Blog di Krugman

Simpatie per i “Trustafariani” (24 giugno 2014)

 

Jun 24 12:32 pm

Sympathy for the Trustafarians

A number of people have asked me to comment on Greg Mankiw’s defense of inherited wealth. It’s a strange piece, oddly disconnected from the real concerns about patrimonial capitalism. But let me focus on two key problems with Mankiw’s analysis – one purely economic, one involving political economy.

So, on the economics: Mankiw argues that accumulation of dynastic wealth is good for everyone, because it increases the capital stock and therefore trickles down to workers in the form of higher wages. Is this a good argument?

Well, if there’s one thing I thought economists were trained to do, it was to be clear about opportunity cost. We should compare accumulation of dynastic wealth with some alternative use of resources – not assume, as Mankiw in effect does, that if not passed on to heirs that wealth would simply disappear. Maybe he’s assuming that the alternative would be riotous living by the current rich, but that’s not a policy alternative.

In fact, what we’re really talking about here is taxation of wealth., and the question is what would happen to that revenue versus what happens if the rich get to keep the money. If the government uses the extra revenue to reduce deficits, then all of it is saved – as opposed to only part of it if it’s passed on to heirs. If the government uses the revenue to pay for social insurance and/or public goods, that’s likely to provide a lot more benefit to workers than the trickle-down from increased capital.

The point is that you can only justify Mankiw’s claim that inherited wealth is necessarily good for workers by insisting that the government would do nothing useful with the revenue from inheritance taxes. I’d call that assuming your conclusions; in any case, it’s a claim that deserves to be made openly, not smuggled in on the pretense that you’re just doing economic analysis.

But the larger criticism of Mankiw’s piece is that it ignores the main reason we’re concerned about the concentration of wealth in family dynasties – the belief that it warps our political economy, that it undermines democracy. You don’t have to be a radical to share this concern; not only did people like Teddy Roosevelt openly talk about this problem, so (as Thomas Piketty points out) did Irving Fisher in his 1919 presidential address to the American Economic Association.

What’s curious is that conservative economists are well aware of the danger of “regulatory capture”, in which public institutions are hijacked by vested interests, yet blithely dismiss (or refuse even to mention) the essentially equivalent problem of democratic institutions hijacked by concentrated wealth. I take regulatory capture quite seriously; but I take plutocratic capture equally seriously. And this is not an issue you can deal with by claiming that the benefits of capital accumulation trickle down to workers.

If Mankiw wants to argue that the costs of any attempt to limit wealth concentration would exceed the benefits, fine. But “more capital is good” is not a helpful contribution to the discussion.

 

Simpatie per i “Trustafariani” [1]

 

Un certo numero di persone mi hanno chiesto di commentare la difesa di Greg Mankiw della ricchezza ereditaria. Si tratta di uno strano articolo, curiosamente disconnesso dalle preoccupazioni vere sul capitalismo ereditario. Ma consentitemi di concentrarmi su due problemi chiave della analisi di Mankiw – uno puramente economico e l’altro che riguarda anche l’economia politica.

Dunque, su quello economico: Mankiw sostiene che l’accumulazione della ricchezza dinastica è positiva per tutti, perché incrementa le riserve di capitale e di conseguenza scende sino alle tasche dei lavoratori nella forma di salari più elevati. Si tratta di un buon argomento?

Ebbene, se c’è una cosa alla quale pensavo gli economisti fossero esercitati, era quella di essere chiari a proposito del costo di opportunità [2]. Si dovrebbe stabilire un confronto tra la accumulazione della ricchezza dinastica ed un qualche uso alternativo delle risorse – non assumere, come fa Mankiw, che se non si trasferisce agli eredi una ricchezza, essa semplicemente scompare. Può darsi che egli stia ipotizzando che l’alternativa sarebbe un vivere sfrenato da parte dei ricchi attuali, ma quella non è una alternativa politica.

Di fatto, quello di cui stiamo effettivamente parlando in questo caso è la tassazione della ricchezza, e la domanda è che cosa accadrebbe di quella entrata a confronto con quello che accade se per i ricchi è possibile tenersi il denaro. Se il governo usa l’entrata supplementare per ridurre i deficit, allora essa viene tutta risparmiata – al contrario di quando una parte di essa si trasferisce agli eredi. Se il governo usa l’entrata per pagare la assicurazione sociale e/o i beni pubblici, quella soluzione è probabile che fornisca una quantità molto maggiore di benefici ai lavoratori che non un po’ di briciole [3] che derivano dal capitale aumentato.

