Letture e Pensieri sparsi, di Marco Marcucci

Siamo lo stesso Paese? – Febbraio 2016

zz 114Siamo lo stesso Paese? – Febbraio 2016

“Sono tanti mille. Un numero che, già solo a dirlo, fa impressione. Suscita sgomento. E sguardi increduli, quando lo racconti a chi non c’era, non ricorda, non sa. Mille. Mille solo a Palermo e nella sua mafiosissima provincia. Diecimila ne calcola Enrico Deaglio … allargando lo sguardo e contando le vittime di Cosa Nostra, camorra e ‘ndrangheta in Sicilia, Calabra e Campania negli anni Settanta e Ottanta.” La guerra irlandese, aggiunge, con i suoi tremila morti in vent’anni, appare poca cosa. Mille morti solo a Palermo, “tutti racchiusi in uno scorcio di tempo brevissimo, tra la primavera del 1979 e l’inizio del 1986”. Nel leggere l’impressionante libro di Antonio Calabrò – “I mille morti di Palermo”, Mondadori 2016 – su questo avvertimento che si trova nelle prime pagine non avevo messo attenzione. Quando ho finito di leggerlo, sono tornato d’istinto al primo capitolo, perché per forza qualcosa del genere doveva essere scritto da qualche parte. Ed ho trovato queste altre parole, sempre da una citazione di Deaglio: “ … una guerra civile che l’Italia è riuscita a tenere nascosta …”.

Consiglierei questa chiave di lettura, per questo libro a suo modo fondamentale. É mai possibile che un paese possa, o voglia, o sappia tenere nascosto qualcosa di cui parlano ogni giorno i suoi giornali e le sue televisioni? Tornerò tra un attimo su questa domanda. Calabrò quei pochi anni che racconta li ha vissuti come caporedattore dell’ “Ora”, giornale siciliano che quella guerra l’ha combattuta, con il peso e con il coraggio delle sue inchieste e dei titoli che giorno dopo giorno hanno scandito quella storia, e con i suoi giornalisti morti. E per quanto la sua sia una cronaca, una cronaca di cronache già raccontate un migliaio di volte, raramente succede che un libro apra così la testa sull’identità profonda di un paese intero. L’identità di un paese, si scopre, che si cela gran parte ciò che al tempo stesso vive e documenta. Naturalmente Calabrò è perfettamente consapevole del valore di quello che scrive, ma non ha bisogno di farsi strada con teorie, annunci e sociologismi: sa benissimo che tutto sta nel tirare le fila di quella cronaca. Il suo libro comincia con due cartine della città di Palermo, che paiono un esercizio per le nostre modeste memorie di turisti occasionali, e sono invece un invito a “andare in strada”, perché la storia che sta per cominciare è una storia di strade, di edifici pubblici e di case popolari, di aeroporti e di spiagge, di piazze, di vicoli, di mercati e di trattorie, di vicinanze, di contiguità, di un dominio di bande che si decide nella mai sperimentata in modo così terrificante sfrontatezza con la quale su quelle strade si porta semplicemente la guerra.

Ci sono ovviamente alcune idee di fondo che ci aiutano a capire i passaggi principali di quella storia. Una mafia che con gli anni Sessanta si trasferisce dalle campagne, dai feudi, al territorio cittadino, all’ambiente di nuovi affari, edilizia, opere pubbliche, collegamenti internazionali sui traffici di droga e di armi. Corleone è un paese interno della Sicilia, quasi nel mezzo di un quadrilatero che da una parte va da Palermo a Trapani, e dalla parte opposta da Caltanissetta ad Agrigento; per i corleonesi la conquista di Palermo, la capitale dei nuovi affari mafiosi, è come farsi strade dalle montagne dell’interno sino alla città. Il fatto che continuino a chiamarsi corleonesi, indica anch’esso che siamo dinanzi ad una storia che ha un suo senso nella geografia, una calata di bande sino al dominio della toponomastica cittadina. “Viddani”, così i palermitani chiamano i corleonesi, gente di campagna. Ma gente che per rozzezza e ferocia può concepire rapidamente che tutto si deciderà nel controllo di quelle strade, non diversamente da come si controlla un piccolo paese. E gente “’sperta”, che sa che questa guerra ha una particolarità: che occorre un rapporto sicuro con la politica, perché la mafia non sostituisce il potere, ha bisogno di simbiosi con il potere. Questa è l’unica incombenza non militare: assicurarsi l’obbedienza di un mondo al quale si riconosce l’unica autonomia di continuare a praticare i suoi riti. Il mondo di Ciancimino, di Lima, di Gioia, di Andreotti, nelle sue sfumature.

