything that sends more people into the courts and the prisons, whether it’s exaggerated fear of racial minorities or Arizona’s draconian immigration law, a law that followed an ALEC template almost verbatim.

 

Think about that: we seem to be turning into a country where crony capitalism doesn’t just waste taxpayer money but warps criminal justice, in which growing incarceration reflects not the need to protect law-abiding citizens but the profits corporations can reap from a larger prison population.

Now, ALEC isn’t single-handedly responsible for the corporatization of our political life; its influence is as much a symptom as a cause. But shining a light on ALEC and its supporters — a roster that includes many companies, from AT&T and Coca-Cola to UPS, that have so far managed to avoid being publicly associated with the hard-right agenda — is one good way to highlight what’s going on. And that kind of knowledge is what we need to start taking our country back.

 

Lobbisti, armi e denaro, di Paul Krugman

New York Times 25 marzo 2012

 

La oggi-famigerata Legge della Florida “Stand Your Ground[77], che consente che si spari a qualcuno che si ritiene costituisca una minaccia senza dover affrontare l’arresto, e tantomeno un provvedimento giudiziario, sembra pazzesca – e in effetti è tale. Si sarebbe tentati di liquidare leggi del genere come il prodotto di ignoranti trogloditi. Ma una simile legislazione è stata promossa in tutta la nazione non da parte di ignoranti trogloditi, bensì da grandi imprese.

In particolare, un linguaggio virtualmente identico alla legge della Florida è contenuto in un modello offerto ai legislatori in altri Stati da parte del Consiglio Americano per il Confronto Legislativo (ALEC), una associazione sostenuta da interessi corporativi che è riuscita a mantenere un basso profilo pur esercitando una grande influenza (solo di recente, grazie al meritorio lavoro del Centro per i Media e la Democrazia, è emerso un quadro chiaro delle attività di tale associazione). E se c’è un qualche motivo di speranza a seguito della uccisione di Trayvon Martin, è che essa finalmente apra uno squarcio di luce su quello che ALEC sta provocando alla nostra società e alla nostra democrazia.

Che cosa è l’ALEC? Nonostante la pretesa di essere una associazione indipendente, essa è soprattutto una organizzazione del movimento conservatore, messa in piedi dai soliti sospetti: i Kochs, la Exxon Mobil e così via. Diversamente da altri gruppi simili, tuttavia, essa non si limita ad influenzare le leggi, letteralmente le scrive, offrendo proposte di legge interamente predisposte ai legislatori statali. In Virginia, ad esempio, sono state adottate più di 50 proposte di legge scritte dalla ALEC, in molti casi quasi parola per parola. E spesso queste proposte diventano leggi.

Molte proposte di legge predisposte dall’ALEC perseguono obbiettivi tipicamente conservatori: spaccare i sindacati, smantellare le protezioni ambientali, ottenere sgravi fiscali per le grandi imprese ed i più ricchi. L’ ALEC sembra tuttavia avere un particolare interesse nelle privatizzazioni – vale a dire nel modificare, dalle scuole alle prigioni, lo stato legale dei servizi pubblici in imprese a fini di lucro. Ed alcuni dei più rilevanti beneficiari delle privatizzazioni, come la società per l’istruzione on-line K12Inc. o quella operante nella gestione delle carceri Corrections Corporation of America, sono non sorprendentemente molto impegnate nell’organizzazione.

La qual cosa, a sua volta, ci conferma che la pretesa di ALEC di essere a favore di limiti nelle funzioni di governo e di liberi mercati è profondamente fuorviante. In larga misura, l’organizzazione non cerca di limitare le funzioni dei governi ma di privatizzarli, facendo in modo che le imprese traggano i loro profitti dai soldi dei contribuenti, soldi che vengono pilotati nella loro direzione da politici amici. In poche parole, l’ ALEC non si occupa tanto di promuovere i liberi mercati, quanto di espandere un capitalismo clientelare.

E nel caso ve lo siate domandati, ebbene no, il genere di privatizzazione che promuove l’ ALEC non è nell’interesse pubblico; piuttosto che una serie di successi, stiamo ricevendo una serie di scandali. Appaltare le scuole ai privati, ad esempio, sembra che produca un bel po’ di profitti, ma ben poco sotto il profilo del miglioramento dell’istruzione.

Ma cosa c’entra con tutto questo l’incoraggiamento alla (in)giustizia delle ronde? In parte è la solita vecchia storia – lo sfruttamento che c’è sempre stato delle paure della gente, specialmente di quelle associate con tensioni razziali, per promuovere politiche a favore delle grandi imprese e dei ricchi. Non è né un caso né una sorpresa che la National Rifle Association [78] e l’ ALEC siano stretti alleati da sempre.

E l’ ALEC, ancor più di altre organizzazioni del movimento conservatore, sta chiaramente operando sui tempi lunghi. I suoi modelli legislativi non riguardano semplicemente la produzione di immediati benefici per i comuni sponsors dell’organizzazione; riguardano la creazione di un clima politico che sarà ancor più favorevole nel futuro ad una legislazione amichevole verso le imprese.

Devo ricordare che l’ALEC ha giocato un ruolo chiave nel promuovere proposte di legge che rendano più difficile il diritto di voto ai poveri ed alle minoranze etniche?

Tuttavia c’è altro; si deve pensare agli interessi del complesso penale-industriale – gli agenti carcerari, le società che operano nel campo delle cauzioni ed altro  (la American Bail Coalition [79] ha pubblicamente definito l’ ALEC come il suo “salvagente”). Questo complesso (penale-industriale) ha una partecipazione finanziaria in tutto quello che riguarda lo spedire più gente possibile nei tribunali e nelle galere, sia che si tratti di paure esagerate nei confronti delle minoranze raziali sia che si tratti della legge draconiana sull’immigrazione dell’Arizona, una legge che ha seguito il modello fornito dall’ ALEC parola per parola.

Si pensi a tutto ciò: sembra che ci stiamo trasformando in un paese nel quale il capitalismo clientelare non solo spreca il denaro dei contribuenti ma anche distorce la giustizia criminale, nel quale la carcerazione crescente non riflette il bisogno di proteggere i cittadini rispettosi della legge, bensì i profitti che le società possono raccogliere con una popolazione carceraria più ampia.

 

Ora, ALEC non è l’unica responsabile per la corporativizzazione della nostra vita politica; la sua influenza è più un sintomo che una causa. Ma puntare i riflettori su ALEC e sui suoi sostenitori – una lista che include molte grandi imprese, dalla AT&T [80]e dalla Coca-Cola alla UPS [81], imprese che sinora avevano cercato di evitare di essere pubblicamente messe in relazione con i programmi dell’estrema destra – è un buon modo per chiarire cosa sta succedendo. E quel genere di conoscenze sono quelle che ci servono per cominciare a riportare indietro il nostro paese.

 

 

 

 

 

 

 

Broccoli and Bad Faith

By PAUL KRUGMAN
Published: March 29, 2012

Nobody knows what the Supreme Court will decide with regard to the Affordable Care Act. But, after this week’s hearings, it seems quite possible that the court will strike down the “mandate” — the requirement that individuals purchase health insurance — and maybe the whole law. Removing the mandate would make the law much less workable, while striking down the whole thing would mean denying health coverage to 30 million or more Americans.

Given the stakes, one might have expected all the court’s members to be very careful in speaking about both health care realities and legal precedents. In reality, however, the second day of hearings suggested that the justices most hostile to the law don’t understand, or choose not to understand, how insurance works. And the third day was, in a way, even worse, as antireform justices appeared to embrace any argument, no matter how flimsy, that they could use to kill reform.

Let’s start with the already famous exchange in which Justice Antonin Scalia compared the purchase of health insurance to the purchase of broccoli, with the implication that if the government can compel you to do the former, it can also compel you to do the latter. That comparison horrified health care experts all across America because health insurance is nothing like broccoli.

 

Why? When people choose not to buy broccoli, they don’t make broccoli unavailable to those who want it. But when people don’t buy health insurance until they get sick — which is what happens in the absence of a mandate — the resulting worsening of the risk pool makes insurance more expensive, and often unaffordable, for those who remain. As a result, unregulated health insurance basically doesn’t work, and never has.

There are at least two ways to address this reality — which is, by the way, very much an issue involving interstate commerce, and hence a valid federal concern. One is to tax everyone — healthy and sick alike — and use the money raised to provide health coverage. That’s what Medicare and Medicaid do. The other is to require that everyone buy insurance, while aiding those for whom this is a financial hardship.

Are these fundamentally different approaches? Is requiring that people pay a tax that finances health coverage O.K., while requiring that they purchase insurance is unconstitutional? It’s hard to see why — and it’s not just those of us without legal training who find the distinction strange. Here’s what Charles Fried — who was Ronald Reagan’s solicitor general — said in a recent interview with The Washington Post: “I’ve never understood why regulating by making people go buy something is somehow more intrusive than regulating by making them pay taxes and then giving it to them.”

 

Indeed, conservatives used to like the idea of required purchases as an alternative to taxes, which is why the idea for the mandate originally came not from liberals but from the ultra-conservative Heritage Foundation. (By the way, another pet conservative project — private accounts to replace Social Security — relies on, yes, mandatory contributions from individuals.)

So has there been a real change in legal thinking here? Mr. Fried thinks that it’s just politics — and other discussions in the hearings strongly support that perception.

I was struck, in particular, by the argument over whether requiring that state governments participate in an expansion of Medicaid — an expansion, by the way, for which they would foot only a small fraction of the bill — constituted unacceptable “coercion.” One would have thought that this claim was self-evidently absurd. After all, states are free to opt out of Medicaid if they choose; Medicaid’s “coercive” power comes only from the fact that the federal government provides aid to states that are willing to follow the program’s guidelines. If you offer to give me a lot of money, but only if I perform certain tasks, is that servitude?

 

Yet several of the conservative justices seemed to defend the proposition that a federally funded expansion of a program in which states choose to participate because they receive federal aid represents an abuse of power, merely because states have become dependent on that aid. Justice Sonia Sotomayor seemed boggled by this claim: “We’re going to say to the federal government, the bigger the problem, the less your powers are. Because once you give that much money, you can’t structure the program the way you want.” And she was right: It’s a claim that makes no sense — not unless your goal is to kill health reform using any argument at hand.

 

 

As I said, we don’t know how this will go. But it’s hard not to feel a sense of foreboding — and to worry that the nation’s already badly damaged faith in the Supreme Court’s ability to stand above politics is about to take another severe hit.

 

Broccoli e malafede, di Paul Krugman

New York Times 29 marzo 2012

 

Nessuno sa cosa deciderà la Suprema Corte a riguardo della Legge per l’Assistenza Sostenibile. Ma, dopo questa settimana di audizioni, sembra abbastanza possibile che la Corte annullerà il “mandato” [82]– l’obbligo per le persone di acquistare l’assicurazione sanitaria – e forse l’intera legge. La rimozione del mandato farebbe funzionare la legge molto peggio, mentre l’annullamento integrale significherebbe il diniego per 30 milioni e più di americani della assistenza sanitaria.

Data la posta in gioco, ci si sarebbe aspettati che i membri della Corte fossero molto scrupolosi nel parlare sia delle realtà della assistenza sanitaria che dei precedenti legali. In realtà, tuttavia, il secondo giorno di audizioni ha mostrato che i giudici non capiscono, o vogliono non capire, come l’assicurazione funzioni. E il terzo giorno è stato, in qualche modo, anche peggiore, come se i giudici sembrassero far proprio ogni argomento, per quanto inconsistente, utile a liquidare la riforma. 

 

Partiamo dal già famigerato confronto con il quale il Giudice Antonin Scalia ha paragonato l’acquisto della assicurazione sanitaria con l’acquisto di broccoli, il che comporta che se il Governo vi può obbligare ad acquistare  la prima, vi può costringere ad acquistare anche i secondi. Quel paragone ha terrorizzato gli esperti di assistenza sanitaria in tutta l’America, perché l’assicurazione sanitaria non ha niente a che fare con i broccoli.

Perché? Perché se le persone scelgono di non comprare i broccoli, non per quello li rendono indisponibili per quelli che li vogliono. Ma se la gente non acquista l’assicurazione sanitaria sinché non si ammala – che è quello che accade in assenza di un ‘mandato’ – il conseguente peggioramento della valutazione dei rischi rende l’assicurazione più costosa, e spesso insostenibile, per tutti gli altri. Di conseguenza, una assicurazione sanitaria priva di regole fondamentalmente non funziona, né ha mai funzionato.

Ci sono almeno due modi per far fronte a questa realtà – la quale, per inciso, è soprattutto un tema attinente al commercio tra gli Stati, e di conseguenza una fondata responsabilità federale. Uno è quello di tassare tutti – gli ammalati come quelli che sono in salute – e di utilizzare il denaro raccolto per provvedere alla copertura sanitaria. L’altro è quello di chiedere ad ognuno di pagare l’assicurazione, aiutando coloro per i quali il costo sarebbe proibitivo.

Si tratta di approcci fondamentalmente diversi? Va tutto bene se la gente paga una tassa che finanzi la copertura sanitaria, ed è invece incostituzionale chiedere che l’acquisti in prima persona? E’ difficile capirne la ragione – e trovano la distinzione strana anche coloro che non sono privi di una formazione giuridica. Ecco quello che, in una recente intervista al Washington Post, ha detto Charles Fried (che fu  procuratore generale di Ronald Reagan): “Non ho mai capito perché regole che facciano acquistare alle persone qualcosa sarebbero in qualche modo più intrusive di regole che facciano loro pagare delle tasse per poi restituirgli i soldi”.

 

In effetti, i conservatori sono affezionati all’idea di chiedere alle persone di acquistare anziché di pagare (nuove) tasse, e quella è la ragione per la quale originariamente il ‘mandato’ non era un’idea dei progressisti ma della ultra-conservatrice Heritage Foundation (per inciso, un altro dei progetti favoriti dei conservatori – rimpiazzare la previdenza sociale con contabilità private – si fonda esattamente su contributi versati dagli individui sulla base di un ‘mandato’). C’è stato dunque un mutamento di orientamenti giuridici? Il signor Fried ritiene che si tratti solo di politica – ed altri interventi durante le audizioni confermano quella impressione.

Sono rimasto colpito, in particolare, dall’argomento relativo al fatto che la richiesta che i Governi degli Stati partecipino ad una espansione di Medicaid – una espansione, tra parentesi, della quale essi pagherebbero solo una piccola parte del conto – costituirebbe una “coercizione” inaccettabile. Si poteva comprendere che questo argomento era in sé evidentemente assurdo. Dopo tutto, gli Stati sono liberi di chiamarsi fuori da Medicaid se lo vogliono; il potere “coercitivo” di Medicaid deriva solo dal fatto che il Governo federale fornisce aiuti agli Stati che hanno l’intenzione di seguire le linee guida del programma. Se mi si offre molto denaro, ma alla condizione che faccia fronte a determinate incombenze, si tratta di servitù?

Tuttavia, un certo numero di giudici conservatori sono sembrati difendere il concetto per il quale una espansione finanziata con fondi federali di un programma al quale gli Stati scelgono se partecipare – giacché ricevono un contributo federale – rappresenti un abuso di potere, semplicemente perché gli Stati in quel modo diventano dipendenti da quell’aiuto. Sonia Sotomayor [83] è sembrata trasecolare a questa pretesa: “Ci stiamo orientando a dire al Governo federale: più grandi sono i problemi, minori sono i tuoi poteri. Perché una volta che dai quelle considerevoli somme, non puoi strutturare i programmi nel modo in cui desideri”. Ed ha ragione: è una pretesa priva di senso – a meno che l’obbiettivo non sia quello di liquidare la riforma sanitaria con ogni argomento a portata di mano.

 

Come ho detto, non sappiamo cosa si stia preparando. Ma è difficile non sentire una qualche inquietudine – e non avere il timore che la fiducia già assai compromessa della nazione verso la Suprema Corte non sia prossima a ricevere un altro grave colpo.

 

 

 

 

 

 

 

Pink Slime Economics

By PAUL KRUGMAN
Published: April 1, 2012

 

The big bad event of last week was, of course, the Supreme Court hearing on health reform. In the course of that hearing it became clear that several of the justices, and possibly a majority, are political creatures pure and simple, willing to embrace any argument, no matter how absurd, that serves the interests of Team Republican.

But we should not allow events in the court to completely overshadow another, almost equally disturbing spectacle. For on Thursday Republicans in the House of Representatives passed what was surely the most fraudulent budget in American history.

 

And when I say fraudulent, I mean just that. The trouble with the budget devised by Paul Ryan, the chairman of the House Budget Committee, isn’t just its almost inconceivably cruel priorities, the way it slashes taxes for corporations and the rich while drastically cutting food and medical aid to the needy. Even aside from all that, the Ryan budget purports to reduce the deficit — but the alleged deficit reduction depends on the completely unsupported assertion that trillions of dollars in revenue can be found by closing tax loopholes.

And we’re talking about a lot of loophole-closing. As Howard Gleckman of the nonpartisan Tax Policy Center points out, to make his numbers work Mr. Ryan would, by 2022, have to close enough loopholes to yield an extra $700 billion in revenue every year. That’s a lot of money, even in an economy as big as ours. So which specific loopholes has Mr. Ryan, who issued a 98-page manifesto on behalf of his budget, said he would close?

 

None. Not one. He has, however, categorically ruled out any move to close the major loophole that benefits the rich, namely the ultra-low tax rates on income from capital. (That’s the loophole that lets Mitt Romney pay only 14 percent of his income in taxes, a lower tax rate than that faced by many middle-class families.)

 

So what are we to make of this proposal? Mr. Gleckman calls it a “mystery meat budget,” but he’s being unfair to mystery meat. The truth is that the filler modern food manufacturers add to their products may be disgusting — think pink slime — but it nonetheless has nutritional value. Mr. Ryan’s empty promises don’t. You should think of those promises, instead, as a kind of throwback to the 19th century, when unregulated corporations bulked out their bread with plaster of paris and flavored their beer with sulfuric acid.

Come to think of it, that’s precisely the policy era Mr. Ryan and his colleagues are trying to bring back.

So the Ryan budget is a fraud; Mr. Ryan talks loudly about the evils of debt and deficits, but his plan would actually make the deficit bigger even as it inflicted huge pain in the name of deficit reduction. But is his budget really the most fraudulent in American history? Yes, it is.

To be sure, we’ve had irresponsible and/or deceptive budgets in the past. Ronald Reagan’s budgets relied on voodoo, on the claim that cutting taxes on the rich would somehow lead to an explosion of economic growth. George W. Bush’s budget officials liked to play bait and switch, low-balling the cost of tax cuts by pretending that they were only temporary, then demanding that they be made permanent. But has any major political figure ever premised his entire fiscal platform not just on totally implausible spending projections but on claims that he has a secret plan to raise trillions of dollars in revenue, a plan that he refuses to share with the public?

