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Più ruggine nella “cintura della ruggine”, di Paul Krugman (New York Times 27 gennaio 2017)

 

Making the Rust Belt Rustier

Paul Krugman JAN. 27, 2017

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Donald Trump will break most of his campaign promises. Which promises will he keep?

The answer, I suspect, has more to do with psychology than it does with strategy. Mr. Trump is much more enthusiastic about punishing people than he is about helping them. He may have promised not to cut Social Security and Medicare, or take health insurance away from the tens of millions who gained coverage under Obamacare, but in practice he seems perfectly willing to satisfy his party by destroying the safety net.

On the other hand, he appears serious about his eagerness to reverse America’s 80-year-long commitment to expanding world trade. On Thursday the White House said it was considering a 20 percent tariff on all imports from Mexico; doing so wouldn’t just pull the U.S. out of NAFTA, it would violate all our trading agreements.

Why does he want this? Because he sees international trade the way he sees everything else: as a struggle for dominance, in which you only win at somebody else’s expense.

His Inaugural Address made that perfectly clear: “For many decades we’ve enriched foreign industry at the expense of American industry.” And he sees punitive tariffs as a way to stop foreigners from selling us stuff, and thereby revive the “rusted-out factories scattered like tombstones across the landscape.”

Unfortunately, as just about any economist could tell him — but probably not within his three-minute attention span — it doesn’t work that way. Even if tariffs lead to a partial reversal of the long decline in manufacturing employment, they won’t add jobs on net, just shift employment around. And they probably won’t even do that: Taken together, the new regime’s policies will probably lead to a faster, not slower, decline in American manufacturing.

How do we know this? We can look at the underlying economic logic, and we can also look at what happened during the Reagan years, which in some ways represent a dress rehearsal for what’s coming.

Now, I’m talking about the reality of Reagan, not the Republicans’ legend, which assigns all blame for the early-1980s recession to Jimmy Carter and all credit for the subsequent recovery to the sainted Ronald. In fact, that whole cycle had almost nothing to do with Reagan policies.

What Reagan did do, however, was blow up the budget deficit with military spending and tax cuts. This drove up interest rates, which drew in foreign capital. The inflow of capital, in turn, led to a stronger dollar, which made U.S. manufacturing uncompetitive. The trade deficit soared — and the long-term decline in the share of manufacturing in overall employment accelerated sharply.

Notably, it was under Reagan that talk of “deindustrialization” and the use of the term “Rust Belt” first became widespread.

It’s also worth pointing out that the Reagan-era manufacturing decline took place despite a significant amount of protectionism, especially a quota on Japanese car exports to America that ended up costing consumers more than $30 billion in today’s prices.

Will we repeat this story? The Trump regime will clearly blow up the deficit, mainly through tax cuts for the rich. (Funny, isn’t it, how all the deficit scolds have gone quiet?) True, this may not boost spending very much, since the rich will save much of their windfall while the poor and the middle class will face harsh benefits cuts. Still, interest rates have already risen in anticipation of the borrowing surge, and so has the dollar. So we do seem to be following the Reagan playbook for shrinking manufacturing.

It’s true that Mr. Trump appears ready to practice a much more extreme form of protectionism than Reagan, who avoided outright violations of existing trade deals. This could help some manufacturing industries. But it will also drive the dollar higher, hurting others.

And there’s a further factor to consider: The world economy has gotten a lot more complex over the past three decades. These days, hardly anything is simply “made in America,” or for that matter “made in China”: Manufacturing is a global enterprise, in which cars, planes and so on are assembled from components produced in multiple countries.

What will happen to this enterprise if the United States takes a meat ax to the agreements that govern international trade? There will, inevitably, be huge dislocation: Some U.S. factories and communities will benefit, but others will be hurt, bigly, by the loss of markets, crucial components or both.

Economists talk about the “China shock,” the disruption of some communities by surging Chinese exports in the 2000s. Well, the coming Trump shock will be at least as disruptive.

