Articoli sul NYT

Quando il commercio diventa un’arma, di Paul Krugman (New York Times, 13 ottobre 2022)

 

Oct. 13, 2022

When Trade Becomes a Weapon

By Paul Krugman

zzz 429

Stop me if you’ve heard this one before: We’re now engaged in a trade war with China.

Actually, you probably haven’t heard this one before. I’m not talking about Donald Trump’s clumsy tariffs aimed at reducing America’s trade deficit. I’m talking instead about the sweeping new controls the Biden administration imposed last Friday on exports of technology to China — controls meant to constrain other advanced countries as well as the United States.

Unlike the Trump tariffs, these controls have a clear goal: to prevent or at least delay Beijing’s attempts to produce advanced semiconductors, which are of crucial military as well as economic importance. If this sounds like a very aggressive move on the part of the United States, that’s because it is.

But it needs to be put in context. Recent events have undermined the sunny view of globalization that long dominated Western policy. It’s now apparent that despite global integration, there are still dangerous bad actors out there — and interdependence sometimes empowers these bad actors. But it also gives good actors ways to limit bad actors’ ability to do harm. And the Biden administration is evidently taking these lessons to heart.

It wasn’t supposed to turn out this way. The postwar world trade system, with its limits on protectionism and waves of tariff reduction, emerged partly out of the view that trade promoted peace. This was the firm belief of Cordell Hull, F.D.R.’s secretary of state, arguably the father of that system. The European Union grew out of the 1951 Coal and Steel Community, established with the explicit goal of making war impossible by binding European industry together.

Later, Germany would promote economic links with Russia and China under the doctrine of “Wandel durch Handel” — change through trade — which asserted that integration with the world economy would promote democratization and rule of law.

Obviously it didn’t work. Russia is led by a brutal autocrat who invaded Ukraine. China appears to have retrogressed politically, moving back to erratic one-man rule.

And rather than forcing nations to get along, globalization seems to have created new frontiers for international confrontation.

Three years ago the internationall relations experts Henry Farrell and Abraham Newman published a prescient paper titled “Weaponized Interdependence: How Global Economic Networks Shape State Coercion.” They argued, in effect, that conventional trade wars — in which nations try to exert economic power by restricting access to their markets — are no longer where the action is. Instead, economic power comes from the ability to restrict other countries’ access to crucial goods, services, finance and information.

And much of this new form of power rests in the hands of the West, especially the United States.

To be sure, we’re not the only players who can exert economic pressure. Russia, losing on the battlefield, is trying to blackmail Europe by cutting off its supply of natural gas. But the big surprise on the economic side of the Ukraine war was the early success of the United States and its allies in strangling Russian access to crucial industrial and capital goods. Russian imports have begun to recover, but sanctions probably dealt a crucial blow to Vladimir Putin’s war-making ability.

Which brings me to what we might call the Biden doctrine on globalization and national security.

 

Last week Katherine Tai, the U.S. trade representative, gave a fairly startling speech calling for U.S. industrial policy aimed in part at protecting national security. She denounced China’s “state-directed industrial dominance policies” and declared that the efficiency gains from trade liberalization “cannot come at the cost of further weakening our supply chains [and] exacerbating high-risk reliances.” On the same day, the Biden administration announced its new export controls aimed at China. Suddenly, America is taking a much harder line on globalization.

I don’t have any inside information on what is driving this change in policy, but it seems likely that it reflects both a new appreciation of global dangers and increased confidence in America’s ability to exercise economic power.

On one side, Handel evidently hasn’t produced Wandel. Putin’s Russia is or was deeply integrated with the world economy; it has also tried to conquer its neighbor and is committing horrific war crimes. A Chinese invasion of Taiwan would be deeply self-destructive; that doesn’t mean that Xi Jinping won’t try it.

On the other side, the early success of sanctions against Russia was a demonstration of Western and especially U.S. economic power. So, in a way, was an earlier episode, the U.S. imposition of sanctions against the Chinese company Huawei. China didn’t strike back, seemingly confirming that when it comes to technology, America still has “escalation dominance.”

Does all of this make you nervous? It should. But as we now know, it’s a dangerous world out there, and I can’t fault the Biden administration for its turn toward toughness — genuine toughness, not the macho preening of its predecessor.

 

Quando il commercio diventa un’arma,

di Paul Krugman

 

Fermatemi se l’avete già sentito dire: adesso siamo coinvolti in una guerra commerciale con a Cina.

In realtà, sinora probabilmente non l’avete sentito dire. Non sto parlando delle maldestre tariffe di Donald Trump che si proponevano di ridurre il deficit commerciale dell’America. Sto parlando invece dei vasti nuovi controlli che l’Amministrazione Biden ha imposto lo scorso venerdì sulle esportazioni di tecnologie alla Cina – controlli intesi a limitare altri paesi avanzati nello stesso modo degli Stati Uniti.

Diversamente dalle tariffe di Trump, questi controlli hanno un chiaro obbiettivo: impedire o almeno ritardare i tentativi di Pechino di produrre semiconduttori avanzati, che sono di importanza fondamentale sia militare che economica. Se questa vi pare assomigli ad una mossa molto aggressiva da parte degli Stati Uniti, è perché è proprio così.

Ma occorre collocarla in un contesto. Gli eventi recenti hanno minato il punto di vista solare sulla globalizzazione che per molto tempo ha dominato la politica occidentale. Adesso è evidente che nonostante l’integrazione globale, sono ancora in circolazione pericolosi cattivi attori – e l’interdipendenza talora rafforza questi cattivi soggetti. Ma essa dà anche ai protagonisti buoni modi per limitare la capacità di quelli cattivi di fare danni. E l’Amministrazione Biden sta prendendo sul serio queste lezioni.

