Letture e Pensieri sparsi, di Marco Marcucci

Lezioni dal New Deal – Gennaio 2019

Lezioni dal New Deal

zz 635Il libro “Il New Deal. Una storia globale”, di Kiran Klaus Patel (Einaudi, 2018), lo annuncia il titolo, si propone come una novità negli studi di quel periodo della storia americana, per il suo sforzo di privilegiare le connessioni e le somiglianze con la storia di tanti paesi del mondo (non solo i maggiori paesi europei, che pure compaiono di frequente, ma una varietà di popoli e di continenti, dall’America Latina all’Australia, dall’India al Canada). Le somiglianze mostrano in particolare come quell’epoca si venisse caratterizzando per molteplici tentativi di addomesticare la crisi del capitalismo con una nuova intraprendenza degli Stati, in particolare sui terreni dell’agricoltura e della previdenza sociale. Le connessioni mettono soprattutto in evidenza come quel mondo tutto intero continuasse a pagare un prezzo enorme alla Grande Guerra – il nodo dei debiti e dei nuovi prestiti, a cui, nel corso degli anni ’30, si aggiunse la presa d’atto della connessa ingestibilità della parità aurea, e la caduta spettacolare del commercio globale.

Se questo approccio produce una sterminata ricchezza di notizie e riferimenti, non sono molto sicuro che, almeno per quello che riguarda le somiglianze delle politiche sociali, produca sempre una comprensione più profonda della storia americana. Ma su questo aspetto tornerò subito. Invece è fondamentale la comprensione che la storia di quegli anni fosse segnata da una prosecuzione in altre forme del collasso della globalità che era esploso con il conflitto mondiale. Il progressismo delle politiche nazionali, almeno di quella americana, inteso come nuovo primato dei governi, non si affermò nel contesto di processi di riglobalizzazione; al contrario si accompagnò ad una battuta di arresto e a una inversione di quei processi: una divaricazione enorme con il periodo degli inizi del secolo, ed anche con i tentativi degli anni ’20 di tornare su quel sentiero. In un certo senso, quel progressismo marciò all’insegna della America First: i newdealers lanciarono la loro scommessa democratica ma, al tempo stesso, non fecero niente per assumere il ruolo di riformatori degli equilibri globali.

In effetti, se si vogliono approfondire le ragioni di quella svolta progressista e del suo permanenere nella memoria collettiva degli americani, questa prima distonia è da tenere a mente: quel mondo non era affatto caratterizzato da “internazionalismo” (il termine che allora si usava negli Stati Uniti, in opposizione all’ “isolazionismo” e, negli anni successivi, a “neutralisno”). Gli americani, non furono solo la principale fonte di prestiti concessi durante la guerra, lo furono anche dopo la guerra, prestiti che servivano agli altri paesi – in primis al Regno Unito – per far crescere le esportazioni e con quelle ripagare lentamente i debiti. Ma questa macchinosa catena era agli sgoccioli: ad esempio, la gomma che gli inglesi producevano in India e che riforniva materia prima per i pneumatici delle automobili Ford, esportata come forma di pagamento dei debiti, non bastava più. Sia perché la politica monetaria internazionale andava verso un completo dissesto, sia perché gli americani operavano in modo contraddittorio, erano generosi nei prestiti ma irremovibili alla ristrutturazione di debiti e intraprendenti nel favorire le proprie produzioni (si costruivano nel mondo le loro industrie della gomma, come fecero comprandosi una immensa piantagione in Liberia).

Il New Deal nacque in questo contesto di ripiegamento nazionale, che divenne clamoroso quando vari paesi cominciarono a dichiararsi insolventi rispetto al debito, Germania compresa. E gli Stati Uniti ci aggiunsero del proprio. Nel giugno del 1933 i rappresentanti di sessantacinque paesi si riunirono a Londra “coll’obbiettivo di organizzare la lotta contro la depressione globale”. Roosevelt non amava gli aerei, e si limitò ad inviare un messaggio mentre era a pesca sul suo yacht, messaggio che fece telegrafare dall’incrociatore Indianapolis, che si trovava nei pressi. C’era scritto: “un sistema economico solido è molto più determinante nello stato di salute di un paese di quanto lo sia il prezzo della valuta nel modificare i termini della valute degli altri paesi”. Difficilmente poteva essere più chiaro:  per applicarsi ai grandi cambiamenti che aveva in mente per la società americana, gli Stati Uniti non avevano bisogno di disperdere il consenso nel tentativo di trovare un equilibrio al traballante ordine economico internazionale. Ma, poiché erano gli unici a poterlo fare, praticamente partì dall’Indianapolis quella che Patel definisce una bomba: ironia della sorte, dallo stesso incrociatore che dodici anni dopo avrebbe trasportato la prima bomba atomica mai usata in una guerra. Negli stessi giorni a Ginevra era in corso una conferenza internazionale per il disarmo: Germania e Giappone interpretarono la rinuncia alla azione da parte di Roosevelt come un “liberi tutti”. In sostanza, il New Deal mosse i suoi primi passi sguarnendo il fronte di una estrema e forse ormai disperata composizione degli squilibri del mondo.

