Blog di Krugman

Mettete gli occhi sulle tre “F”, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 29 marzo 2022)

 

March 29, 2022

Keep Your Eye on the Three F’s

By Paul Krugman

 

zzz 429High inflation in the United States basically reflects two forces.

On one side, there’s a lot of disruption: rising oil and food prices (made worse by Russia’s invasion of Ukraine), snarled supply chains and so on. These factors are the reason inflation is way up everywhere, not just in America. For example, here’s Britain:

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British inflation is surging, too.Credit…Office of National Statistics

On the other side, the U.S. economy is running very hot, with widespread labor shortages. You can see this overheating in lots of data, but it’s also visible to the naked eye. Here’s what I saw on the roads of New Jersey the other day (don’t worry, my wife was driving):

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It’s tight out there.Credit…Paul Krugman

So far, at least, there’s no sign of a third possible factor: inflation driven by entrenched expectations of inflation — in which businesses raise prices because they believe other businesses will raise prices. But that factor could emerge if inflation stays high, so prudence demands that we try to rein in prices now. And while the disruptions will fade over time (there are already hints of improvement in supply chains), it pains me to say that we can’t safely let the economy keep running this hot.

The reason this pains me is that there are many very good things about a tight labor market in which jobs are easy to find. A buoyant job market is especially important for the young: Recent graduates who have the misfortune to enter a weak market can suffer long-term damage to their career prospects.

Unfortunately, we do need some cooling off. What I’m not sure people realize is the extent to which policies and events have already set the stage for the big cool-down.

Start with the Federal Reserve, which is under widespread attack for being behind the curve. It’s true that so far, the Fed has raised short-term interest rates — which are what it directly controls — by only a measly 0.25 points.

But short-term interest rates aren’t directly important for the economy. A business considering, say, borrowing to pay for a software upgrade that will be obsolete in two years doesn’t care much what interest rate it has to pay. Monetary policy mainly works through the effect of interest rates on long-lived investments, especially housing construction, which in turn means that long-term interest rates are what matter.

And long-term rates reflect not just what the Fed has already done but also what it’s expected to do. The Fed’s pivot to inflation fighting has already sent long rates — especially mortgage interest rates — way up:

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The Fed’s pivot is already having a big effect.Credit…FRED

This by itself is going to slow construction and substantially cool off the economy.

Then there’s fiscal policy. A year ago, the American Rescue Plan provided families with a lot of financial aid: one-time stimulus payments, enhanced unemployment benefits and an expanded child tax credit. All of that is now in the past; the last piece of that spending, the child tax credit, expired at the beginning of this year. Like it or not (and mostly I don’t), this cutoff of federal aid is likely to weaken consumer spending.

Finally, Vladimir Putin’s decision to raise food and fuel prices — OK, he was actually trying to conquer a neighboring democracy, but driving up prices has been his main accomplishment so far — is already weighing on family budgets, probably leading to lower spending on other things.

You might wonder whether higher oil prices will really be a drag on the U.S. economy. We are, after all, more or less self-sufficient in oil:

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Self-sufficiency in oil doesn’t matter that much.Credit…Energy Information Administration

And we’re a net exporter of food. So why should higher oil and food prices make America poorer? The answer is that on average, they don’t; while they make many Americans poorer, they also make some other Americans richer. But it’s a good bet that those who are made poorer will cut their spending more than those who are made richer will increase it. In particular, while oil companies have suddenly become much more profitable, the disastrous excesses of the shale bubble have made them reluctant to increase investment and production.

To put all of this together: Policy and events are seriously putting the brakes on the rapid expansion the U.S. economy has experienced since the pandemic recession. So I’m much less worried than many observers that the Fed is behind the curve in responding to an overheated economy. If anything, I’m starting to worry that the Fed may find itself behind the curve as the economy cools off more rapidly than its board members seem to expect — will the unemployment rate really be only 3.5 percent at the end of this year?

And yes, I’m aware that it’s mixing metaphors to say that the economy is cooling down because we’re hitting the brakes. Deal with it.

 

Mettete gli occhi sulle tre “F” [1],

di Paul Krugman

 

L’alta inflazione negli Stati Uniti riflette fondamentalmente due fattori.

