Letture e Pensieri sparsi, di Marco Marcucci

Il nazismo e la memoria. 1 gennaio 2020.

zz 764Il Nazismo e la memoria

Esistono vari libri importanti sul nazismo e, in particolare, sul processo che portò allo sterminio degli ebrei europei, alla cosiddetta ‘soluzione finale’. Quei libri non forniscono soltanto informazioni precise ed organiche di quella ondata devastante di crimini, spesso ci mettono dinanzi ad aspetti di quella storia che in qualche modo non avevamo riflettuto e magari neanche conosciuto, capitoli di un racconto che sembra abbiano difficoltà a transitare dai libri di storia alla coscienza collettiva. Nel caso che questo non sia capitato soltanto al sottoscritto, e che dunque non dimostri soltanto la mia ignoranza, alla fine ho scritto alcune note che potrebbero essere utili.

1 – Gli anni che precedettero lo sterminio generalizzato: la gradualità della ‘soluzione finale’. Hitler andò al potere il 30 gennaio del 1933, quasi dieci anni dopo il fallito putsch in Baviera; il primo pogrom tedesco su vasta scala, nella “Notte dei Cristalli”, durante il quale vennero bruciate duecento sinagoghe, uccisi 91 ebrei e assaltati moltissimi negozi di proprietà di ebrei, avvenne il 9 e 10 novembre del 1938; prima e dopo il pogrom si perseguì fondamentalmente (con l’internamento di circa 26.000 ebrei in campi di concentramento in Germania – Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen), l’obbiettivo della cacciata degli ebrei, per un certo periodo pensando seriamente alla loro espulsione in Madagascar; ne vennero pure assassinati tanti, ma niente a confronto con quanto sarebbe successo negli anni successivi. Inoltre in quegli anni era ancora possibile emigrare (prima degli inizi della Seconda Guerra Mondiale – l’invasione della Polonia avvenne il primo settembre del 1939 – più di mezzo milione di ebrei emigrarono dalla Germania, dall’Austria e dai Sudeti); praticamente solo dopo l’invasione della Polonia e l’inizio della guerra contro la Russia  si pervenne alla decisione dello sterminio totale. Essa si materializzò con una condotta genocida della guerra stessa, ovvero con l’assassinio di milioni di non combattenti (ebrei orientali, russi, zingari) e con la contestuale installazione in vari campi polacchi di tecnologie industriali di sterminio, ai quali vennero tra gli altri destinati gli ebrei provenienti dai campi di internamento in Francia, Paesi Bassi, Belgio e Italia. Vale infine la pena di ricordare che il primo settembre del 1939, oltre a dare inizio alla guerra, Hitler firmò anche un ordine che autorizzava l’eutanasia medica, ovvero l’assassinio di cittadini portatori di handicap fisici o mentali (dopo averla abbondantemente sperimentata in precedenza, ma – anche qua – con una certa graduale riservatezza e sotto la direzione del suo medico personale).

Dunque, il primo aspetto sul quale si dovrebbe richiamare la memoria, è paradossalmente quello di una certa gradualità del proposito dello sterminio completo degli ebrei, almeno in riferimento a quelli residenti nel Reich tedesco. Occorse prima, per alcuni anni, renderli distinguibili, il che era possibile ‘definendoli’ ed isolandoli dal resto della popolazione, il che a sua volta era possibile solo attraverso un impegno generalizzato della macchina burocratica germanica, giustizia e pubblica amministrazione in primis, nonché dalla attiva collaborazione di una parte della popolazione. Prima di sterminare, occorse definire, distinguere e concentrare. E poiché gli ebrei non erano definibili per le loro presunte caratteristiche razziali, il criterio che venne adottato con le Leggi di Norimberga del 1935 fu quello del numero di nonni di religione ebraica: con tre o più nonni di religione ebraica si era “ebrei”, con due si era “mezzi ebrei”, con uno si era “mischling”, ebrei meticci. Una volta definiti sulla base di quella sorta di graduatoria di appartenenza religiosa, seguirono più di una decina di decreti per ridurli in miseria: perdita della cittadinanza; esclusione dal pubblico impiego; divieto di esercizio per medici, dentisti, farmacisti, veterinari, avvocati; sequestri di patrimonio; assoggettamento alla legislazione della Gestapo e non a quella della giustizia civile. L’esproprio, o la molto conveniente vendita forzosa delle imprese, venne perseguito non da un decreto, ma da un intervento diretto delle istituzioni economiche governative e delle banche, che in poco tempo resero obbligati quegli esiti.

