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L’inflazione non così grande dell’America, di Barry Eichengreen (da Project Syndicate, 10 febbraio 2022)

 

Feb 10, 2022

America’s Not-So-Great Inflation

BARRY EICHENGREEN

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BERKELEY – It has become abundantly clear that the United States has an inflation problem. What is not yet clear is how big the problem will turn out to be and how long it will last.

Alarmed observers point to parallels with the 1970s, when commodity prices shot up, the US Federal Reserve fell behind the curve, and inflation expectations became unmoored. Consumers, producers, and workers all expected prices to keep rising at the same or even an accelerating pace. Accordingly, households adjusted their spending, unions their wage demands, and businesses their prices, triggering an inflationary spiral.

Today, in contrast, inflation expectations remain firmly anchored. The Michigan Survey of Consumers shows that respondents expect inflation to approach 5% over the coming year, before falling back to just above 2% in the subsequent four years. The inflation rate implicit in the price of five-year inflation-indexed Treasury securities shows basically the same thing: inflation averaging 2.8% over the next five years. We can infer that expected inflation for the years 2023 to 2026 is below this five-year average, given the expectation of 5% for 2022. There is no sign of the ship dragging anchor, in other words.

Things can always change, of course. The question is whether inflation expectations, however stable they might be for the moment, will remain equally well anchored in the future, or whether they will become unmoored, as they did in the 1970s.

Answering that question requires ascertaining whether the conditions leading to the 1970s “Great Inflation” have really been consigned to the dustbin of history. Importantly, in 1973, when consumer price inflation reached 6%, it was entirely rational for consumers, producers, and workers to extrapolate that rate into the future. They were justified in thinking that inflation would persist, because there were absolutely no grounds for believing that the Federal Reserve would tamp it down.

The Fed, or at least those responsible for its policies, did not even possess a model of the connections between central-bank policy and inflation. The closest thing to an anchor for policy in the 1950s and early 1960s was the Bretton Woods international monetary system. Under Bretton Woods, the US pegged the dollar to gold at $35 an ounce, and foreign central banks and governments could redeem their dollars for gold, on demand.

Excessive inflation and lax central-bank policy might jeopardize this commitment. If US interest rates were too low, capital would flee the country, gold would be lost, and the Fed would be forced to raise rates in response. If spending was too strong, imports would surge, gold would again be lost, and the Fed would have to rein in demand. The Fed was not targeting inflation, and it was not seeking to minimize unemployment. Its mission was to conserve US gold reserves and defend the dollar’s Bretton Woods peg.

It is commonplace to attribute the Great Inflation to the collapse of Bretton Woods in 1971-73. In fact, Bretton Woods had already lost its bite, and inflation had begun to accelerate in the second half of the 1960s. The US adopted policies, such as an Interest Equalization Tax on American foreign financial investments, that loosened the link between inflation and gold losses. The Treasury Department asserted its responsibility for managing the foreign-exchange market, allowing the Fed to dismiss gold losses and dollar weakness as someone else’s problem. As a result, US inflation was approaching 6% already in 1970, even before the collapse of Bretton Woods.

The demise of Bretton Woods would not have mattered had the Fed possessed a coherent theory connecting monetary policy with inflation. In lieu of that was Chairman Arthur Burns’s view that monetary policy didn’t matter. Burns believed that inflation was caused by unions’ excessive wage demands, price increases by firms with market power, poor harvests, high oil prices, and excessive government spending. His successor, G. William Miller, lacked Burns’s academic credentials and was not inclined to question the views of his illustrious predecessor. Paul Volcker eventually would have something to say about this, but not until after he became Fed chair in 1979.

Today’s circumstances could not be more different. Fed officials understand that, monetary policy and inflation are intertwined. They have a coherent policy framework, average inflation targeting, to which they are committed. Financial-market participants and survey respondents alike show every sign of believing them.

Nonetheless, the Fed has a rocky road ahead. Interest-rate hikes can roil financial markets and provoke capital outflows and debt difficulties in emerging economies. Such are the consequences of falling behind the curve. But, in contrast to the 1970s, the Fed knows what is at stake. Having fallen behind, it is now firmly committed to catching up.

 

L’inflazione non così grande dell’America,

di Barry Eichengreen

 

BERKELEY – E’ diventato del tutto evidente che gli Stati Uniti hanno un problema di inflazione. Quello che non è ancora chiaro è quanto il problema risulterà grande e quanto a lungo durerà.

Osservatori allarmati indicano somiglianze con gli anni ’70, quando i prezzi delle materie prime si impennarono, la Federal Reserve non fu all’altezza dell’evento e le aspettative di inflazione andarono per conto loro. I consumatori, i produttori ed i lavoratori si aspettavano tutti che i prezzi continuassero a crescere con lo stesso ritmo e anche più velocemente. Di conseguenza, le famiglie corressero le loro spese, i sindacati le loro richieste salariali e le imprese i loro prezzi, innescando una spirale inflazionistica.

