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Presentazione di “Fataturchina”: un aggiornamento. Di Marco Marcucci, giugno 2021.

Presentazione di “Fataturchina”: un aggiornamento

Le prime traduzioni di Fataturchina risalgono al 1994, ma il lavoro più organico cominciò con il 2008. Effettivamente aggiornare oggi la presentazione di questa iniziativa avviene dunque con un po’ di ritardo, più di dieci anni dalla prima organica presentazione, che compare nella mascherina dopo le “Note sulla traduzione”, dopo quasi trent’anni dalla prima traduzione e con tutte le novità che si sono aggiunte.

Cosa è cambiato nei propositi di questa iniziativa? Può essere utile fornire i pochi dati di cui dispongo per descrivere la comunità dei lettori di Fataturchina? Ha resistito nel tempo la strana scelta di dare a queste pagine quel nome, che – come spiegai all’epoca della prima presentazione – mi venne in mente per l’uso continuo che Krugman allora faceva del termine “confidence fairy” (la “fata della fiducia”), per indicare le politiche dell’austerità?

Il nome, temo, sia stato un po’ fuorviante per la curiosità del lettori o almeno di coloro che hanno gratificato la pubblicazione almeno di un accesso. Essi sono stati, a quanto pare, oltre 156.000 nell’intero periodo, e questo mi parrebbe un risultato enorme, se non fosse dipeso dal fatto che in una certa misura si trattava di ‘navigatori’ alla ricerca di altre fate, che si sono subito ritirati dopo aver constatato la stranezza dei contenuti (con tutti costoro, finalmente, mi scuso per il trabocchetto involontario). Ma molti di loro sono lettori intenzionali, come posso dedurre dal fatto che effettivamente passano un po’ di tempo ad esaminare gli articoli tradotti. In media sono al 90 per cento lettori italiani; più numerosi a Roma, poi a Milano, ma distribuiti un po’ in tutto il paese (ad esempio: Toscana, Emilia, Piemonte, Veneto, Campania, Sicilia, Sardegna, Puglia). Il restante 10 per cento viene da tutto il mondo: Europa e Russia, America del Nord e del Sud, Asia, quasi nessuno in Africa. In genere sono lettori che si trattengono per un po’ di minuti e, ovviamente, per me sono tutti anonimi, anche se lo strumento che utilizzo (che si chiama WordPress) consente di stabilire, oltre al paese, anche la città o la regione di provenienza, ed è emozionante scoprire lettori che persistono in Siberia o alle Bahamas.

È evidente che rispetto ai primi tempi, l’orizzonte di autori che traduco è divenuto molto più ampio. Agli inizi non pensavo lontanamente di imbarcarmi in una navigazione del genere, mi ero ripromesso soltanto di seguire – dagli articoli sul New York Times e dal suo blog – gli scritti di Paul Krugman. Erano gli anni effettivamente un po’ mitici dei suoi articoli sull’austerità, sulle traversie dell’euro e sul ritorno anche in Occidente della keynesiana ‘trappola della liquidità’, all’indomani del conseguimento del Premio Nobel per l’economia per le sue precedenti ricerche sul commercio internazionale e sulla geografia economica (anno 2008). Ma furono anche gli anni della esplosione della “blogosfera”, ovvero dell’uso dei blog nella trasmissione delle posizioni e delle ricerche economiche. Più volte, Krugman ha definito quella novità come un cambiamento importante nel dibattito economico, almeno nella sua forma e nella sua intensità, nel senso che con straordinaria facilità gli economisti potevano essere informati delle posizioni e delle ricerche di un numero illimitato di colleghi ed interloquire con essi: scompariva il ‘collo di bottiglia’ delle lungaggini e dei burocratismi accademici e delle riviste specializzate. Il che, probabilmente, ha comportato anche un processo graduale di maggiore accessibilità alle loro idee da parte della politica, del giornalismo e dell’opinione pubblica. Ma su questo, torno tra un attimo.

La grande maggiorenza degli autori che oggi traduco mi erano completamente sconosciuti quindici anni orsono. Direi che li ho incontrati seguendo tre tracce principali: i riferimenti che trovavo nei post sul blog di Krugman (più recentemente anche nelle sue prese di posizione su Twitter), che sono una fonte fondamentale, perché offrono con l’uso delle semplici ‘connessioni’ il quadro completo delle sue principali interlocuzioni; la graduale scoperta dei blog di altri economistI; la lettura sistematica di uno strumento prezioso come Project Syndicate, una pubblicazione online che semplicemente riunisce buona parte dei contributi di intellettuali economisti del mondo intero.

