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Non è più certo che la Cina diventerà l’economia più grande del mondo, di Moahmed El-Erian (da Financial Times, 8 settembre 2023)

 

Sept. 8, 2023

It’s no longer a given that China will become the world’s largest economy

Moahmed El-Erian

el-erian

Economists and Wall Street analysts have been disappointed in China’s economic performance, holding out hope that this might prompt the government into a stimulus effort similar to the one seen in 2008.

This, in turn, would reinvigorate domestic growth and restore China as a key engine of global expansion. However, the more likely scenario is continued weak growth.

The primary policy question now is how quickly the government will shift away from stimulus measures to a faster fundamental overhaul of its growth strategy. China’s underwhelming economic performance so far in 2023 can be attributed to two major factors: a lacklustre recovery following the easing of stringent zero-Covid restrictions, and more persistent and structural growth challenges. The latter is the result of an economic strategy that has historically over-relied on real estate, high local debt, inefficient state-owned enterprises, lower-end manufacturing, and domestic consumer internet platforms.

This problem has been exacerbated by several factors, including regulatory over-reach, ongoing geopolitical tensions and lower foreign direct investment inflows. There have also been concerns about a potential Japan-style deflationary trap, especially in light of declining consumer and producer prices. Some foreign investors have asked whether “China is investible”.

The Chinese authorities have announced over recent weeks a series of small monetary, fiscal, and regulatory measures to boost the economy and markets. These measures have thus far been perceived correctly as piecemeal and lacking conviction. Yet many still believe they will eventually accumulate into an impactful critical mass. There are problems, however, with this view.

China faces not only growth challenges but also significant financial issues, including pockets of high indebtedness that could easily transform into systemic risks. This limits the scope for old-fashioned stimulus. The heightened sensitivity surrounding the struggling property sector, in particular, makes households more cautious on spending, further diminishing a growth driver. Concerns about youth unemployment persist, and are not been helped by the government’s decision to halt the release of relevant data.

The external trade and investment outlook is equally problematic. There is a growing realisation that the economic and financial decoupling between China and the US is likely to continue. This could reduce the contribution of exports to growth, disrupt the importation of crucial industrial inputs, undermine foreign direct investment, and make portfolio investors even more skittish.

The willingness of the authorities is also in question. A careful analysis of the leadership’s statements points to worries that heavy reliance on traditional stimulus measures would jeopardise China’s ability to escape the common development trap of getting stuck in middle-income levels. This pitfall has already hindered many developing countries in their quest to join the ranks of advanced economies. A big-bang stimulus would also increase the risk of corruption.

It is likely authorities will continue to only tinker with small stimulus measures while seeking to communicate better their intention to accelerate the transition to new growth sectors (such as higher value-added manufacturing, green energy, healthcare, artificial intelligence, supercomputing, and life sciences). This revamped growth model takes time and involves creative destruction, especially in the short term. Additionally, the authorities will need to consider more forceful debt restructuring measures that, initially, also detract from growth.

It is time for the markets to recognise that China is not reverting to its old economic and financial playbook, and its return as a powerful driver of global economic growth is unlikely in the near future. Economic performance is likely to remain lacklustre for the remainder of 2023 and the first half of 2024.

Looking beyond this period, the outlook is also far from reassuring. The challenging process of reorienting the Chinese economy in the face of ongoing geopolitical tensions and the complexity of building an alternative international order poses significant hurdles. The authorities will also need to overcome their now overwhelming inclination towards centralisation and, instead, enable but not micromanage the emergence of powerful private sector engines of growth. Despite what many may continue to tell you, it is no longer a given that China will become the world’s largest economy.

 

 

Non è più certo che la Cina diventerà l’economia più grande del mondo,

di Moahmed El-Erian [1]

 

Gli economisti e gli analisti di Wall Street sono rimasti delusi dalle prestazioni economiche della Cina, mantenendo la speranza che questo potesse spingere il Governo ad uno sforzo di stimolazione simile a quello visto nel 2008.

Questo, a sua volta, avrebbe rinvigorito la crescita interna e ripristinato la Cina come motore cruciale della espansione globale. Tuttavia, lo scenario più probabile è una perdurante crescita debole.