Tutto questo accadde in Germania e in Austria, con la inevitabile partecipazione di una parte della popolazione, che non poteva essere ignara dei vuoti che si aprivano nello Stato, nelle imprese, nei commerci e nel mercato del lavoro. Per alcuni erano una occasione, per altri almeno un rivolgimento. Nel mentre questo accadeva, nella vita dei tedeschi i crimini antisemiti acquistavano una loro crescente ‘naturalezza’; tra la costruzione dello spazio giuridico e pratico della esclusione e futura espulsione di un intero popolo e la sua inizialmente graduale decimazione, si stabilì un rapporto essenziale. Gli assassinii, i primi trasferimenti nei campi di internamento (assieme a comunisti, socialdemocratici, cattolici, zingari, omosessuali e malati di mente), l’affermarsi di una formale legalità delle bande poliziesche (SS) che sostituiva la legge ufficiale, furono tutti una sorta di ‘rappresentazione semplificata’ che preparava al passo successivo. Inoltre, in quel ‘gradualismo’ era anche evidente un certo grado di cautela nei confronti di quello che restava della ‘opinione pubblica’ tedesca: una evidente propensione a commettere i peggiori crimini fuori dalla Germania. Non a caso negli anni successivi i nuovi campi di sterminio dotati di camere a gas vennero tutti collocati in Polonia e lo sterminio degli ‘ebrei del Reich’ e delle altre nazioni centro europee e mediterranee avvenne deportandoli ad Est.

zz 763Tra le centinaia di esempi che si trovano sui libri, ne cito uno particolarmente significativo del clima degli anni precedenti la guerra. Il 17 giugno 1936, il Reichsgericht, la Corte Suprema tedesca, in una causa tra un regista ebreo e una società cinematografica, convalidò un licenziamento poiché nel contratto di assunzione era prevista la cessazione dall’impiego in caso di malattia, prossima morte o cause similari. La Corte Suprema giudicò che essere ebrei equivaleva ad una malattia ed a un destino di morte certa (Hilberg, pag. 91). C’era ancora bisogno del Tribunale Supremo per confermare un caso non trattato dalla legislazione antisemita di licenziamento di un ebreo, ma la conferma veniva con l’agghiacciante argomento di un pronostico di sterminio.

Gli anni che precedettero la guerra furono dunque anche una preparazione dei tedeschi al genocidio – a parteciparvi, a non pensarci, a considerarlo ineluttabile o a subirlo. Per dirla in altro modo, il primo passo fu quello della attuazione violenta e generalizzata della politica del “prima i tedeschi”, come diremmo oggi in tutta spensieratezza.

Occorre aggiungere, per collocare in un contesto più preciso l’antisemitismo tedesco, che quel tema non costituiva affatto una discriminante morale, almeno per molti conservatori europei di quell’epoca. C’è un interessante resoconto del dicembre del 1938 – dunque prima della guerra e della sconfitta francese – del ministro tedesco Ribbentrop a proposito di un suo incontro con il Ministro degli Esteri francese Georges Bonnet (in quegli anni la Francia era un paese tradizionalmente riconosciuto come terra d’asilo degli ebrei). Bonnet discusse con l’omologo tedesco di una intenzione francese di impedire agli ebrei di emigrare in Francia e aggiunse che la Francia “doveva spedire altrove 100.000 ebrei. Al proposito pensava al Madagascar” (Hilberg, pag. 419). È vero che in seguito Bonnet sarebbe diventato un sostenitore di Petain, ma nel dicembre del 1938 era ancora un Ministro del Governo Daladier, un semplice conservatore europeo che sottoscriveva con entusiasmo la Conferenza di Monaco e che, nell’ottobre del 1938, firmava assieme a Ribbentrop un patto di amicizia franco-tedesco. Il Madagascar era, in fin dei conti, un’idea piuttosto diffusa.

