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Perché l’economia della Cina barcolla? Di Paul Krugman (New York Times, 10 agosto 2023)

 

Aug. 10, 2023

Why Is China’s Economy Stumbling?

By Paul Krugman

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Two years ago China was riding high. Decades of miraculous growth had transformed a desperately poor nation into an economic superpower, with a gross domestic product that by some measures was larger than America’s. China’s aggressive response to Covid was widely praised; its Belt and Road Initiative, a huge program of infrastructure investments around the world, was clearly a bid for global influence, maybe even supremacy.

But now China is stumbling. Its “zero Covid” policy of locking cities down at the first indication of an outbreak proved untenable, but abandoning the policy hasn’t produced the expected economic surge. In fact, China is now experiencing deflation, inspiring comparisons with Japan’s slowdown in the 1990s (although Japan has actually done much better than legend has it).

What has gone wrong? Can China reverse its slide? And how should the rest of the world, the U.S. in particular, respond?

Some analysts attribute China’s stumble to policies of its current leadership. An influential recent article by Adam Posen, president of the Peterson Institute for International Economics, suggests that China is suffering from “economic long Covid,” a decline in private-sector confidence brought on by arbitrary government intervention, which began before the pandemic but has intensified since.

But while the actions of Xi Jinping, China’s president, have indeed been erratic, I’m in the camp of economists like Michael Pettis of the Carnegie Endowment who see the country’s problems as more systemic.

The basic point is that China, in various ways, suppresses private consumption, leaving the country with huge savings that need to be invested somehow. This wasn’t too hard 15 or 20 years ago, when Chinese G.D.P. could grow as much as 10 percent a year largely by catching up with Western technology: A rapidly growing economy can make good use of huge amounts of capital. But as China has grown richer, the scope for rapid productivity gains has narrowed, while the working-age population has stopped increasing and has begun to decline.

Inevitably, then, growth has slowed. The International Monetary Fund believes that over the medium term China can expect a growth rate of less than 4 percent. That’s not bad — it’s something like twice the growth most observers expect for the United States. But China is still trying to invest more than 40 percent of G.D.P., which just isn’t possible given falling growth.

This looming issue has been obvious for a decade or more, but China has been able to mask it largely by creating an immensely bloated real estate sector. This strategy, though, was unsustainable. Xi’s fumbles may have advanced the day of reckoning, but absent fundamental reform, China’s current predicament was only a matter of time.

So is China down and out? Is Posen right in asserting that this is “the end of China’s economic miracle”?

I wouldn’t count on it. As Adam Smith once remarked, “There is a great deal of ruin in a nation.” China is already a superpower, and its current stumbles aren’t likely to end that status. Furthermore, while China’s government has been weirdly resistant to reforms that might make its growth sustainable, we can’t assume that this resistance will continue indefinitely.

And what do China’s problems mean for the United States? The Biden administration has taken a very hard line on China — much harder in practice than Donald Trump, who talked tough but mostly flailed around ineffectually. The U.S. government is now promoting semiconductor production to reduce dependence on China, trying to block exports of advanced silicon chips and, most recently, banning some high-tech investments in China.

Have these actions become unnecessary now that China’s path to global dominance seems to be disappearing?

No. You don’t have to be a xenophobe to be worried about the possible future actions of a superpower whose leadership seems to be growing more autocratic and more erratic with each passing year. Trying to reduce that superpower’s ability to do harm makes sense, even if it makes many people nervous. And the possibility that China may not be as much of a superpower as many expected doesn’t change that calculation.

If anything, China’s problems may reinforce the case for precautionary action. China’s rulers have long relied on economic achievement to give them legitimacy. Now they’re facing trouble on the home front, most immediately in the form of rapidly rising youth unemployment. How will they respond?

Ideally, as I said, they’ll push through long-needed reforms that put more income in the hands of families, so that rising consumption can take the place of unsustainable investment. But you don’t have to study much history to be aware that autocratic regimes sometimes respond to domestic difficulties by trying to distract the population with foreign adventurism.

I’m not saying that will happen. But realistically, China’s domestic problems make it more, not less, of a danger to global security.

 

Perché l’economia della Cina barcolla?

Di Paul Krugman [1]

 

Due anni fa l’economia della Cina riscuoteva successi. Decenni di crescita miracolosa avevano trasformato una nazione disperatamente povera in una superpotenza economica; con un prodotto interno lordo che secondo alcune misure era più grande di quello dell’America. L’aggressiva risposta della Cina al Covid veniva ampiamente elogiata; la sua Iniziativa della Nuova Via della Seta, un vasto programma di investimenti infrastrutturali in tutto il mondo, era chiaramente una offerta per l’influenza globale, forse persino per la supremazia.

Ma adesso la Cina sta vacillando. La sua politica dello “zero Covid” con la chiusura delle città al primo segnale della pandemia si è dimostrata insostenibile, ma abbandonare quella politica non ha prodotto l’attesa crescita economica. Di fatto, la Cina sta adesso sperimentando una deflazione, suggerendo confronti con il rallentamento del Giappone negli anni ‘990 (sebbene il Giappone sia effettivamente andato molto meglio di quanto racconta la leggenda).

Cos’è andato storto? La Cina può invertire la sua scivolata? E come dovrebbe rispondere il resto del mondo, in particolare gli Stati Uniti?