Adesso la domanda politica principale è quanto rapidamente il Governo si sposterà dalle misure di stimolo ad una revisione strutturale della sua strategia di crescita. Sino a questo punto, la deludente prestazione economica della Cina nel 2023 può essere attribuita a due fattori principali: una ripresa fiacca a seguito della facilitazione delle rigide restrizioni dello zero-Covid e le sfide alla crescita più persistenti e strutturali. Le ultime sono il risultato di una strategia economica che si è storicamente eccessivamente basata sul settore patrimoniale, su elevati debiti locali, su imprese di proprietà statale inefficienti, su un settore manifatturiero e su piattaforme internet per i consumatori nazionali più scadenti.

Questo problema è stato esacerbato da vari fattori, compresa una eccessiva attitudine regolamentare, perduranti tensioni geopolitiche e minori flussi di investimenti diretti dall’estero. Ci sono anche state preoccupazioni su una trappola deflazionistica del tipo del Giappone, particolarmente alla luce del declino dei prezzi al consumo ed alla produzione. Alcuni investitori stranieri si sono chiesti se “sia il caso di investire in Cina”.

Le autorità cinesi nelle scorse settimane hanno annunciato una serie di piccole misure monetarie, di finanza pubblica e regolamentari, per incoraggiare l’economia ed i mercati. Queste misure sono quindi state correttamente percepite come frammentarie  prive di determinazione. Tuttavia molti ancora credono che alla fine esse cumuleranno una massa critica di impatto. Ciononostante, in questo punto di vista ci sono problemi. La Cina non è solo di fronte a sfide nella crescita ma anche  significativi problemi finanziari, comprese sacche di alto indebitamento che potrebbero rapidamente trasformarsi in rischi sistemici.  Questo limita la portata di uno stimolo di vecchia maniera. In particolare, la aumentata sensibilità che circonda il settore patrimoniale in difficoltà, rende le famiglie più caute nelle spese, diminuendo ulteriormente un fattore di crescita. Le preoccupazioni sulla disoccupazione giovanile persistono e non sono state aiutate dalla decisione del Governo di fermare la pubblicazione di dati rilevanti.

Il commercio estero e la prospettiva degli investimenti sono egualmente problematici. C’è una comprensione crescente che il disaccoppiamento economico e finanziario tra gli Stati Uniti e la Cina è probabile che prosegua. Questo potrebbe ridurre il contributo delle esportazioni alla crescita, bloccare l’importazione di fondamentali prodotti industriali, mettere a repentaglio gli investimenti stranieri diretti e rendere gli investitori di portafoglio anche più ombrosi.

Ci sono dubbi anche sulla volontà delle autorità. Una analisi attenta delle dichiarazioni della leadership mette in evidenza le preoccupazioni che un pesante affidamento sulle misure tradizionali di stimolo metterebbe a rischio la capacità della Cina di sfuggire alla comune trappola dello sviluppo, consistente nell’impantanarsi raggiunti i livelli di medio reddito. Questa insidia ha già intralciato molti paesi in via di sviluppo nella loro ricerca di raggiungere il rango delle economie avanzate. Uno stimolo di grandi dimensioni accrescerebbe anche il rischio della corruzione.

È probabile che le autorità continueranno ad armeggiare con piccole misure di stimolo cercando l tempo stesso di comunicare meglio la loro intenzione di accelerare la transizione verso nuovi settori di crescita (come un manifatturiero con più alto valore aggiunto, l’energia verde, l’intelligenza artificiale, i supercomputer e le scienze naturali). Questa nuova versione del modello di crescita richiede tempo e comporta la distruzione creativa, specialmente nel breve termine. In aggiunta, le autorità avranno bisogno di considerare misure di ristrutturazione del debito più energiche che, all’inizio, anch’esse sottraggono alla crescita.

È tempo che i mercati riconoscano che la Cina non sta rovesciando la sua vecchia strategia economica e finanziaria, e che nel prossimo futuro è improbabile un suo ritorno come potente fattore della crescita economica globale. È probabile che le prestazioni economiche restino fiacche per quello che resta del 2023 e per la prima metà del 2024.

