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Trump e la verità sul cambiamento climatico, di Joseph E. Stiglitz (da Project Syndicate, 2 luglio 2017)

 

JUL 2, 2017

Trump and the Truth About Climate Change

JOSEPH E. STIGLITZ

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BRUSSELS – Under President Donald Trump’s leadership, the United States took another major step toward establishing itself as a rogue state on June 1, when it withdrew from the Paris climate agreement. For years, Trump has indulged the strange conspiracy theory that, as he put it in 2012, “The concept of global warming was created by and for the Chinese in order to make US manufacturing non-competitive.” But this was not the reason Trump advanced for withdrawing the US from the Paris accord. Rather, the agreement, he alleged, was bad for the US and implicitly unfair to it.

While fairness, like beauty, is in the eye of the beholder, Trump’s claim is difficult to justify. On the contrary, the Paris accord is very good for America, and it is the US that continues to impose an unfair burden on others.

Historically, the US has added disproportionately to the rising concentration of greenhouse gases in the atmosphere, and among large countries it remains the biggest per capita emitter of carbon dioxide by far – more than twice China’s rate and nearly 2.5 times more than Europe in 2013 (the latest year for which the World Bank has reported complete data). With its high income, the US is in a far better position to adapt to the challenges of climate change than poor countries like India and China, let alone a low-income country in Africa.

In fact, the major flaw in Trump’s reasoning is that combating climate change would strengthen the US, not weaken it. Trump is looking toward the past – a past that, ironically, was not that great. His promise to restore coal-mining jobs (which now number 51,000, less than 0.04% of the country’s nonfarm employment) overlooks the harsh conditions and health risks endemic in that industry, not to mention the technological advances that would continue to reduce employment in the industry even if coal production were revived.

In fact, far more jobs are being created in solar panel installation than are being lost in coal. More generally, moving to a green economy would increase US income today and economic growth in the future. In this, as in so many things, Trump is hopelessly mired in the past.

Just a few weeks before Trump’s decision to withdraw from the Paris accord, the global High-Level Commission on Carbon Prices, which I co-chaired with Nicholas Stern, highlighted the potential of a green transition. The Commission’s report, released at the end of May, argues that reducing CO2 emissions could result in an even stronger economy.

The logic is straightforward. A key problem holding back the global economy today is deficient aggregate demand. At the same time, many countries’ governments face revenue shortfalls. But we can address both issues simultaneously and reduce emissions by imposing a charge (a tax) for CO2 emissions.

It is always better to tax bad things than good things. By taxing CO2, firms and households would have an incentive to retrofit for the world of the future. The tax would also provide firms with incentives to innovate in ways that reduce energy usage and emissions – giving them a dynamic competitive advantage.

The Commission analyzed the level of carbon price that would be required to achieve the goals set forth in the Paris climate agreement – a far higher price than in most of Europe today, but still manageable. The commissioners pointed out that the appropriate price may differ across countries. In particular, they noted, a better regulatory system – one that restrains coal-fired power generation, for example – reduces the burden that must be placed on the tax system.

Interestingly, one of the world’s best-performing economies, Sweden, has already adopted a carbon tax at a rate substantially higher than that discussed in our report. And the Swedes have simultaneously sustained their strong growth without US-level emissions.

America under Trump has gone from being a world leader to an object of derision. In the aftermath of Trump’s withdrawal of the US from the Paris accord, a large sign was hung over Rome’s city hall: “The Planet First.” Likewise, France’s new president, Emmanuel Macron, poked fun at Trump’s campaign slogan, declaring “Make Our Planet Great Again.”

But the consequences of Trump’s actions are no laughing matter. If the US continues to emit as it has, it will continue to impose enormous costs on the rest of the world, including on much poorer countries. Those who are being harmed by America’s recklessness are justifiably angry.

Fortunately, large parts of the US, including the most economically dynamic regions, have shown that Trump is, if not irrelevant, at least less relevant than he would like to believe. Large numbers of states and corporations have announced that they will proceed with their commitments – and perhaps go even further, offsetting the failures of other parts of the US.

In the meantime, the world must protect itself against rogue states. Climate change poses an existential threat to the planet that is no less dire than that posed by North Korea’s nuclear ambitions. In both cases, the world cannot escape the inevitable question: what is to be done about countries that refuse to do their part in preserving our planet?

 

Trump e la verità sul cambiamento climatico,

di Joseph E. Stiglitz

BRUXELLES – Il primo giugno gli Stati Uniti hanno fatto un altro passo importante nel collocarsi, sotto la guida del Presidente Donald Trump, come Stato canaglia, ritirandosi dall’accordo sul clima di Parigi. Per anni Trump si è permesso una strana teoria cospiratoria secondo la quale, come si espresse nel 2012, “Il concetto di riscaldamento globale è stato creato nel loro interesse dai cinesi allo scopo di rendere il settore manifatturiero degli Stati Uniti non competitivo”. Ma non è stata questa la ragione per ritirare gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi. Egli ha piuttosto sostenuto che l’accordo era negativo per gli Stati Uniti ed implicitamente ingiusto dal loro punto di vista.

Mentre la giustizia, come la bellezza, è negli occhi di chi la osserva, l’argomento di Trump è difficile da giustificare. Al contrario, gli accordi di Parigi sono molto positivi per l’America, e sono gli Stati Uniti che continuano a imporre un onere ingiusto su gli altri.

