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Il panico di Piketty, di Paul Krugman (New York Times 24 aprile 2014)

 

The Piketty Panic

APRIL 24, 2014 Paul Krugman

 “Capital in the Twenty-First Century,” the new book by the French economist Thomas Piketty, is a bona fide phenomenon. Other books on economics have been best sellers, but Mr. Piketty’s contribution is serious, discourse-changing scholarship in a way most best sellers aren’t. And conservatives are terrified. Thus James Pethokoukis of the American Enterprise Institute warns in National Review that Mr. Piketty’s work must be refuted, because otherwise it “will spread among the clerisy and reshape the political economic landscape on which all future policy battles will be waged.”

Well, good luck with that. The really striking thing about the debate so far is that the right seems unable to mount any kind of substantive counterattack to Mr. Piketty’s thesis. Instead, the response has been all about name-calling — in particular, claims that Mr. Piketty is a Marxist, and so is anyone who considers inequality of income and wealth an important issue.

I’ll come back to the name-calling in a moment. First, let’s talk about why “Capital” is having such an impact.

Mr. Piketty is hardly the first economist to point out that we are experiencing a sharp rise in inequality, or even to emphasize the contrast between slow income growth for most of the population and soaring incomes at the top. It’s true that Mr. Piketty and his colleagues have added a great deal of historical depth to our knowledge, demonstrating that we really are living in a new Gilded Age. But we’ve known that for a while.

No, what’s really new about “Capital” is the way it demolishes that most cherished of conservative myths, the insistence that we’re living in a meritocracy in which great wealth is earned and deserved.

For the past couple of decades, the conservative response to attempts to make soaring incomes at the top into a political issue has involved two lines of defense: first, denial that the rich are actually doing as well and the rest as badly as they are, but when denial fails, claims that those soaring incomes at the top are a justified reward for services rendered. Don’t call them the 1 percent, or the wealthy; call them “job creators.”

 

 

But how do you make that defense if the rich derive much of their income not from the work they do but from the assets they own? And what if great wealth comes increasingly not from enterprise but from inheritance?

What Mr. Piketty shows is that these are not idle questions. Western societies before World War I were indeed dominated by an oligarchy of inherited wealth — and his book makes a compelling case that we’re well on our way back toward that state.

So what’s a conservative, fearing that this diagnosis might be used to justify higher taxes on the wealthy, to do? He could try to refute Mr. Piketty in a substantive way, but, so far, I’ve seen no sign of that happening. Instead, as I said, it has been all about name-calling.

I guess this shouldn’t be surprising. I’ve been involved in debates over inequality for more than two decades, and have yet to see conservative “experts” manage to dispute the numbers without tripping over their own intellectual shoelaces. Why, it’s almost as if the facts are fundamentally not on their side. At the same time, red-baiting anyone who questions any aspect of free-market dogma has been standard right-wing operating procedure ever since the likes of William F. Buckley tried to block the teaching of Keynesian economics, not by showing that it was wrong, but by denouncing it as “collectivist.”

Still, it has been amazing to watch conservatives, one after another, denounce Mr. Piketty as a Marxist. Even Mr. Pethokoukis, who is more sophisticated than the rest, calls “Capital” a work of “soft Marxism,” which only makes sense if the mere mention of unequal wealth makes you a Marxist. (And maybe that’s how they see it: recently former Senator Rick Santorum denounced the term “middle class” as “Marxism talk,” because, you see, we don’t have classes in America.)

And The Wall Street Journal’s review, predictably, goes the whole distance, somehow segueing from Mr. Piketty’s call for progressive taxation as a way to limit the concentration of wealth — a remedy as American as apple pie, once advocated not just by leading economists but by mainstream politicians, up to and including Teddy Roosevelt — to the evils of Stalinism. Is that really the best The Journal can do? The answer, apparently, is yes.

 

Now, the fact that apologists for America’s oligarchs are evidently at a loss for coherent arguments doesn’t mean that they are on the run politically. Money still talks — indeed, thanks in part to the Roberts court, it talks louder than ever. Still, ideas matter too, shaping both how we talk about society and, eventually, what we do. And the Piketty panic shows that the right has run out of ideas.

 

Il panico di Piketty, di Paul Krugman

New York Times 24 aprile 2014

 

 

“Il capitale nel ventunesimo secolo”, il nuovo libro dell’economista francese Thomas Piketty, è un fenomeno vero e proprio. Altri libri di economia sono diventati best-seller, ma il contributo di Piketty è quello di un sapere serio, che cambia i termini del dibattito diversamente da quello che accadeva per gran parte degli altri best-seller. Ed i conservatori sono atterriti. Per questo James Pethokoukis dell’ American Enterprise Institute ammonisce, sulla National Review,  che il lavoro di Piketty deve essere ribattuto colpo su colpo, perché altrimenti “si diffonderà tra gli intellettuali e ridisegnerà il paesaggio politico economico nel quale saranno combattute le battaglie politiche del futuro”.

Che dire, buona fortuna! La cosa davvero sensazionale del dibattito sino a questo punto è che la destra sembra incapace di sollevare una reale controffensiva di qualsiasi genere alla tesi di Piketty. La risposta è stata piuttosto del tutto nominalistica – in particolare, la pretesa secondo la quale il signor Piketty sarebbe un marxista, nello stesso modo di tutti coloro che considerano l’ineguaglianza del reddito e della ricchezza come un tema importante.

Tornerò tra un attimo su quel nominalismo. Parliamo anzitutto della ragione per la quale “Il capitale” sta provocando un tale effetto.