Da una parte, ci sono molti sconvolgimenti: i prezzi in crescita del petrolio e dei generi alimentari (resi peggiori dalla invasione russa dell’Ucraina), le catene dell’offerta congestionate e così via. Queste ragioni sono quelle per le quali l’inflazione è in crescita dappertutto, non solo in America. Ecco, per esempio, il caso dell’Inghilterra:

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Anche l’inflazione inglese è in crescita. Fonte: Ufficio delle statistiche nazionali [2]

D’altra parte l’economia degli Stati Uniti è molto surriscaldata, con scarsità di lavoro generalizzate. Si può osservare questo surriscaldamento in molti dati, ma è anche visibile ad occhio nudo. Ecco quello che ho visto sulle strade del New Jersey (non vi preoccupate, guidava mia moglie):

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In giro (il mercato del lavoro) è un po’ rigido … fonte, Paul Krugman [3]

Almeno sinora non c’è segno di una terzo possibile fattore: una inflazione guidata da aspettative ‘incorporate’ di inflazione – nella quale le imprese alzano i prezzi perché credono che altre imprese alzeranno i prezzi. Ma quel fattore potrebbe emergere se i prezzi restano alti, cosicché la prudenza richiede che si cerchino di tenere sotto controllo i prezzi sin da subito. E mentre gli sconvolgimenti con il tempo svaniranno (ci sono già cenni di miglioramento nelle catene dell’offerta), devo dire con sofferenza che non possiamo consentire in modo sicuro che l’economia continui ad essere surriscaldata in questo modo.

La ragione per la quale mi provoca sofferenza è che ci sono molte cose positive in un mercato del lavoro rigido nel quale i posti di lavoro si trovano facilmente. Un mercato del lavoro fiorente è particolarmente importante per i giovani: i diplomati di recente che hanno la sfortuna di entrare in un mercato debole patiscono danni a lungo termine nelle loro prospettive di carriera.

Sfortunatamente, abbiamo bisogno di raffreddarlo. Quello di cui non sono certo che le persone comprendano è la misura nella quale le politiche e gli eventi stiano già creando le premesse per il grande raffreddamento.

Cominciamo dalla Federal Reserve, che è sotto attacco generalizzato per essere in ritardo. È vero che sinora la Fed ha elevato i tassi di interesse a breve termine – che sono quelli che controlla direttamente – di soli 0,25 miseri punti.

Ma i tassi di interesse a breve termine non sono importanti in modo diretto per l’economia. Una impresa che sta valutando, ad esempio, di indebitarsi per pagare in aggiornamento del software che sarà obsoleto entro due anni, non si preoccupa granché di quale tasso di interesse debba pagare. La politica monetaria principalmente funziona tramite l’effetto dei tassi di interesse sugli investimenti di lunga durata, particolarmente la costruzione di abitazioni, il che a sua volta comporta che quello che conta sono i tassi di interesse a lungo termine.

E i tassi di interesse a lungo termine riflettono non solo quello che la Fed ha già fatto, ma anche quello che ci si aspetta che faccia. Lo spostamento della Fed sul contrasto all’inflazione ha già spedito in alto i tassi a lungo termine – particolarmente i tassi di interesse sui mutui:

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Lo spostamento della Fed sta già avendo un grande effetto. Fonte: FRED [4]

Questo di per sé sta provocando un rallentamento nell’edilizia ed un sostanziale raffreddamento dell’economia.

Poi c’è la politica della finanza pubblica. Un anno fa, il Programma Americano dei Salvataggi ha fornito alle famiglie un grande aiuto finanziario: i pagamenti in una soluzione dello ‘stimolo’, i sussidi di disoccupazione rafforzati e un aumentato credito di imposta per i figli. Adesso tutto questo appartiene al passato; l’ultima parte di quella spesa, il credito di imposta sui figli, è andato in scadenza agli inizi di quest’anno. Piaccia o no (e per la maggior parte a me non piace), questo taglio dell’aiuto federale è probabile indebolisca la spesa sui consumi.

Infine, la decisione di Vladimir Putin di elevare i prezzi dei generi alimentari e dei carburanti – è vero, lui stava in effetti cercando di conquistare una vicina democrazia, ma sinora alzare i prezzi è stata la sua principale realizzazione – sta già pesando sui bilanci delle famiglie, probabilmente portando ad una spesa minore su altre cose.

Vi potreste chiedere se i prezzi più alti del petrolio costituiranno effettivamente un prelievo sull’economia statunitense. Dopo tutto, noi siamo più o meno autosufficienti sul petrolio:

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L’autosufficienza sul petrolio non è così importante. Fonte: Amministrazione delle Informazioni Energetiche [5]

E noi siamo esportatori netti di generi alimentari. Perché dunque i prezzi più alti del petrolio e degli alimentari dovrebbero rendere l’America più povera? La risposta è che in media non lo faranno; mentre renderanno molti americani più poveri, ne renderanno altri più ricchi. Ma è una scommessa facile che quelli che saranno più poveri taglieranno la loro spesa più di quanto quelli che saranno resi più ricchi la aumenteranno. In particolare, mentre le società petrolifere sono diventate d’un tratto più redditizie, gli eccessi disastrosi della bolla degli scisti le hanno rese riluttanti ad aumentare gli investimenti e la produzione.