Quindi il collasso dei mercati azionari, il “Giovedì nero” di Wall Street del 1929, non fu la ragione principale della crisi: semmai ne fu il “sintomo e il simbolo”. Oltre al venire a maturazione del collasso della situazione dei debiti e del gold standard, una terza causa reale della Depressione fu la crisi di sovraproduzione della agricoltura. Anche in questo caso il grande squilibrio era nato con la guerra: “il conflitto mondiale distrusse vaste aree agricole e privò le popolazioni delle tradizionali linee di approvvigionamento. In Francia, Germania e Austria … la produzione diminuì di un terzo e in certe regioni, come … le Fiandre, si smise di produrre carne e grano.” Negli anni dal 1924 al 1929 gli Stati Uniti e il Canada alimentarono il mondo postbellico, i primi con un accrescimento di nove milioni di acri della superficie coltivabile, i secondi con un raddoppio della superfice, rispetto al decennio precedente alla guerra. Questo sforzo ebbe un prezzo: il debito nella agricoltura americana, il debito dei contadini per acquistare nuova terra e trattori, passò dai 3,3 miliardi di dollari nel 1910 a 9,4 miliardi nel 1925. Ma sulla fine degli anni ’20 il fabbisogno di esportazioni americane si ridusse e i prezzi si abbassarono, sino al crollo del 1929. Il rimedio obbligato era quello di sussidi che compensassero la riduzione volontaria delle superfici coltivate.

Fa dunque impressione che a questo pessimismo sulla condizione del mondo si affiancasse un combattente volontarismo riformistico nella politica nazionale. In uno stupendo libro ormai antico, la “Storia popolare degli Stati Uniti” di Leo Huberman (edizione italiana, Einaudi, 1977), scritto nel 1947 riadattando un testo originario di storia per ragazzi del 1932, quell’intellettuale della sinistra marxista americana – in seguito fondatore della Monthly Review assieme a Paul M. Sweezy – si chiedeva se il New Deal fosse stato una rivoluzione, e rispondeva che non era stato una rivoluzione dell’economia, ma certamente una rivoluzione delle idee. Si stenta a capire in quale misura, se non ci si sofferma sulla drammaticità della Grande Depressione, che per varie ragioni fu in America non più lunga, ma più esplosiva e intensa che negli altri paesi.

Forse un’idea più precisa ci viene fornita proprio dai “discorsi al caminetto” di Roosevelt di quegli anni. L’Europa era precipitata in una crisi generale già nel 1919, e il paesaggio era ancora spesso quello delle distruzioni belliche; invece gli anni ’20 avevano spinto in alto gli Stati Uniti. Ma allorché quel primato andò in pezzi, quando Roosevelt disse alla radio “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”, parlava ad un paese con 14 milioni di persone senza lavoro, in cifre assolute e in percentuale superiori a qualsiasi altro paese, pari alla popolazione del Regno Unito. Un paese nel quale le banche avevano chiuso i battenti: ne fallirono in breve tempo 10.000 su 25.000. Un paese nel quale, come disse in un discorso successivo “Vedo un terzo della nazione male alloggiata, mal vestita e mal nutrita …” A Detroit, Michigan, “una zona di slums di cinquanta isolati rivela una criminalità sette volte e mezza superiore alla media cittadina … e un tasso di rubercolosi superiore sei volte e mezza alla media cittadina”. A New York “… nei casamenti popolari tre quarti dei bambini erano affetti da rachitismo”. E, nelle zone rurali, “le condizioni delle abitazioni erano peggiori che nelle città”. In sintesi, la svolta del New Deal si applicò ad una nazione piombata in poco tempo al punto più basso dopo una ubriacatura di speranze. Scrisse lo storico Arnold J. Toynbee che nel 1931 “uomini e donne … contemplavano sul serio e discutevano in maniera esplicita l’eventualità che il sistema delle società occidentali crollasse e smettesse di funzionare”.

