Letture e Pensieri sparsi, di Marco Marcucci

La politica e la difficoltà di narrare – Aprile 2014

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Questo pensiero sarà proprio ‘sparso’, ovvero collocato come al solito senza ordine tra gli altri, ma anche un po’ sparpagliato in se stesso, essendomi venuto in mente di accostare due cose molto lontane e diverse. Da una parte, gli appunti di Krugman sulla politica statunitense – non su quella economica, ma su quella del ‘ceto’ politico, delle sue logiche vere e presunte ed anche dei modi di pensare della gente comune; e dall’altra gli appunti, risalenti al 2001, di Cesare Garboli, nel paragrafo introduttivo (“Al lettore”) del suo piccolo libro “Ricordi tristi e civili”.

Cesare Garboli verrà ricordato il prossimo 17 maggio a Lucca, nel decennale della morte. Sono tornato a rileggere quelle pagine, nel mentre avevo deciso il tema di questa nota. Mi ricordavo che avevano risuonato nella mia coscienza come un grande punto interrogativo, una allusione profonda a domande che non mi ero mai fatto e di conseguenza a spiegazioni che non mi ero mai dato. Garboli scriveva in quel libro del nostro non facilmente definibile ‘essere italiani’, e mi sorprese scoprire che non ci avevo mai pensato in precedenza. Scriveva della politica italiana negli anni dell’omicidio di Aldo Moro ed era come se mi raccontasse una storia mai sentita. La sua riflessione ebbe l’effetto, su di me almeno, del suono misterioso di un ‘gong’, di qualcosa che sembra avere il potere di riempire tutti i vuoti dintorno. Più che capirlo, ebbi la sensazione di quanti vuoti avevo dentro e dintorno.

Ma prima, brevemente, alcune brevi notazioni sul Krugman, diciamo così, politologo. Come si sa, l’economista americano scrive, sul New York Times e sul suo blog, di una infinità di cose. In questi anni sono sempre più frequenti i suoi pensieri sulla politica; pensieri molto semplici, intuizioni ribadite in modo testardo, nel proposito non dichiarato di ricostruire un po’ alla volta il paesaggio delle attitudini e delle abitudini che normalmente non si vogliono dire, non si vogliono vedere, e che però sono buona parte della sostanza della politica, della quale sono anzi praticamente una parte delle regole fondamentali. Faccio alcuni esempi.

Il primo esempio, il giornalismo politico sedicente indipendente; la sua intrinseca tendenza a collocarsi in posizione ‘mediana’, a non assumersi la responsabilità della ricerca, a risolvere l’informazione con l’accostamento delle opinioni opposte. Al punto, disse con ironia strepitosa al tempo della guerra in Iraq, che se Bush se ne fosse uscito con l’affermazione che la Terra era piatta, molti giornali avrebbero titolato il giorno seguente “Punti di vista contrastanti sulla forma del Pianeta”. Ed è evidente che a questo genere di giornalismo Krugman presta una attenzione speciale, riconoscendolo ormai come un attore potente della scena politica. La sua interna ‘economia’, la sua convenienza a stare in mezzo, diventa un po’ alla volta un potente meccanismo di semplificazione, di censura, di costruzione di paradigmi; è lì che si decide nei tempi brevi almeno una parte dell’immagine che scegliamo per il paese in cui viviamo. Stare in un ‘mezzo’ che dipende da altri,  è uno dei modi della politica, va bene per i giornali ma può valere per chiunque. E non è la stessa cosa che essere ‘equidistanti’, è peggio. E’ rinunciare all’idea che ci possa essere qualcosa che si può capire meglio. E’ abituarsi all’idea della democrazia come rappresentazione, spettacolo senza partecipazione.

