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La trappola della disoccupazione (New York Times 21 aprile 2013)

 

The Jobless Trap

By PAUL KRUGMAN

Published: April 21, 2013

F.D.R. told us that the only thing we had to fear was fear itself. But when future historians look back at our monstrously failed response to economic depression, they probably won’t blame fear, per se. Instead, they’ll castigate our leaders for fearing the wrong things.

 

For the overriding fear driving economic policy has been debt hysteria, fear that unless we slash spending we’ll turn into Greece any day now. After all, haven’t economists proved that economic growth collapses once public debt exceeds 90 percent of G.D.P.?

 

Well, the famous red line on debt, it turns out, was an artifact of dubious statistics, reinforced by bad arithmetic. And America isn’t and can’t be Greece, because countries that borrow in their own currencies operate under very different rules from those that rely on someone else’s money. After years of repeated warnings that fiscal crisis is just around the corner, the U.S. government can still borrow at incredibly low interest rates.

 

But while debt fears were and are misguided, there’s a real danger we’ve ignored: the corrosive effect, social and economic, of persistent high unemployment. And even as the case for debt hysteria is collapsing, our worst fears about the damage from long-term unemployment are being confirmed.

Now, some unemployment is inevitable in an ever-changing economy. Modern America tends to have an unemployment rate of 5 percent or more even in good times. In these good times, however, spells of unemployment are typically brief. Back in 2007 there were about seven million unemployed Americans — but only a small fraction of this total, around 1.2 million, had been out of work more than six months.

 

Then financial crisis struck, leading to a terrifying economic plunge followed by a weak recovery. Five years after the crisis, unemployment remains elevated, with almost 12 million Americans out of work. But what’s really striking is the huge number of long-term unemployed, with 4.6 million unemployed more than six months and more than three million who have been jobless for a year or more. Oh, and these numbers don’t count those who have given up looking for work because there are no jobs to be found.

It goes without saying that the explosion of long-term unemployment is a tragedy for the unemployed themselves. But it may also be a broader economic disaster.

The key question is whether workers who have been unemployed for a long time eventually come to be seen as unemployable, tainted goods that nobody will buy. This could happen because their work skills atrophy, but a more likely reason is that potential employers assume that something must be wrong with people who can’t find a job, even if the real reason is simply the terrible economy. And there is, unfortunately, growing evidence that the tainting of the long-term unemployed is happening as we speak.

 

One piece of evidence comes from the relationship between job openings and unemployment. Normally these two numbers move inversely: the more job openings, the fewer Americans out of work. And this traditional relationship remains true if we look at short-term unemployment. But as William Dickens and Rand Ghayad of Northeastern University recently showed, the relationship has broken down for the long-term unemployed: a rising number of job openings doesn’t seem to do much to reduce their numbers. It’s as if employers don’t even bother looking at anyone who has been out of work for a long time.

 

To test this hypothesis, Mr. Ghayad then did an experiment, sending out résumés describing the qualifications and employment history of 4,800 fictitious workers. Who got called back? The answer was that workers who reported having been unemployed for six months or more got very few callbacks, even when all their other qualifications were better than those of workers who did attract employer interest.

So we are indeed creating a permanent class of jobless Americans.

And let’s be clear: this is a policy decision. The main reason our economic recovery has been so weak is that, spooked by fear-mongering over debt, we’ve been doing exactly what basic macroeconomics says you shouldn’t do — cutting government spending in the face of a depressed economy.

It’s hard to overstate how self-destructive this policy is. Indeed, the shadow of long-term unemployment means that austerity policies are counterproductive even in purely fiscal terms. Workers, after all, are taxpayers too; if our debt obsession exiles millions of Americans from productive employment, it will cut into future revenues and raise future deficits.

Our exaggerated fear of debt is, in short, creating a slow-motion catastrophe. It’s ruining many lives, and at the same time making us poorer and weaker in every way. And the longer we persist in this folly, the greater the damage will be.

 

La trappola della disoccupazione, di Paul Krugman

New York Times 21 aprile 2013

Franklin Delano Roosevelt ci diceva che la sola cosa di cui dovevamo avere paura era la paura stessa. Ma quando gli storici del futuro ripenseranno al nostro mostruoso fallimento nella risposta alla depressione economica, probabilmente non daranno la colpa alla paura in se stessa. Piuttosto, daranno la colpa ai dirigenti per aver avuto paura delle cose sbagliate.

Perché la paura che ha dominato la guida della politica economica è stata l’isteria del debito, la paura che senza abbattere la spesa saremmo finiti prima o poi nella situazione della Grecia. Dopo tutto, non avevano dimostrato gli economisti che la crescita economica collassa quando il debito pubblico eccede il 90 per cento del PIL [1]?

Ebbene, si scopre che la famosa linea rossa sul debito era un reperto di statistiche dubbie, rafforzato da pessimi calcoli. E l’America non è e non può essere come la Grecia, perché i paesi che si indebitano nella loro valuta agiscono sulla base di regole del tutto diverse rispetto a quelli che si basano sulla valuta di qualcun altro. Dopo anni di ripetute messe in guardia su una crisi della finanza pubblica che era proprio dietro l’angolo, il Governo degli Stati Uniti può ancora indebitarsi a tassi di interesse incredibilmente bassi.

