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I baroni della banda larga, di Paul Krugman (New York Times 16 febbraio 2014)

 

Barons of Broadband

FEB. 16, 2014 Paul Krugman  

Comcast Deals

 

zzzz 51

 

 

Last week’s big business news was the announcement that Comcast, a gigantic provider of cable TV and high-speed Internet service, has reached a deal to acquire Time Warner, which is merely huge. If regulators approve the deal, Comcast will be an overwhelmingly dominant player in the business, with around 30 million subscribers.

So let me ask two questions about the proposed deal. First, why would we even think about letting it go through? Second, when and why did we stop worrying about monopoly power?

On the first question, broadband Internet and cable TV are already highly concentrated industries, with a handful of corporations accounting for most of the customers. Once upon a time antitrust authorities, looking at this situation, would probably have been trying to cut Comcast down to size. Letting it expand would have been unthinkable.

Comcast’s chief executive says not to worry: “It will not reduce competition in any relevant market because our companies do not overlap or compete with each other. In fact, we do not operate in any of the same ZIP codes.” This is, however, transparently disingenuous. The big concern about making Comcast even bigger isn’t reduced competition for customers in local markets — for one thing, there’s hardly any effective competition at that level anyway. It is that Comcast would have even more power than it already does to dictate terms to the providers of content for its digital pipes — and that its ability to drive tough deals upstream would make it even harder for potential downstream rivals to challenge its local monopolies.

 

The point is that Comcast perfectly fits the old notion of monopolists as robber barons, so-called by analogy with medieval warlords who perched in their castles overlooking the Rhine, extracting tolls from all who passed. The Time Warner deal would in effect let Comcast strengthen its fortifications, which has to be a bad idea.

 

Interestingly, one cliché seems to be missing from the boilerplate arguments being deployed on behalf of this deal: I haven’t seen anyone arguing that the deal would promote innovation. Maybe that’s because anyone trying to make that argument would be met with snorts of derision. In fact, a number of experts — like Susan Crawford of Benjamin N. Cardozo School of Law, whose recent book “Captive Audience” bears directly on this case — have argued that the power of giant telecommunication companies has stifled innovation, putting the United States increasingly behind other advanced countries.

 

And there are good reasons to believe that this isn’t a story about just telecommunications, that monopoly power has become a significant drag on the U.S. economy as a whole.

There used to be a bipartisan consensus in favor of tough antitrust enforcement. During the Reagan years, however, antitrust policy went into eclipse, and ever since measures of monopoly power, like the extent to which sales in any given industry are concentrated in the hands of a few big companies, have been rising fast.

At first, arguments against policing monopoly power pointed to the alleged benefits of mergers in terms of economic efficiency. Later, it became common to assert that the world had changed in ways that made all those old-fashioned concerns about monopoly irrelevant. Aren’t we living in an era of global competition? Doesn’t the creative destruction of new technology constantly tear down old industry giants and create new ones?

The truth, however, is that many goods and especially services aren’t subject to international competition: New Jersey families can’t subscribe to Korean broadband. Meanwhile, creative destruction has been oversold: Microsoft may be an empire in decline, but it’s still enormously profitable thanks to the monopoly position it established decades ago.

Moreover, there’s good reason to believe that monopoly is itself a barrier to innovation. Ms. Crawford argues persuasively that the unchecked power of telecom giants has removed incentives for progress: why upgrade your network or provide better services when your customers have nowhere to go?

And the same phenomenon may be playing an important role in holding back the economy as a whole. One puzzle about recent U.S. experience has been the disconnect between profits and investment. Profits are at a record high as a share of G.D.P., yet corporations aren’t reinvesting their returns in their businesses. Instead, they’re buying back shares, or accumulating huge piles of cash. This is exactly what you’d expect to see if a lot of those record profits represent monopoly rents.

 

It’s time, in other words, to go back to worrying about monopoly power, which we should have been doing all along. And the first step on the road back from our grand detour on this issue is obvious: Say no to Comcast.

 

 

 

 

 

 

 

I baroni della banda larga, di Paul Krugman

New York Times 16 febbraio 2014

 

 

La notizia economica della scorsa settimana è stata l’annuncio che Comcast, un gigantesco provider di TV via cavo e del servizio Internet ad alta velocità, ha raggiunto un accordo per l’acquisto di Time Warner, che semplicemente significa una enormità. Se il regolatore approverà l’accordo, Comcast sarà in assoluto il protagonista dominante nel mondo degli affari, con circa 30 milioni di abbonati.

Consentitemi di porre due domande sull’intesa proposta. La prima, perché dovremmo anche solo pensare di permettere che vada sino in fondo? La seconda, quando e perché abbiamo deciso di smettere di preoccuparci del potere dei monopoli?

Sulla prima domanda, Internet a banda larga e la TV via cavo sono già attività altamente concentrate, con una manciata di società che realizzano gran parte della clientela. Un tempo le autorità antitrust, occupandosi di una situazione del genere, avrebbero probabilmente cercato di ridimensionare Comcast.  Lasciarla crescere ulteriormente sarebbe stato impensabile.

Il direttore esecutivo di Comcast dice di non preoccuparsi: “Ciò non ridurrà la competizione in nessun importante mercato, perché le nostre società non si sovrappongono e non competono l’una con l’altra. Di fatto, non operiamo in nessun identico distretto [1]”. Tuttavia, questo è manifestamente ingenuo. La grande preoccupazione del rendere Comcast ancora più grande non è la ridotta competizione sulla clientela nei mercati locali – da un certo punto di vista, a quel livello è difficile che ci sia in alcun modo una qualche reale competizione. Il punto è che Comcast avrebbe un potere persino più grande di quello che ha già nel dettare ai provider i termini del contenuto dei propri condotti digitali – e quella sua possibilità di imporre duri accordi commerciali a monte, renderebbe persino più difficile per i suoi potenziali rivali a valle lo sfidare i suoi monopoli locali.

