Letture e Pensieri sparsi, di Marco Marcucci

Cosa è cambiato in questa Grande Recessione (3 ottobre 2013)

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Come forse si sarà notato, negli ultimi mesi sono apparsi vari contributi di Krugman che indicano novità importanti nel suo orizzonte di ricerca. Dopo alcuni anni di insistenza tenace sul tema delle politiche monetarie e della finanza pubblica effettivamente antirecessive e di denuncia del disastro delle politiche di austerità – periodo ed argomenti raccolti poi nel libro “Fuori da questa crisi, adesso!” – sembrava quasi di poter intuire che nuove domande si sarebbero fatte avanti. Siamo nella seconda più grave crisi della storia dell’ultimo secolo e dalla prima si venne definitivamente fuori, in termini economici, con il riarmo e con la guerra; ovvero, rischiando tutto in termini di umanità e di cultura. La discussione sul come uscirne non può esaurire le risposte sul perché è avvenuto di nuovo, ed anche sulle diversità odierne.

In particolare con l’articolo sul NYT del  20 giugno (“Profitti senza produzione) Krugman ha affrontato la questione in modo esplicito: è cambiato qualche elemento di fondo negli assetti contemporanei dell’economia? Più precisamente, nel mondo di oggi, è cambiato qualcosa di sostanziale nel confronto tra una terapia keynesiana della depressione ed una ‘non-terapia’ ispirata all’idea di schumpeteriana memoria della “crisi salutare”? O addirittura: il fatto che una parte rilevante della produzione manifatturiera si sia spostata dai paesi avanzati ai mercati emergenti, ha modificato alla radice la stessa possibilità di concepire una ripresa come un puro e semplice ritorno alla produzione potenziale precedente alla crisi?

Oltre all’articolo suddetto, e sotto altre angolazioni, Krugman ha affrontato il tema in varie occasioni. Si vedano, nell’ordine:  “I robot e i ‘padroni del vapore’”, New York Times 9 dicembre 2012;  “Simpatia per i Luddisti”, New York Times 13 giugno 2013;  “Globalizzazione e macroeconomia”, post del 18 giugno 2013;  “In che senso questi sono tempi diversi?”, post del 19 giugno 2013;  “Sulla economia politica della stagnazione permanente”, 5 luglio 2013;  “La Dinamo e Big Data”, post del  18 agosto 2013; “Commercio e stagnazione secolare”, post del 26 settembre 2013; “Dovrebbe preoccuparci un rallentamento della crescita commerciale?”, post del 30 settembre 2013.

Gli argomenti sono molteplici e qua vorrei ricordare solo quello che sinora sembra il principale.

Osserva Krugman che il volume del commercio mondiale di beni manifatturieri come percentuale della produzione manifatturiera è certamente cresciuto notevolmente a partire dagli anni ’70 (in precedenza aveva solo recuperato i crolli bellici e post bellici ed era tornato ai valori dei primi dieci anni del secolo); ma tale crescita in misura prevalente ha portato giovamento nei paesi più avanzati, dove è rimasta la parte fondamentale della ideazione, del commercio e del consumo dei nuovi beni. Inoltre, non è detto che non possano aver luogo, a seguito della automazione, fenomeni di ritorno di segmenti manifatturieri di alta specializzazione.

Quello che però è cambiato è certamente il modo nel quale il primato dei mercati avanzati, e degli Stati Uniti anzitutto, si esprime. Per dirlo con le parole di Krugman: “Cosa c’è dunque realmente di diverso nell’America del ventunesimo secolo? La risposta più rilevante, direi, è l’importanza crescente delle rendite monopolistiche: profitti che non rappresentano ritorni degli investimenti, e riflettono invece il valore del dominio sui mercati. Qualche volta il dominio sembra meritato, qualche volta no; ma, in ogni caso, l’importanza crescente delle rendite sta producendo una nuova sconnessione tra profitti e produzione e può essere una causa del protrarsi della crisi.

E ancora: “Cosa intendo per il ruolo delle rendite? Si consideri quanto è cambiata l’identità della società di maggior valore in America. Per un lungo periodo fu la General Motors, poi la Exxon, poi la IBM. Erano imprese con attività produttive molto visibili: la GM aveva più di 400.000 occupati, il che era impressionante se si considera che la complessiva forza lavoro nazionale era molto più piccola di quella che abbiamo oggi. La Exxon aveva le raffinerie del petrolio. La IBM era un società della tecnologia dell’informazione, ma aveva ancora molte delle caratteristiche di un tradizionale gigante manifatturiero, con molti stabilimenti ed ampie maestranze ben pagate. Ma ora abbiamo la Apple, che a fatica ha degli occupati ed a fatica fa qualcosa di manifatturiero. La società cerca, con sforzi disperati di pubbliche relazioni, di sostenere che essa ha la responsabilità indiretta di una quantità di posti di lavoro negli Stati Uniti, ma non è importante. La realtà è che la società è fondamentalmente costruita sulla tecnologia, sul design e sul marchio”.

Sicuramente ci sarà il modo di seguire attentamente questa nuova fase di ricerca. Ma il punto di partenza sembra chiaro: molto è cambiato. Ma quei cambiamenti non significano che ridurre la spesa pubblica in un periodo di depressione sia oggi meno insensato di quanto fosse nel passato. Piuttosto significano che potrebbero essere entrati in gioco fattori ulteriori – oltre alla finanziarizzazione senza regole, una forza crescente delle rendite di monopolio – che in fondo rendono anche più grande ed urgente il tema della qualità dell’indirizzo pubblico dell’economia.  O, se vogliamo dirlo in modo meno impegnativo, il tema della ampiezza e della qualità della domanda pubblica, del riconoscimento dei diritti ai quali la spesa pubblica deve corrispondere: di lavoro, di salute, di istruzione, di ambiente.

Un libro uscito in queste settimane anche in Italia: “Big Data”, di Viktor Meyer-Schönberger e Kenneth Cukier, ha implicazioni dirette con il ragionamento di Krugman sulla relativa ‘immaterialità’ dei monopoli americani di questi decenni. E’ un libro che si legge con piacere; realistico e per niente fantascientifico nelle sue previsioni, nonché moderatamente preoccupato per gli effetti di questa nuova frontiera. Soprattutto i primi capitoli, diciamo la spiegazione della ‘teoria’ del Big Data, fanno impressione. In sostanza, mettendo assieme gli oceani di informazioni che si possono organizzare e che ormai esistono, raccolte da miliardi di ‘agenti’ sul territorio (Internet, telefoni, sistemi informatizzati sugli autoveicoli, satelliti, attività commerciali, assicurazioni, televisioni, sistemi sanitari …. insomma, tutto)  si possono scoprire ‘correlazioni’ con domande alle quali cerchiamo di rispondere. Correlazioni significa una cosa del tutto diversa dal procedere cercando le concatenazioni logiche di cause e di effetti; una correlazione può essere istruttiva totalmente a prescindere con il nesso diretto che ha con quanto si sta cercando di capire. Appunto, come un battito d’ali d’una farfalla e un terremoto dall’altra parte del mondo (espressione che mi ha sempre provocato come una fanciullesca meraviglia per tutto quello che non ho mai saputo della scienza odierna) . Il punto è che queste correlazioni esistono – non quella della farfalla, spero! –  e un po’ alla volta disegnano nuovi orizzonti dell’economia, perché danno risposte più precise ed anticipate delle quali l’economia può fare uno straordinario uso.

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