 

 

What’s going on here? The answer, presumably, is that this is what happens when extremists gain complete control of a party’s discourse: all the rules get thrown out the window. Indeed, the hard right’s grip on the G.O.P. is now so strong that the party is sticking with Mr. Ryan even though it’s paying a significant political price for his assault on Medicare.

Now, the House Republican budget isn’t about to become law as long as President Obama is sitting in the White House. But it has been endorsed by Mr. Romney. And even if Mr. Obama is reelected, the fraudulence of this budget has important implications for future political negotiations.

Bear in mind that the Obama administration spent much of 2011 trying to negotiate a so-called Grand Bargain with Republicans, a bipartisan plan for deficit reduction over the long term. Those negotiations ended up breaking down, and a minor journalistic industry has emerged as reporters try to figure out how the breakdown occurred and who was responsible.

 

But what we learn from the latest Republican budget is that the whole pursuit of a Grand Bargain was a waste of time and political capital. For a lasting budget deal can only work if both parties can be counted on to be both responsible and honest — and House Republicans have just demonstrated, as clearly as anyone could wish, that they are neither.

 

Economia in poltiglia rosa, di Paul Krugman

New York Times 1 aprile 2012

 

 

Il grande fatto negativo della scorsa settimana, come è ovvio, è stata l’audizione della Suprema Corte sulla riforma sanitaria. Nel corso di quella audizione è apparso chiaro che un certo numero di giudici, e forse la maggioranza, sono pure e semplici creature politiche, desiderose di utilizzare ogni argomento, non importa quanto assurdo, pur di servire gli interessi della squadra repubblicana.

Ma non dovremmo consentire che gli eventi della Corte mettano completamente in ombra un altro spettacolo, quasi nello stesso modo offensivo. Perché giovedì, alla Camera dei Rappresentanti, i Repubblicani hanno approvato quello che è sicuramente il bilancio più fraudolento della storia americana.

E quando dico fraudolento, intendo proprio quello. Il guaio con il bilancio inventato da Paul Ryan, il Presidente della Commissione Bilancio della Camera, non sono soltanto le sue quasi inconcepibilmente crudeli priorità, il modo in cui si riducono le tasse alle grandi imprese ed ai ricchi mentre si tagliano gli aiuti alimentari e sanitari ai bisognosi. Anche a parte tutto ciò, il Bilancio di Ryan ha la pretesa di ridurre il deficit, ma la cosiddetta riduzione del deficit dipende dall’assunto completamente ingiustificato che migliaia di miliardi di dollari di nuove entrate verranno trovati impedendo le elusioni del fisco.

E stiamo parlando di interrompere una grande quantità di elusioni. Come sottolinea Howard Gleckman dell’indipendente Tax Policy Center, per far stare in piedi i suoi numeri Ryan vorrebbe impedire tante scappatoie fiscali da alimentare entrate straordinarie per 700 miliardi di dollari ogni anno. Si tratta di una notevole quantità di denaro, persino in una grande economia come la nostra. Quali specifiche scappatoie, dunque, ha detto di voler chiudere il signor Ryan, che ha pubblicato un manifesto di 98 pagine a sostegno del suo bilancio?

Nessuna. Nemmeno una. Tuttavia, egli ha categoricamente scartato ogni iniziativa per chiudere la principale scappatoia della quale beneficiano i ricchi, vale a dire le bassissime aliquote fiscali sui redditi da capitale (è quella la scappatoia che permette a Mitt Romney di pagare in tasse solo il 14 per cento del suo reddito, una aliquota fiscale inferiore a quella che sostengono molte famiglie di classe media).

Cosa ce ne facciamo, dunque, di questa proposta? Gleckman la chiama “il bilancio del misterioso companatico” [84], ma è ingiusto definire ‘misterioso’ il piatto servito. La verità è che i riempitivi che le moderne aziende alimentari aggiungono ai loro prodotti possono essere disgustosi – pensate ad una certa poltiglia rosa  – ma nondimeno hanno il loro valore nutrizionale. Non è così con le vuote promesse di Ryan. Dovreste pensare a quelle promesse, invece, come ad una sorta di ritorno al passato del diciannovesimo secolo, quando imprese senza regole  riempivano le loro pagnotte di gesso o aromatizzavano la loro birra con acido solforico.

Viene da pensare che quello sia precisamente il periodo politico che Ryan ed i suoi colleghi stanno cercando di rimettere in auge.

 

In altre parole, il bilancio di Ryan è un inganno: Ryan parla con veemenza dei mali del debito e del deficit, ma il suo piano li renderebbe persino peggiori, pur provocando grandi sofferenze nel nome della riduzione del deficit. Ma quel bilancio è davvero il più fraudolento della storia americana? Si, è così.

 

E’ vero che abbiamo avuto bilanci irresponsabili ed ingannevoli anche nel passato. I bilanci di Ronald Reagan si basavano sulla magia nera, sulla pretesa che il tagliare le tasse ai ricchi avrebbe in  qualche modo condotto ad una esplosione della crescita economica. I responsabili dei bilanci di George W. Bush amavano giocare a nascondino [85], tener basso il costo dei tagli alle tasse con la finzione della loro provvisorietà, poi chiedere di farli diventare permanenti. Ma è mai accaduto che una importante personalità politica fondasse la sua intera piattaforma fiscale non solo su previsioni di spesa totalmente non plausibili, ma anche sulla pretesa di avere un piano segreto per rastrellare migliaia di miliardi di dollari di entrate, piano che si rifiuta di far conoscere al pubblico?

 

Ma cosa sta succedendo? La risposta, probabilmente, è che questo è quello che accade quando estremisti prendono in mano il dibattito in un Partito: si buttano tutte le regole dalla finestra. In effetti, il controllo dell’estrema destra sul Partito Repubblicano è oggi così forte che il partito è d’accordo con Ryan anche se sta pagando un prezzo politico significativo per il suo assalto a Medicare.

 

Ora, il Bilancio dei Repubblicani della Camera non diventerà legge sin quando il Presidente Obama siederà alla Casa Bianca. Ma esso gode del sostegno di Romney. Ed anche se Obama fosse rieletto, la falsità di questi bilancio avrebbe implicazioni importanti nei futuri negoziati politici.

 

Si tenga a mente che la Amministrazione Obama ha speso gran parte del 2011 nel cercare di negoziare una cosiddetta Grande Intesa con i Repubblicani, un piano bipartizan per la riduzione del deficit nel lungo termine. Quei negoziati finirono in un nulla di fatto, e gli sforzi dei giornalisti nell’immaginare quando quel fallimento sarebbe accaduto e chi ne sarebbe stato responsabile diede vita ad un sorta comparto minore del giornalismo.

Ma quello che veniamo a sapere dall’ultimo bilancio dei Repubblicani è che quell’intero passatempo della Grande Intesa fu  uno spreco di tempo e di capitale politico.  Perché un accordo duraturo sul bilancio può funzionare soltanto se entrambi i Partiti possono far conto sulla reciproca responsabilità ed onestà – e i Repubblicani della Camera hanno appena dimostrato, nel modo più inoppugnabile, di non avere né l’una né l’altra.

 

 

 

 

Not Enough Inflation

By PAUL KRUGMAN
Published: April 5, 2012

A few days ago, Alan Greenspan, the former chairman of the Federal Reserve, spoke out in defense of his successor. Attacks on Ben Bernanke by Republicans, he told The Financial Times, are “wholly inappropriate and destructive.” He’s right about that — which makes this one of the very few things the ex-maestro has gotten right in the past few years.

But why are the attacks on Mr. Bernanke so destructive? After all, nobody in America is or should be immune from criticism, least of all those — like the chairman of the Fed — who, by the nature of their positions, have immense power to make our lives better or worse. And while there is an unmistakable thuggishness to the campaign against the Fed, most famously Rick Perry’s warning that the Fed chairman would be treated “pretty ugly” if he visited Texas, surely the bad manners of the critics aren’t the most important issue.

 

No, the real reason the attacks on Mr. Bernanke from the right are so destructive is that they’re an effort to bully the Fed into doing exactly the wrong thing. The attackers want the Fed to slam on the brakes when it should be stepping on the gas; they want the Fed to choke off recovery when it should be doing much more to accelerate recovery. Fundamentally, the right wants the Fed to obsess over inflation, when the truth is that we’d be better off if the Fed paid less attention to inflation and more attention to unemployment. Indeed, a bit more inflation would be a good thing, not a bad thing.

O.K., I know that many readers are already outraged. But bear with me, and let me take this in stages.

First, about inflation obsession: For at least three years, right-wing economists, pundits and politicians have been warning that runaway inflation is just around the corner, and they keep being wrong. Do you remember the tirades about “debasing the dollar” around this time last year? Do you remember the scorn heaped on Mr. Bernanke last spring when he argued that the bulge in inflation taking place at the time was just a temporary blip caused by gasoline prices and would soon recede? Well, he was right. At this point, inflation is once again running a bit below the Fed’s self-declared target of 2 percent.

 

 

Now, the Fed has, by law, a dual mandate: It’s supposed to be concerned with full employment as well as price stability. And while we more or less have price stability by the Fed’s definition, we’re nowhere near full employment. So this says that the Fed is doing too little, not too much. Indeed, some Fed officials — notably Charles Evans, the president of the Chicago Fed — have tried to make exactly that case.

To be sure, more aggressive Fed policies to fight unemployment might lead to inflation above that 2 percent target. But remember that dual mandate: If the Fed refuses to take even the slightest risk on the inflation front, despite a disastrous performance on the employment front, it’s violating its own charter. And, beyond that, would a rise in inflation to 3 percent or even 4 percent be a terrible thing? On the contrary, it would almost surely help the economy.

 

How so? For one thing, large parts of the private sector continue to be crippled by the overhang of debt accumulated during the bubble years; this debt burden is arguably the main thing holding private spending back and perpetuating the slump. Modest inflation would, however, reduce that overhang — by eroding the real value of that debt — and help promote the private-sector recovery we need. Meanwhile, other parts of the private sector (like much of corporate America) are sitting on large hoards of cash; the prospect of moderate inflation would make letting the cash just sit there less attractive, acting as a spur to investment — again, helping to promote overall recovery.

 

 

In short, far from fearing that more action against unemployment might lead to an uptick in inflation, the Fed should actually welcome that prospect. Which brings me back to those Republican attacks and their chilling effect on policy.

 

True, Mr. Bernanke likes to insist that he and his colleagues aren’t affected by politics. But that claim is hard to square with the Fed’s actions, or rather lack of action. As many observers have noted, the Fed’s own forecasts indicate that while things have been looking up a bit lately, it still expects low inflation and high unemployment for years to come. Given that prospect, more of the “quantitative easing” that is now the main tool of Fed policy should be a no-brainer. Yet the recently released minutes from a March 13 meeting show a Fed inclined to do nothing unless things take a turn for the worse.

 

So what’s going on? I think that Fed officials, whether they admit it to themselves or not, are feeling intimidated — and that American workers are paying the price for their timidity.

 

Non abbastanza inflazione, di Paul Krugman

New York Times 5 aprile 2012

 

Pochi giorni fa, Alan Greenspan, il passato Presidente della Federal Reserve, ha preso apertamente le difese del suo successore. Gli attacchi a Ben Bernanke da parte dei Repubblicani, ha detto a The Financial Times, sono “del tutto inappropriati e distruttivi”. Egli ha ragione al proposito – ed è stata una delle pochissime cose nelle quali l’ex-Maestro [86] ha avuto ragione negli anni recenti.

Perché gli attacchi a Bernanke risultano così distruttivi? Dopo tutto, nessuno è o dovrebbe essere immune da critiche, meno di tutti coloro che, come il Presidente della Fed, per la natura delle proprie prese di posizione, hanno l’immenso potere di rendere migliori o peggiori le nostre vite. Ma se ci sono inconfondibili toni teppistici nella campagna contro la Fed – tra tutti il famigerato avvertimento di Rick Perry per il quale il Presidente della Fed sarebbe stato trattato “in modo abbastanza sgradevole” se avesse visitato il Texas – di sicuro le cattive maniere dei detrattori non sono la questione più importante.

No, la ragione reale per la quale gli attacchi della destra a Bernanke sono così deleteri è che costituiscono un tentativo di intimorire la Fed e di farle fare esattamente le cose sbagliate. I detrattori vogliono che la Fed inchiodi il freno mentre dovrebbe spingere l’acceleratore; vogliono che soffochi la ripresa mentre dovrebbe fare molto di più per accelerarla. In sostanza, la destra vuole una Fed ossessionata dall’inflazione, mentre la verità è che staremmo meglio se la Fed prestasse meno attenzione all’inflazione e più attenzione alla disoccupazione. In effetti, un po’ di inflazione in più farebbe bene, non certo male.

 

So bene che a questo punto molti lettori si sentiranno già indignati. Ma sopportatemi, e consentitemi di arrivare al punto gradualmente.

Prima di tutto, a proposito dell’ossessione dell’inflazione; per almeno tre anni gli economisti della destra, esperti ed uomini politici, hanno messo in guardia da una inflazione galoppante dietro l’angolo, continuando a sbagliare. Ricordate, l’anno passato di questi tempi, le tirate sulla “svalutazione del dollaro”? Ricordate da quanto disprezzo venne ricoperto Bernanke la scorsa primavera, allorché sostenne che la crescita dell’inflazione che si registrò in quel periodo era soltanto un picco momentaneo provocato dai prezzi della benzina, che in breve sarebbe svanito? Ebbene, aveva ragione. In questo momento, l’inflazione ancora una volta procede un po’ al di sotto dell’obbiettivo del 2 per cento che la Fed si è auto assegnata.

Ora, la Fed ha per legge un duplice mandato: si suppone che si preoccupi altrettanto della piena occupazione e della stabilità dei prezzi. E mentre abbiamo più o meno una stabilità dei prezzi così come definita dalla Fed, non abbiamo niente di simile alla piena occupazione. Ecco in che senso la Fed sta facendo troppo poco e non troppo. In effetti, alcuni dirigenti della Fed – in particolare Charles Evans, Presidente della Fed di Chicago – hanno cercato per l’appunto di avanzare un argomento del genere.

E’ vero che politiche più aggressive da parte della Fed potrebbero portare ad una inflazione superiore a quell’obbiettivo del 2 per cento. Ma si ricordi quel duplice mandato: se la Fed si rifiuta di assumere persino il rischio più modesto sul fronte dell’inflazione, nonostante una prestazione disastrosa sul fronte dell’occupazione, viola il proprio statuto. E, oltre a ciò, una crescita dell’inflazione del 3 o del 4 per cento sarebbe un cosa talmente terribile? Al contrario, quasi sicuramente sarebbe d’aiuto all’economia.

In che modo? Per un aspetto, larga parte del settore privato continua ad essere impedita da un eccessiva esposizione al debito accumulata negli anni della bolla; il peso di questo debito verosimilmente è il principale motivo che trattiene la spesa del settore privato e perpetua la depressione. Una modesta inflazione, tuttavia, ridurrebbe quella esposizione – attraverso l’erosione del valore reale del debito – e contribuirebbe a promuovere la ripresa del settore privato di cui abbiamo bisogno. Allo stesso tempo, altre parti del settore privato (come gran parte delle grandi aziende americane) stanno accumulando ampi quantitativi di contante; la prospettiva di una inflazione moderata farebbe diventare meno attraente quelle vera e propria condizione di inerzia, agendo da stimolo all’investimento – anche in quel caso contribuendo a promuovere una ripresa generale.

In poche parole, lungi dal temere che quella maggiore iniziativa contro la disoccupazione possa condurre ad un incremento dell’inflazione, la Fed dovrebbe effettivamente compiacersi di una prospettiva del genere. La qualcosa mi riporta a quegli attacchi dei Repubblicani ed al loro effetto intimidatorio sulla politica.

E’ vero, a Bernanke piace ripetere che lui ed i suoi colleghi non sono influenzati dalla politica. Ma è difficile conciliare quella affermazione con l’iniziativa, o meglio la mancanza di iniziativa, della Fed. Come molti osservatori hanno notato, le stesse previsioni della Fed indicano che mentre la situazione è un po’ migliorata recentemente, essa comporterà ancora bassa inflazione ed elevata disoccupazione per vari anni. Data quella prospettiva, aggiungere una maggiore “facilitazione quantitativa” [87], lo strumento principale della politica attuale della Fed,  sarebbe una  inezia[88]. Tuttavia i recenti verbali resi noti su un incontro del 13 marzo mostrano una Fed  propensa a non far niente se non cose che peggiorerebbero la situazione.

Cosa accadrà, dunque? Io penso che i dirigenti della Fed, che vogliano riconoscerlo o meno, si sentano intimiditi – e che la loro timidezza finirà nel conto dei lavoratori americani. 

      

       

 

 

 

The Gullible Center

By PAUL KRUGMAN
Published: April 8, 2012

So, can we talk about the Paul Ryan phenomenon?

And yes, I mean the phenomenon, not the man. Mr. Ryan, the chairman of the House Budget Committee and the principal author of the last two Congressional Republican budget proposals, isn’t especially interesting. He’s a garden-variety modern G.O.P. extremist, an Ayn Rand devotee who believes that the answer to all problems is to cut taxes on the rich and slash benefits for the poor and middle class.

No, what’s interesting is the cult that has grown up around Mr. Ryan — and in particular the way self-proclaimed centrists elevated him into an icon of fiscal responsibility, and even now can’t seem to let go of their fantasy.

The Ryan cult was very much on display last week, after President Obama said the obvious: the latest Republican budget proposal, a proposal that Mitt Romney has avidly embraced, is a “Trojan horse” — that is, it is essentially a fraud. “Disguised as deficit reduction plans, it is really an attempt to impose a radical vision on our country.”

 

The reaction from many commentators was a howl of outrage. The president was being rude; he was being partisan; he was being a big meanie. Yet what he said about the Ryan proposal was completely accurate.

Actually, there are many problems with that proposal. But you can get the gist if you understand two numbers: $4.6 trillion and 14 million.

Of these, $4.6 trillion is the revenue cost over the next decade of the tax cuts embodied in the plan, as estimated by the nonpartisan Tax Policy Center. These cuts — which are, by the way, cuts over and above those involved in making the Bush tax cuts permanent — would disproportionately benefit the wealthy, with the average member of the top 1 percent receiving a tax break of $238,000 a year.

