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La resilienza democratica della Turchia, di AYŞE ZARAKOL (da Project Syndicate, 11 maggio 2023)

 

May 11, 2023

Turkey’s Democratic Resilience

AYŞE ZARAKOL

Ayse

CAMBRIDGE – Turkey’s presidential and parliamentary elections on May 14 have been called the most important of the year. Turkish President Recep Tayyip Erdoğan of the ruling Justice and Development Party (AKP) is trailing in polls behind his main opponent, Kemal Kılıçdaroğlu, the leader of the Republican People’s Party (CHP) who is backed by a broad opposition alliance. If Erdoğan is defeated, the elections will have global significance, demonstrating that the erosion of democracies worldwide in recent years can be reversed – and that even firmly entrenched strongmen can be shown the door.

While other leaders cut from the same cloth, including former US President Donald Trump and former Brazilian President Jair Bolsonaro, have also lost elections in recent years, the Turkish opposition faces a tougher task. The country’s slide towards full-blown authoritarianism is nearly complete. Erdoğan has been in power for more than 20 years – much longer than either Trump or Bolsonaro was – and has used this time to shape the state in his own image.

Erdoğan formally or informally controls all of Turkey’s political institutions, further centralizing an already-centralized state. There are hardly any checks on his executive presidency: the parliament is a rubber stamp, and the judiciary answers to him. The military is defanged; the police are loyal. His alliance with the far-right Nationalist Movement Party (MHP) means that he has a semi-organized civil militia at his disposal (the opposition suspects that such a group was involved in the stoning of Istanbul Mayor Ekrem İmamoğlu and his supporters at a campaign rally in Erzurum last Sunday). A nationwide network of cronies and political appointees feed on the regime’s corruption, with much to lose if Kılıçdaroğlu wins.

Erdoğan also maintains a firm grip on Turkey’s media. Most TV channels and print outlets run nonstop pro-AKP coverage, while opposition candidates must campaign via online interviews and social media. Selahattin Demirtaş, the erstwhile leader of the pro-Kurdish Peoples’ Democratic Party (HDP), campaigns from prison.

Many international observers are understandably skeptical that the opposition will win or, rather, that Erdoğan will allow a loss. After all, leaders who amass so much power do not tend to give it up willingly. Opposition voters are being warned not to get their hopes up.

But such “realism” misses a key point: the fact that we are even speculating about the possibility of Erdoğan’s ouster next Sunday (or later in the month, if the election goes to a run-off) is the result of the opposition bloc’s dogged refusal to give up hope. As Max Weber said in his 1919 lecture Politics as a Vocation, “man would not have attained the possible unless time and again he had reached out for the impossible.”

It is forgotten now, but a common complaint about pre-Erdoğan Turkey was that its citizens lacked a proper civic culture and understanding of democracy. It was said that Turks always looked to the armed forces to save them from political crises. Had this characterization been true, Turkey’s opposition would be as cowed as Russia’s by now. Yet here we are.

Regardless of the outcome on Sunday, Turkey’s democratic forces have truly proven their resilience. Most of the country’s opposition parties have united behind one presidential candidate, who has promised to restore the parliamentary system that Erdoğan overturned in 2017. Many journalists, politicians, and civil-society leaders have been imprisoned, yet others continue working. Many ordinary citizens have been detained on spurious charges of insulting Erdoğan or for their social-media posts, yet people continue criticizing the regime.

Individuals volunteer to monitor voting and protect ballot boxes. Civil-society groups organize buses to take those displaced by the recent earthquake back to the cities where they are registered to vote. At the heart of these efforts is the belief that no strongman is as strong as he seems in the face of determined opposition.

Moreover, those fighting for democracy in Turkey can rely only on themselves, not on the military – or even on the international community. The support Erdoğan receives from other autocratic leaders is more visible, but democratic governments have also given him free rein. Western leaders may complain about Erdoğan but are willing to make deals with him as needed, whether to reduce irregular migration or to restart Ukrainian grain exports. In some ways, an opposition victory would create more uncertainty for the West.

If the opposition wins more votes than Erdoğan, the credit will belong wholly to Turkey’s citizens. By standing up to an autocrat, they have shown, once again, that the demand for democracy is not confined to the West. No matter what happens on or after Sunday, their commitment is the best guarantee that democracy will prevail.

 

La resilienza democratica della Turchia,

di AYŞE ZARAKOL [1]

 

CAMBRIDGE – Le elezioni presidenziali e parlamentari della Turchia sono state definite le più importanti dell’anno. Nei sondaggi, il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) al governo, è indietro rispetto al suo principale oppositore, Kemal Kılıçdaroğlu, il leader del Partito Repubblicano del Popolo (CHP), che è sostenuto da una ampia alleanza di opposizione. Se Erdoğan venisse sconfitto, le elezioni avrebbero un significato globale, dimostrando che l’erosione delle democrazie in tutto il mondo negli anni recenti può essere invertita – e che persino uomini forti solidamente radicati possono essere messi alla porta.

Mentre anche altri leader della stessa stoffa, compresi il passato Presidente statunitense Donald Trump ed il passato Presidente brasiliano Jair Bolsonaro, hanno perso in elezioni recenti, l’opposizione turca è dinanzi ad un compito più arduo. Lo scivolamento del paese verso un autoritarismo in piena regola è quasi completo. Erdoğan è stato al potere per più di 20 anni – assai più a lungo sia di Trump che di Bolsonaro – ed ha usato questo tempo per plasmare lo Stato a sua immagine.