Mettendo tutto questo assieme: la politica e gli eventi stanno seriamente tirando i freni sulla rapida espansione che l’economia statunitense ha conosciuto  partire dalla recessione pandemica. Dunque, io sono molto meno preoccupato di molti osservatori che la Fed sia in ritardo nel rispondere ad un’economia surriscaldata. Semmai, sto cominciando a preoccuparmi che la Fed possa trovarsi in ritardo quando l’economia si raffreddasse più rapidamente di quanto i suoi membri del Comitato sembrano aspettarsi – il tasso di disoccupazione sarà realmente soltanto al 3,5 per cento alla fine di quest’anno?

E sì, sono consapevole di star mescolando metafore per dire che l’economia si sta raffreddando perché stiamo tirando i freni. Discutiamone.

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1] Cosa siano le “tre F” nell’articolo non è spiegato, ma sembra abbastanza probabile che siano “fuel, food, Fed”, ovvero il combustibile, i generi alimentari e la Banca Centrale.

[2] La tabella mostra, in Inghilterra, la variazione annuale dell’indice dei prezzi al consumo su tutti gli articoli, collocando il dato del 2015 ad un livello 100. Dunque, con un dato al febbraio 2022 superiore al + 5%.

[3] Una nota per afferrare il senso di quello che è scritto sul retro del camion … In pratica, c’è scritto che si cercano lavoratori per guidare i camion, per il lavoro notturno nei depositi e per gli operatori sui carrelli elevatori, con le le relative paghe orarie, che sembrano abbastanza elevate. Il tutto è indicativo di una forte ‘rigidità’ del mercato del lavoro.

La rigidità (letteralmente, ristrettezza) del mercato del lavoro è quella nella quale la domanda di lavoro è almeno altrettanto forte dell’offerta, ovvero quella di un mercato del lavoro nel quale i datori di lavoro sono in competizione nella ricerca di lavoratori. Il che di solito comporta un potere contrattuale dei lavoratori maggiore e salari in crescita. Comporta anche una maggiore disponibilità dei lavoratori a lasciare i posti che occupavano in passato, per una fondata fiducia di trovarne di nuovi e di migliori. In questo senso il fenomeno del “quitting” – dell’abbandonare i posti di lavoro precedenti – è normalmente considerato dagli economisti un indicatore positivo.

[4] La tabella mostra infatti che i tassi di interesse medi sui mutui sono già passati da circa il 2,4% a gennaio al 3,6 a marzo di quest’anno.

[5] La tabella mostra il commercio annuale statunitense di petrolio greggio e di combustibili liquidi in milioni di barili dal 2001 al 2023 (per l’ultimo anno, naturalmente, si tratta di previsioni). La linea tracciata sul valore = 0 indica il discrimine: in alto una condizione di importazioni che superano le esportazioni, in basso il contrario. La linea rossa indica il commercio di petrolio greggio, per i quale l’America è ancora modestamente un paese importatore, mentre quella nera il commercio totale di petrolio e di combustibili liquidi (la linea rosa indica il commercio  netto di prodotti derivati del petrolio).

 

 

 

 

Il petrolio dagli scisti bituminosi e il ritorno, nuova versione. Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 25 marzo 2022)

marzo 29, 2022

 

March 25, 2022

To Shale and Back, Redux

By Paul Krugman

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The price of oil, which was extremely low during the worst of the pandemic — it actually went below $0 for a brief, weird period — has spiked as a result of Russia’s invasion of Ukraine:

 

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The crude realities of war.Credit…FRED

This price spike is adding to already high inflation, and it is inhibiting the Western response to Vladimir Putin’s aggression — governments are reluctant to tighten sanctions against Russian energy exports, lest rising prices anger their voters.

But shouldn’t we expect the market to help reduce this problem? Don’t higher prices provide an incentive to increase oil production outside Russia? Yes, they do, and there are in fact signs of at least some supply response to high prices. So far, however, most media accounts suggest that this response is limited, and that the U.S. oil industry — which is where most of the extra production would probably have to come from — is reluctant to expand.

