Letture e Pensieri sparsi, di Marco Marcucci

‘Eccezionalismo’ americano e populismi europei, di Marco Marcucci (gennaio 2017)

Eccezionalismo americano e populismi europei, di Marco Marcucci

zz 296Mi chiedo spesso in che modo la società americana spieghi la politica in quel paese, quello che viene definito il suo “eccezionalismo”, le sue differenze dall’Europa. Mi chiedo anche il perché di una certa tendenza di coloro che commentano i fatti dell’America, direi quasi ad eludere quelle diversità.

Il nodo centrale sembra abbastanza evidente: come ha notato Krugman, il ‘populismo’ americano è abbastanza falso; o meglio, le sue basi sociali sono false, mentre una parte della sua cultura e del suo linguaggio sembrano la quintessenza delle novità della destra nel mondo.

Ma andiamo con ordine. La falsità consiste evidentemente nel fatto che il programma della destra americana si basa su un classismo rigido sino all’inconcepibile, diversamente dai populismi nell’Europa dell’Est o in Francia e in Italia, che non disdegnano tematiche di tutela sociale dei meno abbienti (purché autoctoni, nota Krugman). Questo sembra chiaro: difficile immaginare la destra europea con un programma basato interamente su imponenti sgravi fiscali per più ricchi e su un progetto di smantellamento della sanità e della previdenza pubblica (in realtà, il berlusconismo di governo si è basato su una discreta ambiguità, ma neanche in quel caso era concepibile una proposta di aperto e completo scardinamento dello Stato sociale). Entrambe le ideologie necessitano di quello che definirei un fattore di accanimento contro i settori più marginali; ma in America questo fattore allude a motivazioni di una lunga storia di razzismo (quello che il linguaggio comune del popolo di destra americano racchiude nella espressione “Those people”, la gentaglia, i poveracci, le persone di colore), in Europa allude ad un razzismo di nuovo conio, verso i migranti. Diciamo che in entrambe è indispensabile un ingrediente di accanimento verso chi ha più bisogno di aiuto, ma là il nemico viene soprattutto da una lunga storia interna, qua si preferisce immaginare che venga da fuori la nostra storia.

Forse si dovrebbe dunque riconoscere che la prima e più rilevante differenza sta nel fatto che gli interessi di classe diretti, immediati, concreti di chi sta in alto nella scala sociale americana sono espressi apertamente. Favorire i più ricchi con tasse ancora più basse e concepire una politica economica basata sui supposti effetti di diffusione della loro ricchezza verso il basso – la famigerata economia del “trickle down” – in America è un’idea che sembra avere normale cittadinanza; qua sarebbe difficile affermarla in modo altrettanto privo di pudore.

Va però subito detto, che anche in America le cose non sono così chiare. Tutti i sondaggi indicano che anche la più ampia base elettorale della destra repubblicana americana non è così favorevole a progetti di smantellamento dello Stato sociale; la contrarietà a manomissioni di Medicare e del programma della Social Security sono evidenti (mentre il popolo di destra non è probabilmente affatto contrario allo smantellamento di Medicaid, ovvero dell’assistenza sanitaria per i più poveri).  Anzi: questo è stato un fattore non secondario della differenza tra Trump e il gruppo dirigente repubblicano; Trump ha travolto quel gruppo dirigente anche con una buona dose di freddezza, di ammiccamenti e di ambiguità su quei programmi di smantellamento dei programmi sociali. E dunque? È il classismo (espressione normale nel linguaggio politico americano, del tutto desueta da noi) la differenza? E se lo fosse, come si spiegherebbe che le destre sulle due sponde dell’oceano sono percepite così simili, o almeno omologhe?

Probabilmente si deve fare uno sforzo per andare più in profondo, per individuare domande più pertinenti e più capaci di produrre spiegazioni. Sulla base del materiale qua tradotto, mi verrebbe da suggerirne alcune.

La prima questione mi pare chiaramente introdotta dagli articoli del blog di Thomas Picketty. L’economia americana ha conosciuto negli ultimi decenni una impressionante crescita di ineguaglianze. Non si tratta solo del fatto che esse siano state probabilmente più cospicue di quelle europee; lo stesso fenomeno in Europa è stato attenuato da Stati più permeabili da istanze sociali, non solo nelle politiche fiscali, anche, ad esempio, nella organizzazione del sistema educativo. Il fatto è che la stagnazione dei redditi non solo bassi, ma anche medi (i redditi del 50% della popolazione meno ricca) è probabilmente stata assai più grave. Se si fermano gli occhi sul diagramma prodotto da Picketty nel post “WID.mondo; nuove serie di dati sull’ineguaglianza e sul collasso dei redditi bassi” (11 gennaio 2017), si ha la percezione di un fenomeno impressionante di interdipendenza tra i due processi: pare quasi che i redditi dell’1 per cento dei più ricchi siano raddoppiati perché i redditi del 50 per cento dei meno ricchi si sono quasi dimezzati (come quota di un PIL nel frattempo cresciuto, quindi in media hanno ristagnato). Quel diagramma rappresenta la storia di un “trickle up”, non di un “trickle down”. In sostanza, dunque, una molto maggiore evidenza di un contrasto materiale di interessi.
zz 281

 

Ma in che modo quel contrasto materiale di interessi, per dir così, approda alla politica? Perché si deve pur riconoscere che non appare comunque semplice costruire, sulla materialità di quegli interessi contrapposti, una politica che si basi sull’idea di arricchire sempre di più i più ricchi; un concetto del genere, in Europa, difficilmente potrebbe esser posto alla base di una formazione politica populista. Perché, da Reagan in poi, l’idea di una “effetto cascata” della ricchezza dei più ricchi è apparso lecita in America, mentre da noi preferibilmente è tenuta nascosta?

