Letture e Pensieri sparsi, di Marco Marcucci

Gli economisti, la politica e la Repubblica di Platone, di Marco Marcucci. Settembre 2016.

Gli economisti, la politica e la Repubblica di Platone.   

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Tra i commentatori nazionali non si trova praticamente nessuno che si sia voluto misurare con una ricostruzione del dibattito economico degli anni passati. L’imbarazzo si spiega, perché se in apparenza si è passati da un consenso abbastanza vasto alla politica europea sull’austerità giudicata ineludibile, ad una intermedia rivendicazione di austerità più investimenti, al recente riconoscimento – ma solo di una parte del centrosinistra europeo –  che l’austerità è stata un errore; in sostanza tutte queste contorsioni sono state possibili nell’ignoranza più completa delle implicazioni di modello macroeconomico. E i commentatori hanno seguito la stessa evoluzione del dibattito politico.

In tal modo, l’andamento degli indicatori economici che avrebbero dovuto apparire come evidentemente sintomatici di una implicazione macroeconomica più generale – la bassa inflazione quando non la deflazione, i tassi di interesse ai minimi storici, la tardività di una ripresa comunque anemica – sono rimasti privi di una spiegazione sostanziale. L’iniezione di liquidità della nuova politica monetaria di Draghi, dopo che la precedente grottesca politica della BCE di Jean-Claude Trichet non aveva ricevuto obiezioni praticamente da nessuno, è stata accolta come una speranza di miracolo; anche qua tacitando la preoccupazione degli economisti che mettevano in risalto il grande prevedibile divario tra la crescita della base monetaria ed il suo sostanziale utilizzo.

Tantomeno i commentatori si sono curati di raccogliere quelle analisi che indicavano i mali che erano all’origine di questo prolungato periodo di una politica orfana di analisi macroeconomica. Tra di essi, il fatto che l’indirizzo tedesco della politica economica europea – oltre a derivare da una ‘scuola’ di pensiero economico assolutamente peculiare, impermeabile al keynesismo (vedi tra queste traduzioni i saggi relativi alla storia del pensiero economico tedesco nel secolo scorso, in particolare quello di Peter Bofinger di questa estate) – derivava anche da una struttura istituzionale che lasciava gli andamenti dell’economia alla mercé dei presunti interessi dei paesi più forti (presunti, perché anch’essi non durevoli all’infinito). La semplice considerazione del grande vantaggio per l’economia tedesca di poter usufruire di tassi di cambio europei assolutamente favorevoli rispetto al tasso di cambio di una ipotetica moneta tedesca – considerazione così evidente, che su di essa ha dovuto insistere un analista certo non estremista come Ben Bernanke (vedi tra queste traduzioni, “L’avanzo commerciale della Germania è un problema”, 13 aprile 2015) – probabilmente è stata considerata alla stregua di un reato di lesa maestà, al punto che non mi pare sia stata ripresa da nessun commentatore.

Al di là di una certa evoluzione del linguaggio, in sostanza, siamo ancora alle prese con una politica che rifiuta di considerare l’esistenza di diffusi ragionamenti di politica e di teoria economica che spiegano la nostra storia recente. E di commentatori – includendo in primis gli editorialisti della domenica – che non hanno fatto niente per colmare questo divario. Solo in modesta misura, quel divario è stato ridotto almeno nella comprensione dei grandi problemi istituzionali dell’impianto europeo. Ma riconoscere che c’è bisogno di un nuovo “spirito di Ventotene”, senza chiarire contro cosa e contro chi, e senza ammettere che in sostanza, come spiega semplicemente Stiglitz nella sua ultima conversazione qua tradotta dell’8 settembre 2016, l’Unione Europea è nata privandosi degli strumenti della “correzione economica” (tassi di cambio e tassi di interesse) e non li ha sostituiti con niente, se non con una vantaggio implicito e cumulativo per i paesi più forti,  può non portare da nessuna parte, se non, al massimo, ad un nuovo capitolo di retorica europeista.

Quindi si è creata una vasta area depressionaria, forse la possiamo definire così, tra politica ed analisi economica. Che alla fine sta provocando il risultato di spingere vari economisti ad occuparsi sempre più direttamente di politica.

È probabile che questo mio ragionamento sia un po’ semplicistico. Però trova singolari conferme almeno in alcuni autori che qua sono frequentemente tradotti. Anzitutto, ovviamente, Paul Krugman. Ma anche l’inglese Simon Wren-Lewis e Joseph Stiglitz, sia pure con le modalità che corrispondono nel suo caso al più vasto prestigio internazionale. E forse si potrebbe aggiungere anche Larry Summers, che non appare direttamente impegnato nella vicenda politica quotidiana americana, ma le cui intuizioni sulla “stagnazione secolare” ne fanno sempre più un punto di riferimento nella politica monetaria ed economica degli Stati Uniti.

