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Prospettive realistiche di crescita (dal blog di Krugman, 23 febbraio 2016)

 

Realistic Growth Prospects

February 23, 2016 11:14 am

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God, I can’t wait for the primary to be over, one way or the other. But it does seem to me that I should talk a bit about what a progressive reasonably can say about prospects for economic growth under a better policy regime.

There are, I would argue, three numbers that are relevant. First, there’s the rate of growth of the economy’s supply-side potential — the rate it can grow at a constant rate of unemployment. Second, there’s the size of the output gap — the amount of extra output we could gain by getting up to full employment. Third, there’s the extent to which we can accelerate the rate of growth of potential.

On the first number, look at the chart: over the past five years US growth has fluctuated around 2 percent, while unemployment — both the conventional number and the broader U6 number — has gradually declined. This strongly suggests potential growth under 2 percent. Why so slow? Productivity has been sluggish, and the working-age population is growing much more slowly than it used to as baby boomers hit retirement age.

What about the output gap? Wage growth is still weak and inflation fairly low, suggesting that unemployment can go significantly lower from here — maybe down to the 4 percent of the late 1990s, possibly even lower. The standard Okun’s Law relationship would say that bringing unemployment down another percentage point would add 2 percent to real GDP. Maybe, maybe we could argue for an extra-large pool of discouraged workers that raises this to 3. That’s a lot of foregone output in an absolute sense.

However, it doesn’t make a huge difference when we’re talking about longer-term growth prospects. Closing a 3-point output gap over 10 years raises the 10-year growth rate by only 0.3 percent. 2016 isn’t like 1933, when the output gap was probably around 30 percent, making a huge growth rate over the next decade possible when wartime mobilization finally brought full employment and then some.

Finally, how much can we reasonably project for a rise in potential growth? A big increase in infrastructure investment would certainly help. Other progressive priorities — while good things! — would be at best a mixed bag in terms of their effect on measured GDP. For example, guaranteed pr-K and childcare might free more parents to stay in the paid workforce; on the other hand, better benefits would (and should) free some people to cut hours to focus on their families.

And nobody knows the secret of raising productivity growth. In general, any economist talking about potential growth should start from a position of modesty: nothing in what we know or have experienced in the past justifies making big promises. By all means we should try everything we can think of — but our policies should make sense even if it turns out that the effects on long-run growth are modest.

What I would say is that it’s unreasonable to assume growth over the next 10 years more than a fraction of a percentage point above 2 percent — say 2.5 percent at the upper end. Maybe we can do better, but we shouldn’t count on it.

And let me say that the great thing about a progressive agenda is that it doesn’t require big growth promises to make it work, because the elements of that agenda are good things in their own right. Conservatives need to promise miracles to justify policies whose direct effect is to comfort the comfortable (cutting taxes on the rich) and afflict the afflicted (slashing social insurance); progressives only need to defend themselves against the charge that doing good will somehow kill economic growth. It won’t, and that should be enough.

 

Prospettive realistiche di crescita

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[1]

Oddio, non vedo l’ora che le primarie siano passate, in un modo o nell’altro. Eppure mi sembra che dovrei parlare un po’ di cosa un progressista potrebbe ragionevolmente dire sulle prospettive di crescita economica in una condizione migliore della politica.

Ci sono, direi, tre numeri rilevanti. Anzitutto, c’è il tasso di crescita del potenziale economico dal lato dell’offerta – il tasso al quale quel potenziale può crescere ad un tasso costante di disoccupazione. Il secondo, è la dimensione del differenziale della produzione – la quantità di produzione aggiuntiva che potremmo guadagnare elevandoci alla piena occupazione. Il terzo, è la misura nella quale possiamo accelerare il tasso di crescita del potenziale.

Sul primo numero si guardi la tabella: nei cinque anni passati la crescita degli Stati Uniti ha fluttuato attorno al 2 per cento, mentre la disoccupazione – sia il dato convenzionale che il dato allargato dello U6 [2] – è gradualmente calato. Questo indica con forza che il potenziale di crescita si colloca sotto il 2 per cento. Perché così lento? La produttività è stata fiacca e la popolazione in età lavorativa sta crescendo molto più lentamente di quanto era solita, dal momento che i baby-boomers [3] hanno raggiunto l’età della pensione.