Un secondo esempio: quella che Krugman definisce come la ‘asimmetria’ delle ideologie politiche della destra e della sinistra. La sinistra può compiacersi di qualche semplificazione, anche se di solito mantiene una attitudine alla ‘verificabilità’ ed, alla fine, magari, alla auto correzione. La destra – lui parla di quella contemporanea americana – ha l’ardimento del “negazionismo”, che va di pari passo con la teoria del complotto. Il cambiamento climatico è un complotto; basta una stagione un po’ più fredda per dimostrare che gli scienziati del clima sono una cospirazione. Se la riforma di Obama, dopo un avvio penoso, sta ottenendo risultati insperati, con milioni di cittadini che si sono registrati ed altri milioni che hanno oggi una assistenza che prima non avevano, per la destra questo vuol dire che i dati vengono truccati. Addirittura, nel 2012, se i sondaggi elettorali complessivamente raccontavano un imminente successo di Obama su Romney, anche quello non era altro se non un complotto. E le teorie del complotto necessitano di una spiegazione maggiore, perché comportano una preferenza del rischio di essere prima o poi smentiti, piuttosto che misurarsi con la realtà. Il che significa una supposta convenienza a vivere dentro la propria ‘bolla’ immaginaria, anziché rischiare una contaminazione di punti di vista differenti. In questo modo la politica diventa definitivamente ‘tribale’; ciò che resta da stabilire è quanto la finzione potrà essere protratta nel tempo. Per i sondaggi elettorali sarà questione di giorni, per i risultati della Obamacare di mesi, per il mancato avverarsi della inflazione fuori controllo di anni, per il cambiamento del clima di decenni.

Un terzo esempio, un po’ più complesso: il ruolo degli interessi materiali, per non dire di classe (in quest’ultimo anno, per chi non se ne fosse accorto, è avvenuto questo strano rovesciamento, che parlare di interessi di classe è divenuto consueto per i liberals americani, mentre forse è sempre meno “correct” per i socialisti europei). Come capire lo scontro sulle politiche economiche, il ‘negazionismo’ sugli effetti disastrosi delle austerità, l’ostinazione a leggere la crisi in corso come si leggevano le brevi recessioni dei decenni passati? Naturalmente, più che il tempo passa e più che diventa evidente la natura peculiare di quello che sta avvenendo. Eppure la tendenza più diffusa resta quella del mettere la testa sotto la sabbia: si vede la luce della ripresa, si fanno esorcismi sulla deflazione … Krugman da tempo insiste a ragionare del ruolo materiale degli interessi, delle Fondazioni della destra statunitense che finanziano ricerche e movimenti e dietro loro dell’interesse generale di quella parte delle classi dominanti per la quale l’importanza del fattore “r” (tassi dei rendimenti degli assets) supera di gran lunga quella del fattore “g” (tassi di crescita). Tesi che oggi esplode con i risultati delle ricerche dell’economista francese Thomas Piketty e con il grande dibattito sul ritorno del “capitalismo ereditario” (avevamo due mesi orsono tradotto qualcosa, ed illustrato alcune fondamentali tabelle al proposito). Ma, a parte questi aspetti più attinenti all’analisi economica, quello che preme è sottolineare l’interesse di Krugman a questa quotidiana, concreta ‘fisiologia’ della politica statunitense.

Non è difficile misurare la distanza tra quel suo sforzo e quanto sinora riusciamo ad esprimere qua da noi. Si tratta di un progetto lineare: l’economia è ad un nuovo versante della storia, quello che accade non si può definire in altro modo. Occorre capire quale teoria economica ci dia più strumenti per intenderlo, e questa è inevitabilmente cosa da esperti. Ma occorre anche una riforma della politica dei progressisti, partendo dal tentativo di comprendere in quali e quanti modi essa, come era inevitabile, è rimasta indietro ed ha subito lesioni da trasformazioni materiali che non è riuscita a leggere. Per questo, suppongo, il suo impegno è così ampio. E per questo non si trastulla con cinguettii (“tweet”).

Ed ora passerei, facendo un bel salto, a Cesare Garboli.