Nel caso di Krugman non si tratta in apparenza di una novità, giacché in questi mesi ha semplicemente continuato a scrivere i suoi due articoli settimanali sul New York Times. Forse la novità è soprattutto la conseguenza della, a mio parere, crescente forza ‘logica’ del suo giornalismo. Non casualmente, egli si è trovato al centro della sostanza del dibattito politico americano per effetto della sua sistematica scelta di alcuni argomenti principali. Nella fase delle primarie, l’argomento della quasi ineluttabilità della vittoria di Trump, considerata come la conseguenza naturale della storia repubblicana di questi anni, in fondo consistita nel duplice ingrediente del costante tentativo di sfruttare gli ammiccamenti al razzismo ed al populismo e di ridurre la ricetta economica all’obbiettivo degli sgravi fiscali per i più ricchi. Egli ha visto con mesi di anticipo la débâcle alle primarie del gruppo dirigente repubblicano, seppellito in parte dalla propria inconsistenza e in parte dalla propria completa e storica contiguità con il populismo. Poi per effetto della polemica contro i semplicismi della ricetta economica di Bernie Sanders; un tema per lui quasi obbligato – quei semplicismi avevano messo Sanders in contrasto con una parte significativa degli economisti statunitensi – eppure un tema che ha avuto non poco rilievo nell’indicare un limite generale del sandersismo. Infine, nella campagna elettorale in corso, la sua insistenza – che ormai dura in pratica dal 2000 – nel mettere al centro della sua polemica il giornalismo ‘centrista’ in quanto tale, ormai un potere fondamentale nella costruzione di miti e nel racconto ‘asimmetrico’ della politica. Occorrerebbe una analisi più ampia, ma la forza logica di questi argomenti ha finito per collocarlo, se non sbaglio, in un posto centrale nel processo elettorale, se non altro perché fare molteplici previsioni giuste alla fine produce effetti vasti. Sugli stessi argomenti, i giornali italiani hanno sostenuto per mesi una tesi nei giorni pari e quella opposta nei giorni dispari.

Wren-Lewis, che in queste traduzioni non seguiamo come vorremmo, si è anch’egli trovato in prima linea, difendendo il successo alle primarie del Partito Laburista di Corbin, impegnandosi poi a suo favore in un gruppo di prestigiosi consulenti economici, che inizialmente includeva lo stesso Stiglitz e la Mazzuccato, per poi prenderne le distanze, dopo l’incolore prestazione del nuovo leader laburista nella vicenda della Brexit.

Come ho detto, nel caso di Stiglitz o di Summers, entrambi più distanti dalla polemica politica quotidiana, si tratta di altro, di qualcosa che attiene maggiormente alle implicazioni del più profondo ragionamento economico. È esemplare la traduzione della recente conversazione di Stiglitz su “Social Europe”, nella quale con molta efficacia egli sottolinea gli argomenti di fondo che in Europa dovrebbero costringere ad una svolta radicale, inclusa l’evenienza di un parziale superamento dell’euro. In tanta retorica europeista, la sua tesi sulla prevedibile quasi ineluttabilità di una difesa da parte della Germania dei suoi interessi, oltre che della sua un po’ inquietante cultura economica, è una specie di macigno; non si vede come se ne potrà prescindere. Altrettanto significativo è il recente articolo dal titolo “Un programma economico migliore per il Giappone” del 14 settembre, qua tradotto. E lo stesso si potrebbe dire per Summers: aver reso esplicita per primo la tesi della stagnazione secolare, lo colloca al centro del dibattito americano in materia di politica monetaria (curiosamente alleato di Krugman, dopo che il suo appoggio era mancato, al momento della candidatura di Summers alla Presidenza della Fed). Direi che, in sostanza, si individua anche in questi autori una sorta di ansia nel passare da una analisi generale degli andamenti economici, ad un impegno più diretto nel suggerimento di rimedi pratici, che interloquiscono direttamente col dibattito politico europeo o con quella sulla politica monetaria statunitense.

Si dovrebbe aggiungere un riferimento ad un altro tema, che in un certo senso è anch’esso indicativo di questo processo di avvicinamento un po’ fatale degli economisti alla politica (così come praticata). Mi riferisco alla insistenza sempre maggiore nel dibattito tra gli economisti sul tema della cosiddetta ricetta dei ‘soldi dall’elicottero’, ovvero di una politica monetaria che si spinga sino al finanziamento con creazione di nuova moneta di programmi pubblici. Nelle traduzioni di questi mesi si trovano molti interventi al proposito (tra gli altri, particolarmente significativo quello di Ben Bernanke dell’11 aprile 2016). Mi limito a segnalare una impressione molto semplice: il fatto che se ne parli molto, e che lo si faccia adesso all’ottavo anno della crisi, non è indice di una crescente sensazione tra gli economisti di una politica che ha toccato quasi un suo punto limite? Non indica un tentativo di pensare a qualcosa d’altro, oltre una politica che rischia di restare inchiodata, negli Stati Uniti ad una non del tutto inverosimile Presidenza Trump, e in Europa al difficile garbuglio di un ripensamento radicale, che i tedeschi dovrebbero contribuire a promuovere modificando la loro cultura e rinunciando ai loro interessi consolidati?

Come si è capito, queste considerazioni che ho svolto, in parte sono un modo un po’ strumentale con il quale ho inteso – come spesso faccio –  fornire indicazioni sugli argomenti principali che nei mesi passati sono comparsi su questo blog di traduzioni economiche.

Ma forse sono anche qualcosa di più. Nel senso che c’è qualcosa che pare giunto ad un punto limite anche nel dibattito tra gli economisti. Come se il divorzio tra politica e gli economisti progressisti di questi anni, che alla fine è sembrato interamente risarcito da fatti che hanno confermato le diagnosi di questi ultimi, fosse giunto ad un nuovo capitolo. Non si tratterebbe tanto di ipotizzare un loro partito, ovviamente, quasi un loro status privilegiato di “governanti-filosofi” in una Repubblica platoniana. Si tratterebbe semplicemente di capire se non ci sono modi e strumenti (ad esempio, confronti diretti, visto che in pratica non si parlano; dibattiti e convegni di livello internazionale; riviste; organismi pubblici di consulenza) per rendere la politica più permeata da idee dalle quali non si capisce come potrà prescindere. E per mettere a nudo la mediazione sinora inadeguata e presuntuosa di molti commentatori.

 

 

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