In che senso, dunque, una “rivoluzione dell idee”? Forse, un’immagine utile potrebbe essere la seguente: il capitalismo delle bolle, del lassaiz faire, della più recente età dorata, aveva mostrato di non essere ormai più capace di aderire alla società reale, che per tanti aspetti si avvitava su se stessa, come un giocoliere di un circo che perda d’un tratto il controllo dei tanti oggetti che tiene in movimento. Occorreva che il Governo Federale fosse protagonista di un nuovo progetto di controllo sociale; semplice nelle sue finalità – “rimettere al lavoro, alloggiare, vestire e nutrire” – ma vastissimo nel suo campo di sperimentazione e, soprattutto, inedito.

Il New Deal ebbe molti detrattori ed avversari, eppure – a leggere le tante storie di quegli anni – abbastanza inefficaci. Non si scontrarono due progetti, l’ideologia di una crisi “purificatrice” alla Hayek non produsse una alternativa nel governo di quegli anni. E il Governo Federale, superando di un balzo anche le resistenze della tradizionale diffidenza sul ruolo dello Stato centrale, si applicò agli esperimenti in teoria più audaci.

Assicurò i depositi in banca nel contesto di una riforma complessiva del sistema bancario (la legge Glass-Steagall del 1933), che servì in un tempo ragionevolmente breve ad uscire dalla spaventosa crisi di un sistema di piccoli istituti disposti a grandi rischi.

Riversò nella agricoltura americana – per effetto della legge sull’Agricoltural Adjustment – un’enorme burocrazia di migliaia di agenti governativi che aiutavano gli agricoltori a definire “la dimensione delle terre, l’impostazione dei prezzi, l’assegnazione delle superfici coltivabili per ciascun coltivatore, il sostegno al credito”. In pratica, il Governo Federale impiegò “circa sei mila addetti agricoli e trenta mila volontari” solo per convincere più di un milione di agricoltori ad adottare nuovi programmi per il grano. Patel, nel suo libro, mostra come esperimenti simili si ebbero anche altrove, anche se i propositi ‘autarchici’ nelle dittature non si misurarono con gli obbiettivi di una diversa razionalità e di una restrizione delle superfici coltivabili. Anziché la retorica della razionalità programmatica, in quei casi si finì nella retorica dello ‘spazio vitale’ e delle avventure coloniali.

Nel settore industriale – nel periodo tra il 1929 e il 1933 si era verificato un crollo di circa il 50 per cento della produzione manifatturiera – si operò con la Legge per la Ripresa dell’Industria Nazionale (NIRA). Sotto la supervisione di una agenzia nazionale (la NRA) fu introdotto un processo molto vasto di “cartellizzazione”: in pratica in vari settori si concordarono “codici per la concorrenza leale” che includevano i salari minimi, gli orari di lavoro massimi e i livelli dei prezzi dei prodotti. I benefici che ne derivavano ai partecipanti, consentirono accordi per ben 550 codici.

Probabilmente, l’effetto di programmazione pubblica fu minore e certamente più contrastato rispetto al settore agricolo, ma l’obbligatorietà delle intese su materie fondamentalmente sindacali come salari e orari, contribuì a facilitare un ruolo inedito dei sindacati, cosicché la percentuale dei lavoratori sindacalizzati passò dal 5 per cento del 1933 al 22 per cento del 1945. Del resto, lo schema consensuale non impedì un notevole sviluppo delle lotte sociali, dai 320 milia scioperanti nel 1932 si arrivò a un milione e 470 mila nel 1934. Va detto che questi grandi mutamenti nella cultura politica nazionale avvenivano su un terreno denso di contrasti; ad esempio, nel 1935 la Corte Suprema bloccò le aspirazioni dirigistiche della NRA, dichiarandola incostituzionale.