2 – La guerra non fu tutta uguale: l’invasione della Polonia e l’Operazione Barbarossa contro l’Unione Sovietica. La guerra in Polonia iniziò il primo di settembre del 1939, prima dell’altro Blitzkrieg ai danni della Francia, durato poche settimane. L’anno successivo, il 22 giugno del 1941, aveva inizio l’invasione dell’Unione Sovietica.

Ma già la Polonia presentò ben altri problemi per il nazismo, non tanto dal punto di vista militare quanto nel dare una nuova forma, un nuovo assetto etnico, al territorio conquistato: la Polonia era la prima terra del futuro ‘spazio vitale’ (Lebensraum). Ovvero, non era una nazione che andava soltanto sconfitta, come accadrà per la Francia l’anno successivo, ma un territorio da rifondare, uno spazio da preparare per l’insediamento razziale tedesco, anzitutto consegnandolo ai tedeschi che già ne facevano parte, che pure erano una minoranza – a seguito delle perdite di territorio della Germania successive alla sconfitta nella Prima Guerra Mondiale – ed ai tedeschi richiamati da aree più a nord, dai paesi baltici. E la Polonia non era il ‘cuore’ del Lebensraum, che Hitler sin dal 1924 aveva individuato nelle enormi riserve di cereali della Russia ucraina e di idrocarburi e minerali della Russia sudorientale. Era però il primo prototipo dei problemi connessi con il suo imperialismo razziale e in Polonia vivevano circa 3 milioni di ebrei, a fronte dei 565 mila ebrei tedeschi. Aveva scritto nel Mein Kampf (1924) Hitler: «Noi vogliamo arrestare il continuo movimento tedesco verso il sud e l’ovest dell’Europa e volgiamo il nostro sguardo verso i paesi dell’Est […] Quando oggi parliamo di un nuovo territorio in Europa, dobbiamo pensare in prima linea alla Russia e agli stati limitrofi suoi vassalli. Sembra che il destino stesso ci voglia indicare queste regioni. […] Il colossale impero dell’Est è maturo per il crollo e la fine del dominio ebraico in Russia sarà anche la fine della Russia quale stato.»

Si osservi questa cartina, che viene esposta nell’Holocaust Memorial Museum degli Stati Uniti:

 

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Dunque, nel 1933, gli ebrei in Germania erano 565.00, in Austria 250.000, in Cecoslovacchia 357.00, nell’Europa Orientale – Polonia, Romania, Paesi Baltici e Unione Sovietica – erano 6.760.000. Solo in Polonia, nel 1933 gli ebrei erano circa sei volte quelli che risiedevano in Germania (circa 10 volte nel 1938, dopo le emigrazioni degli ebrei tedeschi). Dunque, con la Polonia, la scala del ‘problema ebraico’ cambiava definitivamente.

Poiché l’Est europeo doveva diventare il cuore dell’impero tedesco judenfrei, la ‘questione ebraica’ diventava dieci volte più grande e non era più pensabile di risolverla deportandoli nel Madagascar. Del resto, a quel punto la questione ebraica era ormai diventata la questione “giudaico-bolscevica”, agli ebrei si erano aggiunti milioni di polacchi, di serbi e, nei mesi successivi, soprattutto di russi: tutte razze ‘minori’ e nemiche da spingere ad Oriente, verso la Siberia, o più semplicemente da sterminare nel corso delle occupazioni e della guerra.

Naturalmente, non mi sto proponendo di riassumere quello che si trova nei libri di storia. Ma il modo in cui venne condotta la guerra ad Est, è un secondo esempio di ciò che possiamo ben definire una “strategia politica”; ovvero qualcosa di orrendo, che però richiama un calcolo, un procedimento che appartiene a quello che definiamo di solito come un concetto appartenente alla politica, una intenzionalità, per quanto mostruosa, che deriva da un calcolo. Dopo il gradualismo degli anni iniziali del genocidio, abbiamo adesso il concretizzarsi di una politica di “imperialismo razzista”, che mira ad una completa riorganizzazione razziale e demografica del continente europeo e che ineluttabilmente include il proposito di sterminio degli ebrei: da una dimensione nazionale tedesca ad una dimensione continentale.