 

Mr. Ryan insists that despite these tax cuts his proposal is “revenue neutral,” that he would make up for the lost revenue by closing loopholes. But he has refused to specify a single loophole he would close. And if we assess the proposal without his secret (and probably nonexistent) plan to raise revenue, it turns out to involve running bigger deficits than we would run under the Obama administration’s proposals.

 

Meanwhile, 14 million is a minimum estimate of the number of Americans who would lose health insurance under Mr. Ryan’s proposed cuts in Medicaid; estimates by the Urban Institute actually put the number at between 14 million and 27 million.

So the proposal is exactly as President Obama described it: a proposal to deny health care (and many other essentials) to millions of Americans, while lavishing tax cuts on corporations and the wealthy — all while failing to reduce the budget deficit, unless you believe in Mr. Ryan’s secret revenue sauce. So why are centrists rising to Mr. Ryan’s defense?

Well, ask yourself the following: What does it mean to be a centrist, anyway?

It could mean supporting politicians who actually are relatively nonideological, who are willing, for example, to seek Democratic support for health reforms originally devised by Republicans, to support deficit-reduction plans that rely on both spending cuts and revenue increases. And by that standard, centrists should be lavishing praise on the leading politician who best fits that description — a fellow named Barack Obama.

 

But the “centrists” who weigh in on policy debates are playing a different game. Their self-image, and to a large extent their professional selling point, depends on posing as high-minded types standing between the partisan extremes, bringing together reasonable people from both parties — even if these reasonable people don’t actually exist. And this leaves them unable either to admit how moderate Mr. Obama is or to acknowledge the more or less universal extremism of his opponents on the right.

 

Enter Mr. Ryan, an ordinary G.O.P. extremist, but a mild-mannered one. The “centrists” needed to pretend that there are reasonable Republicans, so they nominated him for the role, crediting him with virtues he has never shown any sign of possessing. Indeed, back in 2010 Mr. Ryan, who has never once produced a credible deficit-reduction plan, received an award for fiscal responsibility from a committee representing several prominent centrist organizations.

So you can see the problem these commentators face. To admit that the president’s critique is right would be to admit that they were snookered by Mr. Ryan, who is the same as he ever was. More than that, it would call into question their whole centrist shtick — for the moral of my story is that Mr. Ryan isn’t the only emperor who turns out, on closer examination, to be naked.

 

Hence the howls of outrage, and the attacks on the president for being “partisan.” For that is what people in Washington say when they want to shout down someone who is telling the truth.

 

Il Centro credulone, di Paul Krugman

New York Times 8 aprile 2012

 

Dunque, converrà parlare del fenomeno Paul Ryan?

 

Si, intendo dire il fenomeno, non l’uomo. Il signor Ryan, il Presidente della Commissione Bilancio della Camera nonché principale autore delle ultime due proposte di Bilancio dei Repubblicani al Congresso,  non è particolarmente interessante. E’ un ordinario estremista del Partito Repubblicano dei nostri tempi, un seguace di Ayn Rand [89] che crede che la risposta a tutti i problemi sia tagliare le tasse ai ricchi e l’assistenza ai poveri ed alle classi medie.

Quello che invece è interessante è il culto che è cresciuto su attorno al signor Ryan – e in particolare il modo in cui i sedicenti centristi l’hanno promosso a icona della responsabilità fiscale, non riuscendo a staccarselo dalla fantasia neppure a questo punto.

Il culto di Ryan è andato abbondantemente in onda nella settimana trascorsa, dopo che il Presidente Obama ha avuto modo dire una ovvietà: l’ultima proposta di Bilancio repubblicana, una proposta che Mitt Romney ha abbracciato con fervore, è un “cavallo di Troia” – ovvero, fondamentalmente un inganno. “Mascherata come un programma di riduzione del deficit, nei fatti è un tentativo di imporre una concezione radicale del nostro paese”.

La reazione da parte di molti commentatori è stata un grido di indignazione. Il Presidente si era espresso con rozzezza, in modo partigiano, con assoluta meschinità. Eppure, quanto aveva detto sulla proposta di Ryan era stato del tutto appropriato.

Effettivamente, ci sono parecchi problemi in quella proposta. Ma potete capire la sostanza se vi mettete in testa due numeri: 4.600 miliardi  e 14 milioni.

 

I 4.600 miliardi di dollari sono il costo sulle entrate dei prossimi dieci anni degli sgravi fiscali contenuti nel programma, secondo le stime dell’indipendente Tax Policy Center. Questi tagli – che, per inciso, sono tagli che si aggiungono a quelli che derivano del rendere permanenti gli sgravi di Bush – favorirebbero in modo sproporzionato i ricchi, con i componenti medi di quell’1 per cento che stanno in cima alla scala sociale che riceverebbero sgravi di 238.000 dollari all’anno a testa.

Ryan continua a dire che, a dispetto di questi tagli alle tasse, la sua proposta sarebbe “neutra” dal punto di vista delle entrate e che egli coprirebbe le minori entrate con il blocco delle elusioni fiscali. Ma si rifiuta di precisare anche una unica scappatoia fiscale che intenderebbe interrompere. E se si fa una stima della sua proposta senza il piano segreto e probabilmente inesistente per l’incremento delle entrate, si scopre che essa comporta la gestione di un deficit maggiore di quello che si avrebbe con le proposte della Amministrazione Obama.

Nel frattempo, la stima minima del numero di americani che perderebbero l’assicurazione sanitaria a seguito dei tagli proposti da Ryan su Medicaid è di 14 milioni; le stime a cura di Urban Institute in effetti collocano il numero tra i 14 ed i 27 milioni.

 

Dunque, la proposta è esattamente come il Presidente Obama l’ha descritta: una proposta che nega l’assistenza sanitaria (e molte altre cose essenziali) a milioni di americani, mentre elargisce sgravi fiscali alle grandi imprese ed ai ricchi – il tutto senza alcuna riduzione del deficit del Bilancio, a meno di non credere nella ricetta segreta sulle entrate del signor Ryan. Perché dunque i centristi si ergono a difesa di Ryan?

Ebbene, ponetevi la seguente domanda: cosa significa, in ogni caso, essere centristi?

 

Potrebbe significare sostenere uomini politici che siano davvero immuni da ideologismi, che vogliano, ad esempio, cercare il sostegno dei Democratici per riforme sanitarie originariamente concepite dai Repubblicani, o sostenere programmi di riduzione del deficit che si basino sia su tagli alla spesa che su incrementi delle entrate. E, con questi criteri, i centristi dovrebbero profondersi in elogi sull’uomo politico alla guida del paese che meglio di tutti si attaglia a quella descrizione – l’individuo che risponde al nome di Barack Obama.

Ma i “centristi” che intervengono nei dibattiti politici hanno altro per la testa. L’immagine che prediligono di se stessi, e in larga misura il loro punto di forza professionale, dipende all’atteggiarsi come individui ispirati che si collocano a metà strada tra le estremità più faziose, che raccolgono le persone ragionevoli di entrambi gli schieramenti – anche se quelle persone ragionevoli di fatto non esistono. E questo li rende sia incapaci di ammettere il moderatismo di Obama, che di riconoscere il più o meno generalizzato estremismo dei suoi avversari della destra. 

Ed ecco in scena il signor Ryan, un normale estremista del Partito Repubblicano, per quanto persona dai modi gentili. Per i “centristi” è indispensabile far finta che esistano repubblicani ragionevoli, così lo scelgono per quel ruolo, lo accreditano di virtù che non ha mai mostrato in alcun modo di possedere.  E così, nel passato 2010 Ryan, che non ha mai elaborato un piano credibile di riduzione del deficit, ricevette un premio per “responsabilità fiscale” da parte di una commissione che rappresentava varie principali organizzazioni di centro.

Potete dunque rendervi conto quale problema si trovino ad affrontare quei commentatori. Riconoscere la giustezza della critica del Presidente sarebbe come ammettere di essere stati imbrogliati da Ryan, che è lo stesso che è sempre stato. Più ancora, verrebbe in questione la loro intera favoletta centrista – con il che la morale del mio racconto è che il signor Ryan non è l’unico imperatore che si scopre, ad un esame più attento, esser nudo.

Di qua le grida di indignazione e gli attacchi sulla “faziosità” del Presidente. Giacché è questo quello che la gente a Washington dice, allorquando intende zittire qualcuno che sta raccontando la verità.

 

 

 

 

 

 

Cannibalize the Future

By PAUL KRUGMAN
Published: April 12, 2012

One general rule of modern politics is that the people who talk most about future generations — who go around solemnly declaring that we’re burdening our children with debt — are, in practice, the people most eager to sacrifice our future for short-term political gain. You can see that principle at work in the House Republican budget, which starts with dire warnings about the evils of deficits, then calls for tax cuts that would make the deficit even bigger, offset only by the claim to have a secret plan to make up for the revenue losses somehow or other.

 

 

And you can see it in the actions of Chris Christie, the governor of New Jersey, who talks loudly about acting responsibly but may actually be the least responsible governor the state has ever had.

Mr. Christie’s big move — the one that will define his record — was his unilateral decision back in 2010 to cancel work that was already under way on a new rail tunnel linking New Jersey with New York. At the time, Mr. Christie claimed that he was just being fiscally responsible, while critics said that he had canceled the project just so he could raid it for funds.

 

Now the independent Government Accountability Office has weighed in with a report on the controversy, and it confirms everything the critics were saying.

Much press coverage of the new report focuses, understandably, on the evidence that Mr. Christie made false statements about the tunnel’s financing and cost. The governor asserted that the projected costs were rising sharply; the report tells us that this simply wasn’t true. The governor claimed that New Jersey was being asked to pay for 70 percent of a project that would shower benefits on residents of New York; in fact, the bulk of the financing would have come either from the federal government or from the Port Authority of New York and New Jersey, which collects revenue from residents of both states.

 

But while it’s important to document Mr. Christie’s mendacity, it’s even more important to understand the utter folly of his decision. The new report drives home just how necessary, and very much overdue, the tunnel project was and is. Demand for public transit is rising across America, reflecting both population growth and shifting preferences in an era of high gas prices. Yet New Jersey is linked to New York by just two single-track tunnels built a century ago — tunnels that run at 100 percent of capacity during peak hours. How could this situation not call for new investment?

 

 

Well, Mr. Christie insisted that his state couldn’t afford the cost. As we’ve already seen, however, he apparently couldn’t make that case without being dishonest about the numbers. So what was his real motive?

One answer is that the governor is widely assumed to have national ambitions, and the Republican base hates government spending in general (unless it’s on weapons). And it hates public transportation in particular. Indeed, three other Republican governors — in Florida, Ohio and Wisconsin — have also canceled public transportation projects supported by federal funds. The difference, of course, is that New Jersey is a densely populated state, most of whose residents live either in Greater New York or Greater Philadelphia; given that position, public transit is the state’s lifeblood, and refusing to invest in such transportation will strangle the state’s economy.

 

Another answer is that canceling the tunnel allowed Mr. Christie to divert funds from that project — as his critics have said, to cannibalize the investment — and put them into the state highway fund, thereby avoiding the need to raise the state’s tax on gasoline. New Jersey gas taxes, by the way, are lower in real terms than at any point in the state’s history. But, as a candidate, Mr. Christie said that he wouldn’t raise those taxes, so cannibalizing the tunnel helped him avoid embarrassment.

 

 

The crucial point about both of these explanations is that they stand Mr. Christie’s narrative about himself on its head. The governor poses as a man willing to make hard choices for the future, but what he actually did was sacrifice the future for the sake of personal political advantage. He catered to national Republican prejudices that are completely at odds with New Jersey’s needs; he cared more about avoiding embarrassment over a misguided campaign pledge than about serving an urgent public need.

 

Unfortunately, Mr. Christie’s behavior is all too typical these days.

America used to be a country that thought big about the future. Major public projects, from the Erie Canal to the interstate highway system, used to be a well-understood component of our national greatness. Nowadays, however, the only big projects politicians are willing to undertake — with expense no object — seem to be wars. Funny how that works.

 

Cannibalizzare [90]il futuro, di Paul Krugman

New York Times 12 aprile 2012

 

Una regola generale della politica odierna è che gli individui che parlano di più delle generazioni future – che se ne vanno in giro dichiarando solennemente che stiamo caricando il peso del debito sui nostri figli – sono, in pratica, gli stessi che mostrano maggiore impazienza nel sacrificare il nostro futuro per i loro stretti interessi politici. Si può vedere quel principio in funzione nel caso del Bilancio dei Repubblicani della Camera, che prende le mosse da terribili ammonimenti sui guasti del deficit, dopodiché si pronuncia per sgravi fiscali che renderebbero il deficit anche maggiore, bilanciati soltanto dalla pretesa di avere un piano segreto per compensare la perdita delle entrate, in un modo o nell’altro.

 

E si può trovare quello stesso principio nelle iniziative di Chris Christie, il Governatore del New Jersey, che parla con veemenza di amministrazione responsabile ma è forse il Governatore meno responsabile che quello Stato abbia mai avuto.

La grande mossa del signor Christie – quella che sarà ricordata come la sua migliore prestazione – è stata, nel passato 2010, la sua decisione unilaterale di cancellare i lavori che erano già in corso di un nuovo tunnel ferroviario che avrebbe collegato New Jersey con New York. A quel tempo, il signor Christie affermò di essere stato semplicemente responsabile nell’uso dei soldi pubblici, mentre i critici dissero che aveva cancellato il progetto solo per poter metter mano sui fondi.

Ora l’indipendente Government Accountability Office [91] è intervenuto con un rapporto nella controversia, confermando tutto quello che i critici sostenevano.

Comprensibilmente, buona parte dell’interesse della stampa sul nuovo rapporto si è concentrato sulla prova che il signor Christie utilizzò dichiarazioni false a proposito di finanziamento e costi del tunnel. Il Governatore dichiarò che i costi progettati stavano crescendo bruscamente; il rapporto ci dice che semplicemente non era vero. Il Governatore sostenne che al New Jersey veniva chiesto di pagare il 70 per cento di un progetto i cui benefici sarebbero ricaduti sui residenti di New York; di fatto, il grosso dei finanziamenti sarebbe venuto sia dal Governo federale che dalla Autorità Portuale di New York, oltre al New Jersey, incaricato di raccogliere le entrate dai residenti di entrambi gli Stati.

Ma, se è importante documentare le menzogne di Christie, è ancora più importante capire la follia bell’e buona della sua decisione. Il recente rapporto fa ben comprendere, come era semplicemente necessario, e semmai piuttosto in ritardo, in cosa consistesse e consista il progetto del tunnel. La domanda di trasporto pubblico cresce dappertutto in America, in conseguenza sia della crescita della popolazione che dei mutamenti delle preferenze in un epoca di alti prezzi della benzina. Tuttavia il New Jersey è collegato a New York da soli due tunnel a senso unico costruiti un secolo fa – tunnel che durante le ore di picco funzionano al 100 per cento della loro potenzialità. Come può una situazione del genere non richiedere un nuovo investimento?

Ebbene. Christie sosteneva che il suo Stato non poteva permettersi il costo. Come, tuttavia, abbiamo già visto, egli evidentemente non poteva sostenere quella tesi senza l’uso disonesto dei dati. Quale era dunque il motivo reale?

Una risposta è che tutti ritenevano che il Governatore avesse ambizioni nazionali, e la base repubblicana in generale disprezza la spesa pubblica (a meno che non riguardi gli armamenti). Ed in particolare odia il trasporto pubblico. In effetti, altri tre Governatori repubblicani – in Florida, Ohio e Wisconsin – hanno cancellato progetti di trasporti pubblici sostenuti da fondi federali. E’ evidente che la differenza consiste nel fatto che il New Jersey è uno Stato densamente popolato ed una gran parte dei suoi residenti vivono sia nell’area metropolitana di New York che in quella di Filadelfia; data la sua posizione, il trasporto pubblico è la linfa vitale dello Stato, e rifiutarsi di investire in quel settore equivarrebbe a strangolare l’economia dello Stato.

Un’altra risposta è che la cancellazione del tunnel avrebbe consentito al signor Christie di dirottare fondi da quel progetto – come dissero i suoi critici, di saccheggiare [92] l’investimento – per collocarli nei fondi statali per le strade di grande comunicazione, in tal modo evitando di dover aumentare le tasse statali sulla benzina. Le tasse sulla benzina del New Jersey, per inciso, sono in termini reali più basse che in qualsiasi altro momento della storia di quello Stato. Ma, nelle vesti di candidato, il signor Christie aveva dichiarato che non avrebbe aumentato quelle tasse, cosicché il saccheggio dei fondi del tunnel lo aiutava ad uscire dall’imbarazzo.

 

Il punto cruciale di ambedue queste spiegazioni è che esse sono coerenti con l’idea di se stesso che il signor Christie ha nella sua testa. Il Governatore si presenta come un individuo intenzionato a fare scelte forti per il futuro, ma quello che ha effettivamente fatto è stato sacrificare il futuro per il tornaconto della sua carriera politica. Egli ha soddisfatto i pregiudizi nazionali dei repubblicani che sono del tutto in conflitto con i bisogni del New Jersey; si è preoccupato maggiormente di uscire dall’imbarazzo per una incauta promessa elettorale piuttosto che mettersi al servizio di un urgente bisogno della collettività.

Sfortunatamente, il comportamento del signor Christie è anche troppo caratteristico di questi tempi.

L’America era abituata ad essere un paese che pensava in grande al futuro. Si era soliti considerare importanti progetti pubblici, dal Canale Erie [93]  al sistema autostradale interstatale, come una chiara componente della nostra grandezza come nazione.

Di questi tempi, tuttavia, gli unici grandi progetti che gli uomini politici hanno la volontà di intraprendere –  con spese senza scopo – sembrano le guerre. E’ strano quello che è accaduto.

 

 

 

 

 

 

 

 

Europe’s Economic Suicide

By PAUL KRUGMAN
Published: April 15, 2012

 

On Saturday The Times reported on an apparently growing phenomenon in Europe: “suicide by economic crisis,” people taking their own lives in despair over unemployment and business failure. It was a heartbreaking story. But I’m sure I wasn’t the only reader, especially among economists, wondering if the larger story isn’t so much about individuals as about the apparent determination of European leaders to commit economic suicide for the Continent as a whole.

Just a few months ago I was feeling some hope about Europe. You may recall that late last fall Europe appeared to be on the verge of financial meltdown; but the European Central Bank, Europe’s counterpart to the Fed, came to the Continent’s rescue. It offered Europe’s banks open-ended credit lines as long as they put up the bonds of European governments as collateral; this directly supported the banks and indirectly supported the governments, and put an end to the panic.

The question then was whether this brave and effective action would be the start of a broader rethink, whether European leaders would use the breathing space the bank had created to reconsider the policies that brought matters to a head in the first place.