Provo a fornirne un elenco, sperando di non dimenticarne troppi.

Su Project Syndicate si trovano, con discreta frequenza, gli scritti di Joseph E. Stiglitz (Nobel per l’economia nel 2001), Michael Spence (Nobel assieme a Stiglitz nel 2001), J. Bradford DeLong, Adair Turner (economista inglese ed esperto di tematiche energetiche e demografiche), Yanis Varoufakis (già Ministro delle Finanze greco nel primo Governo Tsipras), Jeffrey Frankel, Nouriel Roubini, Barry Eichengreen, Dani Rodrik, James K. Galbratith, Robert Skidelsky (autore della principale biografia su John Maynard Keynes), Mariana Mazzuccato, Jeffrey D. Sachs, i coniugi Anne Case e Angus Deaton (il secondo, Premio Nobel per l’economia nel 2015). Con minore frequenza:  William H. Janeway, Kenneth Rogoff, Laura Tyson, Lucrezia Reichlin, Robert J. Shiller, Carmen Reinhart, Edmund S. Phelps, Paul De Grauwe, Daron Acemoglu, Jayati Gosh, Larry Summers, Raghuram G. Rayan, Anatole Kaletski, Philippe Legrain, Daniel Gros, Marcello Minenna, Bill Emmot, David Autor, Roberto Tamborini, Gauti Eggertsson. Talvolta, autori cinesi o sino americani, come Shan-Jing-Wei, Yu Yongding, Angela Huyue Zhang, Chen Long. Infine, da un’altra fonte (VOX-EU), giovani economisti meno noti che presentano le loro ricerche, spesso preziose, come quella di Acciari, Alvaredo, Morelli sulla crescente concentrazione della ricchezza in Italia.

Gli autori, invece, che non scrivono su Project Syndicate e che devono essere seguiti sui loro blog, sono; Simon Wren Lewis, Thomas Piketty, Branko Milanovic (i primi due talora forniscono contributi illuminanti anche delle situazioni inglese e francese, mentre per il terzo ho cercato di spiegare il mio forte interesse in una nota). Autori che talvolta ho tradotto dai loro siti sono anche: Olivier Blanchard (in passato capo economista del FMI) e Ben Bernanke (in passato Presidente della Federal Reserve).

Infine, come è ovvio, le traduzioni di Paul Krugman – i due articoli settimanali sul New York Times, ed i post sul suo blog, che di recenti sono tornati a riguardare temi più specialistici, con abbondante uso di tabelle e digrammi, come avveniva nel passato. Oppure alcune sue recensioni, o i discorsi in particolari occasioni (ad esempio, il discorso al momento di ricevere il Nobel, o quello a Cambridge al 75° anniversario della pubblicazione de “La teoria Generale” di Keynes).

Dunque, FataTurchina è molto cambiata dagli inizi, si è aperta ad una legione di economisti, e in particolare ad alcuni che non sono, diciamo così, necessariamente simmetrici a Krugman. Ciononostante, l’attenzione all’economista statunitense è rimasta centrale: i suoi articoli sul NYT sono stati tradotti tutti, praticamente dal 2008. Vorrei fornire una finale spiegazione delle ragioni.

Alcuni degli economisti vengono maggiormente seguiti, certamente, per le loro, diciamo così, spiccate personalità intellettuali. Esse possono riguardare le loro specializzazioni – ad esempio, demografia e morbilità nel caso di Deaton, diseguaglianze, studio dei temi della globalità e attenzione al ruolo dei paesi dell’ “altro capitalismo” nel caso di Milanovic, ancora attenzione ai temi della globalità nel caso di Rodrik, Inghilterra e pandemie nel caso di Wren Lewis, diseguaglianze e Francia nel caso di Piketty, energia nel caso di Turner; oppure le loro tendenze politiche – il radicalismo basato su una lettura della società americana della quale almeno si percepiscono aspetti di forte originalità di Galbraith Jr., il radicalismo spesso apertamente ‘politico’ di Sachs, il marxismo di Varoufakis (per il quale aggiungerei un interesse per un linguaggio spesso di grande eleganza). Per molti altri, l’attenzione può essere stata provocata principalmente  dall’oggetto del singolo articolo.