And the biggest losers, as with health care, will be white working-class voters who were foolish enough to believe that Donald Trump was on their side.

 

Più ruggine nella “cintura della ruggine”, di Paul Krugman

New York Times 27 gennaio 2017

Donald Trump farà saltare la maggioranza delle sue promesse elettorali. Quali promesse manterrà?

Ho il sospetto che la risposta abbia più a che fare con la psicologia che con la strategia. Trump è molto più entusiasta nel punire le persone che nell’aiutarle. Può aver promesso di non tagliare il programma della Previdenza Sociale e Medicare, o di non togliere l’assicurazione sanitaria a decine di milioni di persone che avevano guadagnato la assistenza con la riforma sanitaria di Obama, ma in pratica sembra perfettamente disponibile a soddisfare il suo Partito nel distruggere le reti della sicurezza sociale.

D’altra parte, sembra serio nel suo entusiasmo per rovesciare l’impegno dell’America alla espansione del commercio mondiale che dura da 80 anni. Giovedì alla Casa Bianca ha detto che sta considerando una tariffa del 20 per cento su tutte le importazioni dal Messico; farlo non solo spingerebbe gli Stati Uniti fuori dal NAFTA [1], sarebbe una violazione di tutti i nostri accordi commerciali.

Perché vuole farlo? Perché considera il commercio internazionale nello stesso modo nel quale considera ogni altra cosa: una lotta per il dominio, nella quale si vince solo a spese di qualcun altro.

Nel suo discorso inaugurale l’ha espresso in modo chiarissimo: “Per molti decenni abbiamo arricchito le industrie straniere a spese dell’industria americana”. E le tariffe punitive sono per lui un modo per impedire agli stranieri di continuare a venderci oggetti, e di conseguenza “rianimare le fabbriche arrugginite disseminate come pietre tombali nel nostro paesaggio”.

Sfortunatamente, come ogni economista gli potrebbe dire – ma probabilmente non nell’arco di tempo dei tre minuti della sua attenzione – le cose non vanno in quel modo. Anche se le tariffe portassero ad una inversione parziale del lungo declino della occupazione manifatturiera, esse non aggiungerebbero al netto posti di lavoro, semplicemente sposterebbero la localizzazione dell’occupazione. E probabilmente non faranno neanche questo: considerate complessivamente, le politiche del nuovo regime probabilmente porteranno ad un declino più rapido, non più lento, del settore manifatturiero americano.

Come facciamo a saperlo? Possiamo osservare la logica economica implicita, o possiamo anche osservare quello che avvenne durante gli anni di Reagan, che in qualche modo rappresentarono una prova generale di quanto si annuncia.

Ora, io sto parlando della realtà di Reagan, non delle leggende repubblicane che assegnano tutta la responsabilità per la recessione dei primi anni ’80 a Jimmy Carter e tutto il merito per la successiva ripresa a San Ronald. Di fatto, quell’intero ciclo economico non ebbe quasi niente a che fare con le politiche di Reagan.

Quello che Reagan fece per davvero, tuttavia, fu far esplodere il deficit di bilancio con le spese militari e gli sgravi fiscali. Questo spinse in alto i tassi di interesse, che attrassero capitale straniero. L’afflusso di capitale, a sua volta, portò a un dollaro più forte, che rese il settore manifatturiero degli Stati Uniti non competitivo. Il deficit commerciale si accrebbe – e il declino di lungo periodo nella quota manifatturiera dell’occupazione complessiva si accelerò bruscamente.

È rilevante che fu sotto Reagan che, per la prima volta, si generalizzò il parlare di “deindustrializzazione” e l’utilizzo dell’espressione “Cintura della Ruggine[2].

Merita anche di mettere in evidenza che l’epoca reaganiana del declino manifatturiero prese piede nonostante una dose significativa di protezionismo, in particolare con un limite massimo alle esportazioni di automobili giapponesi verso l’America che finì col costare ai consumatori più di 30 miliardi di dollari ai prezzi attuali.