OK, obligatory reminder that higher oil production would not necessarily be a good thing. The dangers of climate change just keep getting even more terrifying, and the world needs to wean itself from fossil fuels, not produce more. At best, you can make a St. Augustine argument — “Make me chaste and celibate, but not yet” — for higher oil production during the Ukraine war. But even that’s dubious.

Still, the tepid response of oil producers to very high prices needs explaining. Why aren’t they rushing in to take advantage of the Putin premium?

Of course, the usual suspects blame President Biden, who is responsible for everything bad — hey, I blame him for the fact that my first cup of coffee this morning was a bit weak. Or they denounce environmentalists and government regulation — remember the rush to blame the 2021 electricity crisis in Texas on renewable energy, when disrupted supplies of natural gas were actually the main factor?

But the Federal Reserve Bank of Dallas recently carried out a survey of oil producers, asking them what was inhibiting their expansion, and for the most part they didn’t blame either regulators or environmentalists. Instead, they blamed their bankers:

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Bankers put the brakes on oil.Credit…Federal Reserve Bank of Dallas

What’s that about? The answer is, we’re looking at the aftermath of the debt-financed shale bubble of the 2010s.

The introduction of fracking — using high-pressure water jets to fracture shale containing trapped natural gas and oil — was, without question, a big deal. But many people in the business world (and, for what it’s worth, the national security community) treated it as a bigger deal than it was. I don’t know how to quantify this, but my sense all through the 2010s was that Very Serious People were far more enthusiastic about fracking than they were about the truly revolutionary advances in renewable energy. After all, extracting oil and gas sounded hardheaded and realistic, while a surprising number of influential people still associate solar and wind power with hippie fantasies.

And this Serious Person enthusiasm for hydrocarbons translated into a willingness to throw money at the fracking industry, which bled cash year after year but kept going by running up hundreds of billions in debt.

Eventually, however, this debt-financed boom hit a wall. The death of the former chief executive of Chesapeake Energy in 2016 seemed to mark the end of the industry. Chesapeake eventually became one of more than 230 oil and gas companies to declare bankruptcy since 2015.

But the financial implosion of fracking didn’t provoke a broader financial crisis, as some observers worried. The bad news is that the aftermath of that implosion is, as I said, inhibiting the West’s response to Putin’s aggression today: Having been burned in the past, the energy sector’s bankers are keeping a tight leash on spending despite the surge in oil prices.

They may be overdoing it: Whatever happens in the war, it’s hard to see Russia fully rejoining the world economy for a long time, so oil prices are likely to stay high for a while. Still, the caution of fracking creditors is understandable. And to be fair, the really important energy adjustments will have to come from Europe, which needs to end its dependence on Russian natural gas.

There are, I think, two broader lessons here.

First, bubbles don’t necessarily involve obviously flaky ideas. We can and should make fun of investors taken in by Silicon Valley technobabble, but it’s perfectly possible to lose hundreds of billions on ventures that seem perfectly solid, except for the fact that their math doesn’t add up.

Second, burst bubbles can have long lasting effects. One reason rents are surging right now, adding to inflation, is the long drought in home building that followed the housing bubble — a bubble that burst 15 years ago:

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Housing, still weak after all these years.Credit…FRED

I just hope that fossil fuel advocates don’t manage to use the current oil shock to bash climate activists, who bear no responsibility for the mess we’re in.

 

Il petrolio dagli scisti bituminosi e il ritorno, nuova versione

Di Paul Krugman

Il prezzo del petrolio, che era estremamente basso durante il periodo peggiore della pandemia – per un breve, strano periodo, in effetti, scese sotto zero dollari al barile [1] – come risultato dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha avuto un picco:

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La realtà del greggio in guerra . Fonte: FRED

Il picco del presso si aggiunge ad una inflazione già alta e sta condizionando la risposta occidentale all’aggressione di Vladimir Putin – i Governi sono riluttanti a restringere le sanzioni contro le esportazioni energetiche russe, per timore che i prezzi in salita facciano infuriare i loro elettori.

Ma non dovremmo aspettarci che il mercato contribuisca a ridurre questo problema? I prezzi più alti non offrono un incentivo ad aumentare la produzione di petrolio fuori dalla Russia? Sì, lo fanno, e ci sono almeno segnali di una qualche risposta dell’offerta ai prezzi elevati. Sinora, tuttavia, la maggioranza dei resoconti dei media indicano che questa risposta è limitata, e che l’industria statunitense del petrolio – che è dove la maggior parte della produzione aggiuntiva dovrebbe espandersi – sia riluttante ad ampliarsi.