Ma il sostegno del New Deal all’industria e l’impegno contro la disoccupazione operò con una congerie di altri strumenti, che spesso ebbero una esistenza temporanea. Fu il caso della Amministrazione dei Lavori Pubblici (PWA), che ricevette una dotazione iniziale di 3,3 miliardi di dollari (si pensi che nello stesso anno, il 1933, il totale degli investimenti privati negli Stati Uniti fu pari a 3 miliardi di dollari). Con i soldi della PWA venne creata la Amministrazione per il Lavoro Sociale (CWA), che a gennaio del 1934 aveva messo al lavoro 4,2 milioni di americani. Poi esisteva la Amministrazione Federale per la Mitigazione dell’Emergenza (FERA), che concedeva prestiti agli Stati per la gestione di programmi di assistenza, che a sua volta creò la più grande agenzia del New Deal – l’Agenzia per l’Avanzamento dei Lavori Pubblici (WPA) – che tra il 1935 e il 1943 creò 8 milioni di posti di lavoro.

Si deve notare che questa estrema prolificità nella invenzione di strumenti avveniva nel contesto di una grande ritardo di politiche assistenziali, almeno rispetto a varie esperienze europee. Con essa, dunque, gradualmente si riempiva quel vuoto, con un approccio che non si concentrava nel fornire sussidi monetari. Si mettevano, invece, in campo strumenti di gestione di programmi operativi, che di solito si basavano sulla collaborazione tra Governo Federale e Stati, allo scopo di “mettere al lavoro” anche provvisoriamente la popolazione disoccupata. Non deve essere stato irrilevante, come conseguenza di questa vasta sperimentazione, che lo Stato Federale – tradizionalmente ai margini delle politiche attive – finisse con l’occupare, o almeno con il promuovere, un vastissimo campo di attività. Assistere, creare opportunità anche temporanee, difendere il ruolo dei sindacati, sprigionare un attivismo senza precedenti del Governo Federale, divennero i capisaldi di una esperienza istituzionale che innovava nel profondo la cultura politica. Senza mettere in discussione, ed anzi temporaneamente accentuando, l’isolamento americano, si produssero delle novità sostanziali che avrebbero consentito, alla fine, di convincere abbastanza agevolmente il popolo americano a entrare in guerra contro il nazifascismo.

Del resto, molto altro si dovrebbe aggiungere. Nel mentre, in questa recensione, mi faccio prendere dalla curiosità per vari aspetti particolari interessanti, mi rendo anche conto delle squilibrio che si determina nel trascurare altri interi capitoli. Ad esempio, l’esperienza della Tennessee Valley Authority che, partita nel 1933, accompagnò l’intero periodo del New Deal con una vastissimo proposito di elettrificazione, regimazione idraulica e sostegno alla agricoltura che interessava sette Stati americani sul bacino del fiume Tennesse. La TVA è arrivata sino ad oggi come la più grande azienda pubblica nel settore energetico, con 9 milioni di utenti. Un esempio gigantesco di un tentativo di ‘modellazione’ del territorio, che conferma come il New Deal non si fermò affatto dinanzi ad una scolastica delimitazione tra poteri federali e poteri degli Stati, giocando invece la carta della collaborazione tra tutte le istituzioni, in quel caso senza provocare la censura della Corte Suprema. Nello stesso modo, molto più in piccolo, si collaborò a progetti urbanistici di rimodellamento delle aree suburbane. Pagine di grande interesse sono anche quelle che descrivono le iniziative che furono sviluppate per incentivare la cooperazione di consumo o l’edilizia popolare, dove non mancarono esperienze, anche se il tratto distintivo fu forse quello di non esporsi troppo ai pregiudizi ostili nei confronti di politiche che si prestavano alla obiezione di un eccesso di “socialismo”. Non si deve dimenticare, in effetti, che il dilagare della esperienza newdealista comunque doveva misurarsi con la resistenza di posizioni conservatrici, che ad esempio limitarono fortemente le innovazioni favorevoli alla popolazione di colore negli Stati del Sud.

Eppure, come ho detto, dopo un vasto esame di queste reazioni della varie nazioni del mondo alla Depressione, si resta un po’ con la sensazione che quella miniera di informazioni, nel libro di Patel, non aiuti sempre a chiarire la natura specifica della esperienza americana.  È inevitabile che, nel riflettere sulla storia di quella cultura politica, si abbiano in mente le vicende odierne, spesso intraducibili nella esperienza storica europea; si pensi al gigantesco taglio delle tasse sulle società e sui più ricchi del 2017, oppure si pensi ai tentativi molteplici di sottrarre l’assistenza sanitaria – anche con incredibili sabotaggi della riforma di Obama – a 20 milioni di americani. L’intera esperienza della Presidenza di Trump è evidentemente figlia di un’altra America.

