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La soluzione dell’1 per cento (New York Times 25 aprile 2013)

The 1 Percent’s Solution

By PAUL KRUGMAN

Published: April 25,

Economic debates rarely end with a T.K.O. But the great policy debate of recent years between Keynesians, who advocate sustaining and, indeed, increasing government spending in a depression, and austerians, who demand immediate spending cuts, comes close — at least in the world of ideas. At this point, the austerian position has imploded; not only have its predictions about the real world failed completely, but the academic research invoked to support that position has turned out to be riddled with errors, omissions and dubious statistics.

Yet two big questions remain. First, how did austerity doctrine become so influential in the first place? Second, will policy change at all now that crucial austerian claims have become fodder for late-night comics?

 

 

On the first question: the dominance of austerians in influential circles should disturb anyone who likes to believe that policy is based on, or even strongly influenced by, actual evidence. After all, the two main studies providing the alleged intellectual justification for austerity — Alberto Alesina and Silvia Ardagna on “expansionary austerity” and Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff on the dangerous debt “threshold” at 90 percent of G.D.P. — faced withering criticism almost as soon as they came out.

And the studies did not hold up under scrutiny. By late 2010, the International Monetary Fund had reworked Alesina-Ardagna with better data and reversed their findings, while many economists raised fundamental questions about Reinhart-Rogoff long before we knew about the famous Excel error. Meanwhile, real-world events — stagnation in Ireland, the original poster child for austerity, falling interest rates in the United States, which was supposed to be facing an imminent fiscal crisis — quickly made nonsense of austerian predictions.

Yet austerity maintained and even strengthened its grip on elite opinion. Why?

 

Part of the answer surely lies in the widespread desire to see economics as a morality play, to make it a tale of excess and its consequences. We lived beyond our means, the story goes, and now we’re paying the inevitable price. Economists can explain ad nauseam that this is wrong, that the reason we have mass unemployment isn’t that we spent too much in the past but that we’re spending too little now, and that this problem can and should be solved. No matter; many people have a visceral sense that we sinned and must seek redemption through suffering — and neither economic argument nor the observation that the people now suffering aren’t at all the same people who sinned during the bubble years makes much of a dent.

 

But it’s not just a matter of emotion versus logic. You can’t understand the influence of austerity doctrine without talking about class and inequality.

 

What, after all, do people want from economic policy? The answer, it turns out, is that it depends on which people you ask — a point documented in a recent research paper by the political scientists Benjamin Page, Larry Bartels and Jason Seawright. The paper compares the policy preferences of ordinary Americans with those of the very wealthy, and the results are eye-opening.

Thus, the average American is somewhat worried about budget deficits, which is no surprise given the constant barrage of deficit scare stories in the news media, but the wealthy, by a large majority, regard deficits as the most important problem we face. And how should the budget deficit be brought down? The wealthy favor cutting federal spending on health care and Social Security — that is, “entitlements” — while the public at large actually wants to see spending on those programs rise.

 

You get the idea: The austerity agenda looks a lot like a simple expression of upper-class preferences, wrapped in a facade of academic rigor. What the top 1 percent wants becomes what economic science says we must do.

 

Does a continuing depression actually serve the interests of the wealthy? That’s doubtful, since a booming economy is generally good for almost everyone. What is true, however, is that the years since we turned to austerity have been dismal for workers but not at all bad for the wealthy, who have benefited from surging profits and stock prices even as long-term unemployment festers. The 1 percent may not actually want a weak economy, but they’re doing well enough to indulge their prejudices.

 

And this makes one wonder how much difference the intellectual collapse of the austerian position will actually make. To the extent that we have policy of the 1 percent, by the 1 percent, for the 1 percent, won’t we just see new justifications for the same old policies?

I hope not; I’d like to believe that ideas and evidence matter, at least a bit. Otherwise, what am I doing with my life? But I guess we’ll see just how much cynicism is justified.