Anche guardando oltre questo periodo, la prospettiva è tutt’altro che rassicurante. L’impegnativo processo di riorientare l’economia cinese a fronte di perduranti tensioni geopolitiche e la complessità di costruire un ordine internazionale alternativo, costituiscono ostacoli significativi. Le autorità avranno anche bisogno di superare la loro esagerata inclinazione verso la centralizzazione e di permettere l’emergere di potenti motori di crescita del settore privato, anziché tenerli troppo sotto controllo. Nonostante quello che molti possono continuare a raccontare, non è più un dato di fatto che la Cina diventi la più grande economia del mondo.

 

 

 

 

 

 

[1] Ho trovato il suggerimento di questo articolo di El-Erian su Twitter di Pettis, accompagnato da alcune valutazioni, in alcuni punti, dello stesso Pettis che inserisco qua sotto.

“Mentre concordo con molte delle cose che El-Erian dice in questo articolo, particolarmente col suo argomento secondo il quale lo stimolo in cui molti sperano, aspettandosi che ‘rinvigorisca la crescita interna e ripristini la Cina come un motore fondamentale della espansione globale’, non farà niente del genere, e nel migliore dei casi potrebbe solo posporre l’urgenza con la quale Pechino ha bisogno di trasformare il suo modello di sviluppo, io non sono d’accordo con questa affermazione: ‘Nonostante quello che molti possono continuare a raccontare, non è più un dato di fatto che la Cina diventerà la più grande economia del mondo’.

In effetti, non è mai stato un dato di fatto. Coloro tra noi che comprendevano gli squilibri strutturali della Cina e la natura della crescita del suo PIL, sono venuti sostenendo per un decennio che l’economia cinese aveva già rallentato sostanzialmente in termini comparativi e non era mai stato probabile che accelerasse.

La ragione dipendeva dal fatto che sin dagli anni 2000 Pechino poteva mantenere alti tassi di crescita del PIL (sopra, diciamo, il 3%) soltanto aumentando lo spostamento del centro della attività economica dai settori produttivi dell’economia ‘condizionati da bilanci pesanti’ ai settori ‘caratterizzati da bilanci più leggeri’. Poiché quest’ultima soluzione non è sostenibile, e in buona parte alla fine dovrebbe essere comunque invertita, il solo modo per conservare tassi di crescita che alimentassero le aspettative di ‘sorpasso’ è stata quella che in ultima analisi ha messo a repentaglio proprio quelle aspettative.

Questo è sempre stato un esercizio su come fondamentalmente si fraintende quello che il PIL significa. Anche la maggior parte degli economisti – che dovrebbero davvero saperne di più – sembrano pensare che il PIL sia una misura, confrontabile tra i vari paesi, del valore totale dei beni e dei servizi prodotti dall’economia.

Non è così. Esso è soltanto una approssimazione di questo valore totale, basato in buona parte sulla struttura delle economie statunitense e britannica negli anni ‘930 e ‘940, che cerca di misurare la misura nella quale l’economia reale (ovvero il valore reale dei beni e dei servizi prodotti) è cresciuta o si è contratta.

Il PIL può essere utile, ma solo a determinate condizioni molto severe. La più evidente, nel caso della Cina, è che la misurazione del PIL considera necessariamente che tutta l’attività interviene sotto i condizionamenti di bilanci difficili, e che le perdite sono sempre dei costi e non vengono mai capitalizzate.

Il fatto che la crescita del PIL in Cina fosse un dato di ingresso economico, e non un risultato, dovrebbe aver reso evidente quanto esso non fosse confrontabile. Il solo modo per rendere la crescita del PIL un input è ipotizzare che ogni investimento sia produttivo. Questo sostanzialmente comporta capitalizzare le perdite.

Spiegare questo agli economisti è stato difficile, per quanto gli ingegneri, i matematici e tutti gli altri che ragionano in termini di sistemi lo trovino quasi banalmente evidente. Senza i condizionamenti delle difficoltà di bilancio, non c’è modo di distinguere tra la creazione di valore e la distruzione di valore.

 

 

 

 

 

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