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La guerra di Obama sull’ineguaglianza, di Paul Krugman (New York Times 20 maggio 2016)

 

Obama’s War on Inequality

Paul Krugman MAY 20, 2016

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There were two big economic policy stories this week that you may have missed if you were distracted by Trumpian bombast and the yelling of the Sanders dead-enders. Each tells you a lot about both what President Obama has accomplished and the stakes in this year’s election.

One of those stories, I’m sorry to say, did involve Donald Trump: The presumptive Republican nominee — who has already declared that he will, in fact, slash taxes on the rich, whatever he may have said in the recent past — once again declared his intention to do away with Dodd-Frank, the financial reform passed during Democrats’ brief window of congressional control. Just for the record, while Mr. Trump is sometimes described as a “populist,” almost every substantive policy he has announced would make the rich richer at workers’ expense.

The other story was about a policy change achieved through executive action: The Obama administration issued new guidelines on overtime pay, which will benefit an estimated 12.5 million workers.

What both stories tell us is that the Obama administration has done much more than most people realize to fight extreme economic inequality. That fight will continue if Hillary Clinton wins the election; it will go into sharp reverse if Mr. Trump wins.

Step back for a minute and ask, what can policy do to limit inequality? The answer is, it can operate on two fronts. It can engage in redistribution, taxing high incomes and aiding families with lower incomes. It can also engage in what is sometimes called “predistribution,” strengthening the bargaining power of lower-paid workers and limiting the opportunities for a handful of people to make giant sums. In practice, governments that succeed in limiting inequality generally do both.

We can see this in our own history. The middle-class society that baby boomers like me grew up in didn’t happen by accident; it was created by the New Deal, which engineered what economists call the “Great Compression,” a sharp reduction in income gaps. On one side, pro-labor policies led to a striking expansion of unions, which, along with the establishment of a fairly high minimum wage, helped raise wages, especially at the bottom. On the other side, taxes on the wealthy went up sharply, while major programs like Social Security aided working families.

We can also see this in cross-country comparisons. Among advanced countries, the U.S. has the highest level of inequality, Denmark the lowest. How does Denmark do it? Partly with higher taxes and bigger social programs, but it starts with lower inequality in market incomes, thanks in large part to high minimum wages and a labor movement representing two-thirds of workers.

Now, America isn’t about to become Denmark, and Mr. Obama, facing relentless opposition in Congress, has never been in a position to repeat the New Deal. (Even F.D.R. made limited headway against inequality until World War II gave the government unusual influence over the economy.) But more has happened than you might think.

Most obviously, Obamacare provides aid and subsidies mainly to lower-income working Americans, and it pays for that aid partly with higher taxes at the top. That makes it an important redistributionist policy — the biggest such policy since the 1960s.

And between those extra Obamacare taxes and the expiration of the high-end Bush tax cuts made possible by Mr. Obama’s re-election, the average federal tax rate on the top 1 percent has risen quite a lot. In fact, it’s roughly back to what it was in 1979, pre-Ronald Reagan, something nobody seems to know.

What about predistribution? Well, why is Mr. Trump, like everyone in the G.O.P., so eager to repeal financial reform? Because despite what you may have heard about its ineffectuality, Dodd-Frank actually has put a substantial crimp in the ability of Wall Street to make money hand over fist. It doesn’t go far enough, but it’s significant enough to have bankers howling, which is a good sign.

And while the move on overtime comes late in the game, it’s a pretty big deal, and could be the beginning of much broader action.

Again, nothing Mr. Obama has done will put more than a modest dent in American inequality. But his actions aren’t trivial, either.

And even these medium-size steps put the lie to the pessimism and fatalism one hears all too often on this subject. No, America isn’t an oligarchy in which both parties reliably serve the interests of the economic elite. Money talks on both sides of the aisle, but the influence of big donors hasn’t prevented the current president from doing a substantial amount to narrow income gaps — and he would have done much more if he’d faced less opposition in Congress.

And in this as in so much else, it matters hugely whom the nation chooses as his successor.

 

La guerra di Obama sull’ineguaglianza, di Paul Krugman

New York Times 20 maggio 2016

Questa settimana ci sono due grandi notizie  di politica economica che potrebbero esservi sfuggite, se eravate distratti dalla retorica trumpiana e dagli strepiti degli irriducibili di Sanders. Entrambe sono molto significative sia di quello che il Presidente Obama ha conseguito che della posta in gioco nelle elezioni di quest’anno.

Una di queste notizie, sono spiacente, ha riguardato Donald Trump: il probabile candidato repubblicano – che ha già dichiarato che abbatterà, in sostanza, le tasse sui ricchi, qualsiasi cosa possa aver detto nel recente passato – ha ancora una volta affermato la sua intenzione di eliminare la Dodd-Frank [1], la riforma finanziaria approvata durante la breve finestra di controllo del Congresso da parte dei democratici. Solo per memoria, mentre il signor Trump è talvolta descritto come un “populista”, praticamente ogni politica sostanziale che ha annunciato farebbe diventare i ricchi più ricchi a spese dei lavoratori.

L’altra notizia era relativa ad un cambiamento politico realizzato attraverso una iniziativa di competenza dell’esecutivo: l’Amministrazione Obama ha deliberato nuove linee guida sulle retribuzioni degli straordinari, dalle quali trarranno vantaggio dodici milioni e mezzo di lavoratori stimati.