Di solito non si ragiona granché, tra le guerre dei nazisti, sulla assoluta particolarità della guerra contro l’Unione Sovietica. Eppure i nazisti avevano ben chiara quella particolarità; Hitler, riunendo i generali della Whermacht pochi giorni prima dell’invasione, aveva usato parole inequivocabili: sarebbe stata ‘una guerra di sterminio e di annientamento’, completamente diversa, volle chiarire, dalle altre guerre appena terminate o in corso; non si trattava soltanto di prevalere contro un altro esercito, si trattava di cancellare paesaggi umani che, altrimenti, sarebbero rimasti ostili anche dopo decenni. Chi ama la letteratura, potrebbe provare a confrontare il racconto della scrittrice Irene Nemirovsky sull’invasione della Francia dopo lo ‘sfondamento’ nelle Ardenne (mi riferisco ai primi due racconti della Suite francese, nel contesto di una ‘strana guerra’ e di una strana e imprevista tranquillità, resa in fondo possibile dalla sensazione di una qualche comunanza di civiltà con gli invasori), con la guerra in Russia. Nel primo caso un esercito che dilaga  – con una efficienza che meraviglia e talora addirittura provoca ammirazione tra gli spettatori – nel secondo una guerra per distruggere e cancellare un paesaggio umano e ricrearlo su nuove basi etniche. Di quella guerra di sterminio, gli ebrei orientali furono un ingrediente indispensabile; poi, nel vortice, vennero risucchiati anche gli ebrei occidentali (compresi i coniugi Nemirovsky che morirono ad Auschwitz).

Pochi mesi prima, in un discorso al Reichstag a Berlino del gennaio 1939, Hitler aveva pronunciato queste parole, che in seguito divennero, nella mistica nazista, il “mito della profezia”: “In questo giorno, che forse non sarà memorabile solo per i tedeschi, vorrei aggiungere questo: nella mia vita , nel corso della mia lotta per il potere, spesso sono stato profeta, e spesso sono stato sbeffeggiato dal popolo ebreo, che ha accolto con risa le mie profezie … Oggi sarò di nuovo profeta: se la finanza internazionale dell’Europa e fuori dell’Europa dovesse arrivare ancora una volta a far precipitare i popoli in una guerra mondiale , allora il risultato non sarà la bolscevizzazione del mondo … ma al contrario, la distruzione della razza giudea in Europa” (Hilberg, pag. 257).

[Un inciso: gli storici Christopher R. Browning e Jürgen Matthäus, usano queste parole – evidentemente piuttosto inconsuete e indicative – nell’introdurre il tema del ‘salto di qualità’ che si ebbe con la guerra nazista alla Russia: “Per chi cerca una risposta al come, quando e perché la persecuzione nazista degli ebrei assunse le forme della Soluzione finale, la rilevanza della guerra contro l’Unione Sovietica non sarà mai troppo sopravvalutata. Dal momento in cui l’Operazione Barbarossa divenne oggetto di ricerca, si è sempre ribadito che lo sterminio degli ebrei nell’Unione Sovietica è uno spartiacque di proporzioni storiche, un balzo quantico verso l’Olocausto.”]

Dunque, è impossibile separare lo sterminio degli ebrei dal modo in cui venne condotta quella guerra, i campi di concentramento dotati di camere a gas dalle centinaia di migliaia di persone innocue che furono prima sterminate a colpi di fucile mitragliatore, i morti di Auschwitz da quelli di Babji Jiar, dove solo in due giorni, il 29 e 30 settembre del 1941, 33.771 ebrei nei dintorni di Kiev, vennero mitragliati ignudi e accatastati l’uno sull’altro in un dirupo.

Per comprendere cosa sia stata quella guerra contro l’Unione Sovietica, si rifletta su queste cifre che si leggono nel libro di Browning e Matthäus: “Già alla fine del 1941 la mortalità tra i non combattenti toccava livelli devastanti. Da 500 mila a 800 mila ebrei, compresi donne e bambini, erano stati già assassinati – in media da 2.700 a 4.200 al giorno – e intere regioni risultavano ‘judenfrei’. Molte comunità ebraiche, specie nelle zone rurali, furono prese di mira più avanti; in questo periodo iniziale ci fu invece il parossismo delle stragi dei prigionieri di guerra sovietici. Nell’autunno del 1941 i soldati dell’Armata rossa morivano al ritmo di 6.000 al giorno; nella primavera del 1942 erano morti 2 dei 3,5 milioni di soldati sovietici catturati dalla Wehrmacht”.