Oggi, al contrario, le aspettative di inflazione restano saldamente ancorate. Il Sondaggio Michigan dei Consumatori  mostra che gli intervistati si aspettano che l’inflazione raggiunga il 5% in quest’anno, per poi scendere appena sopra il 2% nei quattro anni successivi. Il tasso di inflazione implicito nel prezzo dei buoni del Tesoro quinquennali indicizzati per l’inflazione mostra fondamentalmente la stessa cosa: una inflazione media del 2,8% nei prossimi cinque anni. Possiamo dedurne che l’inflazione attesa per gli anni dal 2023 al 2026 sia al di sotto di questa media dei cinque anni, considerata l’aspettativa del 5% per il 2022. In altre parole, non c’è alcune segno che la nave stia levando le ancore.

Naturalmente, le cose potrebbero cambiare. La domanda è se le aspettative di inflazione, per quanto stabili possano essere al momento, rimarranno egualmente ben ancorate nel futuro, o se perderanno gli ormeggi, come fecero negli anni ’70.

Per rispondere a tale domanda è necessario accertare che le condizioni che portarono alla “Grande Inflazione” degli anni ’70 siano davvero finite nel bidone dei rifiuti della storia. Nel 1973, quando il costo dell’inflazione per i consumatori raggiunse il 6%, in modo significativo fu del tutto razionale per i consumatori, per i produttori e per i lavoratori dedurne il tasso per il futuro. Essi erano giustificati nel pensare che l’inflazione avrebbe persistito, giacché non c’era assolutamente alcuna base per credere che la Federal Reserve l’avrebbe spinta in basso.

La Fed, o almeno coloro che erano responsabili delle sue politiche, neanche possedevano un modello delle connessioni tra la politica della Banca Centrale e l’inflazione. Per tale politica, la cosa più vicina ad un ancoraggio negli anni ’50 e nei primi anni ’60 era il sistema monetario internazionale di Bretton Woods. Sotto Bretton Woods, gli Stati Uniti fissavano il dollaro all’oro a 35 dollari all’oncia, e le Banche Centrali ed i Governi stranieri potevano riscattare i loro dollari in oro, a semplice richiesta.

Una eccessiva inflazione e una politica della Banca Centrale lassista poteva mettere a rischio questo impegno. Se i tassi di interesse degli Stati Uniti fossero stati troppo bassi, i capitali sarebbero fuggiti dal paese, sarebbe stato perso oro e, in risposta, la Fed sarebbe stata costretta ad alzare i tassi. Se la spesa fosse stata troppo forte, le importazioni sarebbero cresciute, l’oro sarebbe stato perso anche in quel caso e la Fed avrebbe dovuto frenare la domanda. La Fed non aveva un obbiettivo di inflazione, né stava cercando di minimizzare la disoccupazione. La sua missione era conservare le riserve di oro statunitensi e difendere l’ancoraggio del dollaro al sistema di Bretton Woods.

È un luogo comune attribuire la Grande Inflazione al collasso di Bretton Woods nel 1971-73.  Di fatto, Bretton Woods aveva già perso la sua presa e l’inflazione aveva cominciato ad accelerare nella seconda metà degli anni ’60. Gli Stati Uniti adottarono politiche, come la Tassa sulla Perequazione dell’Interesse sugli investimenti finanziari americano all’estero, che attenuarono il nesso tra inflazione e perdite dell’oro. Il Dipartimento del Tesoro stabilì come sua responsabilità la gestione del mercato dei cambi con l’estero, consentendo alla Fed di considerare le perdite di oro e la debolezza del dollaro come un problema di altri. Come risultato, l’inflazione statunitense raggiunse già nel 1970 il 6%, persino prima del collasso di Bretton Woods.

La scomparsa di Bretton Woods non sarebbe stata importante se la Fed avesse posseduto un teoria coerente sulla connessione tra politica monetaria e inflazione. Al posto di quella, il punto di vista del Presidente Arthur Burns era che la politica monetaria non era importante. Burns credeva che l’inflazione fosse provocata dalle eccessive richieste salariali dei sindacati, dall’incremento dei prezzi da parte delle imprese per effetto del potere di mercato,  dai raccolti modesti, dagli alti prezzi del petrolio e dalla eccessiva spesa pubblica. Il suo successore, G. William Miller, non aveva le credenziali accademiche di Burns e non era incline a mettere in dubbio i punti di vista del suo illustre predecessore. Paul Volcker, alla fine, avrebbe potuto avere qualcosa da dire su tutto questo, ma non lo fece finché non divenne Presidente della Fed nel 1979.

Le circostanze odierne non potrebbero essere più diverse. I dirigenti della Fed capiscono che, in tutte le circostanze tranne che in quelle più eccezionali, la politica monetaria e l’inflazione sono interconnesse. Hanno un modello di politica coerente, un obbiettivo medio di inflazione, ai quali sono obbligati. Coloro che partecipano ai mercati finanziari e quelli che sono intervistati nei sondaggi mostrano con evidenza di credere a loro.

Ciononostante, la Fed è dinanzi ad una strada difficoltosa. Il rialzo dei tassi di interesse può irritare i mercati finanziari e provocare fuoriuscite di capitali e difficoltà per il debito nelle economie emergenti. Quelle sono le conseguenze del non riuscire a stare al passo con gli eventi. Ma, all’opposto degli anni ’70, la Fed sa qual è la posta in gioco. Non essendo riuscita a stare al passo, adesso è fermamente impegnata a recuperare.

 

 

 

 

 

 

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