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La Cina del 2015 non è quella del 2010 (dal blog di Krugman, 13 agosto 2015)

 

Aug 13 10:09 am

China 2015 Is Not China 2010

If there is a central policy theme to Donald Trump’s candidacy other than immigration — actually, there isn’t, but there are some particular things he bellows about — it’s China-bashing. The unifying principle is probably xenophobia; but anyway, China’s currency moves are about to become a US political issue. And pretty soon, I expect, people will point out that some liberals also used to complain about Chinese currency manipulation.

But that was a while ago — mainly in 2010. And the underlying situation has changed, a lot.

First of all, China has experienced a very large real appreciation since 2011, partly due to higher inflation than in its trading partners, partly because its dollar peg means that it has tagged along with the rising dollar (which was supposed to plunge due to QE, but never mind):

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It’s true that China’s real exchange rate has trended upward for a long time, and that this didn’t lead to a loss of competitiveness until recently — mainly because of Balassa-Samuelson and other effects of rising productivity. But with Chinese growth slowing and the pace of appreciation rising — and with rising competition from other emerging markets — the past five years almost surely have brought a major reduction in competitiveness. It’s perfectly consistent to believe that China was destructively undervalued in 2010 but overvalued now.

Meanwhile, China’s domestic economy has clearly weakened, creating a clear case for looser monetary policy. It’s nothing like the situation in 2010, when China was struggling to contain an overheating economy.

We might also note that America is in a different situation too. I still believe it would be a big mistake for the Fed to raise rates, but the fact that we’re even close enough that it’s on the table means that we’re not as deep in the liquidity trap, and hence as vulnerable to foreign currency manipulation, as we were back then.

So if The Donald occasionally sounds like me five years ago, bear in mind that stuff has happened over those five years; I’ve noticed, but he probably hasn’t.

 

La Cina del 2015 non è quella del 2010

Se c’è un tema politico centrale nella candidatura di Donald Trump oltre a quello dell’immigrazione – in effetti non c’è, ma ci sono alcune cose sulle quali egli strepita – è quello del colpire la Cina. Il principio unificante è probabilmente quello della xenofobia; ma in ogni caso, le mosse valutarie della Cina sono destinate a diventare un tema politico per gli Stati Uniti. E tra non molto, mi aspetto qualcuno metterà in evidenza che anche alcuni progressisti erano soliti lamentarsi della manipolazione valutaria cinese [1].

Ma questo avveniva un po’ di tempo fa – in particolare nel 2010. E la situazione sottostante è molto cambiata.

Prima di tutto, la Cina a partire dal 2011 ha conosciuto una rivalutazione reale molto ampia, in parte dovuta ad una inflazione più alta dei suoi partner commerciali, in parte perché il suo ancoraggio al dollaro comporta che essa ha dovuto tallonare un dollaro in ascesa (che si pensava crollasse a seguito della ‘facilitazione quantitativa’, ma lasciamo perdere):

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É vero che il tasso di cambio reale della Cina ha teso a salire per un lungo tempo, e che questo non ha portato sino ad un periodo recente ad una perdita di competitività – principalmente a seguito dell’ipotesi Balassa-Samuelson [2] e di altri effetti della produttività crescente. Ma con la crescita cinese che rallenta e il ritmo della rivalutazione che sale – e con una crescente competizione da parte degli altri mercati emergenti – i cinque anni passati quasi sicuramente hanno comportato una importante riduzione nella competitività. É perfettamente coerente ritenere che la Cina avesse svalutato in modo distruttivo nel 2010 ma sia sopravvalutata oggi.

Nel frattempo, l’economia nazionale cinese si è chiaramente indebolita, creando una chiara situazione per una politica monetaria più blanda. Non c’è niente di simile alla situazione del 2010, quando la Cina stava lottando per contenere una economia surriscaldata.

Potremmo inoltre notare che anche l’America è in una situazione diversa. Io credo ancora che sarebbe un grande errore per la Fed elevare i tassi, ma il fatto che ci siamo talmente vicini al punto che tale ipotesi è sul tavolo, significa che non siamo così profondamente nella trappola di liquidità, e di conseguenza così vulnerabili alla manipolazione valutaria straniera, come eravamo allora.

Dunque, se “il Donald” pare assomigli al sottoscritto di cinque anni orsono, si tengano a mente le cose che sono successe in questi cinque anni; io me ne sono accorto, lui probabilmente no.

 

 

[1] Il riferimento di Krugman è anche a se stesso, considerato che in varie occasioni si era pronunciato a favore di una posizione più decisa del Governo statunitense sulla politica valutaria cinese. In connessione, infatti, un suo post del 14 marzo 2010.

[2] Che su Wikipedia viene descritta in connessione con due fattori collegati: l’osservazione secondo la quale i prezzi al consumo nei paesi più ricchi sono sistematicamente più alti che in quelli più poveri (il cosiddetto “effetto Penn”); l’assunto secondo il quale per un paese la produttività varia maggiormente nei settori dei beni oggetto di scambi internazionali che non negli altri settori (l’ipotesi Balassa-Samuelson).

 

 

 

 

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