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La promessa e il pericolo della politica climatica di Biden, di Paul Krugman (New York Times, 2 marzo 2023)

 

March 2, 2023

The Promise and Peril of Biden’s Climate Policy

By Paul Krugman

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In 2010, at the signing ceremony for the Affordable Care Act, Joe Biden, the vice president at the time, could be overheard telling President Barack Obama that “this is a big something deal.” OK, that’s almost what he said. And he was right.

Now, as president himself, Biden has presided over three big deals. After several years during which “It’s infrastructure week!” became a punchline, he passed a major infrastructure bill. He pushed through legislation to promote U.S. production of sophisticated semiconductors. And most important, Congress enacted the Inflation Reduction Act, which despite its name is mainly a climate bill; we’re finally taking serious action to reduce greenhouse gas emissions.

Yet many observers, myself included, have wondered whether Biden’s climate policy is a big enough deal.

The media often uses hyperbolic language about any program that involves spending hundreds of billions of dollars, so Biden’s climate initiative, which the Congressional Budget Office estimates will involve roughly $400 billion in climate spending, gets described as “massive.” But that’s spending over the course of a decade. And the budget office expects cumulative gross domestic product over the next decade to be more than $300 trillion.

So we’re talking about spending only a bit more than one-tenth of 1 percent of G.D.P. Can this possibly be enough to make a real difference in facing an existential threat?

Well, there are two important reasons to believe that Biden’s climate policy may be a much bigger deal than the numbers might suggest. But there are also reasons to worry that the policy may fall short, not because the spending is inadequate, but because of one crucial limiting factor: an inadequate power grid.

The first reason to believe that Biden’s policy may be a big deal is that it comes at a crucial technological juncture.

There was a time, not that long ago, when it seemed as if limiting greenhouse gas emissions would require hard choices — that it would have to be achieved largely through conservation and increased energy efficiency, which in turn would require putting a substantial price on carbon, either via carbon taxes or via a cap-and-trade system in which emitters would have to purchase permits. In fact, there would still be a good case for a carbon tax, if it were politically feasible.

But huge progress in renewable energy and related technologies, notably batteries, means that it now looks almost easy to achieve a low-emission economy. We can now easily envision a society in which people drive electric vehicles and cook on induction ranges, using power generated by solar panels and wind turbines, and experience no sense of sacrifice.

The role of policy then becomes to accelerate this transition — to push us over the tipping point into a sustainable economy. And this need not involve huge amounts of public money, just enough to act as a sort of catalyst for change.

A second, somewhat related reason to think that Biden’s climate policy is a big deal is that it doesn’t actually mandate $400 billion in spending. What it does, mainly, is set conditions under which consumers and businesses can receive tax credits for adopting green technology. That $400 billion is based on an estimate of how many people will actually take advantage of these tax credits — and given the spectacular rate of technological progress, that estimate may well turn out to be low.

report from Credit Suisse suggests that the credits might “propel much higher activity levels” than the budget office projects — that in practice federal climate spending might be $800 billion or more. And there may also be a multiplier effect as private firms make investments complementary to those directly subsidized, so Credit Suisse suggests that the true size of the climate plan may be more like $1.7 trillion.

So Biden’s deal may be bigger than it looks. Which is a good thing, given the importance of the issue.

Now for my concern. America finally has a serious climate strategy. However, it depends not just on a rapid expansion of solar and wind power, but also on linking these new energy sources to the electrical grid. But the U.S. power grid doesn’t have enough capacity, and it is in general a mess.

Part of the reason is that there isn’t really a U.S. grid: Investment in electricity transmission is, as a Reuters report put it, “controlled by a Byzantine web of local, state and regional regulators who have strong political incentives to hold down spending.” And this regulatory system wasn’t designed to handle the sudden influx of new energy sources; as a result, simply getting permission to connect to the grid can take years.

Here’s how I think of it: A clean-energy future suddenly looks eminently possible thanks to a technological miracle — incredible cost declines for renewable energy — and a political miracle — Democrats’ success, despite the narrowest of congressional majorities, in enacting legislation that looks even better when examined closely.

But we may need a third, bureaucratic miracle to fix the electricity grid and make this whole thing work.

 

La promessa e il pericolo della politica climatica di Biden,

di Paul Krugman

 

Nel 2010, durante la cerimonia delle firma della Legge sulla Assistenza Sostenibile, si sentì di sfuggita Joe Biden, allora Vicepresidente, dire al Presidente Barack Obama: “Questo è un affare davvero grosso”. Va bene, questo è all’incirca quello che disse. Ed aveva ragione.

Ora Biden, lui stesso come Presidente, ha condotto in porto tre affari grossi. Dopo vari anni nei quali la frase “E’ la settimana delle infrastrutture!” era diventata una barzelletta [1], ha approvato una importante proposta di legge sulle infrastrutture. Ha fatto approvare la legislazione per promuovere la produzione statunitense di sofisticati semiconduttori. E, ancora più importante, il Congresso ha varato la Legge sulla Riduzione dell’Inflazione, che nonostante il suo nome è un provvedimento che riguarda principalmente il clima; finalmente prendiamo una seria iniziativa per ridurre le emissioni dei gas serra.

Tuttavia molti osservatori, compreso il sottoscritto, si sono chiesti se la politica climatica di Biden sia un affare sufficientemente grosso.

I media usano spesso un linguaggio iperbolico su ogni programma che riguarda la spesa di centinaia di miliardi di dollari e così l’iniziativa sul clima di Biden, che l’Ufficio Congressuale sul Bilancio stima riguarderà circa 400 miliardi di dollari di spese sul clima, viene descritta come “massiccia”. Ma quella è la spesa nel corso di una decennio. E l’Ufficio del Bilancio si aspetta nel prossimo decennio che il prodotto interno lordo complessivo sia superiore a 300 mila miliardi di dollari.