Krugman, si potrebbe dire, cammina per la sua strada, ovvero mi pare che resti un caso a sé. In un certo senso, quello che continua ad essere affascinante è il suo tragitto: un intellettuale che non pare nascere con particolari predilezioni politiche, apparentemente legato soprattutto alle sue specialità che difende da ogni semplificazione talora con ostinazione (la ‘macroeconomia’ di solito ha visto nel giusto!); che si immerge nella politica corrente soprattutto in reazione ai segni di ‘mutazione genetica’ nei repubblicani americani (già chiari con Bush, e retrospettivamente con Reagan); che percepisce con una chiarezza quasi unica il pericolo del trumpismo (per anni, sino all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio scorso, siamo stati allietati dalla equidistanza di vari giornalisti italiani!) e da quel momento – probabilmente per effetto anche del suo enorme seguito (non distante da 5 milioni di follower su Twitter, un caso praticamente unico al mondo, di sicuro nella categoria degli economisti) – finisce con l’avere un ruolo di prima linea nella battaglia contro il conservatorismo statunitense, divenuto un fenomeno apertamente reazionario. Naturalmente, in quel ruolo si colloca anche, e principalmente, per i suoi contributi come economista teorico; è un fatto che la sua lettura del keynesismo – per riferire l’ultimo episodio vecchio di una decina d’anni – gli ha consentito di afferrare i mutamenti di un’epoca segnata dalla “trappola della liquidità” con una chiarezza quasi ineguagliata. Questi sono ‘primati’ che, anche senza altri riconoscimenti accademici, alla fine appaiono evidenti. Certo, i segni della sua origine e formazione ‘non-leftist’ restano visibili (ad esempio, un evidente attaccamento ad una forma di ‘nazionalismo americano’ ed una certa non particolare partecipazione ai casi di altri popoli del mondo); ma non gli hanno certo impedito di capire meglio di tanti i nuovi pericoli reazionari (così, alla fine, li definiva, ammettendo la possibilità addirittura di un fallimento di quella storia nazionale).

(Un aspetto che vorrei aggiungere, pur trattandosi di qualcosa che forse possono notare solo i lettori più attenti, è una evoluzione della sua personalità intellettuale, o più precisamente del suo ‘giornalismo’. Sono sempre più evidenti e interessanti le incursioni di Krugman nella sociologia. Tra gli ultimi esempi, la sua attenzione ai fenomeni della disaffezione post pandemica di non pochi americani verso i loro vecchi posti di lavoro, oppure la sua attenzione ai fenomeni di ‘gentrificazione’ delle città americane collegati a politiche delle abitazioni restrittive negli Stati democratici (il casi della California, in un suo post recente). Credo che si possa notare come questa evoluzione dipenda da una sua sempre maggiore identificazione – nelle sue attività – con quella che probabilmente è divenuta sempre più centrale, di ‘pubblic intellectual‘ che utilizza soprattutto gli strumenti della comunicazione giornalistica e dei social. Pur essendo sempre stato caratterizzato da una forte curiosità per questi aspetti, pare che li consideri sempre di più ingredienti necessari del suo giornalismo. Forse non è un caso se i suoi post sono tornati ad essere la sede della comunicazione di un ricco repertorio di tabelle e di statistiche, dopo che nel periodo dell’assorbente impegno della lotta politica al trumpismo erano in parte scomparsi.)

Queste sono impressioni, e non sarebbe appropriato procedere per impressioni. Il fatto è che la forza politica di questo intellettuale è ulteriormente cresciuta con il trumpismo e con la sua provvisoria sconfitta, al punto che i tratti attuali di radicalismo dei democratici americani di Biden vengono percepiti da non pochi anche in relazione al suo ruolo (per chi ne avesse voglia, consiglierei una lettura di un recente lungo articolo dello storico britannico Adam Tooze su London Review of Books, che restituisce con esattezza le ragioni del ‘potere politico’ del krugmanismo). Né questo ha spostato di un millimetro la sua collocazione sul terreno della ‘battaglia delle idee’; nessuno si aspetta che egli sarà mai tentato di uscire dalla sua collocazione di ‘pensatore’, di ‘columnist’ e, di decennio in decennio, di economista capace di intuire i fenomeni più profondi.

Come egli si è espresso con il suo solito gusto per l’ironia sull’articolo di Tooze sul krugmanismo, alla fine conquistare un ‘ismo’ è una bella soddisfazione!

 

 

 

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