Letture e Pensieri sparsi, di Marco Marcucci

Il dibattito del 2009 sullo “stimulus” (25 settembre 2013)

Agli inizi del 2009 il tema principale per Krugman divenne quello della critica all’insufficienza dello “stimulus” di Obama. Praticamente tutti gli ingredienti del dibattito economico degli anni successivi si stavano disponendo sul tavolo: quanto tempo ci sarebbe voluto per tornare davvero alla “produzione potenziale” ed alla piena occupazione; quanto intervento pubblico sarebbe stato necessario per coprire il “buco” della domanda privata; stava per innescarsi un processo inflattivo oppure era vero il contrario, e si era entrati in un periodo prolungato di bassa inflazione e di bassi tassi di interesse; la mancanza di determinazione di Obama in quei mesi non avrebbe comportato una prolungata latenza della crisi e, in aggiunta, non avrebbe comportato un prevedibile insuccesso alle elezioni di medio termine? Mi permetto di consigliare una lettura, o una rilettura, di quegli articoli del gennaio 2009; essi, tra l’altro, aiutano a comprendere la più recente forte presa di posizione di Krugman a favore della candidatura di Janet Yellen  alla presidenza della Fed, e in particolare la sua chiara e tenace ostilità alla candidatura di Larry Summers.

Nei primi giorni di gennaio 2009, che erano anche i primi giorni della sua Presidenza,  Obama aveva dichiarato: “Io non credo che sia troppo tardi per cambiare direzione, ma sarà così se non prenderemo una iniziativa drastica prima possibile. Se non sarà fatto niente, questa recessione potrà trascinarsi per anni”. Krugman apprezzò quelle parole, ma notò,  nell’articolo sul NYT dell’8 gennaio 2009, che il programma copriva circa un terzo della caduta complessiva della domanda. E solo per il 60 per cento erano interventi di incremento effettivo della spesa, per il resto si trattava di riduzioni fiscali alle imprese ad ai singoli, assai meno direttamente efficaci su investimenti e consumi. Si delineava inoltre un confronto nel Congresso che avrebbe ulteriormente ridotto l’efficacia delle misure di sostegno; in particolare non si sarebbe fatto niente per dare sostegno agli Stati, che senza aiuti avrebbero addirittura dovuto ridurre la spesa, con forti tagli dell’occupazione pubblica, particolarmente nel settore educativo. Per finire, il piano concentrava in un anno o due le misure di sostegno, nell’ipotesi che il resto del lavoro lo avrebbe fatto una ripresa dell’economia, che si supponeva realistica sin dalla fine del 2010.

Capita da noi di leggere spesso ricostruzioni assai sommarie sulla politica economica americana di quegli anni. Oggi che la prosopopea dell’austerità europea è abbastanza declinante, il giudizio più frequente è che l’America capì l’urgenza di un intervento sulla domanda e che questo le ha consentito, diversamente dall’Europa, di  uscire più rapidamente dal periodo recessivo. Ma le cose sono assai più controverse.

Intanto, l’andamento reale della spesa pubblica americana – cioè, quella federale, ma anche quella degli Stati e delle comunità locali – è complessivamente diverso da quello che si racconta. Per farsene un’idea si veda la tabella pubblicata col post del 13 settembre scorso di Krugman, nella quale si paragona l’andamento degli acquisti in beni e servizi in questi anni con quello che si avrebbe avuto se si fossero messi in atto interventi simili a quelli successivi alla recessione del 2001, quando era Presidente Bush:

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In pratica, c’è stata anche una austerità americana, nella misura in cui le misure federali di sostegno all’economia non sono state sufficienti, non hanno compensato la riduzione di spesa ai livelli degli Stati e delle comunità locali e sono durate per un periodo troppo breve. Krugman calcola che un incremento della spesa pubblica come quello del 2001 avrebbe prodotto una conseguenza sul PIL tra il 3 ed il 3,75 per cento del PIL. Il tasso di disoccupazione sarebbe oggi “ben al di sotto del 6 per cento, forse al di sotto anche del 5,5 per cento”.

Del resto, in quei giorni, Christy Romer e Jared Bernstein, due economisti di spicco del gruppo di consulenti presidenziali, prevedevano che con quel programma nell’ultimo trimestre del 2011 il tasso di disoccupazione sarebbe stato ancora insufficiente a definire una vera e propria ripresa, attorno al 6,3 per cento. Sennonché le cose sono andate ancora peggio, considerato che nel 2013 i tasso di disoccupazione è ancora sopra il 7 per cento e considerato soprattutto che c’è un quantità di “scoraggiati” – nella popolazione adulta nella principale età lavorativa (24, 54 anni) – che non cerca attivamente lavoro perché non lo troverebbe.

Se un bilancio dello stimolo venisse poi espresso in relazione al PIL potenziale (ovvero, quale effetto le misure di sostegno hanno avuto in relazione al PIL quale sarebbe se la crisi non tenesse ferma una parte del potenziale produttivo statunitense), il risultato è in questo grafico che proviene dalla Fed e che Krugman commenta nel post del 3° agosto 2013, dal sintetico titolo “Troppo piccolo e scomparso troppo presto”):

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In conclusione, gli scritti del 2009 erano purtroppo profetici. Semmai, si dovrebbe forse aggiungere, per difetto.

Quanto alla ostilità esplicita alla candidatura di Summers alla Presidenza della Fed (come è noto, Summers si è successivamente ritirato dalla corsa), c’è da considerare che in quelle decisioni del 2009 egli ebbe un ruolo principale.

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