Storicamente, gli Stati Uniti hanno aumentato in modo sproporzionato la crescente concentrazione dei gas serra nell’atmosfera, e tra i grandi paesi essi restano i più grandi responsabili delle emissioni procapite di anidride carbonica – un tasso due volte superiore a quello della Cina e 2,5 volte superiore a quello dell’Europa nel 2013 (l’ultimo anno nel quale la Banca Mondiale ha pubblicato i dati completi). Con il suo reddito elevato, gli Stati Uniti sono in una posizione assai migliore per adattarsi alle sfide del cambiamento climatico, rispetto a paesi poveri come l’India e la Cina, per non dire dei paesi a basso reddito come l’Africa.

In sostanza, la fallacia principale nel ragionamento di Trump consiste nel fatto che combattere il cambiamento climatico rafforzerebbe gli Stati Uniti, anziché indebolirli. Trump guarda al passato – un passato che, per ironia, non era così così straordinario. La sua promessa di ripristinare i posti di lavoro nelle miniere di carbone (che sono adesso 51 mila, meno dello 0,04% dell’occupazione non agricola del paese) sottovaluta le dure condizioni e i rischi endemici in quel settore, per non dire degli avanzamenti delle tecnologie che continuerebbero a ridurre l’occupazione in quell’industria anche se la produzione di carbone rinvigorisse.

Di fatto, sono stati creati molti più posti di lavoro nella installazione die pannelli solari di quelli che sono stati persi nel carbone. Più in generale, uno spostamento verso un’economia verde aumenterebbe il reddito odierno degli Stati Uniti e la crescita economica nel futuro. In questo, e in tante altre cose, Trump è irrimediabilmente prigioniero del passato.

Solo poche settimane prima della decisione di Trump di ritirarsi dagli accordi di Parigi, la Commissione di Alto Livello sui Prezzi del Carbone, che io presiedevo con Nicholas Stern, metteva in evidenza il potenziale di una transizione ad un’economia verde. Il rapporto della Commissione, pubblicato alla fine di maggio, sostiene che la riduzione delle emissioni di anidride carbonica potrebbe risolversi in un’economia persino più forte.

Si tratta di una logica lineare. Un problema chiave nel riportare indietro l’economia globale odierna è l’insufficiente domanda aggregata. Contemporaneamente, molti governi si trovano di fronte a deficit nelle entrate. Ma possiamo affrontare entrambe le tematiche simultaneamente e ridurre le emissioni imponendo un onere (una tassa) sulle emissioni di anidride carbonica.

È sempre meglio tassare le cose negative che le cose positive. Tassando l’anidride carbonica, le imprese e le famiglie riceverebbero un incentivo a riammodernare il mondo del futuro. La tassa consegnerebbe alle imprese incentivi anche per rinnovarsi – dando ad esse un vantaggio competitivo dinamico.

La Commissione ha analizzato il livello del prezzo del carbone che sarebbe richiesto per realizzare gli obbiettivi fissati per il futuro dagli accordi di Parigi – un prezzo di gran lunga più elevato di quello della maggioranza dei paesi europei di oggi, ma ancora gestibile. I commissari hanno messo in evidenza che il prezzo appropriato potrebbe differire tra i vari paesi. In particolare, hanno notato che un migliore sistema regolamentare – che, ad esempio, restringa la produzione di energia alimentata a carbone – ridurrebbe il peso che deve essere collocato sul sistema fiscale.

In modo interessante, una delle economie meglio funzionanti al mondo, quella svedese, ha già adottato una tassa sul carbone con un’aliquota sostanzialmente più elevata di quella discussa nel nostro rapporto. E nello stesso momento, gli svedesi hanno sostenuto la loro forte crescita senza emissioni di livello statunitense.

L’America sotto Trump è passata dall’essere un leader mondiale ad un oggetto di derisione. Nei giorni successivi al ritiro da parte di Trump degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi, è stato appeso un grande cartello sul municipio di Roma: “Prima di tutto il Pianeta”. In modo simile, il nuovo Presidente francese, Emmanuel Macron, ha ironizzato sullo slogan della campagna elettorale di Trump, dichiarando “Facciamo di nuovo grande il nostro Pianeta”.

Ma le conseguenze delle iniziative di Trump non sono una faccenda sulla quale ridere. Se gli Stati Uniti continuano con le emissioni che producono, continueranno ad imporre costi enormi sul resto del mondo, inclusi i paesi molto più poveri. Coloro che sono danneggiati dalla avventatezza dell’America sono comprensibilmente arrabbiati.

Fortunatamente, grandi parti degli Stati Uniti, incluse le regioni economicamente più dinamiche, hanno dimostrato che Trump è, se non irrilevante, almeno meno rilevante di quello che vorrebbe credere. Un gran numero di Stati e di società hanno annunciato che andranno avanti con i loro impegni – e forse andranno persino oltre, bilanciando i ritardi di altre parti degli Stati Uniti.

Nello stesso tempo, il mondo dovrebbe proteggersi dagli Stati canaglia. Il cambiamento climatico produce una minaccia esistenziale per il pianeta non meno terribile di quella prodotta dalle ambizioni nucleari della Corea del Nord. In entrambi i casi, il mondo non può sfuggire alla inevitabile domanda: cosa si deve fare con i paesi che rifiutano di fare la loro parte nel preservare il nostro pianeta?

 

 

 

 

 

 

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