Dunque, le “rivoluzioni delle idee” non sono necessariamente definitivi rovesciamenti di paradigmi, e spesso preparano il terreno a coabitazioni di tendenze opposte, che coesistono a lungo con alterne fortune. Il che è coerente con il fatto che quelle due Americhe siano tornate frontalmente in conflitto con Reagan, e in particolare dopo la vittoria di Trump nel 2016. Ma non è affatto semplice comprendere la logica più profonda di questo fenomeno. Quand’è, in America, che in questo scontro, ed anche in questa competizione, tra il mercato e la pubblica amministrazione, si può tracciare almeno una somma, o una demarcazione finale? Come è possibile che più di 80 anni dopo il New Deal, neanche il principio della assistenza sanitaria universalistica sia accettato dai conservatori americani?

Come è noto, la spiegazione di un ‘populismo globale’ non aiuta granché a comprendere quanto è accaduto, perché resta da capire come esso possa comprendere fenomeni opposti, come il Tea Party e i “giacchetti gialli”. Non a caso l’unico slogan che in questi anni ha avuto una declinazione multinazionale è forse quello dell’America First, salvo doversi ora fare una ragione della imbarazzante circostanza per la quale le guerra commerciale trumpiana incombe come una minaccia di recessione nel resto del mondo. Pare quasi che il trumpismo parli alle destre del mondo soprattutto per la sua pars destruens, per quello che distrugge degli equilibri precedenti, mentre tutto quello che innova pare pazzesco o di ignota destinazione e produce crescente imbarazzo ai suoi sostenitori nel mondo. (L’altro aspetto internazionale è lo ‘sdoganamento’ di sentimenti razzisti, pur se anche questi ultimi hanno una specificità nella storia americana che è tutta da comprendere e con la quale anche il New Deal non osò arrivare ad una resa dei conti).

Del resto, ci sono anche molti aspetti della tradizione del New Deal che, in qualche modo, si leggono nelle vicende attuali americane e sollevano speranze. La vittoria democratica nelle elezioni di medio termine sembra tale da poter produrre un nuovo passaggio nel prossimo futuro, che non consiste soltanto nella irruzione di nuovi temi (coesistenza, globalismo ragionevole, tolleranza, diritti sociali, lotta al cambiamento climatico, disarmo “interno”). L’impronta tipicamente americana a queste tematiche si caratterizza per una evidente ‘duplicità’: si parte da condizioni, diciamo così, di arretratezza (su tanti temi l’America spesso fornisce esperienze desolanti), ma essi si impongono con una estrema concretezza alla lotta politica, una concretezza abbastanza inconsueta nel torpore burocratico europeo. Viene addirittura da chiedersi se gli effetti del sistema costituzionale statunitense dei “pesi e dei contrappesi” – che spesso produce esiti bizzarri, per i quali un Presidente eletto diventato “anatra zoppa” nelle elezioni di medio termine, lascia il campo ad una pluralità di linee di comando che gli consentono di scatenare guerre commerciali  ma non di costruire un muro sul confine – non sia la chiave di una “relativizzazione” del potere politico, che limita il potere di guida e, al tempo stesso, impone concretezza alla politica, privandola di eccessive sicurezze di lungo periodo. Ma ci sono alcuni fatti che fanno riflettere: si abbandonano gli accordi di Parigi, ma si realizzano esperienze di governo avanzate in molti Stati; il diritto di voto è spesso sabotato con il “gerrymandering”, nonché ostacolato in vari modi a danno soprattutto delle minoranze etniche, ma come spiega il recente articolo qua tradotto di Laura Tyson e Lenny Mandonca, un nuovo movimento per la democrazia si sta affermando in molti Stati ed ha vinto di recente quasi tutti gli appuntamenti referendari; il razzismo è aggressivo, ma la convivenza delle etnie è il tratto distintivo delle dinamicissime metropoli americane; l’assistenza sanitaria è sabotata dal Governo, ma i progressisti ormai sono alle prese con l’obbiettivo del Medicare-per-tutti; Trump è alle prese con guai giudiziari per la gestione truffaldina della sua Università, ma l’eccellenza di molte Università americane attrae cervelli da tutto il mondo etc.

Forse questa è l’eredità autentica del New Deal. In un paese che, quando irrompe nella modernità sociale, lascia il segno e sposta in avanti gli equilibri del mondo. Oppure, che a lungo li trattiene, anche quando sono in contrasto con sentimenti che ormai sembrano prevalenti.   

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