 

But they didn’t. Instead, they doubled down on their failed policies and ideas. And it’s getting harder and harder to believe that anything will get them to change course.

Consider the state of affairs in Spain, which is now the epicenter of the crisis. Never mind talk of recession; Spain is in full-on depression, with the overall unemployment rate at 23.6 percent, comparable to America at the depths of the Great Depression, and the youth unemployment rate over 50 percent. This can’t go on — and the realization that it can’t go on is what is sending Spanish borrowing costs ever higher.

 

In a way, it doesn’t really matter how Spain got to this point — but for what it’s worth, the Spanish story bears no resemblance to the morality tales so popular among European officials, especially in Germany. Spain wasn’t fiscally profligate — on the eve of the crisis it had low debt and a budget surplus. Unfortunately, it also had an enormous housing bubble, a bubble made possible in large part by huge loans from German banks to their Spanish counterparts. When the bubble burst, the Spanish economy was left high and dry; Spain’s fiscal problems are a consequence of its depression, not its cause.

 

Nonetheless, the prescription coming from Berlin and Frankfurt is, you guessed it, even more fiscal austerity.

This is, not to mince words, just insane. Europe has had several years of experience with harsh austerity programs, and the results are exactly what students of history told you would happen: such programs push depressed economies even deeper into depression. And because investors look at the state of a nation’s economy when assessing its ability to repay debt, austerity programs haven’t even worked as a way to reduce borrowing costs.

 

What is the alternative? Well, in the 1930s — an era that modern Europe is starting to replicate in ever more faithful detail — the essential condition for recovery was exit from the gold standard. The equivalent move now would be exit from the euro, and restoration of national currencies. You may say that this is inconceivable, and it would indeed be a hugely disruptive event both economically and politically. But continuing on the present course, imposing ever-harsher austerity on countries that are already suffering Depression-era unemployment, is what’s truly inconceivable.

So if European leaders really wanted to save the euro they would be looking for an alternative course. And the shape of such an alternative is actually fairly clear. The Continent needs more expansionary monetary policies, in the form of a willingness — an announced willingness — on the part of the European Central Bank to accept somewhat higher inflation; it needs more expansionary fiscal policies, in the form of budgets in Germany that offset austerity in Spain and other troubled nations around the Continent’s periphery, rather than reinforcing it. Even with such policies, the peripheral nations would face years of hard times. But at least there would be some hope of recovery.

What we’re actually seeing, however, is complete inflexibility. In March, European leaders signed a fiscal pact that in effect locks in fiscal austerity as the response to any and all problems. Meanwhile, key officials at the central bank are making a point of emphasizing the bank’s willingness to raise rates at the slightest hint of higher inflation.

So it’s hard to avoid a sense of despair. Rather than admit that they’ve been wrong, European leaders seem determined to drive their economy — and their society — off a cliff. And the whole world will pay the price.

 

Il suicidio economico dell’Europa, di Paul Krugman

New York Times 15 aprile 2012

 

 

Il Times di sabato dava notizia di un fenomeno in apparente crescita in Europa: “Suicidi per la crisi dell’economia”, persone la cui esistenza finisce nella disperazione a seguito della disoccupazione e del fallimento dell’impresa. Sono storie strazianti. Sono però sicuro di non essere stato l’unico lettore, specialmente tra gli economisti, a chiedersi se la storia più in generale non riguardi tanto le singole persone, quanto l’apparente determinazione dei dirigenti europei a provocare il suicidio economico del continente nella sua interezza.

Appena pochi mesi orsono avevo qualche speranza per l’Europa. Ricorderete che sulla fine dello scorso autunno l’Europa sembrava sulla soglia di un collasso finanziario; ma la Banca Centrale Europea, l’omologo europeo della Fed, venne in soccorso del continente. Offrì alle banche europee linee di credito illimitato nella misura in cui esse assumessero come collaterali le obbligazioni dei Governi europei; il che offrì sostegno direttamente alle banche ed indirettamente ai Governi, interrompendo la situazione di panico.

A quel punto la domanda era se questa iniziativa coraggiosa ed efficace poteva essere l’inizio di un più generale ripensamento, se i dirigenti europei avrebbero utilizzato quel momento di respiro che la Banca aveva consentito per riconsiderare le politiche che in precedenza avevano fatto precipitare la situazione.

Non è questo che hanno fatto. Piuttosto, si sono applicati con rinnovata energia alle loro politiche ed idee fallimentari. E sta diventando sempre più difficile credere che qualcosa li indurrà a cambiare direzione.

 

Si consideri la situazione in Spagna, che è oggi l’epicentro della crisi. Non è il caso di parlare di recessione; la Spagna è totalmente in una depressione, con un tasso di disoccupazione generale al 23,6 per cento, paragonabile all’America dei momenti peggiori della Grande Depressione, ed un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 50 per cento. Così non si può andare avanti – e la comprensione che non si possa andare avanti è il motivo che costringe la Spagna a costi di indebitamento sempre più alti.

In un certo senso, davvero non ha importanza come la Spagna sia finita a questo punto – ma per quello che vale, la Spagna non mostra alcuna somiglianza con quei racconti moraleggianti così popolari tra i dirigenti europei, specialmente tedeschi. La Spagna non è stata un caso di dissolutezza finanziaria – all’epoca della crisi aveva un debito basso ed un avanzo di amministrazione. Sfortunatamente, aveva anche un’enorme bolla immobiliare, una bolla in gran parte resa possibile da grandi prestiti da parte delle banche tedesche  ai loro interlocutori spagnoli. Quando la bolla scoppiò, l’economia spagnola venne piantata in asso; i problemi della finanza pubblica spagnola sono una conseguenza della depressione, non la sua causa.

Ciononostante, la ricetta che viene da Berlino e da Francoforte e, se ci pensate, una austerità finanziaria ancora maggiore.

 

Questo è, per non usare giri di parole, semplicemente pazzesco. L’Europa ha avuto vari anni di esperienza con severi programmi di austerità, e le conseguenze sono state esattamente quelle che gli studiosi di storia avevano previsto: programmi del genere hanno spinto economie depresse in una depressione persino più profonda. E poiché gli investitori guardano alle condizioni della economia di una nazione nel momento in cui valutano la sua capacità di onorare il debito, i programmi di austerità non hanno neppure funzionato come modi per ridurre i costi dell’indebitamento.

Quale è l’alternativa? Ebbene, negli anni ’30 – un epoca che l’Europa di oggi comincia a fedelmente a replicare financo nei dettagli – la condizione essenziale della ripresa fu l’uscita dal gold standard. La mossa equivalente, oggi, sarebbe l’uscita dall’euro e il ripristino delle valute nazionali. Si può dire che questo sarebbe inconcepibile, ed in effetti sarebbe un evento ampiamente distruttivo, in termini sia economici che politici. Ma quello che è davvero inconcepibile è continuare nella direzione attuale, imponendo una austerità persino più severa a paesi che già stanno soffrendo una disoccupazione tipica di un epoca di Depressione.

Dunque, se i dirigenti europei volessero davvero salvare l’euro, dovrebbero cercare un indirizzo alternativo. E la forma di una alternativa del genere è effettivamente abbastanza chiara. Il continente ha bisogno di politiche monetarie più espansive, nella forma di una disponibilità – di una dichiarata disponibilità – da parte della Banca Centrale Europea ad accettare una inflazione entro certi termini superiore; ha bisogno di politiche della finanza pubblica più espansive, nella forma di bilanci della Germania che compensino l’austerità della Spagna e delle altre nazioni in crisi alla periferia del continente, piuttosto di aggravarla. Ma almeno ci sarebbe un qualche speranza di ripresa.

Quello a cui stiamo effettivamente assistendo, tuttavia, è una completa inflessibilità. Nel marzo i dirigenti europei hanno firmato un patto di finanza pubblica che in effetti  consegna all’austerità fiscale la risposta ad ogni problema. Nel frattempo, dirigenti importanti della Banca Centrale sottolineano con determinazione la volontà della banca di elevare i tassi al sia pur minimo cenno di maggiore inflazione.

E’ per questo che è difficile evitare un senso di disperazione. Piuttosto di ammettere di aver avuto torto, i dirigenti europei sembrano decisi a guidare la loro economia – e la loro società – giù dal precipizio. E il mondo intero ne pagherà il prezzo.

 

 

 

The Amnesia Candidate

By PAUL KRUGMAN
Published: April 22, 2012

Just how stupid does Mitt Romney think we are? If you’ve been following his campaign from the beginning, that’s a question you have probably asked many times.

But the question was raised with particular force last week, when Mr. Romney tried to make a closed drywall factory in Ohio a symbol of the Obama administration’s economic failure. It was a symbol, all right — but not in the way he intended.

First of all, many reporters quickly noted a point that Mr. Romney somehow failed to mention: George W. Bush, not Barack Obama, was president when the factory in question was closed. Does the Romney campaign expect Americans to blame President Obama for his predecessor’s policy failure?

Yes, it does. Mr. Romney constantly talks about job losses under Mr. Obama. Yet all of the net job loss took place in the first few months of 2009, that is, before any of the new administration’s policies had time to take effect. So the Ohio speech was a perfect illustration of the way the Romney campaign is banking on amnesia, on the hope that voters don’t remember that Mr. Obama inherited an economy that was already in free fall.

How does the campaign deal with people who point out the awkward reality that all of the “Obama” job losses took place before any Obama policies had taken effect? The fallback argument — which was rolled out when reporters asked about the factory closure — is that even though Mr. Obama inherited a deeply troubled economy, he should have fixed it by now. That factory is still closed, said a Romney adviser, because of the failure of Obama policies “to really get this economy going again.”

 

 

Actually, that factory would probably still be closed even if the economy had done better — drywall is mainly used in new houses, and while the economy may be coming back, the Bush-era housing bubble isn’t.

 

But Mr. Romney’s poor choice of a factory for his photo-op aside, I guess accusing Mr. Obama of not doing enough to promote recovery is a better argument than blaming him for the effects of Bush policies. However, it’s not much better, since Mr. Romney is essentially advocating a return to those very same Bush policies. And he’s hoping that you don’t remember how badly those policies worked.

For the Bush era didn’t just end in catastrophe; it started off badly, too. Yes, Mr. Obama’s jobs record has been disappointing — but it has been unambiguously better than Mr. Bush’s over the comparable period of his administration.

This is especially true if you focus on private-sector jobs. Overall employment in the Obama years has been held back by mass layoffs of schoolteachers and other state and local government employees. But private-sector employment has recovered almost all the ground lost in the administration’s early months. That compares favorably with the Bush era: as of March 2004, private employment was still 2.4 million below its level when Mr. Bush took office.

 

Oh, and where have those mass layoffs of schoolteachers been taking place? Largely in states controlled by the G.O.P.: 70 percent of public job losses have been either in Texas or in states where Republicans recently took control.

Which brings me to another aspect of the amnesia campaign: Mr. Romney wants you to attribute all of the shortfalls in economic policy since 2009 (and some that happened in 2008) to the man in the White House, and forget both the role of Republican-controlled state governments and the fact that Mr. Obama has faced scorched-earth political opposition since his first day in office. Basically, the G.O.P. has blocked the administration’s efforts to the maximum extent possible, then turned around and blamed the administration for not doing enough.

 

So am I saying that Mr. Obama did everything he could, and that everything would have been fine if he hadn’t faced political opposition? By no means. Even given the political constraints, the administration did less than it could and should have in 2009, especially on housing. Furthermore, Mr. Obama was an active participant in Washington’s destructive “pivot” away from jobs to a focus on deficit reduction.

And the administration has suffered repeatedly from complacency — taking a few months of good news as an excuse to rest on its laurels rather than hammering home the need for more action. It did that in 2010, it did it in 2011, and to a certain extent it has been doing the same thing this year too. So there is a valid critique one can make of the administration’s handling of the economy.

But that’s not the critique Mr. Romney is making. Instead, he’s basically attacking Mr. Obama for not acting as if George Bush had been given a third term. Are the American people — and perhaps more to the point, the news media — forgetful enough for that attack to work? I guess we’ll find out.

 

Il candidato Amnesia, di Paul Krugman

New York Times 22 aprile 2012

 

Mitt Romney pensa che siamo proprio stupidi? Se avete seguito la sua campagna sin dagli inizi, è probabile che vi siate posti questa domanda più volte.

Ma la domanda si è sollevata con particolare forza la settimana scorsa, quando il signor Romney ha cercato di presentare una fabbrica chiusa di cartongesso nell’Ohio come simbolo del fallimento economico della Amministrazione Obama. Era un simbolo, non c’è dubbio, ma non di quello che lui intendeva.

Prima di tutto, molti giornalisti hanno subito notato un aspetto che Romney in un modo o nell’altro ha mancato di ricordare: quando la fabbrica in questione venne chiusa, George W. Bush era Presidente, non Barack Obama. Romney s’aspetta, con la sua campagna, che gli americani diano la colpa al Presidente Obama per il fallimento della politica del suo predecessore?

Si, è così. Il signor Romney parla costantemente dei posti di lavoro persi sotto Obama. Tuttavia, l’intera perdita netta di posti di lavoro avvenne nei primi mesi del 2009, vale a dire prima che ogni scelta della nuova Amministrazione avesse avuto il tempo di produrre effetti. Dunque, il discorso dell’Ohio era una rappresentazione perfetta del modo in cui la campagna di Romney fa conto sull’amnesia, nella speranza che gli elettori dimentichino che Obama aveva ereditato una economia già in caduta libera.

Ma come si fa, in una campagna elettorale, a doversi misurare con persone che fanno notare  l’imbarazzante dato di fatto per il quale tutti i cosiddetti posti di lavoro persi da Obama erano nel periodo precedente ai primi effetti delle sue politiche? L’argomento di riserva – che è stato tirato fuori allorché i giornalisti hanno posto domande sulla chiusura della fabbrica – è che anche se Obama aveva ereditato una economia profondamente in crisi, a questo punto avrebbe dovuto sistemarla. Un consigliere di Romney ha detto che quella fabbrica era ancora chiusa perché le politiche di Obama per “rimettere in moto l’economia” sono fallite.

 

In effetti, quella fabbrica probabilmente sarebbe ancora chiusa anche se l’economia andasse meglio – il cartongesso  si usa principalmente nelle nuove case, e mentre l’economia pare riprendersi, la bolla immobiliare dell’epoca Bush non ritorna.

Ma, a parte la mediocre scelta, da parte di Romney,  di una fabbrica per la sua foto-di-gruppo, credo che accusare Obama per non aver fatto abbastanza per promuovere la ripresa sarebbe un argomento migliore, che non incolparlo dei risultati delle politiche di Bush. Sennonché, non tanto migliore, dal momento che Romney sostanzialmente sostiene un ritorno a politiche identiche a quelle di Bush. E spera che vi siate dimenticati quanto abbiano funzionato pessimamente.

Perché l’epoca di Bush non semplicemente finì in una catastrofe; essa cominciò male. Si, la prestazione di Obama per l’aspetto dei posti di lavoro è stata deludente, ma è stata indiscutibilmente migliore di quella di Bush, a confronto con il periodo paragonabile della Amministrazione di quest’ultimo.

Questo è vero specialmente se ci si concentra sui posti di lavoro nel settore privato. L’occupazione generale negli anni di Obama è stata condizionata dai licenziamenti di massa degli insegnanti e degli altri impiegati nei governi degli Stati e delle comunità locali. Ma l’occupazione nel settore privato ha recuperato quasi tutto il terreno perduto nei primi mesi della Amministrazione. Il confronto con l’epoca di Bush è favorevole: a far data al marzo del 2004, l’occupazione nel settore privato era ancora inferiore al livello che aveva al momento dell’incarico a Bush, per 2 milioni e 400 mila posti di lavoro.

E ancora, dove sono avvenuti quei licenziamenti di massa di insegnanti? In buona parte in Stati controllati dal Partito Repubblicano: il 70 per cento delle perdite di posti di lavoro pubblici sono avvenuti sia in Texas che negli Stati nei quali i repubblicani hanno preso di recente il controllo.

Il che mi conduce ad un altro aspetto di questa campagna elettorale fondata sull’amnesia: il signor Romney vorrebbe attribuire tutti gli insuccessi nella politica economica a partire dal 2009 (e per qualche aspetto anche dal 2008) all’uomo della Casa Bianca, e dimenticare sia il ruolo dei governi degli Stati controllati dai repubblicani, sia il fatto che Obama ha fatto i conti con una opposizione politica da ‘terra bruciata’ sin dal suo primo giorno di presidenza. In sostanza, il Partito Repubblicano ha bloccato gli sforzi della Amministrazione per quanto ha potuto, per poi girarsi ed incolpare la Amministrazione per non aver fatto abbastanza.

Sto dunque sostenendo che Obama ha fatto tutto quello che poteva, e che ogni cosa sarebbe andata a suo posto se egli non avesse dovuto fare i conti con l’opposizione politica? Assolutamente no. Anche considerati i condizionamenti politici, la Amministrazione ha fatto meno di quello che poteva e doveva fare nel 2009, specialmente in materia di abitazioni [94].  Inoltre, Obama ha preso parte attivamente al disastroso spostamento della priorità dai posti di lavoro alla riduzione del deficit che fu deciso a Washington.  

E la amministrazione ha più volte peccato di autocompiacimento – utilizzando pochi mesi di buone notizie per addormentarsi sugli allori, piuttosto che martellare sulla necessità di maggiori iniziative. L’ha fatto nel 2010, l’ha fatto nel 2011 e in una certa misura sta facendo la stessa cosa anche nell’anno corrente. C’è dunque una critica seria che si può fare alla Amministrazione nella sua gestione dell’economia.

Ma non è la critica che sta avanzando il signor Romney. Piuttosto, egli sta attaccando Obama per non aver agito come George Bush avrebbe fatto, se avesse avuto un terzo mandato. Il popolo americano – e, per questo aspetto, forse più ancora i media – sono così smemorati da permettere che questo attacco abbia effetto? Suppongo che lo scopriremo.

 

 

 

Death of a Fairy Tale

By PAUL KRUGMAN
Published: April 26, 2012

 

This was the month the confidence fairy died.

 

For the past two years most policy makers in Europe and many politicians and pundits in America have been in thrall to a destructive economic doctrine. According to this doctrine, governments should respond to a severely depressed economy not the way the textbooks say they should — by spending more to offset falling private demand — but with fiscal austerity, slashing spending in an effort to balance their budgets.

Critics warned from the beginning that austerity in the face of depression would only make that depression worse. But the “austerians” insisted that the reverse would happen. Why? Confidence! “Confidence-inspiring policies will foster and not hamper economic recovery,” declared Jean-Claude Trichet, the former president of the European Central Bank — a claim echoed by Republicans in Congress here. Or as I put it way back when, the idea was that the confidence fairy would come in and reward policy makers for their fiscal virtue.