Del resto, nelle ultime centinaia di pagine della sua biografia su Hitler, lo storico Ian Kershaw utilizza almeno otto volte su dieci il termine di campagna “giudaico-bolscevica”, che desume da documenti nazisti.

3 – “Lavorare incontro”, ovvero una modalità particolare di funzionamento dello Stato. Gli storici si sono chiesti in decine di modi cosa possa aver determinato il particolare accanimento dei nazisti nel loro proposito; alcuni di essi si sono addentrati nei meandri piuttosto oscuri della psicologia di Hitler: la sua sessualità, la vicenda del suicidio di una nipote nel periodo nel quale viveva con lui, la possibilità che un suo occasionale avo, fugace amante di una nonna, fosse di origini ebraiche, e dunque avesse provocato una sorta di inestinguibile rabbia da “contaminazione”. Ron Rosenbaum ha lungamente esaminato tutte queste ipotesi, in genere, mi pare, non attribuendo ad esse molto credito.

zz 761Forse ha maggiore interesse lo studio della particolare psicologia dei nazisti che si espresse nella gestione della guerra e in particolare del genocidio degli ebrei, alla quale lo storico Ian Kershaw dedica il capitolo “Lavorare incontro al Führer” della sua biografia su Hitler.  È stupefacente la particolarità della ‘catena di comando’ nazista e in particolare il modo in cui essa operò sulla questione ebraica.

Nella lingua tedesca esiste un termine che non credo esista in altre lingue, il verbo “zuarbeiten”, che in italiano potremmo tradurre con “lavorare incontro”. Sta anche a significare che un ‘proposito strategico’ non viene espresso con un decreto e poi eseguito; viene piuttosto enunciato – a partire dalla cerchia più ristretta dei collaboratori più vicini al tiranno – e poi gradualmente diffuso e fatto proprio nelle sedi operative più ampie. Il centralismo resta ferreo, ma assume la forma di un meticoloso controllo del corretto incanalamento degli eventi. Gli operatori intermedi e finali iniziano ad ‘lavorare incontro’ ai desideri del Fürher e a quell’obbiettivo, con una certa libertà di interpretazione e con un entusiasmo competitivo che alla fine è premiato da riconoscimenti e promozioni; il controllo è riservato in ogni dettaglio al ‘Profeta’. Nel caso dello sterminio degli ebrei, tutto questo si accompagnò ad una macabra cautela ‘linguistica’ che testimoniava la sempre presente preoccupazione di procedere al genocidio con una certa riservatezza, almeno non gridandolo ai quattro venti. Il Führer aveva dapprima annunciato il genocidio nella forma di una “profezia”, poi l’aveva sempre più precisamente riferito in colloqui riservati. È sconcertante come il metodo della profezia funzioni perfettamente nell’annunciare una mostruosità nella quale si cerca di non assumere responsabilità esclusiva: un obbiettivo diventa una sorta di ineluttabile accadimento, ma tutti i collaboratori ed i subordinati sanno che  esso è stato deciso e la sua materializzazione adesso è riservata alla loro capacità e fantasia.

In effetti, la diffusione dell’ordine genocida procedette con varie sottigliezze linguistiche (per un certo periodo si diceva che occorreva prepararsi ad agire ‘severamente’, poi ‘senza compassione’, poi ‘spietatamente’ e con il proposito ‘dell’annientamento’), anche se, naturalmente, al momento di applicarlo in modo generalizzato, fu necessaria una relazione di Heydrich, il vice di Himmler, in una riunione sufficientemente formale di vari dirigenti ministeriali, che si tenne nel gennaio del 1942 in una villa delle SS in un sobborgo di Berlino, a Wannsee. Ma i partecipanti alla riunione non ebbero bisogno di dibattere a lungo: dopo un ora andarono a pranzo ed Heydrich si disse molto confortato e sollevato dalla rapidità praticamente telepatica della comprensione degli astanti. Nell’incontro di Wannsee Heydrich parlò dell’uso dei gas, con un solo anòdino riferimento alle “esperienze pratiche” che erano già in corso, sperimentalmente.