Ma mentre le paure sul debito erano e sono fuorvianti, c’è un pericolo vero che abbiamo ignorato: gli effetti corrosivi, sociali ed economici, di una perdurante alta disoccupazione. E proprio mentre l’isteria sul debito è giunta al punto limite, i nostri peggiori timori sui danni della disoccupazione di lungo periodo vengono confermati.

Ora, un po’ di disoccupazione in una economia in continuo cambiamento, è inevitabile. L’America di oggi tende ad avere una tasso di disoccupazione del 5 per cento o più persino nei tempi buoni. In questi tempi buoni, tuttavia, i periodi di disoccupazione sono tipicamente di breve durata. Nel 2007 c’erano circa sette milioni di americani disoccupati – ma solo una piccola frazione di questo totale, attorno ad un milione e 200 mila, erano stati senza lavoro per più di sei mesi.

Poi è arrivato il colpo della crisi, che ha portato ad una terribile caduta dell’economia seguita da una ripresa debole. Cinque anni dopo la crisi, la disoccupazione resta elevata, con quasi 12 milioni di americani senza lavoro. Ma quello che è davvero impressionante è il gran numero di disoccupati a lungo termine, con 4 milioni e 600 mila disoccupati da più di sei mesi e più di tre milioni che sono rimasti senza lavoro per un anno e più. Si aggiunga che questi dati non considerano coloro che hanno smesso di cercar lavoro perché non ci sono posti disponibili.

Non è il caso di dire che l’esplosione della disoccupazione a lungo termine è una tragedia anzitutto per i disoccupati. Ma il disastro per l’economia può essere anche maggiore.

La domanda fondamentale è se i lavoratori che sono stati disoccupati per un lungo periodo alla fine non verranno considerati inoccupabili, come oggetti guasti che nessuno vuol comprare. Questo potrebbe accadere a causa della atrofizzazione della loro professionalità, ma una ragione più probabile è che i potenziali datori di lavoro sospettino che ci sia qualcosa che non va bene in individui che non riescono a trovare un lavoro, anche se il motivo vero sono le condizioni terribili dell’economia. E ci sono, sfortunatamente, prove crescenti che questa sorta di guasto nei disoccupati a lungo termine stia avvenendo in questo momento.

Alcune di queste prove vengono dalla relazione tra nuovi posti di lavoro e disoccupazione. Normalmente questi due dati procedono in un rapporto inverso: maggiore offerta di nuovi posti di lavoro, minori americani disoccupati. E questa tradizionale relazione resta vera se si guarda alla disoccupazione di breve periodo. Ma come hanno mostrato di recente William Dickens e Rand Ghayad della Northeastern University, la relazione si è spezzata per i disoccupati di lungo periodo: un numero crescente di posti di lavoro non sembra avere effetto sul loro numero. E’ come se i datori di lavoro neanche si dessero pena di prendere in considerazione qualcuno che è rimasto a lungo senza lavoro.

Per verificare questa ipotesi, Ghayad ha fatto successivamente un esperimento, spedendo i curricula che descrivevano le qualifiche e la storia lavorativa di 4.800 lavoratori immaginari. Chi è stato richiamato? E’ successo che i lavoratori che erano stati disoccupati per sei mesi e più hanno avuto pochissime risposte, anche quando le loro qualifiche erano migliori di quelle di coloro che hanno effettivamente provocato l’interesse dei datori di lavoro.

Dunque, in realtà stiamo creando una classe permanente di americani senza lavoro.

E fatemi essere chiaro: questa è una decisione politica. La principale ragione per la quale la nostra ripresa è stata così debole è che, spaventati dai seminatori di paure sul debito, abbiamo fatto esattamente quello che la fondamentale teoria economica dice che non si dovrebbe fare – tagliare la spesa pubblica a fronte di un’economia depressa.

E’ arduo sovrastimare quanto questa politica sia autodistruttiva. In effetti, l’ombra della disoccupazione di lungo periodo dice che le politiche dell’austerità sono contro producenti persino in termini di pura finanza pubblica. I lavoratori, dopo tutto, sono anch’essi contribuenti; se la nostra ossessione sul debito allontana milioni di americani dall’occupazione produttiva, finirà col tagliare le entrate e con l’accrescere i deficit del futuro.

La nostra esagerata paura del debito, in sostanza, sta provocando una catastrofe al rallentatore. Manda in rovina molte persone, e allo stesso tempo ci rende più poveri e fragili in ogni senso. E più a lungo persistiamo in questa follia, più grande sarà il danno.


 


[1] Il riferimento è al tema che in queste settimane è stato centrale nel blog di Krugman ed anche nel dibattito economico statunitense: la scoperta e successivamente la ammissione da parte degli economisti Reinhart e Rogoff di aver commesso vari errori, compresi banali errori di calcolo, nella presentazione della loro teoria, secondo la quale un debito pubblico superiore al 90 per cento del PIL comprometterebbe la crescita economica. Reinhart e Rogoff sono gli autori di un famoso libro, in Italia edito da “Il Saggiatore” con il titolo “”Questa volta è diverso: otto secoli di follia finanziaria”. La teoria del ‘tetto’ del 90 per cento è stata però formulata in un saggio successivo che ha avuto grande fortuna. Ed ecco Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff:

R&R

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