 

 

The good news is that many influential people are finally admitting that the confidence fairy was a myth. The bad news is that despite this admission there seems to be little prospect of a near-term course change either in Europe or here in America, where we never fully embraced the doctrine, but have, nonetheless, had de facto austerity in the form of huge spending and employment cuts at the state and local level.

So, about that doctrine: appeals to the wonders of confidence are something Herbert Hoover would have found completely familiar — and faith in the confidence fairy has worked out about as well for modern Europe as it did for Hoover’s America. All around Europe’s periphery, from Spain to Latvia, austerity policies have produced Depression-level slumps and Depression-level unemployment; the confidence fairy is nowhere to be seen, not even in Britain, whose turn to austerity two years ago was greeted with loud hosannas by policy elites on both sides of the Atlantic.

 

None of this should come as news, since the failure of austerity policies to deliver as promised has long been obvious. Yet European leaders spent years in denial, insisting that their policies would start working any day now, and celebrating supposed triumphs on the flimsiest of evidence. Notably, the long-suffering (literally) Irish have been hailed as a success story not once but twice, in early 2010 and again in the fall of 2011. Each time the supposed success turned out to be a mirage; three years into its austerity program, Ireland has yet to show any sign of real recovery from a slump that has driven the unemployment rate to almost 15 percent.

However, something has changed in the past few weeks. Several events — the collapse of the Dutch government over proposed austerity measures, the strong showing of the vaguely anti-austerity François Hollande in the first round of France’s presidential election, and an economic report showing that Britain is doing worse in the current slump than it did in the 1930s — seem to have finally broken through the wall of denial. Suddenly, everyone is admitting that austerity isn’t working.

The question now is what they’re going to do about it. And the answer, I fear, is: not much.

For one thing, while the austerians seem to have given up on hope, they haven’t given up on fear — that is, on the claim that if we don’t slash spending, even in a depressed economy, we’ll turn into Greece, with sky-high borrowing costs.

Now, claims that only austerity can pacify bond markets have proved every bit as wrong as claims that the confidence fairy will bring prosperity. Almost three years have passed since The Wall Street Journal breathlessly warned that the attack of the bond vigilantes on U.S. debt had begun; not only have borrowing costs remained low, they’ve actually fallen by half. Japan has faced dire warnings about its debt for more than a decade; as of this week, it could borrow long term at an interest rate of less than 1 percent.

 

And serious analysts now argue that fiscal austerity in a depressed economy is probably self-defeating: by shrinking the economy and hurting long-term revenue, austerity probably makes the debt outlook worse rather than better.

But while the confidence fairy appears to be well and truly buried, deficit scare stories remain popular. Indeed, defenders of British policies dismiss any call for a rethinking of these policies, despite their evident failure to deliver, on the grounds that any relaxation of austerity would cause borrowing costs to soar.

 

So we’re now living in a world of zombie economic policies — policies that should have been killed by the evidence that all of their premises are wrong, but which keep shambling along nonetheless. And it’s anyone’s guess when this reign of error will end.

 

Fine della favola della fatina, di Paul Krugman

New York Times 26 aprile 2012

 

 

Questo è stato il mese della dipartita della ‘fata turchina della fiducia’ [95].

Nei due anni passati gran parte degli uomini di governo in Europa e molti politici e addetti ai lavori in America sono stati alla mercé di una dottrina economica distruttiva. Secondo questa dottrina, i Governi dovevano rispondere ad una economia gravemente depressa non nel modo in cui insegnano i libri di testo, cioè con una maggiore spesa pubblica per bilanciare la caduta della domanda privata; dovevano rispondere con l’austerità finanziaria, tagliando le spese nel tentativo di riequilibrare i bilanci.

I critici avevano ammonito che avviare quella austerità in presenza della depressione avrebbe solo reso più grave la depressione. Ma i ‘patiti dell’austerità’ ripetevano che sarebbe successo il contrario. E perché ? Per via della fiducia! “Le politiche che ispirano fiducia incoraggeranno e non intralceranno la ripresa economica”, dichiarò Jean Paul Trichet, il passato Presidente della Banca Centrale Europea – una pretesa da noi echeggiata dai repubblicani nel Congresso. Se si vuole, come ebbi a dire allora, l’idea era che la ‘fata turchina della fiducia’ si sarebbe messa a disposizione ed avrebbe premiato gli uomini politici per le loro virtù in materia di bilanci.

 

La buona notizia è che molte persone influenti stanno finalmente riconoscendo che la fata era un mito. La cattiva notizia è che nonostante questa ammissione sembra esserci poca speranza di un mutamento degli indirizzi nel breve periodo sia in Europa che in America, dove non abbiamo mai pienamente abbracciato una dottrina del genere, nondimeno abbiamo avuto una austerità di fatto, nella forma di grandi tagli alla spesa ad all’occupazione ai livelli degli Stati e delle comunità locali.

Intanto, a proposito della dottrina: gli appelli ai miracoli della fiducia sono qualcosa che Herbert Hoover avrebbe trovato del tutto familiare – e la fede nella fata della fiducia è stata risolutiva nell’Europa odierna nello stesso modo in cui fu risolutiva nell’America di Hoover.  Dappertutto nella periferia dell’Europa, dalla Spagna alla Lettonia, le politiche d’austerità hanno prodotto crolli e disoccupazione a livello di Depressioni; la ‘fata turchina della fiducia’ non si è vista da nessuna parte, nemmeno in Inghilterra, la cui svolta per l’austerità di due anni orsono fu salutata con lodi sperticate dalle classi dirigenti di entrambe le sponde dell’Atlantico.

In questo non c’è nessuna notizia, dato che il fallimento delle politiche di austerità nel produrre quanto promesso è sempre stato evidente. Tuttavia i dirigenti europei hanno trascorso anni a negarlo, insistendo che le loro politiche avrebbero prima o poi cominciato a funzionare, e celebrando trionfi sulle prove più esili. In particolare, la lungamente sofferente, in tutti i sensi, Irlanda è stata celebrata non una volta ma due come storia di successo, agli inizi del 2011 e ancora nell’autunno del 2012. Ogni volta il preteso successo si è dimostrato essere un miraggio; tre anni di programmi di austerità, e l’Irlanda deve ancora mostrare un segno di reale ripresa da una depressione che ha portato il tasso di disoccupazione al 15 per cento.

Tuttavia, qualcosa è cambiato nelle ultime settimane. Un certo numero di eventi – la crisi del Governo olandese sulle misure di austerità proposte, la forte affermazione di un François Hollande vagamente ostile all’austerità nel primo turno delle elezioni presidenziali francesi, ed un rapporto economico che mostra come l’Inghilterra stia andando peggio nell’attuale depressione rispetto a quella degli anni Trenta – sembra abbiano finalmente fatto breccia nel muro del diniego. All’improvviso, tutti ammettono che l’austerità non sta funzionando.

Ora la domanda è che cosa faranno di conseguenza. E temo che la risposta sia: non molto.

Per una ragione: nel mentre i patiti dell’austerità sembrano aver perso la speranza, non l’hanno smessa con le paure – vale a dire con la pretesa che se non si tagliano le spese, pure in un’economia depressa, diventeremo come la Grecia, i costi del debito saliranno alle stelle.

Sennonché, la pretesa che solo l’austerità possa rasserenare i mercati obbligazionari è altrettanto sbagliata di quella secondo la quale la fata della fiducia avrebbe portato prosperità.  Sono passati quasi tre anni dal momento in cui, in modo concitato, il Wall Street Journal mise in guardia dall’attacco appena cominciato dei ‘guardiani dei bonds’ contro il debito statunitense; non solo i costi dell’indebitamento sono rimasti bassi, si sono addirittura dimezzati. Il Giappone ha fronteggiato vaticini terrificanti sul suo debito per più di un decennio; a far data da questa settimana, potrebbe prendere prestiti a lungo termine ad un tasso di interesse inferiore all’uno per cento.

Seri analisti ormai sostengono che l’austerità finanziaria in una economia depressa è probabilmente controproducente: restringendo l’economia e danneggiando le entrate nel lungo periodo, l’austerità probabilmente rende la prospettiva del debito peggiore anziché migliore.

Ma mentre la fata turchina della fiducia sembra essere bell’e sepolta, i terribili racconti sul debito restano popolari. In effetti, i difensori delle politiche britanniche escludono ogni appello ad un ripensamento di queste politiche, nonostante la loro evidente incapacità di produrre effetti, sulla premessa che ogni rilassatezza in materia di austerità farebbe schizzare alle stelle i costi del debito.

E’ come se vivessimo in un mondo di politiche economiche ‘zombi’ – politiche che dovrebbero essere state ammazzate dalla evidente infondatezza di tutte le loro premesse, e che purtuttavia procedono come per inerzia. Né si riesce a capire quando finirà questo regno dell’errore.

 

 

 

 

Wasting Our Minds

By PAUL KRUGMAN
Published: April 29, 2012

In Spain, the unemployment rate among workers under 25 is more than 50 percent. In Ireland almost a third of the young are unemployed. Here in America, youth unemployment is “only” 16.5 percent, which is still terrible — but things could be worse.

And sure enough, many politicians are doing all they can to guarantee that things will, in fact, get worse. We’ve been hearing a lot about the war on women, which is real enough. But there’s also a war on the young, which is just as real even if it’s better disguised. And it’s doing immense harm, not just to the young, but to the nation’s future.

 

Let’s start with some advice Mitt Romney gave to college students during an appearance last week. After denouncing President Obama’s “divisiveness,” the candidate told his audience, “Take a shot, go for it, take a risk, get the education, borrow money if you have to from your parents, start a business.”

 

The first thing you notice here is, of course, the Romney touch — the distinctive lack of empathy for those who weren’t born into affluent families, who can’t rely on the Bank of Mom and Dad to finance their ambitions. But the rest of the remark is just as bad in its own way.

I mean, “get the education”? And pay for it how? Tuition at public colleges and universities has soared, in part thanks to sharp reductions in state aid. Mr. Romney isn’t proposing anything that would fix that; he is, however, a strong supporter of the Ryan budget plan, which would drastically cut federal student aid, causing roughly a million students to lose their Pell grants.

So how, exactly, are young people from cash-strapped families supposed to “get the education”? Back in March Mr. Romney had the answer: Find the college “that has a little lower price where you can get a good education.” Good luck with that. But I guess it’s divisive to point out that Mr. Romney’s prescriptions are useless for Americans who weren’t born with his advantages.

There is, however, a larger issue: even if students do manage, somehow, to “get the education,” which they do all too often by incurring a lot of debt, they’ll be graduating into an economy that doesn’t seem to want them.

You’ve probably heard lots about how workers with college degrees are faring better in this slump than those with only a high school education, which is true. But the story is far less encouraging if you focus not on middle-aged Americans with degrees but on recent graduates. Unemployment among recent graduates has soared; so has part-time work, presumably reflecting the inability of graduates to find full-time jobs. Perhaps most telling, earnings have plunged even among those graduates working full time — a sign that many have been forced to take jobs that make no use of their education.

 

College graduates, then, are taking it on the chin thanks to the weak economy. And research tells us that the price isn’t temporary: students who graduate into a bad economy never recover the lost ground. Instead, their earnings are depressed for life.

What the young need most of all, then, is a better job market. People like Mr. Romney claim that they have the recipe for job creation: slash taxes on corporations and the rich, slash spending on public services and the poor. But we now have plenty of evidence on how these policies actually work in a depressed economy — and they clearly destroy jobs rather than create them.

 

For as you look at the economic devastation in Europe, you should bear in mind that some of the countries experiencing the worst devastation have been doing everything American conservatives say we should do here. Not long ago, conservatives gushed over Ireland’s economic policies, especially its low corporate tax rate; the Heritage Foundation used to give it higher marks for “economic freedom” than any other Western nation. When things went bad, Ireland once again received lavish praise, this time for its harsh spending cuts, which were supposed to inspire confidence and lead to quick recovery.

 

And now, as I said, almost a third of Ireland’s young can’t find jobs.

What should we do to help America’s young? Basically, the opposite of what Mr. Romney and his friends want. We should be expanding student aid, not slashing it. And we should reverse the de facto austerity policies that are holding back the U.S. economy — the unprecedented cutbacks at the state and local level, which have been hitting education especially hard.

Yes, such a policy reversal would cost money. But refusing to spend that money is foolish and shortsighted even in purely fiscal terms. Remember, the young aren’t just America’s future; they’re the future of the tax base, too.

A mind is a terrible thing to waste; wasting the minds of a whole generation is even more terrible. Let’s stop doing it.

 

Lo spreco delle nostre intelligenze , di Paul Krugman

New York Times 29 aprile 2012

 

In Spagna il tasso di disoccupazione tra i lavoratori sotto i 25 anni è superiore al 50 per cento. In Irlanda quasi un terzo dei giovani sono disoccupati. Qua in America la disoccupazione giovanile è “solo” al 16,5 per cento, ma le cose potrebbero peggiorare.

 

E’ abbastanza evidente che molti uomini politici stanno facendo tutto quello che possono per assicurare che le cose vadano davvero peggio. C’è un gran parlare di guerra alle donne, che corrisponde abbastanza al vero. Ma c’è anche una guerra ai giovani, che è altrettanto reale anche se più mascherata. Quella guerra sta facendo un danno immenso non solo ai giovani, ma al futuro della nazione.

Partiamo da qualche consiglio che Mitt Romney ha dato a studenti dell’Università, durante una apparizione della scorsa settimana. Dopo aver denunciato la ‘faziosità’ del Presidente Obama, il candidato ha detto al suo uditorio: “Fate un tentativo, provateci, correte un rischio, istruitevi, se non potete fare diversamente prendete a prestito i soldi dai vostri genitori, avviate un’impresa”.

La prima cosa che potete notare, ovviamente, è lo stile di Romney – la caratteristica mancanza di empatia con coloro che non sono nati in famiglie ricche e non possono contare sulla banca del babbo o della mamma per finanziare le loro ambizioni. Ma il resto dell’osservazione è a suo modo altrettanto di cattivo gusto.

Voglio dire: “Istruitevi”? E come farete a pagare? Le rette nelle Università di ogni genere sono salite alle stelle, in parte grazie alla brusca riduzione degli aiuti da parte degli Stati. Il signor Romney non sta proponendo alcunché per porvi rimedio; tuttavia è un sostenitore convinto del ‘piano Ryan’ sul bilancio, che taglierebbe drasticamente gli aiuti federali agli studenti, provocando per circa un milione di loro la perdita dei sussidi per il diritto allo studio [96].

Dunque come, con precisione, si ritiene che i giovani che vengono da famiglie a corto di denaro “si procurino l’istruzione”? Nel marzo passato Romney diede la risposta: trovatevi l’Università “dove potete istruirvi ad un prezzo un po’ più basso”. E buona fortuna! Ma c’è da supporre che sia “fazioso” far notare che i consigli del signor Romney siano inutili per gli americani che non sono nati con i suoi vantaggi.

C’è, tuttavia, un tema più grande: anche se gli studenti si arrangiano in qualche modo per ottenere istruzione, tutte cose che fanno troppo spesso incappando in una quantità di debiti, finiranno col laurearsi in una economica che sembra non volerli.

Avrete probabilmente sentito parlare di come i lavoratori con una istruzione di livello universitario [97] nel corso di questa crisi se la passino meglio di quelli che hanno soltanto una istruzione di livello superiore, il che è vero. Ma quel racconto è assai meno incoraggiante se si considerano non gli americani laureati di mezza età, bensì i laureati recenti. La disoccupazione tra i laureati recenti è salita alle stelle, così come il lavoro a tempo parziale, in conseguenza probabilmente della difficoltà dei laureati a trovare impieghi a tempo pieno. E’ possibile, per dirla tutta, che i compensi siano caduti persino tra i laureati che lavorano a tempo pieno – segno che molti sono stati costretti a fare a meno della loro istruzione.

I laureati, dunque, stanno affrontando le avversità con coraggio, in conseguenza della crisi economica. E le ricerche ci dicono che quel prezzo non è passeggero: gli studenti che si laureano in condizioni economiche negative  non recuperano mai il tempo perduto. Piuttosto i loro compensi restano più bassi per tutta la vita.

Ciò di cui hanno bisogno soprattutto i giovani, dunque, è un migliore mercato del lavoro. Le persone come il signor Romney pensano di avere la ricetta per creare lavoro: tagliare le tasse sulle imprese e su ricchi, tagliare la spesa sui servizi pubblici e sulla povertà. Ma oggi abbiamo un’infinità di prove su come queste politiche realmente funzionano in una economia depressa – esse chiaramente distruggono posti di lavoro, anziché crearli.

Giacché, se guardate alla devastazione delle economie europee, dovreste ricordare che alcuni dei paesi che soffrono della devastazione maggiore hanno fatto tutto quello che i conservatori americani ci dicono di fare. Non molto tempo fa i conservatori smaniavano per le politiche economiche dell’Irlanda, in particolare per le sue basse tasse sulle imprese; l’ Heritage Foundation [98]era solita darle il punteggio più elevato di ogni altra nazione occidentale in materia di “libertà economica”. Quando le cose volsero al peggio, l’Irlanda ricevette ancora una volta lodi sperticate, in quel caso per i suoi duri tagli alla spesa pubblica, che si supponeva ispirassero fiducia e portassero ad una rapida ripresa.

Ed oggi, come ho detto, quasi un terzo dei giovani irlandesi non riesce a trovare lavoro.

Cosa dovremmo fare per aiutare i giovani americani? Fondamentalmente, l’opposto di quello che intendono fare il signor Romney ed i suoi amici. Dovremmo ampliare gli aiuti agli studenti, non abbatterli. E dovremmo invertire le politiche della sostanziale austerità che trattengono l’economia americana – i tagli senza precedenti ai livelli degli Stati e delle comunità locali, che hanno colpito con particolare durezza il sistema educativo.

E’ vero, una inversione politica costerebbe denaro, Ma rifiutarsi di spendere è sciocco e miope anche in termini meramente fiscali. Si ricordi, i giovani non sono solo il futuro dell’America; sono anche il futuro della sua base fiscale.

Sciupare l’intelligenza è una cosa terribile; sciupare le intelligenze di una generazione intera è anche più terribile. Dobbiamo smettere. 

 

 

 

 

 

Plutocracy, Paralysis, Perplexity

By PAUL KRUGMAN
Published: May 3, 2012

Before the Great Recession, I would sometimes give public lectures in which I would talk about rising inequality, making the point that the concentration of income at the top had reached levels not seen since 1929. Often, someone in the audience would ask whether this meant that another depression was imminent.