Cesare Garboli, come è noto, scriveva raramente e molto sinteticamente. Mi guardo bene dal ripercorrere le dieci paginette introduttive ai suoi “Ricordi tristi e civili”; mi pare un impresa impossibile, perché ognuno dovrebbe farlo per suo conto,  cercando di annotare i vuoti che quel risuonare gli mette in evidenza. Ma, in sostanza, Garboli ci parlava di come fosse stato possibile, all’indomani di quella primavera del 1978 del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro,  vivere quell’epilogo sanguinoso di un racconto lontano iniziato con la Liberazione – la “carneficina” degli Ambrosoli,  Rossa, Alessandrini, Terranova, Bachelet, Pio la Torre, Dalla Chiesa, con in mezzo gli 85 morti ed i 200 feriti della Stazione di Bologna, e in aggiunta il cosiddetto ‘suicidio’ di Calvi e l’areo precipitato ad Ustica.  “Ricordo gli anni del dopo-Moro come un incubo. Lo spettacolo della festosa vita italiana, in quella congiuntura così cruciale, non finiva mai di meravigliarmi. Una misteriosa parola d’ordine era schizzata da un capo all’altro della penisola, promossa non si sa da dove, per sedare e sdrammatizzare …”.

Garboli se ne dava due spiegazioni. Che l’omicidio di Moro fosse stato per gran parte dell’opinione pubblica “un sacrificio orribile, ma in qualche modo aspettato e dovuto, una passione e un rogo: il rogo in cui veniva finalmente immolato il ricatto, il sogno, l’equivoco, il richiamo, il tormentone della cosiddetta diversità comunista …” E la seconda, non meno impressionante della prima: che in fondo esistesse “un silenzioso muro fatto di curiosità umana, di comprensione spirituale e sociale, di pietà, non dico di complicità, con il terrorismo e la lotta armata”. Ma, chiariva, questa attitudine aveva una origine lontana e diversa da quei fatti, nasceva da “un’eterna protesta, ribellione, diffidenza verso lo Stato, sentito non come una federazione di cittadini, ma come una realtà punitiva, estranea e usurpatrice.” “Come se – aggiungeva – all’atavico ed ancestrale qualunquismo italiano fossero state messe in mano da qualcuno, che so, per un infausto sortilegio, anche le armi …” E questo, in fondo, oltre a spiegare la non impossibile convivenza con quella carneficina, spiegava anche, secondo lui, la precedente e successiva convivenza con le organizzazioni criminali di stampo mafioso.

Non so se quelle spiegazioni risultino convincenti per tutti, neanche so in quanti oggi le percepiscano come domande e risposte così necessarie. Ma vorrei dire in che senso a me fecero l’impressione  del riconoscimento di un vuoto che avevo dentro e dintorno, una impressione che oggi, a ripensarci, è ancora più forte. Perché è assolutamente esatto che si poté attraversare quegli anni con un senso di normalità, o meglio con il senso che la normalità consisteva nell’andare oltre. L’immagine del rogo sacrificale mi pare assolutamente precisa, se si prova ad immaginare il meccanismo potente di trasferimento alla concreta passione di persone in carne ed ossa di qualcosa d’altro, quando esse sono condannate ad immolarsi alla continuità di una astratta e più grande identità. Il nostro essere, così difettosamente ma così indispensabilmente, una nazione, ci chiamava ad andare oltre; pur senza poter  dare una spiegazione accertata e collettiva. E neanche eravamo granché sfiorati dal pensiero del prezzo che tutti i roghi del genere comportano. A pensarci, una esperienza enorme, vissuta in un vuoto di spiegazioni.

C’è un nesso tra quella esperienza e la crisi di questi anni? Forse non grande, ma c’è un tema comune ad entrambe: cosa accade quando la politica non riesce ad esprimere quella che oggi si ama definire come una narrazione, pur restando l’unico edificio nel quale siamo tenuti a coabitare? Davvero, riformare una politica di progresso non può essere un compito ‘leggero’, da affrontare con strumenti ‘leggeri’, senza un quotidiano riarmo di una intelligenza collettiva che recuperi il ritardo su quello che accade. Garboli concludeva il suo ragionamento citando due parole di Guido Ceronetti, di “intelligenza fulminea”: “L’Italia non è una patria”. Ma questi, aggiungeva, “sono pensieracci, incubi, arpie che hanno invaso la casa …”.

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