La soluzione dell’1 per cento, di Paul Krugman

New York Times 25 aprile 2013

 

Raramente i dibattiti economici terminano con ‘KO tecnici’. Ma il grande dibattito politico degli anni recenti tra i Keynesiani, che sono a favore di una prolungata e, per la verità, crescente spesa pubblica  nelle depressioni, e i patiti dell’austerità, che chiedono tagli immediati alla spesa, ci si avvicina – almeno nel mondo delle idee. A questo punto, la posizione dei patiti dell’austerità è implosa; non solo le loro previsioni sul mondo reale sono completamente fallite, ma la ricerca accademica invocata a sostegno di quella posizione si è scoperto era zeppa di errori, omissioni e statistiche dubbie. 

Tuttavia restano aperte due grandi domande. La prima, come è successo anzitutto che la dottrina dell’austerità diventasse così influente? La seconda, ora che le cruciali pretese dei filo austeri sono diventate materia da comiche finali, la politica cambierà del tutto?

Sulla prima domanda: il dominio dei patiti dell’austerità negli ambienti influenti dovrebbe dare fastidio a tutti coloro che amano credere che la politica sia basata, o almeno fortemente influenzata, da prove evidenti. Dopo tutto, i due principali studi che forniscono la pretesa giustificazione intellettuale dell’austerità – quello di Alberto Alesina e Silvia Ardagna [1] sulla “austerità espansiva” e quello di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sulla pericolosa “soglia” del debito al 90 per cento del PIL – incontrarono critiche feroci appena vennero pubblicati [2].

E gli studi non hanno retto alla prova. Sulla fine del 2010 il Fondo Monetario Internazionale ha rielaborato lo studio di Alesina-Ardagna con il supporto di dati migliori ed ha fatto marcia indietro sulle loro scoperte, nel mentre molti economisti avanzavano domande di fondo sullo studio di Reinhart-Rogoff, molto prima che si venisse a sapere del famoso errore di Excel [3] . Nel frattempo, i fatti del mondo reale – la stagnazione in Irlanda, il ‘ragazzo-prodigio’ [4] dell’austerità, la caduta dei tassi di interesse negli Stati Uniti, che si pensava stessero per fronteggiare una imminente crisi della finanza pubblica – hanno rapidamente mostrato l’insensatezza delle previsioni dei filo austeri.

Tuttavia l’austerità ha mantenuto e persino rafforzato la sua presa sulle classi dirigenti. Perché?

La risposta in parte sicuramente consiste nel desiderio generale di guardare all’economia come ad un racconto moraleggiante, di trasformarla in una storia di eccessi e delle loro conseguenze. Abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità, dice quel racconto, ed ora ne paghiamo il prezzo inevitabile. Gli economisti possono spiegare sino alla nausea che questo è sbagliato, che la ragione per la quale abbiamo una disoccupazione di massa non è quella di una spesa troppo grande nel passato ma di una spesa troppo piccola oggi, e che questo problema può e deve essere risolto. Non serve; molta gente ha la percezione viscerale che abbiamo peccato e che dobbiamo cercare una redenzione per il tramite della sofferenza – e né l’argomentazione economica né la constatazione per la quale le persone che oggi stanno soffrendo non sono le stesse che commisero i peccati durante gli anni della bolla, spostano le cose di una virgola.

Ma non si tratta soltanto di una faccenda di emotività in opposizione alla logica. Non si può comprendere l’influenza della dottrina dell’austerità senza parlare di classi e di ineguaglianza.

Che cosa vuole la gente, alla fine, dalla politica economica? La risposta, si scopre, dipende dalle persone a cui lo chiedete – un aspetto documentato da un recente articolo di ricerca dei politologi Benjamin Page, Larry Bartels e Jason Seawright. L’articolo mette a confronto le preferenze politiche degli americani normali con quelle degli straricchi, e i risultati aprono gli occhi.