Well, whaddya know?

Did the rise of the 1 percent (or, better yet, the 0.01 percent) cause the Lesser Depression we’re now living through? It probably contributed. But the more important point is that inequality is a major reason the economy is still so depressed and unemployment so high. For we have responded to crisis with a mix of paralysis and confusion — both of which have a lot to do with the distorting effects of great wealth on our society.

Put it this way: If something like the financial crisis of 2008 had occurred in, say, 1971 — the year Richard Nixon declared that “I am now a Keynesian in economic policy” — Washington would probably have responded fairly effectively. There would have been a broad bipartisan consensus in favor of strong action, and there would also have been wide agreement about what kind of action was needed.

But that was then. Today, Washington is marked by a combination of bitter partisanship and intellectual confusion — and both are, I would argue, largely the result of extreme income inequality.

On partisanship: The Congressional scholars Thomas Mann and Norman Ornstein have been making waves with a new book acknowledging a truth that, until now, was unmentionable in polite circles. They say our political dysfunction is largely because of the transformation of the Republican Party into an extremist force that is “dismissive of the legitimacy of its political opposition.” You can’t get cooperation to serve the national interest when one side of the divide sees no distinction between the national interest and its own partisan triumph.

 

So how did that happen? For the past century, political polarization has closely tracked income inequality, and there’s every reason to believe that the relationship is causal. Specifically, money buys power, and the increasing wealth of a tiny minority has effectively bought the allegiance of one of our two major political parties, in the process destroying any prospect for cooperation.

And the takeover of half our political spectrum by the 0.01 percent is, I’d argue, also responsible for the degradation of our economic discourse, which has made any sensible discussion of what we should be doing impossible.

Disputes in economics used to be bounded by a shared understanding of the evidence, creating a broad range of agreement about economic policy. To take the most prominent example, Milton Friedman may have opposed fiscal activism, but he very much supported monetary activism to fight deep economic slumps, to an extent that would have put him well to the left of center in many current debates.

Now, however, the Republican Party is dominated by doctrines formerly on the political fringe. Friedman called for monetary flexibility; today, much of the G.O.P. is fanatically devoted to the gold standard. N. Gregory Mankiw of Harvard University, a Romney economic adviser, once dismissed those claiming that tax cuts pay for themselves as “charlatans and cranks”; today, that notion is very close to being official Republican doctrine.

 

 

As it happens, these doctrines have overwhelmingly failed in practice. For example, conservative goldbugs have been predicting vast inflation and soaring interest rates for three years, and have been wrong every step of the way. But this failure has done nothing to dent their influence on a party that, as Mr. Mann and Mr. Ornstein note, is “unpersuaded by conventional understanding of facts, evidence, and science.”

And why is the G.O.P. so devoted to these doctrines regardless of facts and evidence? It surely has a lot to do with the fact that billionaires have always loved the doctrines in question, which offer a rationale for policies that serve their interests. Indeed, support from billionaires has always been the main thing keeping those charlatans and cranks in business. And now the same people effectively own a whole political party.

Which brings us to the question of what it will take to end this depression we’re in.

Many pundits assert that the U.S. economy has big structural problems that will prevent any quick recovery. All the evidence, however, points to a simple lack of demand, which could and should be cured very quickly through a combination of fiscal and monetary stimulus.

No, the real structural problem is in our political system, which has been warped and paralyzed by the power of a small, wealthy minority. And the key to economic recovery lies in finding a way to get past that minority’s malign influence.

 

Plutocrazia, paralisi e sconcerto

di Paul Krugman

New York Times 3 maggio 2012

 

Prima della Grande Recessione, qualche volta tenevo lezioni nelle quali parlavo sul tema delle crescenti diseguaglianze, mettendo in evidenza che la concentrazione del reddito nella fascia dei più ricchi aveva raggiunto livelli che non si erano visti dal 1929. Spesso qualche ascoltatore mi chiedeva se questo significasse che era in arrivo un’altra depressione.

 

Ebbene, chi può saperlo?

La crescita della ricchezza dell’ 1 per cento (o, meglio ancora, dello 0,1 per cento) ha provocato la Depressione Minore [99] in mezzo alla quale ci troviamo? Probabilmente ha contribuito. Ma la cosa importante è che le diseguaglianze sono una importante ragione della perdurante depressione dell’economia e della disoccupazione così elevata. Giacché abbiamo risposto alla crisi con un misto di paralisi e di confusione – entrambe le quali hanno molto a che fare con gli effetti distorti della grande ricchezza sulla nostra società.

Mettiamola così: se qualcosa di simile alla crisi finanziaria del 2008 fosse accaduta, diciamo, nel 1971 – l’anno in cui Nixon dichiarò “oggi io sono keynesiano in politica economica” – Washington probabilmente avrebbe risposto abbastanza efficacemente. Ci sarebbe stato un ampio consenso bipartizan a favore di una forte iniziativa, e ci sarebbe anche stato un ampio accordo sul genere di azioni necessarie.

Ma questo era allora. Oggi Washington è segnata da una combinazione di aspra faziosità e di confusione intellettuale – ed entrambe, mi sentirei di sostenere, sono in gran parte il risultato di una estrema diseguaglianza nei redditi.

Sulla faziosità: gli studiosi di cose congressuali Thomas Mann e Norman Ornstein hanno sollevato un polverone con un nuovo libro nel quale si dà conto di una verità che, sino ad ora, era indicibile nei circoli per bene. Essi affermano che la disfunzione politica dipende in buona parte dalla trasformazione del Partito Repubblicano in una forza estremistica che è “sprezzante della legittimità dei suoi avversari politici”. Non si può avere la cooperazione al servizio dell’interesse della nazione quando una parte dello schieramento non vede alcuna differenza tra l’interesse nazionale e il trionfo della propria parte.

Cos’è accaduto, dunque? Quanto al secolo passato, la polarizzazione della politica ha seguito da vicino i progressi della diseguaglianza, e ci sono tutte le ragioni per credere che la seconda abbia favorito la prima. In particolare, il denaro compra il potere, e la ricchezza crescente di una esigua minoranza ha effettivamente comprato la lealtà di uno dei due maggiori partiti politici, nel processo di distruzione di ogni possibilità di collaborazione.

Direi che il controllo della metà dello schieramento politico da parte dello 0,1 per cento [100] è anche responsabile della degradazione del nostro dibattito politico, è ciò che ha reso impossibile qualsiasi sensato confronto su quanto dovremmo fare.

Si era abituati a dibattiti di economia che erano tenuti assieme da una condivisa comprensione dei fatti, era questo che determinava ampie possibilità di intesa sulla politica economica. Per prendere l’esempio più ragguardevole, Milton Friedman [101] poteva essere ostile al ruolo attivo della spesa pubblica, eppure sosteneva con forza l’iniziativa monetaria per contrastare le crisi economiche, in un modo che lo avrebbe sicuramente collocato oggi alla sinistra del centro, in molti dibattiti. 

Ai nostri giorni, tuttavia, il Partito Repubblicano è dominato da dottrine che un tempo erano ai margini della politica. Friedman si pronunciò per la flessibilità monetaria; gran parte del Partito Repubblicano odierno è fanaticamente devoto al gold standard. N. Gregory Mankiw, della Università di Harvard, un consulente economico di Romney, una volta liquidò coloro che pretendevano che  i tagli alle tasse si ripagassero da soli, come “ ciarlatani e faziosi”. Oggi quel concetto è prossimo a diventare dottrina ufficiale dei Repubblicani.

  

Si dà il caso che queste dottrine abbiano avuto, nella pratica, un fallimento inesorabile.  Ad esempio, i conservatori ‘fanatici dell’oro’ [102] hanno profetizzato per tre anni una vasta inflazione e tassi di interesse che andavano alle stelle, e in ogni occasione si sono sbagliati. Ma questo fallimento non ha intaccato in niente la loro influenza in un Partito che, come notano Mann ed Ornstein, “non si può convincere con le prove, con la scienza, con la tradizionale comprensione dei fatti”.

E perché il Partito Repubblicano è talmente affezionato a queste dottrine, a prescindere dalle prove e dai fatti? Sicuramente ha influito il fatto che i miliardari hanno sempre amato le dottrine in questione, che offrono una giustificazione alle politiche al servizio dei loro interessi. In effetti, il sostegno dei miliardari è sempre stata la cosa principale che ha mantenuto in affari quei ‘ciarlatani’ e quei ‘faziosi’. Ed oggi le stesse persone in effetti possiedono un intero partito politico.

La qualcosa ci riporta alla domanda di cosa ci vorrà per interrompere la depressione nella quale siamo.

Molti esperti asseriscono che l’economia americana ha grandi problemi strutturali che impediscono ogni rapida ripresa.  Tutte le prove, tuttavia, indicano una semplice mancanza di domanda, che potrebbe e dovrebbe essere curata attraverso una combinazione di misure di sostegno monetarie e di finanza pubblica.

No, il reale problema strutturale è nel nostro sistema politico, che è stato distorto e paralizzato dal potere di una piccola minoranza di ricchi. E la chiave di una ripresa economica sta nel trovare un modo per metterci alle spalle l’influenza malefica di quella minoranza.

 

 

 

 

 

 

Those Revolting Europeans

By PAUL KRUGMAN
Published: May 6, 2012

The French are revolting. The Greeks, too. And it’s about time.

Both countries held elections Sunday that were in effect referendums on the current European economic strategy, and in both countries voters turned two thumbs down. It’s far from clear how soon the votes will lead to changes in actual policy, but time is clearly running out for the strategy of recovery through austerity — and that’s a good thing.

Needless to say, that’s not what you heard from the usual suspects in the run-up to the elections. It was actually kind of funny to see the apostles of orthodoxy trying to portray the cautious, mild-mannered François Hollande as a figure of menace. He is “rather dangerous,” declared The Economist, which observed that he “genuinely believes in the need to create a fairer society.” Quelle horreur!

What is true is that Mr. Hollande’s victory means the end of “Merkozy,” the Franco-German axis that has enforced the austerity regime of the past two years. This would be a “dangerous” development if that strategy were working, or even had a reasonable chance of working. But it isn’t and doesn’t; it’s time to move on. Europe’s voters, it turns out, are wiser than the Continent’s best and brightest.

What’s wrong with the prescription of spending cuts as the remedy for Europe’s ills? One answer is that the confidence fairy doesn’t exist — that is, claims that slashing government spending would somehow encourage consumers and businesses to spend more have been overwhelmingly refuted by the experience of the past two years. So spending cuts in a depressed economy just make the depression deeper.

Moreover, there seems to be little if any gain in return for the pain. Consider the case of Ireland, which has been a good soldier in this crisis, imposing ever-harsher austerity in an attempt to win back the favor of the bond markets. According to the prevailing orthodoxy, this should work. In fact, the will to believe is so strong that members of Europe’s policy elite keep proclaiming that Irish austerity has indeed worked, that the Irish economy has begun to recover.

 

 

But it hasn’t. And although you’d never know it from much of the press coverage, Irish borrowing costs remain much higher than those of Spain or Italy, let alone Germany. So what are the alternatives?

One answer — an answer that makes more sense than almost anyone in Europe is willing to admit — would be to break up the euro, Europe’s common currency. Europe wouldn’t be in this fix if Greece still had its drachma, Spain its peseta, Ireland its punt, and so on, because Greece and Spain would have what they now lack: a quick way to restore cost-competitiveness and boost exports, namely devaluation.

 

As a counterpoint to Ireland’s sad story, consider the case of Iceland, which was ground zero for the financial crisis but was able to respond by devaluing its currency, the krona (and also had the courage to let its banks fail and default on their debts). Sure enough, Iceland is experiencing the recovery Ireland was supposed to have, but hasn’t.

 

Yet breaking up the euro would be highly disruptive, and would also represent a huge defeat for the “European project,” the long-run effort to promote peace and democracy through closer integration. Is there another way? Yes, there is — and the Germans have shown how that way can work. Unfortunately, they don’t understand the lessons of their own experience.

 

Talk to German opinion leaders about the euro crisis, and they like to point out that their own economy was in the doldrums in the early years of the last decade but managed to recover. What they don’t like to acknowledge is that this recovery was driven by the emergence of a huge German trade surplus vis-à-vis other European countries — in particular, vis-à-vis the nations now in crisis — which were booming, and experiencing above-normal inflation, thanks to low interest rates. Europe’s crisis countries might be able to emulate Germany’s success if they faced a comparably favorable environment — that is, if this time it was the rest of Europe, especially Germany, that was experiencing a bit of an inflationary boom.

 

So Germany’s experience isn’t, as the Germans imagine, an argument for unilateral austerity in Southern Europe; it’s an argument for much more expansionary policies elsewhere, and in particular for the European Central Bank to drop its obsession with inflation and focus on growth.

The Germans, needless to say, don’t like this conclusion, nor does the leadership of the central bank. They will cling to their fantasies of prosperity through pain, and will insist that continuing with their failed strategy is the only responsible thing to do. But it seems that they will no longer have unquestioning support from the Élysée Palace. And that, believe it or not, means that both the euro and the European project now have a better chance of surviving than they did a few days ago.

 

Quegli europei in rivolta, di Paul Krugman

New York Times 6 maggio 2012

 

I francesi sono in rivolta. I greci pure. Ed era l’ora.

 

Entrambi i paesi hanno tenuto domenica elezioni che erano in effetti referendum sulla attuale strategia economica europea, ed in entrambi gli elettori hanno girato i pollici verso il basso. Lungi dall’essere chiaro quanto rapidamente i voti porteranno a cambiamenti nella politica effettiva, il tempo sta chiaramente scadendo per la strategia della ripresa attraverso la austerità – e questa è una buona cosa.

Non c’è bisogno di dire che non è questo che avete sentito dire dai soliti noti, nel periodo antecedente le elezioni. È stato effettivamente bizzarro vedere i seguaci dell’ortodossia dipingere il cauto e mite François Hollande come un personaggio minaccioso. Egli è “piuttosto pericoloso”, ha dichiarato The Economist, osservando che “crede autenticamente al bisogno di creare una società più giusta”.  Quelle horreur!

 

Quello che è vero è che la vittoria di Hollande significa la fine del “Merkozy”, l’asse franco-tedesco che ha imposto il regime di austerità dei due anni passati. Questo potrebbe essere uno sviluppo “pericoloso” se quella strategia stesse funzionando, o anche se avesse una ragionevole possibilità di funzionare. Ma non è così ed è tempo di voltare pagina. Accade che gli elettori europei siano più saggi di gran parte degli individui più brillanti del Continente.

Cosa c’è di sbagliato nella ricetta dei tagli alla spesa pubblica come rimedio dei mali dell’Europa?  Un risposta è che la ‘fata turchina’ della fiducia non esiste – vale a dire che  le pretese secondo le quali i tagli alla spesa pubblica avrebbero in qualche modo incoraggiato i consumatori e le imprese sono state confutate in modo schiacciante dall’esperienza dei due anni passati. Dunque, i tagli alla spesa in una economia depressa semplicemente rendono la depressione più profonda.

In più, sembra che il vantaggio in cambio della sofferenza, ammesso che esista, sia modesto. Si consideri il caso dell’Irlanda, che in questa crisi è stata un soldato modello, imponendo una austerità severa come non mai nel tentativo riconquistare il mercato degli investitori dei bonds. Secondo l’ortodossia prevalente, doveva funzionare. Nei fatti, la voglia di crederci è così forte che i membri delle èlites politiche europee continuano a proclamare che l’austerità irlandese ha effettivamente funzionato, che l’economia irlandese ha cominciato a riprendersi.

Ma non è così. E sebbene non lo saprete mai da gran parte delle fonti giornalistiche, i costi dell’indebitamento irlandese restano molto più alti di quelli della Spagna o dell’Italia, per non dire della Germania. Dunque, quali sono le alternative?

Una risposta – una risposta che ha molto maggior senso di quello che sono disposti ad ammettere quasi tutti in Europa – sarebbe farla finita con l’euro, la valuta comune europea. L’Europa non sarebbe in questo guaio se la Grecia avesse ancora la sua dracma, la Spagna la sua peseta, l’Irlanda la sua sterlina, e così via, perché Grecia e Spagna avrebbero quello che ora gli manca: un modo rapido per recuperare competitività sui costi e sostenere le esportazioni, letteralmente una svalutazione.

In alternativa alla triste storia dell’Irlanda, si consideri il caso dell’Islanda, che è stata atterrata dalla crisi finanziaria ma ha avuto la possibilità di rispondere con la svalutazione della sua moneta, la corona (ed ha anche avuto il coraggio di lasciar fallire le sue banche per l’inadempienza sui loro debiti). E’ abbastanza evidente che l’Islanda sta conoscendo quella ripresa che ci si è immaginati senza fondamento di attribuire all’Irlanda.

 

Tuttavia, farla finita con l’euro sarebbe altamente dirompente, e rappresenterebbe anche una grande disfatta per il “progetto europeo”, lo sforzo di lungo periodo di promuovere la pace e la democrazia attraverso una integrazione più stretta. Esiste un’altra strada? Si, esiste – ed i tedeschi hanno dimostrato come può funzionare. Sfortunatamente, essi non comprendono le lezioni della loro stessa esperienza.

Parlate della crisi dell’euro con coloro che fanno opinione in Germania, ed essi sottolineeranno con soddisfazione che la loro stessa economia era col morale sotto i tacchi nei primi anni del decennio passato, eppure riuscirono a riprendersi. Quello che non riconosceranno volentieri è che questa ripresa fu guidata dalla progressiva affermazione di un vasto surplus commerciale tedesco nei confronti degli altri paesi europei – in particolare nei confronti delle nazioni ora in crisi – che erano in una fase di boom e con un’inflazione al di sopra della norma, grazie a bassi tassi di interesse. I paesi in crisi dell’Europa potrebbe essere capaci di imitare il successo della Germania se essi avessero dinanzi un paragonabile contesto favorevole – vale a dire, se questa volta fosse il resto dell’Europa, specialmente la Germania, a conoscere un po’ di boom inflazionistico.

Dunque, l’esperienza della Germania non è, come i tedeschi immaginano, un argomento per una austerità unilaterale nell’Europa meridionale; è un argomento per politiche molto più espansive dappertutto, e in particolare perché la Banca Centrale Europea lasci cadere la sua ossessione per l’inflazione e si concentri sulla crescita.

I tedeschi, non c’è bisogno di dirlo, non gradiscono questa conclusione, né la gradiscono i dirigenti della Banca Centrale. Essi si aggrapperanno alle loro fantasie di una prosperità al prezzo di sofferenze, e continueranno a ritenere che la loro malandata strategia sia l’unica cosa da fare. Ma sembra che non avranno più l’incondizionato sostegno del Palazzo dell’Eliseo. Il che, ci si creda o no, significa che sia l’euro che il progetto europeo hanno oggi una migliore possibilità di sopravvivenza di quanto non avessero pochi giorni orsono.