[E’ interessante che il timore di non essere compresi da tutta l’opinione pubblica tedesca fosse, ancora alla fine del 1941, ben vivo nella testa dei nazisti.  Un personaggio particolarmente determinato nella ferocia antisemita era Goebbels, il Ministro della Propaganda, ideatore ed organizzatore della ‘Notte dei Cristalli’, che era in rapporti abbastanza intimi con Hitler e ha lasciato un diario di quegli anni e mesi. Sono frequenti, in quelle settimane di diario, considerazioni preoccupate sulle reazioni “deludenti” di una parte del popolo tedesco, o sul “romanticismo” che ancora caratterizzava la reazione di alcuni settori che esitavano dinanzi alla decisione dello sterminio. La particolare ‘catena di comando’, il metodo del ‘lavorare incontro’ con una relativa autonomia, retroagiva, lasciava ad alcuni la possibilità non certo di esprimere dubbi, ma di manifestare disappunto per la insufficientemente rapida nazificazione del popolo tedesco. Oppure conduceva financo i massimi responsabili dell’Olocausto a elogiare la segretezza e la riservatezza delle azioni genocide. Himmler affermò che lo sterminio degli ebrei era: “Una pagina di gloria non scritta, e che mai verrà scritta, della nostra storia … (è) meglio che noi – noi tutti assieme – ce ne assumiamo la responsabilità per il nostro popolo … e ne portiamo il segreto nella tomba”. Di nuovo, sintomi di ragionamento politico, persino nelle personalità più sataniche.]

4 – Alcune impressioni ‘conclusive’. Si sarà compreso che ciò che mi ha maggiormente colpito in queste letture è stata quella che non trovo altri termini per definire, se non come la “consequenzialità politica” del nazismo. Il nazionalismo feroce dei primi anni di persecuzione ‘legale’; l’imperialismo razziale genocida che distinse la guerra ad Est; la particolare modalità di un rapporto di collaborazione tra governanti e governati, sia pure nel contesto di una crescente sensazione di disfatta nazionale, furono tutti episodi che forse spiegano cosa intendesse Hannah Arendt nel dare al suo libro sul processo ad Eichmann a Gerusalemme il titolo della “banalità del Male”. “Banale” è un termine che deriva dal francese “banal”, che agli inizi indicava le terre del “bano” (signore, padrone del feudo), ma poi diventò un modo in cui ci si  riferiva alle “terre di tutti”, del villaggio. Ovvero: come una strategia politica opera in modo da far divenire una mostruosità una caratteristica collettiva.

Probabilmente è questo che dovrebbe essere messo al centro della nostra memoria. Non tanto i pronostici piuttosto stupidi su quanto quel fenomeno sia oggi precisamente replicabile, ma le componenti di una logica che non possiamo esser sicuri di avere estirpato. Ci separa un abisso da quella storia, ma non siamo dotati di un vaccino che ci renda immuni da alcune sue cause profonde. Abbiamo iscritto il nazismo nella categoria, apparentemente definitiva, del diabolico. Invece dovremmo essere molto più curiosi delle ragioni che permisero che diventasse “banale”.

Nei giorni passati, nella sua visita ad Auschwitz, Angela Merkel – secondo le cronache dei giornali – ha pronunciato, in tre parole, una frase che mi è parsa coraggiosa: il dodicennio hitleriano, ha semplicemente detto, “fa parte della nostra identità”. Dunque memoria, ma non solo come esercizio di conoscenza, anche come consapevolezza di qualcosa che ci appartiene, che non possiamo scrollarci di dosso senza prima riconoscerlo come ‘nostro’ (il che vale per i tedeschi, ma, sia pure in misura minore, anche per molti altri). Un frase coraggiosa, almeno nel senso che non archivia un problema, ma in qualche modo lo considera, proprio per la sua enormità, sempre aperto.

 

 

 

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