Il punto è che Comcast calza a pennello con la vecchia definizione dei monopolisti come ‘baroni briganti’ [2], chiamati così per analogia con i signorotti medioevali che appollaiati nei loro castelli che dominavano il corso del Reno, obbligavano ad un pedaggio tutti i passanti. L’accordo con Time Warner consentirebbe in effetti a Comcast di rafforzare le sue fortificazioni, e quella non può che essere una pessima idea.

In modo interessante, un cliché  sembra sia scomparso  dagli argomenti consueti che vengono schierati  a favore di questo accordo: non ho visto nessuno sostenere che l’accordo promuoverebbe innovazione. Forse questo dipende dal fatto che tutti coloro che provassero ad avanzare tale argomento andrebbero incontro a risate di scherno. Di fatto, un certo numero di esperti  – come Susan Crawford della School of Low  Benjamin N. Cardoso, il cui recente libro “Audience prigioniera” è direttamente attinente a questo caso –  ha sostenuto che il potere delle società giganti della telecomunicazione ha soffocato l’innovazione, collocando in modo sempre più netto gli Stati Uniti al rimorchio delle altre nazioni avanzate.

E ci sono buone ragioni per credere che questa storia non riguardi soltanto le telecomunicazioni, che il potere monopolistico sia un fattore che trattiene in modo significativo l’economia degli Stati Uniti nel suo complesso. 

C’era un tempo un consenso bipartisan a favore di una applicazione severa delle norme antitrust. Durante gli anni di Reagan, tuttavia, la politica antitrust si eclissò e da allora l’entità del potere monopolistico, ovvero la misura in cui le vendite in ogni particolare settore sono concentrate nelle mani di poche grandi società, è cresciuta rapidamente.

Agli inizi, gli argomenti contro la vigilanza sul potere monopolistico indicavano i pretesi benefici delle fusioni in termini di efficienza economica. Successivamente, divenne comune asserire che il mondo era cambiato in modi che rendevano tutte quelle preoccupazioni sui monopoli che un tempo erano di moda, irrilevanti. Non stiamo vivendo in un’epoca di competizione globale? La distruzione creativa delle nuove tecnologie non abbatte in continuazione i vecchi giganti dell’industria e ne crea di nuovi?

La verità, tuttavia, è che molti beni e specialmente servizi non sono soggetti alla competizione internazionale: le famiglie del New Jersey non possono abbonarsi alla banda larga coreana. Nel frattempo, la distruzione creativa è stata anche troppo aggressivamente affermata: Microsoft può essere un impero in declino, ma è ancora fonte di enormi profitti grazie alla posizione di monopolio che è stata stabilita decenni orsono.

Inoltre, ci sono buone ragioni per credere che il monopolio sia una barriera alla innovazione in quanto tale. La Crawford sostiene persuasivamente che il potere incontrollato dei giganti delle telecomunicazioni abbia rimosso gli incentivi al progresso: perché aggiornare le vostra rete o fornire servizi migliori quando i vostri clienti non sanno dove andare?

Ed è possibile che lo stesso fenomeno stia giocando un ruolo importante nel trattenere l’economia nel suo complesso. Un enigma della esperienza recente degli Stati Uniti è stata la disconnessione tra profitti ed investimenti. I profitti sono ad un livello record come quota del PIL, tuttavia le imprese non stanno reinvestendo i loro utili nei loro affari. Piuttosto, le società stanno riacquistando le loro quote azionarie [3], o accumulando montagne di denaro contante. Questo è esattamente quello che ci si aspetta se quei profitti senza precedenti rappresentano rendite di monopolio.

In altre parole, è venuto il momento di tornare a preoccuparsi del potere monopolistico, cosa che non avremmo mai dovuto smettere di fare. Ed il primo passo per tornare sulla nostra strada dopo il grande sviamento su questo tema è evidente: dire no a Comcast.  


[1] “ZIP code” è il codice postale degli Stati Uniti (“ZIP” sta per “zoning improvement plan”). In questo caso mi pare che le Poste non c’entrino,  l’espressione è solo indicativa di ‘aree analoghe’.

[2] “Robber baron” significa letteralmente “baroni briganti”. Storicamente è riferito a quelle posizioni industriali di monopolio che consentivano (ai Carnegie, ai Rockfeller, ad Astor ed a Vanderbilt …) di praticare metodi disinvolti quando non criminali. Politicamente è talora usato per indicare i settori della destra ‘ultraliberista’. Sarebbe molto calzante una espressione che si riferisse alle ‘ragioni materiali’ del loro potere assoluto, come nella nostra ottocentesca espressione di ‘padroni del vapore’. Ma, come spiega K. subito dopo, l’origine di quella espressione proviene proprio dai ‘baroni’ tedeschi lungo il corso del fiume Reno, in sostanza da Ghino di Tacco teutonici.

[3] Il fenomeno del “riacquisto delle quote” deriva dal fatto che una riduzione dell’offerta di tali quote incrementa il valore di quelle che sono ancora disponibili, oppure elimina il rischio che gli azionisti possano mirare a posizioni di controllo (Investopedia)

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