 

 

  

 

 



[1] “Claim” è una “rivendicazione” o una “richiesta di risarcimento” e nel concetto di “debt”, un po’ diversamente dalla nostra lingua ordinaria, è implicito sia un “obbligo” che un “diritto” (al rimborso). Possedere un debito significa possedere un diritto al rimborso sulle obbligazioni sul debito.

[2] Il concetto è un po’ curioso, perché è chiaro che con l’evasione e l’elusione non ci sarebbe necessariamente una distrazione di risorse dalle attività produttive. Per questo traduco “resources” con “energie” anziché con “risorse”. In effetti, un po’ di energie vengono distratte …

[3] Come è noto l’espressione che traduciamo letteralmente con “convenzionale saggezza” è quella che frequentemente adoperava Keynes per descrivere quella sorta di “senso comune” sulle questioni dell’economia che derivava dall’economia che lui definiva “classica”. Però, sia l’uso del termine “saggezza” che del termine “senso comune” sono un po’ imprecisi: Keynes si riferiva, in realtà, a concetti specifici dell’economia che erano stati interiorizzati alla stregua di  senso comune dagli economisti e dagli operatori economici.

[4] Il Private equity è un’attività finanziaria mediante la quale un investitore istituzionale rileva quote di una società ‘obiettivo’ (“target”), sia acquisendo azioni esistenti da terzi sia sottoscrivendo azioni di nuova emissione apportando nuovi capitali all’interno della società.

Il Private equity include tutti gli investimenti in società non quotate su mercati regolamentati. Le società target possono anche essere quotate, ma intenzionate ad abbandonare la borsa, ed in questo caso si parla di Public Private Equity

 

[5][5] L’insediamento del presidente degli Stati Uniti è la cerimonia tenuta all’inizio del mandato presidenziale. La costituzione statunitense impone in realtà un unico adempimento: che il presidente presti un giuramento o comunque una dichiarazione solenne prima di entrare in carica. Tuttavia, nel corso degli anni sono sorte numerose prassi che hanno esteso l’insediamento da spartana cerimonia a vera e propria giornata di sfilate, discorsi e danze. Questa giornata, nota oggi come Inauguration Day, cadde il 4 marzo dal 1798 al 1933. Nel 1933 la ratifica del 20º emendamento, modificando la data di inizio mandato, la fissò al 20 gennaio.

[6] Lett. “quando la polvere era caduta”.

[7] Theodore Roosevelt, detto Teddy o TR, (New York, 27 ottobre 1858Sagamore Hill, 6 gennaio 1919), è stato un politico statunitense. È stato il 26º nonché il più giovane presidente degli Stati Uniti e ha ricevuto il Premio Nobel per la pace. Il suo volto è uno dei quattro scolpiti sul monte Rushmore, assieme a quelli di George Washington, Thomas Jefferson e Abramo Lincoln.

 

[8] Prolifico scrittore dell’Ottocento, nato a Chelsea nel Massachusetts, e famoso, appunti, per racconti su poveri giovani onesti, coraggiosi e determinati che, dalla miseria, approdavano alla middle class.

[9] Bain Capital è il nome della società finanziaria nella quale aveva lavorato Mitt Romney. La società di private equity operava intervenendo in imprese in crisi, allo scopo di risanarle o più frequentemente di rottamarle.

 

[10] Il Presidente americano che si trovò a gestire, con esiti disastrosi, la prima parte della crisi economica degli anni ’30.

[11] Il “leveraged buyout” è una particolare tecnica di acquisizione di una società, che prevede la creazione di una società-veicolo (costituita ad hoc e detta NewCo). Nella NewCo affluiscono le risorse finanziarie; in una serie di fasi successive avviene la fusione, a seconda della convenienza fiscale e dalla tipologia di azienda e normativa.

 

[12] Le leggi Jim Crow furono delle leggi locali e dei singoli stati degli Stati Uniti d’America emanate tra il 1876 e il 1965. Di fatto servirono a creare e mantenere la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, istituendo uno status definito di “separati ma uguali” per i neri americani e per i membri di altri gruppi razziali diversi dai bianchi. Alcuni esempi di leggi Jim Crow furono la separazione nelle scuole pubbliche, nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto e la differenziazione dei bagni e dei ristoranti tra quelli per bianchi e quelli per neri. Anche all’interno dell’esercito venne applicata la segregazione razziale. L’origine della frase “Jim Crow” è stata spesso fatta risalire a Jump Jim Crow, una canzone-balletto caricatura degli afroamericani comparsa per la prima volta nel 1832

 

[13] “Carried interest” o “carry”, in finanza, particolarmente nella gestione di forme di investimento innovative, è la percentuale di profitti derivante dalla partecipazione ad un investimento di successo, che viene pagata al responsabile della gestione dell’investimento della società (una “private equity” od un “edge fund”). Essa si giustifica alla stregua di un compenso al gestore rivolto all’obbiettivo di massimizzare la prestazione del fondo di investimento .

[14] Internal Revenue Service, ovvero l’Agenzia delle Entrate americana.

[15] Di recente sono stati pubblicati negli Stati Uniti alcuni verbali di riunioni degli organismi decentrati della Fed nell’anno 2006. L’esistenza di una bolla immobiliare veniva in quelle sedi negata con allegra incoscienza. Sui loro blogs Krugman e Brad DeLong sono tornati su quel tema, facendo notare come, diversamente da quegli ambienti, loro avessero messo in guardia in quegli anni sulle dimensioni abnormi della crescita dei valori immobiliari.

[16] Si tratta di un Istituto di ricerca della “McKinsey&Company”, che è una delle maggiori società nel settore dei servizi e delle consulenze finanziarie del mondo. Fondata nel 1926 da James O McKinsey, all’epoca Professore di ragioneria all’Università di Chicago.

[17] Jobs = posti di lavoro.

[18] E’ l’espressione tedesca con la quale si indica il raggruppamento della “impresa piccola e media”, ovvero le politiche, i sostegni, i modi nei quali sono organizzare per il commercio con l’estero, la legislazione relativa, etc. Letteralmente significa “media categoria”.

[19] John Galt (da non confondere con un omonimo scrittore scozzese) è il personaggio di un romanzo di Ayn Rand: un ingegnere-inventore-self made man che prima inventa un motore straordinario e poi viene via da una fabbrica i cui proprietari avevano in mente regole troppo collettivistiche, per dar vita ad un movimento anticollettivistico e venire successivamente arrestato e addirittura torturato.  L’ossessione americana contro il collettivismo è tale che non sono rari casi letterari del genere, dove si immaginano situazioni apertamente inverosimili. Galt è il prototipo di un combattente dei principi buoni del capitalismo.

[20] E’ un buon esempio della natura discretamente ideologica del concetto americano di “middle-class”. Sono inclusi i lavoratori del settore manifatturiero, con salari inferiori a quelli europei e con una rete di sicurezza sociale – in particolare di assicurazione sanitaria – assai più difettosa.

[21] Come è noto per recessione si intende una diminuzione del PIL superiore ad un punto rispetto all’anno precedente, oppure – negli USA – un diminuzione del PIL di qualsiasi entità per due successivi trimestri. La depressione è sinonimo di un recessione più grave e duratura. Quindi, con il termine di Grande Recessione, Krugman si riferisce alla crisi in atto, in tal modo distinguendola dalla Grande Depressione degli anni ’30.

[22] Editorialista del Washington Post.

[23] Si trattava di una tradizionale posizione politica repubblicana. Non bisogna dimenticare che nel dopoguerra alcune rilevanti misure di politica sociale furono decise dai repubblicani, almeno sino a Nixon. Da un certo punto in poi la “compassion” prese anche le forme di una sorta di appello ad azioni dirette di protezione dei più poveri da parte della società e dei privati, ed i repubblicani attinsero a questa ispirazione, peraltro in una sorta di contrapposizione assai “americana” nei confronti degli stati assistenziali europei.

Il termine “compassion” viene da quella tradizione ma anche dal linguaggio dei democratici. E sarebbe abbastanza fuorviante cercare di non tradurlo alla lettera, pur avendo nella nostra lingua una chiara connotazione retorica. Quella retorica è un aspetto della politica americana; o meglio, in qualche modo non è sinora stata percepita tale.

[24] L’espressione nel testo (la moltitudine del “purga e fallisci”) ha un senso solo in riferimento ad una spiegazione che interviene successivamente, a proposito di una dichiarazione del Segretario al Tesoro della Amministrazione Hoover negli anni ’30.

[25] Penso che il senso sia questo. E’ una espressione (“econospeak”) che ho trovato usata, ad esempio, quando in un comizio improvvisato di Occupy Wall Street, mancando la apparecchiatura idonea, la gente si trasmetteva l’una con l’altra il contenuto delle parole del comiziante. E’ un “parlare economico” – come con un megafono – e al tempo stesso un passarsi le informazioni l’uno con l’altro.

[26] Congressional Budget Office, ovvero  l’ufficio che lavora sulle statistiche, principalmente relative al Bilancio, del Congresso. Si noti, per inciso, che questo ufficio – i cui lavori sono spessissimo citati non solo da Krugman, ma in generale nel dibattito economico e sociale – ha una rilevanza considerevole nella politica americana. A dirigerlo sono chiamati esperti di elevata qualità; inoltre ha una autorevolezza che, se non comporta il generale apprezzamento (i Repubblicani sono spesso critici) comunque è normalmente riconosciuta.

[26] Vedi nota n. 4 a pag. 10.

[27] “Pushback” può significare “resistenza” od anche “riposta retorica ad un argomento con il quale si è i disaccordo”. Nel senso, suppongo, di qualcosa di “orchestrato”.

[28] Per “partecipazione alla forza lavoro’” si intende il rapporto tra forza di lavoro – ovvero tutti coloro che sono al lavoro o lo ricercano attivamente in determinate classi di età – ed il numero complessivo dei componenti la popolazione  di quelle stesse classi di età.

[29] La quale condizione, in America, non è sinonimo di elevata istruzione, ma di istruzione medio-bassa.

[30] Per “employment benefits” si intendono le voci esterne al salario netto, ovvero i contributi sulle assicurazioni sanitaria e previdenziale anzitutto.

[31] Il fatto è che la assicurazione a carico delle imprese non è obbligatoria e le imprese hanno teso nei decenni  recenti a “risparmiare”. In alternativa, il lavoratore se la paga da solo, il che spiega anche perché ci sono tanti non-assicurati (quando un lavoratore è in buona salute, evita semplicemente di essere assicurato). La riforma sanitaria di Obama supera in buona parte questo enorme problema, nella misura in cui incentiva la assicurazione a carico delle imprese e rende obbligatoria comunque la assicurazione da parte degli individui, con contributi statali per i redditi che ne hanno bisogno. Il punto è che essa andrà in vigore assai lentamente.

[32] La traduzione con “gravemente” dà meglio il senso della ‘gaffe’ di Romney, di cui alla frase successiva. Il significato principale di “severe” è quello; mentre in italiano la ‘gravità’ è di una malattia, e la ‘severità’ normalmente non lo è.

[33] “tinfoil hats” significa letteralmente “cappelli con foglie di stagno”. Alle origini l’idea di confezionare i cappelli con foglie di stagno o di alluminio si pensava potesse aiutare ad allontanare l’influenza dei campi elettromagnetici; dai campi elettromagnetici si passò – almeno nel linguaggio – ad ipotizzarne una utilità contro le campagne di condizionamento mentale dei liberals o di altri attivismi anarcoidi (dalla teoria cospirativa sugli attentati alle Torri Gemelle, per l’appunto, a quella assai meno cospirativa dei cambiamenti climatici). Dunque, i “tinfoil hats” non sono propriamente lavaggi del cervello, ma rimedi ai presunti lavaggi.

[34] Nell’articolo del Washington Post c’è scritto che quello sarebbe il livello estremo della bugiardaggine pinocchiesca.

[35] Lett. il “Controllore dei fatti del Washington Post”.

[36] Come altre volte notato, Krugman si riferisce al fatto che la riforma sanitaria a suo tempo approvata nello Stato del Massachusetts, dove era Governatore Romney, si basava su alcuni meccanismi replicati da Obama per gli interi Stati Uniti. In particolare, essa si basava su alcuni obblighi per le compagnie assicurative, sul principio della obbligatorietà della adesione ad una assicurazione, sui contributi statali alle persone che non potevano permettersi di corrispondere a tale obbligo. Queste idee erano state elaborate dalla Heritage Foundation, uno dei principali “think tank” della destra americana. In seguito vennero in pratica ripudiate. Romney fu Governatore del Massachusetts dal 2002 al 2007, quando l’influenza della destra del Tea Party sulle politiche sociali repubblicane non era ancora così forte.

[37] Il riferimento ad Atlante deriva da“Atlas shrugged”, il libro di Ayn Rand, pseudonimo di  Alisa Zinov’yevna Rosenbaum O’Connor (San Pietroburgo, 2 febbraio 1905New York, 6 marzo 1982);  scrittrice, filosofa e sceneggiatrice statunitense di origine russa. La sua filosofia e la sua narrativa insistono sui concetti di individualismo, egoismo razionale (“interesse razionale”) e capitalismo, nonché sulla sua opposizione al comunismo ed a ogni forma di collettivismo socialista e fascista. Il pensiero cosiddetto “oggettivista” della Rand ha – come tutto il “libertarianism” – molteplici origini liberali, anarchiche, antitotalitarie ed anche, più singolarmente, capitalistiche. Ma il mito dell’industriale creativo soffocato dalla burocrazia e costretto ad una resistenza addirittura “militante” è certamente una passione americana, nel senso almeno che sarebbe arduo immaginarlo come tema di un romanzo nelle letterature latine.

 

[38] A proposito dell’uso un po’ rozzo dell’aggettivo “severe” da parte di Mitt Romney, vedi l’articolo precedente del 12 febbraio: “Very conservative syndrome”.

[39] Vedi il post del 5 febbraio di Krugman, relativo ai lavori di classificazione degli uomini politici americani sulla base delle loro condotte nelle votazioni congressuali da parte dei politologi americani di Voteview di Keith Poole.

[40] Secondo Wikipedia, il libro della Rand, tradotto in italiano con “La rivolta di Atlante”, con l’Ulisse di Joice e il Signore degli Anelli di Tolkien è uno dei più lunghi mai scritti.

[41] “The Times” è, in America, il modo corrente per riferirsi al New York Times. Dunque non va confuso con il quotidiano britannico The Times, oggi posseduto dalla News Corporation i Rupert Murdoch, né tantomeno con il settimanale americano Time. Il reportage del New York Times al quale Krugman si riferisce è dell’11 febbraio (“Persino i critici della rete della sicurezza sociale dipendono da essa in modo crescente’).

[42] In genere il sostantivo “government” – se non è specificato diversamente e se il contesto fa riferimento ai diversi livelli istituzionali (federale, statale e delle comunità locali) – è riferito al livello del governo nazionale federale.

[43] Come è noto “red” è il colore del Partito Repubblicano (e blu del Partito Democratico). Purtuttavia, sarà meglio non chiamarli “Stati Rossi”.

[44] “Social Security” è il nome del programma federale in materie pensionistica.

[45] “Small government” è l’opposto conservatore del “Big government” keynesiano. E’ il “governo piccolo”; nel caso dei temi di questo articolo, piccolo soprattutto nel senso delle politiche sociali e di redistribuzione del reddito.

[46] Espressione ironica che Krugman utilizza ormai dall’inizio delle politiche di austerità (‘turchina’ per nostre nostalgie collodiane).

[47] “Immediatamente cantierabili” è la traduzione di  “shovel-ready”, che sarebbe, letteralmente,  “pronti al badile”.

[48] Il testo offre una connessione con un post di Krugman apparso in questi giorni sul blog. In generale è frequente che gli articoli sul New York Times siano in sincronia con approfondimenti e ricerche pubblicati sul blog, e solitamente provvisti di un maggiore contesto analitico statistico.

D’ora innanzi, tutte le volte che sarà possibile, forniremo in calce alla traduzione dell’articolo anche la traduzione di quei posts.

[49] Giornalista, scrittore, editore e conduttore di orientamento progressista della trasmissione della CNN Crossfire, assieme al conservatore Pat Buchanan.

[50] Raggruppamento attivo di conservatori americani, una sorta di corrente del Partito Repubblicano.

[51] “Closet”, “segreto, in incognita”.

[52] Vedi i files di traduzione del blog, nota n. 1 a pag. 1, a proposito della “vodoo economics”.

[53] “Crank” è una espressione dagli svariatissimi significati – dalle anfetamine di diverso grado di purezza, all’organo sessuale maschile etc. – che in questo caso sta per “scienziato pazzo, stregone”.

[54] Il termine inglese “fiscal”, diversamente dall’analogo italiano “fiscale”, non indica soltanto qualcosa che attiene alle tasse (regole, aliquote, sgravi, esazione, evasione etc.), ma più in generale qualcosa che attiene alla finanza pubblica, ovvero anche all’utilizzo del denaro proveniente dalle tasse. Normalmente, quando di intende riferirsi alle tasse in senso stretto, si usa semplicemente il sostantivo “tax”, magari in funzione aggettivale (“tax policy”, ad esempio).

La “fiscal policy”, invece, non è solo la politica fiscale, ma più in generale la politica degli equilibri di bilancio e della spesa pubblica. (Ma si badi: se la “fiscal policy” è in senso lato la “politica finanziaria”, essa non include però gli aspetti che propriamente attengono alla politica monetaria. Ad esempio, gli acquisti di obbligazioni da parte di una Banca Centrale, o la svalutazione di una moneta, appartengono alla “monetary policy” e non alla “fiscal policy”.)

E’ evidente però che, anche in questo caso, la terminologia anglosassone sta entrando nel nostro linguaggio ordinario. Si può anzi dire che stiamo assistendo in questi mesi al fenomeno: ad esempio, i giornali hanno cominciato a scrivere  di una futura politica “fiscale” unica europea, evidentemente riferendosi in generale ad una politica della finanza pubblica. L’espressione è ancora zoppicante, giacché in lingua italiano il termine – come chiarisce il Devoto-Olli – sta a significare “Relativo al fisco; inerente all’attività finanziaria dello Stato, specialmente all’imposizione e riscossione di tributi”.

Di solito noi continuiamo a scegliere la soluzione più conservatrice, e dunque siamo costretti a tradurre “fiscal” con “della finanza pubblica”. Oppure, come in questo caso, ci riferiamo all’espressione “politiche di austerità”.