Dunque stiamo parlando di una spesa soltanto un po’ superiore a un decimo di un punto percentuale del PIL. È verosimile che questo sia sufficiente a fare una vera differenza nell’affrontare una minaccia esistenziale?

Ebbene, ci sono due importanti ragioni per credere che la politica climatica di Biden possa essere una affare molto più grosso di quanto suggeriscono quei dati. Ma ci sono anche ragioni per preoccuparsi che la politica possa non avere successo, non perché la spesa sia insufficiente, ma per un fondamentale fattore che la limita: una rete elettrica inadeguata.

La prima ragione per credere che la politica di Biden possa essere un grande affare è che essa arriva in una cruciale congiuntura tecnologica.

C’era un tempo, non molti anni orsono, quando sembrava che limitare le emissioni dei gas serra avrebbe richiesto scelte difficili – che sarebbe stato ottenuto in buona parte attraverso la conservazione e l’aumentata efficienza energetica, che a sua volta avrebbe richiesto di fissare un prezzo sostanziale sul carbonio, attraverso tasse sul carbonio o un sistema cap-and-trade [2] nel quale gli emissori avrebbero dovuto acquistare i permessi. Di fatto, ci sarebbe stato un buon argomento per una tassa sul carbonio, se fosse stata politicamente realizzabile.

Ma l’enorme progresso nelle energie rinnovabili e nelle tecnologie connesse, in particolare nelle batterie, comporta che adesso sembra abbastanza facile realizzare un’economia a basse emissioni. Possiamo facilmente immaginare una società nella quale le persone guidano veicoli elettrici e cucinano con il sistema dell’induzione, utilizzando elettricità generata dai pannelli solari e dalle turbine eoliche, senza patire alcuna sensazione di sacrificio.

Il ruolo della politica diventa allora accelerare questa transizione – spingerci oltre il punto di svolta in una economia sostenibile. E questo non richiede enormi quantità di denaro pubblico, quanto basta soltanto per funzionare come una sorta di catalizzatore del cambiamento.

Una seconda ragione, in qualche modo connessa, per pensare che la politica climatica di Biden sia un grosso affare è che essa in effetti non obbliga a spendere 400 miliardi di dollari. Quello che fa è, principalmente, creare le condizioni nelle quali consumatori e imprese possano ricevere crediti di imposta per adottare tecnologie verdi. Quei 400 miliardi di dollari si basano su una stima di quante persone effettivamente si avvantaggeranno con questi crediti di imposta – e dato il ritmo spettacolare del progresso tecnologico, si potrebbe ben scoprire che quella stima è bassa.

Un rapporto dal Credit Suisse suggerisce che i crediti potrebbero “promuovere livelli di attività molto superiori” di quanto l’Ufficio del Bilancio prevede – in pratica che la spesa federale sul clima potrebbe essere di 800 miliardi di dollari o più. E ci può anche essere un effetto moltiplicatore allorché imprese private facessero investimenti complementari a quelli direttamente sussidiati, cosicché il Credit Suisse suggerisce che la dimensione effettiva del piano climatico potrebbe essere più vicina a 1.700 miliardi di dollari.

Dunque l’affare di Biden potrebbe essere più grosso di quanto sembra. Il che è una buona cosa, considerata l’importanza della questione.

Vengo adesso alla mia preoccupazione. L’America ha finalmente una seria strategia per il clima. Tuttavia, essa dipende non solo dalla rapida espansione dell’energia solare ed eolica, ma anche dalla connessione di queste nuove fonti energetiche alla rete elettrica. Ma la rete elettrica statunitense non ha capacità sufficienti, e in generale è in una situazione di caos.

In parte la ragione è che in realtà non c’è una rete elettrica statunitense: gli investimenti nella trasmissione elettrica, come si esprime un rapporto di Reuters, è “controllata da un bizantino complesso di regolatori locali, statali e regionali che hanno forti incentivi politici a tener bassa la spesa”. E questo sistema regolamentare non è stato concepito per gestire il flusso improvviso di nuove fonti energetiche; di conseguenza, soltanto ottenere il permesso per essere connessi alla rete può richiedere anni.

Ecco cosa penso di tutto questo: d’un tratto un futuro di energia pulita appare fondamentalmente possibile grazie ad un miracolo tecnologico – i cali incredibili nel costo delle energie rinnovabili – ed a un miracolo politico – il successo dei democratici, nonostante le strettissime maggioranze congressuali, nel varare una legislazione che, quando viene esaminata da vicino, appare persino migliore.

Ma abbiamo bisogno di un terzo miracolo, burocratico, per riparare la rete elettrica e rendere funzionante l’intera faccenda.

 

 

 

 

 

 

[1] Era l’annuncio di Trump di un provvedimento importante sulla infrastrutture, che non arrivò mai.

[2] Letteralmente, del “mettere un limite e consentire gli scambi” in materia di inquinamento ambientale – ovvero mettere un limite all’inquinamento (“cap”) e premiare chi sta sotto quel limite (i più virtuosi), anche permettendogli di ‘vendere’ (“trade”) il proprio comportamento a chi resta provvisoriamente sotto (l’acquisto di ‘punti’ dai più virtuosi – e talora anche di tecnologie – essendo un modo provvisorio per restare nella legalità). Il che dovrebbe produrre l’effetto di estendere l’interesse a comportamenti virtuosi e di limitare i ‘ritardi’ di quelli non virtuosi, che comporterebbero un costo.

 

 

 

 

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