Alcuni analisti attribuiscono l’inciampo della Cina alla sua attuale leadership. Un recente influente articolo di Adam Posen, Presidente del Peterson Insitute for International Economics, suggerisce che la Cina stia soffrendo di un “lungo Covid economico”, un declino di fiducia del settore privato provocato da arbitrari interventi del Governo, che sono iniziati prima della pandemia ma da allora si sono intensificati.

Ma mentre le iniziative di Xi Jinping, il Presidente dela Cina, sono state in effetti stravaganti, io mi schiero con gli economisti come Michael Pettis del Carnegie Endowment, che considerano i problemi della Cina più sistemici.

Il punto fondamentale è che la Cina ha represso, in vari modi, il consumo privato, lasciando il paese con elevati risparmi che in qualche modo debbono essere investiti. Questo non era troppo difficile 15 o 20 anni orsono, quando il PIL cinese poteva crescere di un 10% all’anno in gran parte per effetto del mettersi al passo con la tecnologia occidentale: un’economia in rapida crescita può fare buon uso d grandi quantità di capitale. Ma come la Cina è diventata più ricca, l’ambito dei vantaggi della rapida produttività si è ristretto, mentre la popolazione in età lavorativa ha smesso di crescere ed ha cominciato a calare.

In seguito, inevitabilmente, la crescita ha rallentato. Il Fondo Monetario Internazionale ritiene che nel medio termine la Cina possa aspettarsi un tasso di crescita inferiore al 4 percento. Ciò non è negativo – è qualcosa come due volte la crescita che la maggior parte degli osservatori si aspettano dagli Stati Uniti. Ma la Cina sta ancora cercando id investire più del 40 percento del PIL, il che non è proprio possibile data la caduta della crescita.

Il tema che incombe è stato evidente per un decennio e più, ma la Cina è stata capace di mascherarlo in buona parte creando un settore immobiliare immensamente rigonfio. Tuttavia, questa strategia era insostenibile. I tentativi maldestri di Xi possono aver spostato la resa dei conti, ma in mancanza di una riforma fondamentale, l’attuale emergenza della Cina era solo una questione di tempo.

Dunque la Cina è mal ridotta? Ha ragione Posen nell’asserire che questa è “la fine del miracolo economico cinese?”

Non ci farei affidamento. Come Adam Smith una volta sottolineò: “C’è molta rovina in una nazione”. La Cina è già una superpotenza, ed i suoi guai attuali è improbabile pongano fine a quella condizione. Inoltre, mentre il Governo cinese ha resistito bizzarramente alle riforme che potrebbero rendere sostenibile la sua crescita, non possiamo ipotizzare che questa resistenza prosegua indefinitamente.

E cosa comportano i problemi della Cina per gli Stati Uniti? L’Amministrazione Biden ha assunto un indirizzo molto duro sulla Cina – in pratica molto più duro di quello di Donald Trump, che parlava aspramente ma il più delle volte si sbracciava in modo inefficace. Il Governo statunitense sta adesso promuovendo la produzione di semiconduttori per ridurre la dipendenza dalla Cina, cercando di bloccare le esportazioni di semiconduttori avanzati al silicone e, più di recente, mettendo al bando alcuni investimenti di alte tecnologie in Cina.

Queste iniziative divengono superflue, adesso che l’indirizzo della Cina verso il dominio globale sembra stia per scomparire?

No. Non è necessario essere xenofobi per essere preoccupati delle possibili iniziative future di una superpotenza la cui leadership appare essere sempre più autocratica e più inaffidabile con il tempo che passa. Cercare di ridurre la capacità di quella superpotenza di far danni ha senso, anche se rende molte persone nervose. E la possibilità che la Cina possa non essere quella superpotenza che molti si aspettavano non cambia quel calcolo.

Semmai, i problemi della Cina possono rafforzare l’argomento a favore di una iniziativa di cautela. I governanti della Cina si sono da tempo basati sulle realizzazioni economiche che davano loro legittimazione. Ora stanno affrontando guai sul fronte interno, nel modo più immediato nella forma di una crescente disoccupazione giovanile. Come risponderanno?

Idealmente, come ho detto, essi approveranno le riforme necessarie da tempo che mettono più reddito nelle mani delle famiglie, in modo tale che i consumi crescenti possano prendere il posto di investimenti insostenibili. Ma non si deve studiare molta storia per essere consapevoli che i regimi autocratici talora rispondono alle difficoltà all’interno cercando di distrarre la popolazione con l’avventurismo all’estero.

Non sto dicendo che accadrà. Ma realisticamente, i problemi interni della Cina la rendono di più, non di meno, un pericolo per la sicurezza globale.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Pubblico questa traduzione di Krugman dal New York Times assieme alla successiva traduzione di James K. Galbraith da Project Syndicate perché, diciamo così, questa volta la tentazione era troppo forte. Come si noterà, il secondo articolo è in diretta polemica col primo, talvolta sollevando perplessità semplici e radicali (ad esempio, in che modo i forti risparmi della popolazione cinese possono indicare un limite, anziché una disponibilità, nei loro redditi?)

Rilevante, comunque, la conclusione di Krugman, immediatamente notata da Galbraith: la Cina che sino al giorno prima era una minaccia per la sua concorrenza al primato globale, adesso sembra una minaccia per i rischi della sua economia.

 

 

 

 

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