 

[55] La NASCAR, acronimo di National Association for Stock Car Auto Racing, è una famosa serie di gare automobilistiche che si disputa dal 1948 sul territorio degli Stati Uniti, del Canada e del Messico. In anni passati vi sono state puntate anche in Giappone (1996-8) ed Australia (1988), soprattutto a fini promozionali. La NASCAR è il secondo avvenimento sportivo più seguito, subito dopo il Super Bowl di football americano, attraverso i programmi televisivi in America. Le gare sono trasmesse in 150 nazioni e coprono 17 dei primi 20 posti nella classifica degli eventi sportivi più visti negli USA. (da Wikipedia)

[56] “Vodoo Economics” è una espressione krugmaniana di vecchia data, e si riferisce anch’essa al ricorso, frequente nelle posizioni di politica economica dei conservatori e repubblicani, a categorie “magiche”. L’espressione venne inizialmente utilizzata nei confronti della cosiddetta politica economica “dal lato dell’offerta” di Ronald Reagan, e si riferisce alla pretesa che politiche di sgravi fiscali nei confronti dei più ricchi e delle imprese, di per sé implichino necessariamente maggiori investimenti e dunque effetti allargati sull’economia. Krugman frequentemente ha mostrato,  con abbondanza di dati, l’infondatezza della pretesa della destra, peraltro tuttora abbastanza incontrastata, che gli anni di Reagan siano stati anni di particolare crescita. Naturalmente, ad una economia “vodoo” corrispondono idee “zombies”, ovvero concetti che si perpetuano anche dopo che dovrebbero essere stati certificati nella loro inconsistenza. Di recente è stato pubblicato negli Stati Uniti un libro di successo dell’economista australiano John Quiggin, che raccoglie una disanima di tali idee (“Zombie Economics . How dead ideas still walk among us”).

 

[57] Come è noto gli sgravi fiscali dell’epoca di Bush furono decisi con norme che andavano a scadenza con la fine del 2011. Tale scadenza è stata posposta  nell’accordo che si determinò all’ultimo momento utile dell’anno passato, ma il problema è ancora aperto. I programmi finanziari di tutti e quattro i candidati repubblicani ipotizzano semplicemente di rendere quegli sgravi definitivi. Al contrario, nella proposta avanzata dal Presidente Obama al Congresso con il discorso sui “posti di lavoro”, il recupero di quelle facilitazioni servirebbe a riequilibrare il bilancio ed a finanziare una politica di investimenti pubblici.

[58] Si riferisce ad alcuni commenti, da parte della Amministrazione Obama ed anche della Fed, sulla situazione economica nell’anno 2009, quando circolava l’illusione di una crisi di breve periodo.

[59] Vedi nota n. 1 all’articolo precedente del 1 marzo.

[60]Morning in America” è la definizione di una serie televisiva elettorale sulle televisioni commerciali nell’anno 1984, formalmente intitolata “Più orgogliosi, più forti, migliori”, che si caratterizzava per la frase di apertura “E’ di nuovo giorno in America”. La propaganda faceva parte della campagna elettorale di Ronald Reagan, nel confronto con Walter Mondale, che era stato Vicepresidente del predecessore di Reagan, Jimmy Carter.  Essa mostrava un montaggio di immagini di americani che andavano al lavoro, sullo sfondo di una narrazione pacata ed ottimistica che metteva in evidenza i miglioramenti che si erano ottenuti con la prima Presidenza Reagan nella situazione dell’economia e si concludeva con le parole “Perché mai dovremmo voler tornare al punto in cui eravamo appena meno di quattro anni fa?” E’ diventata sinonimo dell’epoca reaganiana, in particolare del suo secondo mandato presidenziale.

 

[61] Il G.I. Bill, donominazione informale del Servicemen’s Readjustment Act, fu ana legge americana del 1944 con la quale si assicurava ai reduci della guerra la possibilità di frequentare Università o scuole superiori ed un anno di sussidio di disoccupazione, nonché mutui per acquistare la casa o avviare imprese nell’industria e nella agricoltura.

[62] Il riferimento è ad un saggio del marzo 2012 degli economisti Henry Farrell (George Washington University) e John Quiggin (Università australiana di Queensland) dal titolo: “Consenso, dissenso ed idee economiche: ascesa e caduta del keynesismo durante la crisi economica”.

[63] Il “fracking” o “hydrofracking”, è lo sfruttamento della pressione di un fluido, in genere acqua, per creare e poi propagare una frattura in uno strato roccioso e catturare riserve di petrolio o di gas naturale.

[64] “The Times” è il quotidiano britannico che si stampa a Londra; mentre quando si leggono riferimenti al “Times” senza articolo, di solito è un modo accorciato di definire il “New York Times”. Ma “Time” al singolare è il nome di una famosa rivista americana, ed esistono altre centinaia di “times” in tutti i paesi di lingua inglese.

Il recente viaggio di David Cameron a Washington ha anche riguardato accordi in materia di sfruttamento delle riserve energetiche che sono stati salutati con soddisfazione in Inghilterra.

[65] Negli Stati Uniti un gallone equivale a 3,785 litri (mentre in Inghilterra a 4,546 litri).

[66] Il “first up” è il “secondo classificato”, ovvero il “primo dopo il primo”. Nei concorsi di bellezza, ad esempio, è più gentile dire che la seconda classificata è “first up”.

[67] Perché, per alcuni aspetti di fondo, la riforma voluta dal Presidente Obama ripercorre una precedente soluzione legislativa dello Stato del Massachusetts, quando Mitt Romney era Governatore.

[68] Ovvero, che lavorano in aziende che scelgono di non sostenere i costi dei sussidi assicurativi. Questa è in fatti una possibilità che è lasciata libera, sostanzialmente la assicurazione sul posti di lavoro è incoraggiata soltanto da meccanismi di facilitazione fiscale. E, come spiega l’articolo alla sua conclusione, il numero delle aziende che sceglie di accollarsi i sussidi è drasticamente in calo.

[69] Ovvero, le commissioni di tecnici che, stabilendo quei criteri di valutazione efficacia delle cure, scoraggerebbero spese superflue. Nella polemica della destra e del Tea Party, quello commissioni sono diventate dei “tribunali” burocratici che avrebbero il potere di stabilire quando “staccare la spina alla nonna”.

[70] Ovvero, un meccanismo, del quale si discusse a lungo nella prima parte del mandato di Obama, peraltro senza poi trovare un accordo legislativo, fondato sulla definizione di limiti più restrittivi e al tempo stesso sulla possibilità di ottenere concessioni a superare tali limiti che si sarebbero potute vendere ed acquistare. Meccanismo, in sostanza, che avrebbe fatto divenire conveniente il rispetto di tali limiti, facendo diventare le tecnologie più ecologiche un utile di impresa: chi ne fosse stato dotato avrebbe potuto ‘rivendere’ le autorizzazioni all’inquinamento alle imprese che restavano indietro, guadagnandoci e al tempo stesso costringendo le altre ad innovare. Il movimento ambientalista americano si divise sul giudizio su tale tecnica legislativa: alcuni – Krugman compreso – ne sostennero l’efficacia, altri si opposero.

[71] Giornalista, editorialista e scrittore americano di orientamento conservatore. Vincitore di un premio Pulitzer, negli anni ’80 veniva considerato come il più influente giornalista americano della storia, assieme a Walter Lippman.

[72] “Atlas shrugged” (letteralmente “Atlante alzò le spalle”), è il libro di Ayn Rand, pseudonimo di  Alisa Zinov’yevna Rosenbaum O’Connor (San Pietroburgo, 2 febbraio 1905New York, 6 marzo 1982);  scrittrice, filosofa e sceneggiatrice statunitense di origine russa. Il libro, verso il quale normalmente i conservatori hanno una forma di culto,  ha ad oggetto il singolarissimo e molto americano mito dell’industriale creativo soffocato dalla burocrazia e costretto ad una resistenza addirittura “partigiana”. Per l’appunto, nel libro – e naturalmente nel film – Dagny Taggart è l’eroina al fianco di John Galt, ed è anche Vicepresidente dalla Taggart Transcontinental, ovvero di una grande impresa privata del settore delle ferrovie. Di qua l’ironia di Krugman.

 

[73] Thomas Jefferson (Shadwell, 13 aprile 1743Charlottesville, 4 luglio 1826) è stato un politico, scienziato e architetto statunitense. È stato il 3º presidente degli Stati Uniti d’America ed è inoltre considerato uno dei padri fondatori della nazione. Fortemente segnato dal pensiero illuminista, fu fautore di uno Stato laico e liberale. Il movimento degli “Illuminati di Baviera”, invece, era un raggruppamento massonico creato nel 1776 ad Ingolstadt (Alta Baviera) e scomunicato successivamente dal papa Pio VI; qua sinonimo della Massoneria in generale.

[74] Come è noto è il termine sintetico che indica le misure di sostegno all’economia approvate con legge dal Congresso nell’anno 2009 su proposta del Presidente Obama. La paradossale teoria cospirativa, in questo caso, consiste nel sostenere che la Amministrazione Obama avrebbe operato per ‘ritardare’ gli effetti dello ‘stimulus’, in modo da produrre il massimo dell’effetto alla vigilia delle elezioni presidenziali.

[75] Rush Limbaugh è il più noto presentatore di talk shows radiofonici di orientamento conservatore.

[76] “Etch A Sketch” è la denominazione inglese del gioco in voga negli anni Ottanta (“ecran magique” o “lavagna magica” in Francia ed in Italia) consistente in una lavagnetta di plastica contenente polvere (di alluminio), sulla quale si possono incidere segni attraverso l’uso di due manopole, segni che possono essere cancellati con una scossa che redistribuisce la polvere sulla superficie del piccolo schermo. L’espressione è stata recentemente usata, onestamente quanto infelicemente, da un consigliere di Romney, che in quel modo ha spiegato come l’uomo politico repubblicano dovrebbe ‘ripulire’ la sua agenda da tutte le follie reazionarie delle primarie, una volta che si fosse aggiudicata la nomination.

[77] Potrebbe tradursi “Stai (stare) sul tuo terreno”, ed è una vera e propria corrente legislativa – che deriva ed aggrava una vecchia legislazione di origine britannica che veniva definita la “dottrina del castello”, ovvero la legge per la quale la propria casa può essere considerata come il proprio “castello” – secondo la quale è possibile l’uso di forme di difesa letali, anche attaccando per primi quando c’è il ragionevole convincimento di essere minacciati.

[78] Letteralmente, proprio letteralmente: “Associazione Nazionale del  Fucile”

[79] Letteralmente: Alleanza Americana per la Cauzione. Si deve considerare che, in modi che non è facile comprendere e sintetizzare, le attività connesse con il pagamento di cauzioni, le garanzie sulle cauzioni e il recupero di garanzie sono molto vaste e complesse, e richiedono un vero e proprio corpo di operatori finanziari e di sicurezza.  La legislazione americana, sotto questi aspetti, è del tutto atipica nel mondo – simile a quella delle Filippine e a pochi altri Stati. Spesso, quello che negli USA è previsto, nella gran parte degli altri paesi è fatto oggetto di specifico divieto.

[80] AT&T Inc. (abbreviazione di “American Telephone and Telegraph Incorporated”) è una compagnia telefonica statunitense con sede a San Antonio, Texas.

[81] Grande società americana nel comparto della logistica, diventata il numero uno al mondo dopo la recente fusione con il colosso olandese TNT.

[82] Il termine giuridico “mandato”, che appunto equivale all’obbligo per le persone di acquistare l’assicurazione sanitaria – obbligo che la legge di Obama ha previsto per tutti, prevedendo al tempo stesso aiuti economici a coloro che non possono permettersela – ha il significato letterale di un sorta di “delega” alle persone ad agire, per così dire, “in rappresentanza” di una previsione legislativa. Nella cultura giuridica americana, si può arguire, quella fattispecie non costituisca un “obbligo” del tutto identico al pagare le tasse – perché la salute resta formalmente una scelta degli individui all’interno di un mercato privatistico. Ciononostante, essa non è neppure una mera “possibilità”, essendo vietato il non dotarsi di assicurazione. E’ così che si è inventata questa forma giuridica del “mandato”, ovvero della delega agli individui ad agire in un modo obbligato in rappresentanza di una volontà legislativa. Un bizantinismo apparentemente necessario, che però ha aperto un certo varco alla valutazione di legittimità della Corte Suprema. L’alternativa sarebbe stata il cosiddetto “sistema con un unico pagatore”, ovvero un sistema nel quale è lo Stato che  acquista e fornisce la assicurazione alle persone. I progressisti, naturalmente, avrebbero preferito questa seconda soluzione, ma in mancanza di meglio hanno nel complesso accolto il compromesso secondo il quale gli “agenti” restano gli individui, sia pure assistiti dallo Stato quando non hanno i soldi.

[83] Giudice della Corte Suprema, nominata nel giugno del 2009 da Obama. E’ la prima ispanica nonché la terza donna che ne fa parte.

 

[84] “Mistery meat” è un piatto di carne così indecifrabile, nel colore e nel sapore, da essere “carne misteriosa”.

[85] “bait and switch” non è esattamente il “nascondino”; è la tattica del “prodotto civetta”, dell’attrarre con qualcosa di ingannevole (letteralmente “gettare un esca e spostarsi”).

[86] “Maestro” era il termine con il quale ci si riferiva a Greenspan nei suoi ‘anni d’oro’.

[87] E’ la traduzione letterale, ma normalmente l’alternativa è l’utilizzo del termine inglese. Significa una semplice politica di ampliamento della base monetaria attraverso l’acquisto di bonds da parte della Banca Centrale. Normalmente si tratta di “short-time bonds”; l’anno passato la Fed però decise anche un inconsueto acquisto di bonds a lungo termine, in mezzo a vivaci contestazioni della destra.

[88] “no-brainer” dovrebbe essere “stupidaggine” anche nel senso di una cosa da poco …

[89] Pseudonimo di  Alisa Zinov’yevna Rosenbaum O’Connor (San Pietroburgo, 2 febbraio 1905New York, 6 marzo 1982);  scrittrice, filosofa e sceneggiatrice statunitense di origine russa. La sua filosofia e la sua narrativa insistono sui concetti di individualismo, egoismo razionale (“interesse razionale”) e valori del capitalismo, nonché sulla sua opposizione al comunismo ed a ogni forma di collettivismo socialista e fascista. Il pensiero cosiddetto “oggettivista” della Rand ha – come tutto il “libertarianism” – molteplici origini liberali, antitotalitarie, talora anarchiche ed anche, più singolarmente, capitalistiche.

[90] Vedi nota successiva a pag. 92.

[91] Un ufficio del Congresso americano incaricato di esaminare questioni relative al finanziamento ed alle spese di fondi pubblici.

[92] “To cannibalize” ha in inglese il principale significato di trasferire i pezzi di qualcosa e riutilizzarli in qualcosa d’altro (ad esempio, togliere pezzi da una macchina e utilizzarli in una diversa macchina). Non mi pare che esista un termine precisamente con lo stesso significato in italiano, ed esso non è certo il non frequente “cannibalizzare”.

[93] Il Canale di Erie fu inaugurato nella sua completezza il 26 ottobre 1825 e collega l’Hudson al lago Erie. Questo collegamento, proposto per la prima volta già nel 1699, lungo circa 584 km, permise alle imbarcazioni l’accesso ai grandi laghi interni da New York diventando così un’importante via di commercio. Ai giorni nostri è invece utilizzato in maggior misura a fini turistici.

 

[94] Più precisamente, si riferisce alla assenza di ogni iniziativa in materia di sostegno alle famiglie che non potevano più permettersi le rate sui mutui.

[95] “Confidence fairy” – che traduciamo “fata turchina della fiducia” – è una espressione krugmaniana che si riferisce alla pretesa con la quale in questi anni si sono giustificate le politiche di austerità. Esse, a prescindere da qualsiasi descrizione del meccanismo economico che viene supposto, avrebbero il potere quasi magico di creare condizioni di maggiore fiducia nel consumatori e negli investitori, come se intervenisse una ‘fata’, un potere magico. Traduciamo “fairy” con “fata turchina” per nostalgia collodiana.

[96] I “Pell grants” sono, appunto, i sussidi di diritto allo studio per gli studenti universitari bisognosi. Il nome viene da Claiborne Pell, un Senatore democratico del Rhode Island, che diede al nome alla legislazione relativa nell’anno 1965.

 

[97] A noi può sembrare ancora un po’ strano, ma si riferisce ad industrie di alta tecnologia, ad esempio nella famosa Silicon Valley, dove un parte importante del lavoro dipendente ha contenuti formativi molto elevati.

[98] La Heritage Foundation è un istituto di ricerca e di ‘propaganda ideologica’ con sede a Washington che ha per scopi “formulare e promuovere politiche conservatrici basate sui principi della libertà di impresa, del contenimento delle funzioni pubbliche, della libertà individuale, dei tradizionali valori americani e di una forte difesa nazionale”.Essa assunse un ruolo guida nel movimento conservatore durante gli anni di Reagan e gode dei finanziamenti dei gruppi economici della destra, in primis dei fratelli Koch.

 

[99] La crisi in corso viene definita da Krugman o Grande recessione o Minore Depressione. Tecnicamente, la crisi degli anni Trenta fu la Grande Depressione.

[100] Per chi legge questi articoli è ormai superfluo ricordare che l’espressione “0,1 per cento”  sta a significare la quota microscopica ma ricchissima e potentissima dei magnati americani.

[101] Milton Friedman (Brooklyn, 31 luglio 1912San Francisco, 16 novembre 2006). I suoi maggiori contributi alla teoria economica riguardano gli studi sulla teoria quantitativa della moneta, sulla teoria del consumo e sul ruolo e l’inefficacia della curva di Phillips nel lungo periodo. Secondo Friedman, l’inflazione è solo un fenomeno monetario e non è utile nel lungo periodo per ridurre la disoccupazione. La sua regola di politica monetaria, incentrata nel conseguimento del controllo della crescita della massa monetaria, è stata utilizzata dalla Federal Reserve negli Stati Uniti ed anche dalla Banca centrale europea (BCE). Le sue teorie hanno esercitato una forte influenza sulle scelte del governo britannico di Margaret Thatcher e di quello statunitense di Ronald Reagan, degli anni ottanta. Friedman (Wikipedia)

 

[102] “goldbug” è una espressione del linguaggio finanziario americano. Letteralmente “scarabei d’oro”, si riferisce a color che prediligono gli acquisti di oro anziché di azioni o obbligazioni. Implicitamente, si riferisce probabilmente anche ai nostalgici del gold standard. Diciamo a tutti i ‘pre-monetaristi’.

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