Dunque, la media degli americani è in qualche modo preoccupata dei deficit di bilancio, il che non sorprende dato il costante sbarramento dei racconti terrificanti sul deficit nei notiziari, ma i ricchi, la loro ampia maggioranza, considerano i deficit come il più importante problema con il quale ci misuriamo. E come dovremmo abbattere il deficit di bilancio? I ricchi propendono per i tagli alla spesa federale sulla assistenza sanitaria e sulla Previdenza Sociale – vale a dire, sui “diritti” – mentre l’opinione pubblica in generale vuol veder crescere la spesa su quei programmi.

Avete capito il punto: l’agenda dell’austerità sembra molto una semplice espressione delle preferenze delle classi dominanti, impacchettata in una apparenza di rigore accademico. Quello che l’1 per cento dei più ricchi vuole, diventa quello che la scienza economica dice si debba fare.

Una depressione perdurante serve per davvero gli interessi delle persone facoltose? Questo è dubbio, dal momento che una economia in forte crescita è generalmente positiva per quasi tutti. Quello che è vero, tuttavia, è che, dal momento in cui siamo passati all’austerità, sono stati anni tristi per i lavoratori ma non così cattivi per i ricchi, che hanno beneficiato di profitti e di valori delle azioni in crescita, anche se la disoccupazione a lungo termine si inaspriva. Può darsi che l’1 per cento dei più ricchi non voglia una economia debole, ma per loro è conveniente indulgere nei propri pregiudizi.

E questo induce a chiedersi quanta differenza in effetti provocherà il collasso intellettuale della posizione dei patiti dell’austerità. Nella misura in cui abbiamo una politica dell’1 per cento,  da parte dell’1 per cento e a favore dell’1 per cento, non ci troveremo di fronte semplicemente a nuove giustificazioni per le stesse vecchie politiche?

Spero di no; vorrei credere che le idee ed i fatti, almeno un po’, contino. Altrimenti, cosa sto facendo della mia esistenza? Ma ho l’impressione che ci accorgeremo proprio quanto il cinismo sia giustificato.

 



[1] Reinhart e Rogoff ci sono già noti (vedi articoli del 18 e del 21 aprile). Questi sono invece i due economisti di origine italiana; Alesina è docente all’Università di Harvard; la Ardagna è stata docente ad Harvard ed oggi ha un incarico presso un istituto finanziario londinese. Nel gennaio del 2012  il Sole24Ore pubblicò un articolo sulla polemica tra Krugman ed Ardagna, nel quale la Ardagna difendeva le sue posizioni senza particolare intransigenza ed escludendo di averle mai pensate come un rimedio universale. In sostanza, era il periodo nel quale il sostegno alle scelte del Governo Monti era assai ampio.

 

[2] Il link nel testo inglese è con uno studio di due ricercatori del Roosevelt Institute – Arjun Jayadev e Michael Konczal – che polemizzarono con le posizioni dei due economisti italiani con un saggio del 30 agosto 2010.

[3] Vedi l’articolo di Krugman del 18 aprile.

[4] “Poster child” è il ragazzo-sandwich che faceva la pubblicità a prodotti indossando a tracolla due cartelli pubblicitari. Nel caso dell’Irlanda  Krugman non si riferisce solo ad un ruolo pubblicitario; l’Irlanda in più occasioni è stata presentata come l’esempio della risposta vincente di politiche ‘austere’. Sennonché tutti gli entusiasmi si spensero dopo pochi mesi, quando i cenni di ripresa tornarono ad invertirsi rapidamente. Nel 2012 Mario Monti Presidente del Consiglio ospitò il premier irlandese con molti elogi, anche se a quell’epoca il trend si era già rivelato del tutto deludente. Ma in Europa ci sono vari personaggi che, per mera inerzia, continuano a parlare di un immaginario miracolo irlandese. In questi due anni Krugman ha contrapposto a questi esempi immaginari, l’unico esempio realmente di successo dell’Islanda, dove però si è seguita una politica opposta (di recente sul caso dell’Islanda ha scritto su Repubblica Federico Rampini).

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