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La tradizione fiscale americana, di Paul Krugman (New York Times 27 marzo 2014)

 

America’s Taxation Tradition

MARCH 27, 2014 Paul Krugman

As inequality has become an increasingly prominent issue in American discourse, there has been furious pushback from the right. Some conservatives argue that focusing on inequality is unwise, that taxing high incomes will cripple economic growth. Some argue that it’s unfair, that people should be allowed to keep what they earn. And some argue that it’s un-American — that we’ve always celebrated those who achieve wealth, and that it violates our national tradition to suggest that some people control too large a share of the wealth.

And they’re right. No true American would say this: “The absence of effective State, and, especially, national, restraint upon unfair money-getting has tended to create a small class of enormously wealthy and economically powerful men, whose chief object is to hold and increase their power,” and follow that statement with a call for “a graduated inheritance tax on big fortunes … increasing rapidly in amount with the size of the estate.” 

 

Who was this left-winger? Theodore Roosevelt, in his famous 1910 New Nationalism speech.

The truth is that, in the early 20th century, many leading Americans warned about the dangers of extreme wealth concentration, and urged that tax policy be used to limit the growth of great fortunes. Here’s another example: In 1919, the great economist Irving Fisher — whose theory of “debt deflation,” by the way, is essential in understanding our current economic troubles — devoted his presidential address to the American Economic Association largely to warning against the effects of “an undemocratic distribution of wealth.” And he spoke favorably of proposals to limit inherited wealth through heavy taxation of estates.

 

Nor was the notion of limiting the concentration of wealth, especially inherited wealth, just talk. In his landmark book, “Capital in the Twenty-First Century,” the economist Thomas Piketty points out that America, which introduced an income tax in 1913 and an inheritance tax in 1916, led the way in the rise of progressive taxation, that it was “far out in front” of Europe. Mr. Piketty goes so far as to say that “confiscatory taxation of excessive incomes” — that is, taxation whose goal was to reduce income and wealth disparities, rather than to raise money — was an “American invention.”

 

And this invention had deep historical roots in the Jeffersonian vision of an egalitarian society of small farmers. Back when Teddy Roosevelt gave his speech, many thoughtful Americans realized not just that extreme inequality was making nonsense of that vision, but that America was in danger of turning into a society dominated by hereditary wealth — that the New World was at risk of turning into Old Europe. And they were forthright in arguing that public policy should seek to limit inequality for political as well as economic reasons, that great wealth posed a danger to democracy.

 

So how did such views not only get pushed out of the mainstream, but come to be considered illegitimate?

Consider how inequality and taxes on top incomes were treated in the 2012 election. Republicans pushed the line that President Obama was hostile to the rich. “If one’s priority is to punish highly successful people, then vote for the Democrats,” said Mitt Romney. Democrats vehemently (and truthfully) denied the charge. Yet Mr. Romney was in effect accusing Mr. Obama of thinking like Teddy Roosevelt. How did that become an unforgivable political sin?

 

You sometimes hear the argument that concentrated wealth is no longer an important issue, because the big winners in today’s economy are self-made men who owe their position at the top of the ladder to earned income, not inheritance. But that view is a generation out of date. New work by the economists Emmanuel Saez and Gabriel Zucman finds that the share of wealth held at the very top — the richest 0.1 percent of the population — has doubled since the 1980s, and is now as high as it was when Teddy Roosevelt and Irving Fisher issued their warnings.

 

We don’t know how much of that wealth is inherited. But it’s interesting to look at the Forbes list of the wealthiest Americans. By my rough count, about a third of the top 50 inherited large fortunes. Another third are 65 or older, so they will probably be leaving large fortunes to their heirs. We aren’t yet a society with a hereditary aristocracy of wealth, but, if nothing changes, we’ll become that kind of society over the next couple of decades.

In short, the demonization of anyone who talks about the dangers of concentrated wealth is based on a misreading of both the past and the present. Such talk isn’t un-American; it’s very much in the American tradition. And it’s not at all irrelevant to the modern world. So who will be this generation’s Teddy Roosevelt?

 

La tradizione fiscale americana, di Paul Krugman

New York Times 27 marzo 2014

 

Come l’ineguaglianza è diventata un tema sempre più importante nel dibattito politico americano, c’è stato un rifiuto furioso da parte della destra. Alcuni conservatori sostengono che concentrarsi sull’ineguaglianza sarebbe imprudente, alzare le tasse sui redditi alti bloccherà la crescita economica. Alcuni sostengono che non è giusto, che alle persone dovrebbe essere consentito di tenersi quello che guadagnano. Ed alcuni sostengono che è ‘non-americano’ – abbiamo sempre elogiato coloro che ottenevano ricchezza – e che mettere in evidenza che alcune persone controllano una fetta troppo ampia della ricchezza viola la nostra tradizione nazionale.