Erdoğan formalmente o informalmente controlla tutte le istituzioni politiche turche, con una centralizzazione ulteriore di uno Stato già centralizzato. A fatica c’è qualcuno che controlla la sua presidenza esecutiva: il Parlamento è un passacarte ed il potere giudiziario risponde a lui. L’esercito è reso inoffensivo; la polizia è fedele. La sua alleanza con il Partito del Movimento Nazionalista (MHP) comporta che ha a disposizione una milizia civile semi organizzata (l’opposizione sospetta che tale gruppo sia stato coinvolto nel lancio di pietre contro il Sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu ed i suoi sostenitori la scorsa domenica, in una manifestazione elettorale ad Erzurum). Una rete di clientele e di personaggi di nomina politica alimenta la corruzione del regime, ed avrebbe molto da perdere se Kılıçdaroğlu vincesse.

Erdoğan mantiene anche un solida presa sui media turchi. La maggior parte dei canali televisivi e delle agenzie di stampa offrono un copertura illimitata allo AKP, mentre i candidati dell’opposizione devono fare campagna elettorale tramite interviste online ed i social media. Selahattin Demirtaş, il precedente leader del Partito Democratico dei Popoli pro-curdo (HDP), fa campagna elettorale dalla prigione.

Molti osservatori internazionali sono comprensibilmente scettici su una vittoria dell’opposizione o, piuttosto, sulla disponibilità di Erdoğan ad essere sconfitto. Dopo tutto, i leader che concentrano così tanto potere non tendono a rinunciarci volontariamente. Gli elettori dell’opposizione vengono messi in guardia a non farsi troppe speranze.

Ma a tale “realismo” sfugge un aspetto fondamentale: il fatto che si stia persino immaginando la possibilità di una cacciata di Erdoğan domenica prossima (o alla fine del mese, se le elezioni portano ad un ballottaggio) è il risultato del caparbio rifiuto del blocco di opposizione di rinunciare alla speranza. Come disse Max Weber nella sua lezione del 1919 La politica come vocazione: “un uomo non può conseguire le cose possibili a prescindere dal tempo e dal fatto che si sia proteso più volte per cose impossibili”.

Adesso viene dimenticato, ma una tipica lamentela sulla Turchia pre-Erdoğan era che i suoi cittadini mancano di una appropriata cultura civica e di comprensione della democrazia. Si diceva che i turchi si sono sempre rivolti alle forze armate per essere salvati dalle crisi politiche. Se questa caratterizzazione fosse stata vera, l’opposizione turca in questo momento sarebbe impaurita come quella della Russia. Tuttavia non siamo a quel punto.

A prescindere dal risultato di domenica, le forze democratiche della Turchia hanno veramente dato prova della loro resilienza. La maggioranza dei partiti di opposizione del paese sono uniti dietro ad un unico candidato presidenziale che ha promesso di ripristinare il sistema parlamentare che Erdoğan sovvertì nel 2017. Molti giornalisti, politici e leader della società civile sono stati imprigionati, tuttavia altri continuano a lavorare. Molti cittadini comuni sono stati detenuti sulla base di pretestuose accuse di aver insultato Erdoğan o per i loro messaggi sui social media, tuttavia le persone continuano a criticare il regime.

Vari individui si offrono volontari per monitorare il voto e proteggere i seggi elettorali. Gruppi della società civile organizzano autobus per riportare gli sfollati dal recente terremoto nelle città nelle quali sono registrati per votare. Al cuore di questi sforzi c’è la convinzione che nessun uomo forte è forte come sembra di fronte ad una opposizione determinata.

Inoltre, coloro che si battono per la democrazia in Turchia possono basarsi solo su se stessi, non sui militari – o neppure sulla comunità internazionale. Il sostegno che Erdoğan riceve da altri leader autocratici è più visibile, ma anche i governi democratici gli hanno dato mano libera. I leader occidentali possono lamentarsi di Erdoğan ma sono disponibili a fare accordi con lui quando è necessario, sia per ridurre gli immigrati irregolari che per far ripartire le esportazioni di grano ucraine. Da alcuni punti di vista, una vittoria dell’opposizione creerebbe più incertezza per l’Occidente.

Se l’opposizione ottenesse più voti di Erdoğan, i merito sarebbe interamente dei cittadini turchi. Resistendo ad un autocrate, essi hanno dimostrato ancora una volta che la domanda di democrazia non è confinata all’Occidente. A prescindere da ciò che accadrà domenica o successivamente, il loro impegno è la miglior garanzia che la democrazia prevarrà.

 

 

 

 

 

 

[1] Questo articolo è precedente al voto del 14 maggio. Come è noto il voto ha assegnato una maggioranza del 49,5% dei voti ad Erdoğan, mentre il candidato dell’opposizione Kemal Kılıçdaroğlu  ha ottenuto il 45%. Purtroppo, i voti residui sono in gran parte finiti a Sinan Oğan, il candidato di una estrema destra anti immigrati. È abbastanza probabile che una discreta parte di questi votanti si sposti su Erdoğan al ballottaggio. A meno di un miracolo della resilienza.

 

 

 

 

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