Il punto vero è però quello delle condizioni alle quali questa conquista può avvenire. Che sono quelle di un monopolio assoluto della violenza, nel quale si fatica a distinguere il punto di contatto tra logica militare e psicopatologia. I personaggi che sfilano sono indubbiamente un campionario di psichiatria, ma il monopolio della violenza deve essere esercitato mostrandolo. La violenza omicida non è fatta di azioni mirate, di obbiettivi ognuno dotato di finalità e convenienza specifiche e circoscritte; anzitutto serve a dimostrare quel regime di monopolio. Non si ammazza per evitare qualcosa di imminente che si teme; si ammazza prima, si ammazzano i mafiosi con idee inammissibili, si ammazza chi tende a concepire gli affari con una certa cautela e diplomazia, si ammazzano parenti ed amici di quei mafiosi restii, e si ammazza chi vuol fare anche solo con un senso di indipendenza il suo mestiere di magistrato, di imprenditore, di giornalista, anche prima che lo Stato cominci a comprendere la vastità delle guerra che si è aperta. In pratica, si ammazza per sopprimere gli indesiderati, ma più ancora per avere maggiore potere verso tutti gli altri. Chi tra i mafiosi intuisce di essere finito in quella sterminata lista di sospetti, pur non avendo nessuna voglia di contrastare i nuovi capi, sa che è questione di tempo; deve rifugiarsi, e normalmente viene assassinato nei rifugi. Il tutto si completa, o prima come avvertimento o dopo come una sorta di cauterizzazione, con abbondante mattanza di amici e familiari. Nei mille morti di Palermo, i mafiosi sono un percentuale elevata.

Il che, tra l’altro, fornisce anche in indizio per comprendere meglio la questione, dal punto di vista psicologico non così ovvia, del pentitismo e della collaborazione con la giustizia. Personaggi con storie criminali cospicue e con una adesione alla cultura mafiosa ben sperimentata che decidono di raccontare tutto, spesso, non erano facili da capire. Erano crisi esistenziali autentiche, erano modi per proteggersi dal pericolo imminente di essere assicurati alla giustizia? Ebbene, forse era il contrario: era un modo per essere salvati dallo Stato – assieme alle loro famiglie – dalla certezza della ‘lupara bianca’. Buscetta si pente dopo che un numero elevato di amici e parenti è stato liquidato, con un famiglia alle spalle che non è ancora stata tutta sterminata.

Ma non serve che continui a soffermarmi sui vari passaggi (il lavoro del Generale Dalla Chiesa; la svolta del lavoro fatto dai magistrati, Caponnetto, Falcone e Borsellino; il maxiprocesso; gli attentati contro Dalla Chiesa e quei magistrati; il giudizio finale su quanto è cambiato e quanto non è cambiato), che troverete in un libro che si legge tra l’altro in modo comprensibilmente avvincente, tutto d’un fiato. Termino, invece, con la questione dalla quale ero partito: in che senso saremmo riusciti a tenere nascosta questa storia a noi stessi?

É proprio così, intanto? A me pare di sì, anche se occorre spiegarsi. L’informazione su questa storia, e sulle altre decine di storie non del tutto dissimili in altre aree del paese, certo non ci è mancata. Forse, se avessimo dovuto stimare che solo a Palermo e in poche altre città del Mezzogiono, in sei/sette anni, ci sono stati più crimini che nella guerra civile irlandese in venti, avremmo avuto molti dubbi. Ma perché? Dopo aver letto il libro, la risposta che mi viene è la seguente: perché esitiamo a riconoscere l’Italia in quella storia. Di solito, non viviamo in città con fenomeni così eccezionali; è documentata la crescita dei fenomeni mafiosi dappertutto, ma fenomeni di quella natura e intensità riguardano una minoranza di aree del paese. Sennonché questa non è una risposta, semmai è una seconda domanda. Le informazioni che abbiamo, le collochiamo in un territorio contiguo al nostro, in pratica in un paese diverso. E facciamo così, perché abbiamo eluso la questione principale: che rapporto c’è tra quella parte del paese che è stata ed è devastata da poteri criminali ed il paese nel suo complesso? Se sono aree contigue, la domanda si può eludere. Storie diverse, territori diversi. Ma il punto è lì: non possono essere storie diverse. Se uno Stato soccombe per anni alla sfida di poteri criminali in alcune sue aree, questo non può non avere rapporto con i mali complessivi di quello Stato.

La questione dei mali di un paese non può essere ben posta, con la contrapposizione tra ottimisti e pessimisti, tra chi fa il tifo per la cosiddetta “Italia che torna a crescere” e chi indica la sofferenza che attanaglia una parte dei cittadini. Si interpreta una comunità nazionale esattamente alla condizione che si riesca ad avere una rappresentazione unitaria di quella comunità.

Un esempio? Se quasi dappertutto esplodono storie deprimenti di fenomeni estesissimi, anche quando modesti, di interessi personali nella gestione della cosa pubblica, questo significa che non siamo un paese normale. Non è affatto inconcepibile che una qualche gradazione di criminalità organizzata possa, come del resto fa, sfruttare questa decadenza della moralità pubblica, per poi salire a gradini successivi. Non saremmo come a Palermo nei primi anni ’80, saremmo ad uno stadio diverso di malattie che non sono estranee l’una all’altra. Oppure, un secondo esempio più vasto, racchiudibile in una domanda più semplice ancora: come ‘sentiamo’ la storia estrema della città dei mille morti, non sentiamo forse – nella parte più fortunata del Paese – altrettanto estranea la realtà di livelli di disoccupazione giovanile che al Sud sono più del doppio di quelli nazionali?

La storia raccontata nel libro di Calabrò ci ricorda storie assolutamente note. Ma ci interroga con forza su un sentimento nazionale che ci è spesso assolutamente ignoto, al punto che il racconto di quelle storie ci sembra di apprenderlo per la prima volta.

 

 

 

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