Ed hanno ragione. Gli americani non si sono mai espressi in questo modo: “L’assenza di uno Stato efficace e, in particolare, la moderazione nazionale nei confronti di coloro che ingiustamente hanno troppi soldi ha teso a creare una piccola classe di uomini enormemente ricchi ed economicamente potenti, il cui obbiettivo principale è mantenere ed aumentare il loro potere.” E, il discorso prosegue con un appello per “una imposta di successione progressiva sulle grandi fortune … che sia decisamente crescente nell’importo in relazione alla dimensione dei patrimoni.”

Chi era questo estremista di sinistra? Theodore Roosevelt, nel suo famoso discorso sul ‘nuovo nazionalismo’ del 1910.

La verità è che agli inizi del XX Secolo, molti dirigenti americani misero in guardia contro i pericoli di una concentrazione estrema della ricchezza, e spinsero perché la politica fiscale fosse utilizzata per contenere la crescita delle grandi fortune. Ecco un altro esempio: nel 1919, il grande economista Fisher – la cui teoria sulla ‘deflazione da debito’, per inciso, è essenziale nella comprensione dei nostri attuali guai economici – rivolse il suo indirizzo presidenziale alla American Economic Association in gran parte per mettere in guardia contro gli effetti di “una distribuzione non democratica della ricchezza”. E si espresse a favore delle proposte per limitare la ricchezza ereditaria attraverso una pesante tassazione dei patrimoni.

E il concetto della limitazione della concentrazione di ricchezze, soprattutto di ricchezze ereditarie, non fu il suo solo argomento. Nel suo libro, che costituisce un punto di riferimento decisivo, l’economista Thomas Piketty mette in evidenza che l’America, che introdusse una tassa sui redditi nel 2013 ed una tassa di successione nel 1916, fu alla guida della tendenza all’elevamento della tassazione progressiva, che era “assai distante al confronto” dell’Europa. Piketty si spinge così avanti da affermare che “la tassazione dei redditi eccessivi con effetti di confisca” – vale a dire, una tassazione il cui obbiettivo era la riduzione del reddito e delle disparità di ricchezza, piuttosto che il raccogliere denaro – fu una “invenzione americana”.

E questa invenzione ha le sue radici storiche nella visione di Jefferson di una società egualitaria di piccoli agricoltori. All’epoca in cui Teddy Roosevelt tenne il suo discorso, molti americani riflessivi comprendevano non solo che l’estrema ineguaglianza rendeva insensata quella visione, ma che l’America rischiava di trasformarsi in una società dominata dalla ricchezza ereditaria – che il Nuovo Mondo correva il pericolo di trasformarsi nella Vecchia Europa. Ed erano espliciti nel sostenere che la politica dello Stato avrebbe dovuto cercare di limitare l’ineguaglianza per ragioni politiche oltre che economiche, che le grandi ricchezze costituivano un rischio per la democrazia.

Come è accaduto dunque che tali punti di vista non solo siano stati respinti dalle tendenze prevalenti, ma siano arrivati ad essere considerati illegittimi?

Si consideri come l’ineguaglianza e le tasse sui redditi più elevati sono state trattate durante le elezioni del 2012. I repubblicani sono stati all’offensiva contro un Presidente Obama dichiarato ostile verso i ricchi. “Se la priorità di qualcuno è punire le persone che hanno grande successo, allora voti per i democratici”, disse Mitt Romney. I democratici negarono l’addebito con energia (e con pieno fondamento). Tuttavia il signor Romney stava in effetti accusando Obama di pensarla come Teddy Roosevelt. In che modo questo era diventato un peccato politico imperdonabile?

Talvolta si sente l’argomento che la concentrazione della ricchezza non è più un tema importante, giacché i grandi vincenti nell’economia dei nostri giorni sono gli uomini che si sono fatti da soli,  che devono la loro posizione dall’essere ai vertici della scala dei redditi provenienti dalla attività lavorativa, non dalle eredità. Ma è una opinione che è datata di una generazione. Il nuovo lavoro degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman scopre che la quota di ricchezza detenuta da coloro che stanno davvero al vertice – dai più ricchi che costituiscono lo 0,1 per cento della popolazione – è raddoppiata a partire dagli anni ’80, ed è oggi elevata come quando Teddy Roosevelt ed Irving Fisher pronunciavano i loro ammonimenti.

Noi non sappiamo quanta di quella ricchezza sia ereditaria. Ma è interessante osservare la lista di Forbes sugli americani più ricchi. Secondo un mio calcolo approssimativo, circa un terzo dei primi 50 ha ereditato grandi fortune. Un altro terzo sono sessantacinquenni o più vecchi ancora, cosicché verosimilmente stanno per lasciare grandi fortune ai loro eredi. Non siamo ancora una società con una aristocrazia ereditaria di ricchi, ma, se niente cambia, lo diventeremo in un paio di decenni.

In poche parole, la demonizzazione di chiunque parli dei pericoli della concentrazione della ricchezza è basata su una lettura fuorviante sia del passato che del presente. Tali discorsi non sono ‘non-americani’; sono assolutamente nella tradizione americana. E questo non è affatto irrilevante nel mondo contemporaneo. Chi sarà, dunque, il Teddy Roosevelt di questa generazione?

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