Probabilmente, qua bisogna attingere alle molte spiegazioni fornite da anni da Krugman sulla crisi istituzionale della democrazia americana. Il fattore decisivo è il finanziamento della politica americana: quell’1 per cento ripaga apertamente la politica, la sorregge con i meccanismi delle donazioni elettorali, in particolare con le attività lobbistiche e, a destra, con il finanziamento delle Fondazioni; e le Fondazioni sono una sorta di assicurazione per la vita per una parte dei dirigenti politici. Mi pare del tutto persuasiva l’idea più volte espressa da Krugman, secondo la quale si è venuto determinando con il tempo un esplicito scambio tra i settori straricchi della popolazione e il personale politico della destra americana: da una parte incardinare la politica economica sui favori fiscali e lobbistici ai gruppi dominanti, rendere quella politica in fondo legittima, portandole in dote un consenso populistico che attinge ad una lunga storia anche di razzismo; e dall’altra parte raccoglierne benefici materiali in varie forme.

Ma tutto quello che ho detto sinora, spiegherebbe la situazione americana sino al voto di novembre scorso, o meglio sino all’avvio di quella campagna elettorale con le primarie dei Partiti. Anzi: in un certo senso, quello schema è andato in crisi prima di tutto con le primarie repubblicane che hanno messo in liquidazione il gruppo dirigente di quel Partito. Era quel gruppo dirigente che incarnava quel compromesso e che probabilmente sarebbe andato verso una chiara sconfitta elettorale. Resta dunque da spiegare la novità principale: come è stato possibile che quel compromesso che non bastava più sia stato salvato in extremis da un populismo di tipo nuovo, che nel giro di poche settimane ha prima messo da parte la classe dirigente di quel Partito e poi conquistato la Casa Bianca?  E in che senso quel populismo di tipo nuovo avrebbe una somiglianza con il populismo europeo?

Comprendere quello che è accaduto nella concatenazione dei due eventi – liquidazione del gruppo dirigente repubblicano e successivo (quasi) successo elettorale – pare fondamentale. In soccorso di quello scambio che non bastava più – una demagogia con toni di prepotenza, con metodi ostruzionistici e contorni razzisti all’opposizione, per poi adottare al governo una reale politica economica che seguiva la stella polare degli interessi dei redditi altissimi – è arrivata una nuova ideologia, che prima non esisteva. È una ideologia basata su un linguaggio molto più prepotente e su gesti spettacolari; indifferente alla logica, alla coerenza, ed anche alla verità più semplice; capace di sprigionare una apparente conflittualità anti sistema scegliendosi volta a volta avversari significativi (minoranze etniche, intellettualità, singole imprese anche grandi, settori dell’informazione); in generale ostile ai processi democratici, ai quali contrappone l’idea del potere di un individuo che è autoritario semplicemente perché ha chiesto quel potere per esercitarlo quasi illimitatamente.  Le regole e le storie delle istituzioni appaiono sovvertibili, comprese quelle del commercio internazionale, perché l’uomo al comando si presenta come capace di riassumere in sé stesso il processo decisionale; semplicemente nella sua comunicazione ha risolto in anticipo il tema di un sovvertimento del sistema politico. Un linguaggio apparentemente anti sistema che nella sua radicalità trova le condizioni per mascherare molto più efficacemente del passato gli interessi materiali che si contendono il sistema.

Sembrerebbe, in conclusione, che classismo, ineguaglianze e dipendenza dagli interessi materiali delle classi dominanti restino il tratto distintivo dell’agenda dei conservatori americani. E questa, sinora, sembra ancora un salto logico che il populismo europeo non potrà superare facilmente. Ma oggi il tutto passa da una radicale novità antidemocratica, e questo probabilmente sarà alla fine il messaggio che resterà a disposizione delle destre di tutto il mondo.

 

(Il libro che metto in copertina con tutto questo non c’entra niente. Walter Benjamin fu uno straordinario intellettuale europeo ed ebreo, non facile da studiare neppure per gli esperti. Forse neanche facile da definire, tra i suoi capolavori di critica letteraria, di filosofia del linguaggio, le sue descrizioni delle anime delle città europee, i suoi rapporti con artisti marxisti e con esponenti della intellettualità ebraica. Ma nel libro c’è anche la sua esistenza straordinariamente ostinata e spesso infelice, il suo seguire un tragitto intellettuale unico al tempo stesso cercando di procurarsi da vivere, scrivendo quello che riteneva possibile pubblicare. La sua ostinazione a studiare, a scrivere e a sopravvivere, in fuga dall’hitlerismo, con tutto l’impaccio di un intellettuale al centro di relazioni ricchissime, eppure di un uomo solo. La fuga terminò nel 1940, quando si tolse la vita in Spagna per aver scelto un giorno sbagliato per attraversare il confine, mentre aveva già in tasca un visto per gli Stati Uniti d’America.)    

 

By


Commenti dei Lettori (0)


E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"