Quello che queste notizie ci dicono è che la Amministrazione Obama ha fatto molto di più per combattere le smisurate diseguaglianze economiche, di quello che la maggioranza della gente comprende. Quella battaglia continuerà se Hillary Clinton vince le elezioni; se vince Trump conoscerà una brusca inversione.

Facciamo un breve passo indietro per chiederci: cosa può fare la politica per limitare l’ineguaglianza? Può impegnarsi nella redistribuzione, tassando i redditi alti e aiutando le famiglie con i redditi più bassi. Essa può anche impegnarsi in quella che talvolta viene definita “predistribuzione”, rafforzando il potere contrattuale  dei lavoratori meno pagati e limitando le opportunità di realizzare giganteschi guadagni ad una manciata  di individui. In pratica, i Governi che riescono a limitare l’ineguaglianza in genere fanno entrambe le cose.

Lo possiamo constatare nella nostra storia. La società di classe media nella quale crebbe la generazione dei “baby boom” [2] cui anch’io appartengo, non fu figlia del caso; fu creata dal New Deal, che architettò quella che gli economisti chiamano la “Grande Compressione”, una brusca riduzione dei differenziali del reddito. Da una parte, politiche a favore del lavoro portarono ad una impressionante espansione dei sindacati, che, assieme alla fissazione di un salario minimo abbastanza elevato, contribuì ad elevare le retribuzioni, specialmente le più basse. Dall’altra parte, le tasse sui ricchi crebbero in modo rilevante, mentre importanti programmi come la Previdenza Sociale aiutarono le famiglie dei lavoratori.

Possiamo anche constatarlo nei confronti tra i vari paesi. Tra i paesi avanzati, gli Stati Uniti hanno il più alto livello di ineguaglianza, la Danimarca il più basso. Come ci è riuscita, la Danimarca? In parte con tasse più alte e con più forti programmi sociali, ma ciò prende le mosse da una minore ineguaglianza nei redditi di mercato, grazie soprattutto ad alti salari minimi ed a un movimento sindacale che rappresenta due terzi dei lavoratori.

Ora, l’America non è prossima a diventare come la Danimarca e Obama, che affronta una opposizione implacabile nel Congresso, non è mai stato nella condizione di ripetere il New Deal (persino Franklin Delano Roosevelt fece limitati progressi contro l’ineguaglianza, sinché la Seconda Guerra Mondiale non diede al Governo una influenza inusuale sull’economia). Ma è accaduto qualcosa di più di quello che potreste pensare.

L’aspetto più evidente è che la riforma sanitaria di Obama ha fornito aiuto e sussidi ai lavoratori americani con redditi più bassi, ed ha pagato quell’aiuto in parte con tasse più elevate sui più ricchi. É questo che ha fatto di essa una importante politica redistributiva – la più grande politica redistributiva a partire dagli anni ’60.

E tra quelle tasse aggiuntive della riforma sanitaria e l’esaurimento degli sgravi fiscali esclusivi di Bush resa possibile dalla rielezione di Obama,  l’aliquota fiscale media federale sull’1 per cento dei più ricchi è cresciuta parecchio. In sostanza, essa è grosso modo tornata a quello che era nel 1979, prima di Ronald Reagan, qualcosa che nessuno sembra riconoscere.

Cosa dire della predistribuzione? Ebbene, perché il signor Trump, come tutti nel Partito Repubblicano, è così ansioso di abrogare la riforma del sistema finanziario? Perché, nonostante quello che potere aver sentito dire sulla sua inefficacia, la Dodd-Frank ha posto un ostacolo sostanziale nella capacità di Wall Street di far soldi a più non posso. Essa non è andata abbastanza lontano, ma è abbastanza significativo che i banchieri strepitino, che è un segno buono.

E  se la mossa sugli straordinari è arrivata nella fase finale della partita, si tratta di un affare piuttosto rilevante, e potrebbe essere l’inizio di una azione molto più ampia.

Lo ripeto, quello che ha fatto Obama non rappresenta di più che una modesta scalfittura nell’ineguaglianza in America. Ma entrambi le sue iniziative sono tutt’altro che banali.

Ed anche questi passi di media entità sbugiardano il pessimismo ed il fatalismo che su questo tema circolano anche troppo frequentemente. No, l’America  non è un’oligarchia nella quale entrambi i Partiti sono affidabilmente al servizio degli interessi della classe dirigente economica. I soldi parlano a entrambi i settori dello schieramento politico, ma l’influenza dei grandi donatori non ha impedito al Presidente attuale di fare una quantità sostanziale di cose per ridurre i differenziali del reddito – ed avrebbe fatto molto di più se avesse fronteggiato una minore opposizione nel Congresso.

E in questo come in molto altro, sarà enormemente importante chi la nazione sceglierà come il suo successore.

 

 

[1] E il nome che ha assunto la riforma del sistema finanziario approvata a seguito della crisi del 2008. Barney Frank, il primo uomo politico americano dichiaratamente gay, e Chris Dodd provengono entrambi dal Partito Democratico.

[2] Ovvero la generazione che coincise con il forte incremento demografico successivo alla Seconda Guerra Mondiale.

 

 

 

 

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