Ripeteremo questa storia? Il regime di Trump chiaramente farà esplodere il deficit, principalmente attraverso gli sgravi fiscali sui ricchi (è buffo, non è così, come tutte le Cassandre del deficit si siano acquietate?). È vero, questo potrebbe non incoraggiare molto la spesa complessiva, dal momento che i ricchi risparmieranno una gran parte di quella manna, mentre i poveri e la classe media faranno i conti con bruschi tagli sui sussidi. Eppure, i tassi di interesse sono già saliti in anticipo sulla crescita dell’indebitamento, e lo stesso ha fatto il dollaro. Dunque sembra che ci stiamo incamminando sulla strada di una restrizione del manifatturiero, secondo il manuale di Reagan.

È vero, Trump sembra pronto a mettere in pratica una forma molto più estrema di protezionismo rispetto a Reagan, che aveva evitato aperte violazioni degli accordi commerciali esistenti. Questo potrebbe aiutare alcune industrie manifatturiere. Ma porterà anche il dollaro più in alto, danneggiandone altre.

E c’è un ulteriore fattore da considerare: nel corso dei tre decenni trascorsi l’economia mondiale è diventata molto più complessa. Di questi tempi e difficile che qualcosa sia semplicemente ‘fatto in America’, come del resto ‘fatto in Cina’: il settore manifatturiero è un’impresa globale, nella quale le automobili, gli aeroplani e tutto il resto sono assemblati da componenti prodotti in una molteplicità di paesi.

Cosa accadrà a questa impresa globale se gli Stati Uniti usano la mannaia sugli accordi che governano il commercio internazionale? Ci saranno, inevitabilmente, vaste rilocalizzazioni: alcune fabbriche e comunità degli Stati Uniti ne trarranno beneficio, ma altre ne saranno grandemente danneggiate, per la perdita di mercati, di componenti cruciali, o di entrambi.

Gli economisti parlano dello “shock cinese”, la disgregazione di alcune comunità a seguito delle crescenti esportazioni cinesi negli anni 2000. Ebbene, lo “shock di Trump” in arrivo sarà almeno altrettanto disgregante.

E coloro che ci rimetteranno maggiormente, come nel caso dell’assistenza sanitaria, saranno gli elettori della classe operaia bianca che sono stati così incoscienti da credere che Donald Trump stesse dalla loro parte.

 

 

 

[1] Il North American Free Trade Agreement (Accordo nordamericano per il libero scambio), conosciuto anche con l’acronimo NAFTA e, nei paesi di lingua spagnola, come TLCAN (Tratado de Libre Comercio de América del Norte o più semplicemente TLC), è un trattato di libero scambio commerciale stipulato tra Stati UnitiCanada e Messico e modellato sul già esistente accordo di libero commercio tra Canada e Stati Uniti (FTA), a sua volta ispirato al modello dell’Unione europea. L’Accordo venne firmato dai Capi di Stato dei tre paesi (il Presidente degli Stati Uniti George H. W. Bush, il Presidente Messicano Carlos Salinas de Gortari e il Primo ministro del Canada Brian Mulroney il 17 dicembre 1992 ed entrò in vigore il 1º gennaio 1994. (Wikipedia)

[2] Letteralmente la “Cintura della ruggine” è la grande area che comincia a New York e attraversa il settentrione passando per la Pennsylvania, la Virginia Occidentale, l’Ohio, l’Indiana e la parte più bassa della penisola del Michigan, per finire nella parte settentrionale dell’Illinois, in quella orientale dello Iowa e in quella sud orientale del Wisconsin. Ovvero, l’area che è stata caratterizzata maggiormente dai fenomeni della deindustrializzazione manifatturiera. Tale ‘Cintura’ è ben visibile in questa cartina da Wikipedia, dove le aree con una perdita maggiore di posti di lavoro manifatturieri sono segnate dal color marrone (perdite superiori al 58%) e in rosso (perdite dal 46 al 53%); mentre le aree con maggiori guadagni sono segnate dai colori verde chiaro e verde (i dati sono relativi al periodo dal 1954 al 2002):

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