Il punto è che l’unico modo per giustificare la pretesa di Mankiw secondo la quale la ricchezza ereditaria è per logica una buona cosa per i lavoratori, è quello di sostenere che il governo non farebbe niente di utile con le entrate derivanti dalle tasse di successione. Direi che si tratta di un assunto basato sulle conclusioni; in ogni caso è una tesi che merita di essere esposta apertamente, e non contrabbandata con la pretesa che si stia solo sviluppando una analisi economica.

Ma le maggiori critiche all’articolo di Mankiw sono che esso ignora la principale ragione per la quale siamo preoccupati della concentrazione della ricchezza nelle dinastie familiari – la convinzione che essa distorca la nostra economia politica, che mini la democrazia. Non c’è bisogno di essere radicali per condividere questa preoccupazione; non solo persone come Teddy Roosevelt parlarono apertamente di questo problema, lo stesso fece (come Thomas Piketty sottolinea) Irving Fisher nel suo discorso da presidente della Associazione Economica Americana del 1919.

Quello che è singolare è che gli economisti conservatori sono ben consapevoli del pericolo della cosiddetta “cattura normativa” [4], per il quale le istituzioni pubbliche sono prese in ostaggio dagli interessi costituiti, tuttavia liquidano spensieratamente (o rifiutano persino di menzionare) il problema essenzialmente equivalente di istituzioni democratiche prese in ostaggio dalla concentrazione della ricchezza. Io prendo abbastanza sul serio la “cattura normativa”; ma prendo altrettanto sul serio la cattura normativa plutocratica. E questo non è una tema che si possa affrontare sostenendo che le briciole della accumulazione del capitale scivolano sui lavoratori.

Se Mankiw vuole sostenere che i costi di ogni tentativo di limitare la concentrazione della ricchezza sarebbero superiori ai benefici, va bene. Ma dire che “più capitale è una buona cosa” non è un contributo utile alla discussione.

 

 

[1] Non saprei come inventare una espressione analoga in italiano. All’origine del termine c’è la setta dei “rastafariani”, che però era un’effettiva setta religiosa, nata in Etiopia attorno al mito dell’imperatore Hailé Selassié (anni ’30 del novecento), che veniva considerato come un erede di Cristo e che era nominato Ras Tafari. Ma quel termine è entrato nella successiva espressione di “trustafarian” sostanzialmente con il senso di una sottocultura un po’ eccentrica, abbastanza anarchica e dedita a forme di vita del tutto libere. Tale operazione linguistica è derivata dall’accostamento al termine “rastafarian” del suffisso “Trust fund” (laddove “trust” sostituisce “rast”) – che significa ‘fondo fiduciario’ – ed esprime la condizione di quei ragazzi ‘di buona famiglia’ che possono permettersi ogni genere di originalità, per effetto della disponibilità, appunto, di quei fondi finanziari che assicurano loro una esistenza agiata. Probabilmente “trustafiano” fu un termine coniato coniato da qualche conservatore fantasioso per prendersela con gli “hyppies”. In questo post “trustafariano” diventa sinonimo di erede di grandi ricchezze.

[2] Il costo opportunità in economia è il costo derivante dal mancato sfruttamento di una opportunità concessa al soggetto economico. Quantitativamente, il costo opportunità è il valore della migliore alternativa tralasciata. In altri termini, il costo opportunità è il sacrificio che un operatore economico deve compiere per effettuare una scelta economica. L’alternativa a cui si deve rinunciare quando si effettua una scelta economica è detta costo opportunità (opportunity cost). Ad esempio, quando una persona inizia a lavorare rinuncia ad una parte del proprio tempo libero al fine di ottenere un reddito economico, il tempo libero rappresenta il costo opportunità della scelta. (Wikipedia)

[3] Espressione quasi equivalente del “trickle down”. Che però non ha il significato polemico delle ‘briciole alla mensa dei ricchi’, visto che negli USA lo ‘sgocciolamento’ della ricchezza dall’alto in basso – almeno negli ambienti conservatori – ha la dignità di un a teoria economica, che era molto in voga all’epoca di Reagan.

[4] Il termine inglese regulatory capture (traducibile in italiano come “cattura normativa”) è utilizzato con riferimento a situazioni in cui un’agenzia di regolamentazione statale creata per agire nell’interesse pubblico, agisce invece in favore degli interessi commerciali o speciali dominanti nell’industria o nel settore oggetto della regolamentazione. La regulatory capture è una forma di fallimento dello stato, in quanto può agire come incentivo per le grandi imprese alla produzione di esternalità negative. (Wikipedia)

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