Difficilmente si può sostenere che Piketty sia il primo economista che mette in evidenza come si sia alle prese con una brusca crescita dell’ineguaglianza, o anche che metta enfasi sul contrasto tra la lenta crescita del reddito di gran parte della popolazione ed i redditi dei più ricchi che vanno alle stelle. E’ vero che Piketty ed i suoi colleghi hanno aggiunto una grande mole di spessore storico alle nostre conoscenze, dimostrando che stiamo per davvero vivendo una nuova Età dell’Oro. Ma lo sapevamo anche in precedenza.

No, quello che è realmente una novità ne “Il capitale” è il modo in cui esso demolisce il più prezioso dei miti dei conservatori, il ritornello secondo il quale staremmo vivendo in una meritocrazia, nella quale le grandi ricchezze sono guadagnate e ben meritate.

Nei due decenni passati, la risposta conservatrice ai tentativi di far diventare un tema della politica i redditi crescenti tra i più facoltosi si è sviluppata lungo due linee difensive: la prima, la negazione che i ricchi stessero effettivamente così bene e che tutti gli altri avessero i risultati negativi che hanno, ma quando quel rifiuto è venuto meno, l’argomento secondo il quale quei redditi che si impennavano ai livelli più alti della scala sociale erano un premio giustificato per i servizi resi. Non chiamateli l’1 per cento o i benestanti: chiamateli “creatori di lavoro”.

Ma come insistere su quella linea di difesa se i ricchi derivano molto del loro reddito non dal lavoro che svolgono, ma dai patrimoni che posseggono? Come farlo, se la grande ricchezza deriva sempre di più non dall’intraprendere ma dalle eredità?

Quello che Piketty mostra è che queste non sono domande oziose. Prima della Prima Guerra Mondiale, le società dell’Occidente furono in effetti dominate da una oligarchia della ricchezza ereditaria – ed il suo libro avanza una argomentazione incalzante del fatto che stiamo pienamente tornando verso quella condizione.

Cosa può fare, dunque, un conservatore che teme che questa diagnosi possa essere utilizzata per giustificare tasse più elevate sulla ricchezza? Potrebbe cercare di confutare Piketty in termini reali, ma sinora non ho visto niente del genere. Piuttosto, come ho detto, ha ruotato tutto sulle parole.

Penso che questo non debba sorprendere. Ho partecipato da più di due decenni a dibattiti sull’ineguaglianza, e devo ancora vedere “esperti” conservatori capaci di confutare quei dati senza inciampare sui loro pregiudizi intellettuali, come fossero stringhe da scarpe. Perché, in pratica, fondamentalmente i fatti non stanno dalla loro parte. Nello stesso tempo, attaccare come socialista chiunque si interroghi su un qualche aspetto del dogma del libero mercato è stata la procedura operativa della destra sin da quando personaggi come William F. Buckley [1] cercarono di bloccare l’insegnamento dell’economia keynesiana, non mostrando cosa ci fosse di sbagliato, ma denunciandola come “collettivista”.

Eppure è stato sorprendente osservare i conservatori denunciare, uno dopo l’altro, Piketty come un marxista. Persino il signor Pethokoukis, che è più sofisticato degli altri, definisce “Il capitale” un’opera di “marxismo attenuato”, la qualcosa ha senso se solo il riferirsi alla ricchezza ineguale fa di voi un marxista (e forse è proprio così che la vedono: di recente Rick Santorum, già Senatore, ha denunciato l’espressione “classe media” come un “linguaggio marxista” perché, sapete, noi in America non abbiamo le classi).

E la rivista di The Wall Street Journal, come era prevedibile, porta il lavoro sino alle estreme conseguenze, in qualche modo passando armoniosamente dalla richiesta di Piketty di una tassazione progressiva per limitare  la concentrazione della ricchezza – un rimedio altrettanto americano della torta di mele, che un tempo era sostenuto non solo da eminenti economisti ma dagli uomini politici più significativi, compreso Teddy Roosevelt – alla diabolicità dello stalinismo. E’ davvero il meglio che The Journal può fare? Pare che sia proprio così.

Ora il fatto che i difensori degli oligarchi americani siano evidentemente a corto di argomenti sensati non significa che essi non siano in corsa, in termini politici. I soldi parlano ancora [2] – in effetti, grazie alla Corte Suprema di Roberts, parlano più forte che mai [3]. Eppure, anche le idee contano, definendo sia il modo in cui parliamo della società che, alla fine, quello che facciamo. E il panico di Piketty dimostra che la destra ha esaurito le idee.



[1] William Frank Buckley Jr. (New York, 24 novembre 1925Stamford, 28 febbraio 2008) è stato un saggista, giornalista e conduttore televisivo statunitense. È il sesto dei dieci figli di William Frank Buckley, un imprenditore che ha fatto una fortuna con il petrolio in Messico. Dopo la seconda guerra mondiale si iscrive all’Università di Yale, dove diventa membro della “società segreta” Skull and Bones («Teschi ed ossa»), oltre che membro attivo del Partito Conservatore e della Yale Political Union. È anche direttore del giornale universitario, Yale Daily News, prima di laurearsi nel 1950. Successivamente si sposa con Patricia Alden Austin Taylor.
Grazie alle sue conoscenze del Messico, lavora per la CIA nel Paese latinoamericano. Ma dopo un’esperienza di nemmeno un anno decide di tornare negli Stati Uniti per dedicarsi all’attività pubblicistica. (Wikipedia)

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[2] Il cantautore americano Elvis Costello una volta osservò che “I soldi parlano, e sono persuasivi”.

[3] John Glover Roberts Jr. (Buffalo, 27 gennaio 1955) è il diciassettesimo e attuale Giudice Capo della Corte Suprema degli Stati Uniti. Di recente la Corte Suprema ha stabilito, se ho ben capito in una vicenda giudiziaria che riguardava un tale McCutcheon, che non vi sono limitazioni nei contributi di denaro che possono essere offerti ai partiti politici.

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