Cosa dire del differenziale di produzione? La crescita dei salari è ancora debole e l’inflazione discretamente bassa, il che indica che la disoccupazione può andare significativamente più in basso a partire da qui – forse sotto il 4 per cento degli ultimi anni ’90, forse ancora più in basso. La relazione usuale della Legge di Okun [4] direbbe che portando la disoccupazione in basso di un altro punto percentuale, si aumenterebbe del 2 per cento il PIL reale. Forse potremmo ipotizzare un complesso particolarmente ampio di lavoratori scoraggiati che elevi quel dato sino a 3 punti percentuali. Si tratterebbe in senso assoluto di una grande quantità di produzione prevedibile.

Tuttavia, essa non fa una gran differenza quando si parla di prospettive di crescita a più lungo termine. Avvicinarsi a 3 punti di differenziale di produzione in 10 anni aumenta il tasso di crescita soltanto dello 0,3 per cento. Il 2016 non è come il 1933, quando il differenziale di produzione era attorno al 30 per cento, il che rendeva possibile un grande tasso di crescita nel decennio successivo, quando la mobilitazione dei tempi di guerra portò alla fine alla piena occupazione ed ancora oltre.

Infine, quanto potremmo ragionevolmente prevedere di aumento nella crescita potenziale? Certamente un grande investimento in infrastrutture aiuterebbe. Altre priorità progressiste – per quanto ottime cose! – nel migliore dei casi, dal punto di vista del loro effetto sul PIL accertato, sarebbero misure contraddittorie. Ad esempio, gli asili nido e le scuole materne potrebbero liberare maggiormente i genitori per rimanere nell’ambito della forza lavoro pagata; d’altra parte, maggiori sussidi potrebbero (e dovrebbero) mettere nelle condizioni alcune persone di tagliare l’orario e di concentrarsi sulle loro famiglie.

E nessuno conosce il segreto per elevare la crescita della produttività. Il linea generale, ogni economista che parla di crescita potenziale dovrebbe partire da una posizione di cautela: niente in quello che sappiamo o abbiamo sperimentato nel passato giustifica il fare grandi promesse. Dovremmo cercare in tutti i modi ogni cosa che ci può venire in mente – ma le nostre politiche dovrebbero avere un senso anche se si scopre che le esse hanno un effetto modesto nella crescita a lungo termine.

Direi che non è irragionevole ipotizzare una crescita per i prossimi 10 anni superiore di una frazione di punto percentuale sopra il 2 per cento – diciamo un 2,5 per cento nell’ipotesi più alta [5]. Forse potremmo far meglio, ma non dovremmo contarci.

E fatemi aggiungere che la cosa importante di una agenda progressista è che essa non richiede grandi promesse di crescita, giacché gli elementi di quella agenda sono cose buone per loro conto. I conservatori hanno bisogno di promettere miracoli per giustificare politiche i cui effetti diretti sarebbero quelli di far star meglio che già sta bene (tagliare le tasse ai ricchi) e far star peggio chi già sta male (tagliare le assicurazioni sociali): i progressisti hanno solo bisogno di difendersi dall’accusa che facendo del bene in qualche modo distruggono la crescita economica. Non sarà così, e dovrebbe essere abbastanza.

 

 

 

[1] La Tabella che viene usata per sviluppare le ipotesi nel post indica gli andamenti dal 2011 ad oggi del Prodotto Interno Lordo (linea verdolina), del tasso ufficiale di disoccupazione (linea rossa), e del totale complessivo dei disoccupati (vedi la successiva nota 2).

[2] Nel linguaggio statistico americano la disoccupazione U3 indica il tasso ufficiale; quella U5 include in più i lavoratori scoraggiati e tutti gli altri lavoratori marginalmente impiegati; quella U6 aggiunge alla U5 i lavoratori che sono a tempo-parziale per ragioni meramente economiche.

[3] La generazione del boom delle nascite, che esplose dopo la seconda guerra mondiale.

[4] In economia, la Legge di Okun, che prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962[1]) è una legge empirica che collega il tasso di crescita dell’economia con le variazioni nel tasso di disoccupazione. Secondo questa legge, se il tasso di crescita dell’economia cresce al di sopra del tasso di crescita potenziale, il tasso di disoccupazione diminuirà in misura meno che proporzionale. (Wikipedia)

[5] Rispetto, dunque, alle posizioni contro le quali Krugman ha polemizzato in questa campagna elettorale, un incremento del 2,5 per cento o un po’ superiore, a fronte della fantastica previsione formulata da Jeb Bush alcune settimane orsono (4 per cento) e della ancora più fantasiosa previsione del 5,3 per cento ipotizzata dal collaboratore di Sanders, Friedman.

 

 

 

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