Non si pensava che le cose avrebbero preso questa piega. Il sistema commerciale postbellico, con le sue limitazioni sul protezionismo e le ondata di riduzione delle tariffe, in parte proveniva dall’opinione che il commercio avrebbe promosso la pace. Questo era il fermo convincimento di Cordell Hull, il Segretario di Stato di Franklin Delano Roosevelt, probabilmente il padre di quel sistema. L’Unione Europea ebbe origine dalla Comunità del Carbone e dell’Acciaio del 1951, stabilita con l’obbiettivo esplicito di rendere la guerra impossibile legando assieme l’industria europea.

Più tardi, la Germania avrebbe promosso collegamenti economici con la Russia e con la Cina con la dottrina del “Wandel durch Handel” [1] – cambiamento con il commercio – che asseriva che l’integrazione con l’economia mondiale avrebbe promosso la democratizzazione e lo stato di diritto.

Evidentemente non ha funzionato. La Russia è guidata da un autocrate brutale che ha invaso l’Ucraina. La Cina sembra essere regredita politicamente, tornando al governo di un imprevedibile uomo solo.

E anziché costringere le nazioni ad andare d’accordo, la globalizzazione sembra aver creato nuove frontiere per lo scontro tra le nazioni.

Tre anni fa gli esperto di relazioni internazionali Henry Farrell e Abraham Newman pubblicarono un preveggente saggio dal titolo: “Interdipendenza armata: come le reti economiche globali plasmano la violenza degli Stati”. Sostenevano, in sostanza, che le convenzionali guerre commerciali – nelle quali le nazioni cercano di esercitare il potere economico restringendo l’accesso ai loro mercati – non sono più i luoghi dell’iniziativa. Piuttosto, il potere economico deriva dalla capacità di restringere l’accesso degli altri paesi a beni cruciali, ai servizi, alla finanza e all’informazione.

E molta di questa nuova forma di potere è nelle mani dell’Occidente, specialmente degli Stati Uniti.

Di sicuro, non siamo gli unici protagonisti che possono esrcitare pressioni economiche. La Russia, perdendo sul campo di battaglia, sta cercando di ricattare l’Europa tagliando la sua offerta di gas naturale. Ma la grande sorpresa sul versante economico della guerra ucraina è stata il precoce successo degli Stati Uniti e dei loro alleati nel soffocare l’accesso russo a fondamentali beni industriali e finanziari. Le importazioni russe hanno cominciato a riprendersi [2], ma probabilmente le sanzioni hanno inferto un colpo cruciale alla capacità di gestire la guerra di Putin.

Il che mi porta a quella che potremmo chiamare la dottrina Biden sulla globalizzazione e sulla sicurezza nazionale.

La scorsa settimana Katherine Tai, la deputata statunitense al commercio, ha tenuto un discorso piuttosto sorprendente, pronunciandosi per una politica industriale degli Stat Uniti in parte rivolta a proteggere la sicurezza nazionale. Ella ha denunciato le “politiche di dominio industriale dirette dallo Stato” della Cina ed ha dichiarato che i vantaggi di efficienza derivanti dalla liberalizzazione commerciale “non possono venire al costo di una ulteriore indebolimento delle nostre catene dell’offerta [e] di dipendenze ad alto rischio che si acutizzano”. Nello stesso giorno, l’Amministrazione Biden ha annunciato i suoi nuovi controlli sull’esportazione rivolti alla Cina. Improvvisamente, l’America sta facendo propria una linea molto più dura sula globalizzazione.

Non ho alcuna informazione riservata su quello che sta provocando questo cambiamento di politica, ma sembra probabile che esso rifletta sia una nuova valutazione dei pericoli globali che una accresciuta fiducia nella capacità dell’America di esercitare il potere economico.

Da una parte, Handel evidentemente non ha prodotto Wandel. La Russia di Putin è o era profondamente integrata con l’economia mondiale; essa ha anche cercato di conquistare il suo vicino e sta commettendo orribili crimini di guerra. Una invasione cinese di Taiwan sarebbe profondamente distruttiva; il che non significa che Xi Jinping non ci proverà.

D’altra parte, i primi successi delle sanzioni contro la Russia sono state una dimostrazione della potenza economica occidentale e particolarmente degli Sati Uniti. Tale fu, in un certo senso, un precedente episodio, l’imposizione da parte degli Stati Uniti di sanzioni contro la società cinese Huawei. La Cina non reagì, apparentemente confermando che quando si arriva alla tecnologia, l’America ha ancora il “predominio della escalation” [3].

Se tutto questo può provocarvi apprensione, è naturale. Ma come adesso sappiamo, c’è un mondo pericoloso fuori da qua – e non mi sento di dar la colpa alla Amministrazione Biden per la sua svolta nel senso della durezza – di una durezza genuina, non degli atteggiamenti macho del suo predecessore.

 

 

 

 

 

[1] In tedesco “cambiamento attraverso il commercio”, ovvero il caposaldo, tra l’altro, della passata dottrina tedesca della Ostpolitik.

[2] La connessione (testo inglese) è con un articolo dal sito “The overshoot” di Matthew C. Klein.

[3] Ovvero, il ‘dominio della belligeranza’.

 

 

 

By


Commenti dei Lettori (0)


E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"