Va detto come promemoria obbligato che una più alta produzione di petrolio  non sarebbe necessariamente una cosa positiva. I pericoli del riscaldamento climatico continuano a divenire semplicemente più terrificanti, e il mondo ha bisogno di perdere la dipendenza dai combustibili fossili, non di aumentarla. Nel migliore dei casi, per una maggiore produzione di petrolio durante la guerra ucraina, si potrebbe utilizzare l’argomento di Sant’Agostino – “Signore, fammi essere casto e celibe, ma non da subito”. Ma è dubbio anche questo.

Eppure, la risposta tiepida dei produttori del petrolio ai prezzi altissimi ha bisogno di una spiegazione. Perché non si stanno precipitando ad avvantaggiarsi per il regalo di Putin?

Naturalmente, i soliti noti danno la colpa al Presidente Biden, che è responsabile per ogni cosa negativa – si è anche tentati di dargli la colpa perché la nostra prima tazza di caffè di stamani non era abbastanza forte.  Oppure, sempre i soliti noti denunciano gli ambientalisti ed i regolamenti del Governo – vi ricordate la corsa a dar la colpa della crisi dell’elettricità nel Texas nel 2021 alle energie rinnovabili, quando le offerte interrotte del gas naturale erano in effetti il fattore principale?

Ma la Federal Reserve di Dallas ha recentemente effettuato un sondaggio tra i produttori di petrolio, chiedendo loro cosa impedisse una loro espansione, e per la maggior parte essi non hanno dato la colpa ai regolatori ed agli ambientalisti. Hanno piuttosto dato la colpa ai loro banchieri:

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I banchieri tirano il freno sul petrolio. Fonte: Banca della Federal Reserve di Dallas [2]

Da cosa deriva tutto questo? La risposta è: stiamo assistendo alle conseguenze della bolla del petrolio dagli scisti bituminosi finanziata in debito attorno al 2010.

Senza dubbio, l’introduzione della ‘fratturazione’ – l’utilizzo di getti d’acqua ad alta pressione per fratturare gli scisti contenenti gas e petrolio intrappolati – è stata un grande affare. Ma molte persone nel mondo degli affari (e, per quello che vale, negli ambienti della sicurezza nazionale) l’hanno considerata un affare più grosso di quello che era. Non saprei come quantificarlo, ma la mia sensazione è stata che attorno al primo decennio del duemila molte Persone Molto Serie [3] fossero più entusiaste per la ‘fratturazione’ di quanto non lo erano per i progressi effettivamente rivoluzionari nelle energie rinnovabili. Dopo tutto, estrarre petrolio e gas pareva risoluto e realistico, mentre un numero sorprendente di personaggi influenti associa ancora il solare e l’eolico alle fantasie degli hippy.

E questo entusiasmo delle Persone Serie per gli idrocarburi si è tradotto nella disponibilità a buttare soldi nell’industria della fratturazione, il che anno dopo anno ha provocato un salasso di contanti che è proseguito sino a gestire centinaia di miliardi di debiti.

Alla fine, tuttavia, questo boom finanziato col debito ha sbattuto contro un muro. Nel 2016, la morte del passato amministratore delegato di Chasepeake Energy [4] sembrò segnare la fine del settore. Alla fine Chesapeake divenne una delle più di 230 società del petrolio e del gas che dichiararono bancarotta dopo il 2015.

Ma l’implosione finanziaria della fratturazione non provocò una più generale crisi finanziaria, come alcuni osservatori temevano. La cattiva notizia è che la conseguenza di quella implosione, come ho detto, impedì all’Occidente di rispondere alla aggressione de Putin di oggi: essendosi scottati nel passato, i banchieri del settore energetico, nonostante l’impennata nei prezzi del petrolio, mantengono stretto il guinzaglio sulla spesa.

Può darsi che stiano esagerando: qualsiasi cosa accada nella guerra, è difficile ipotizzare che la Russia per un lungo tempo si ricongiunga all’economia mondiale, dunque i prezzi del petrolio è probabile che restino alti per un certo periodo. E ad esser giusti, le correzioni davvero importanti sull’energia dovranno venire dall’Europa, che ha bisogno di porre fine alla sua dipendenza dal gas naturale russo.

Io penso che, in questo caso, ci siano due lezioni più generali.

La prima, le bolle non comportano necessariamente idee evidentemente folli. Si può e si dovrebbe prendersi gioco degli investitori che vengono raggirati dal linguaggio tecnichese di Silicon Valley, ma è perfettamente possibile perdere centinaia di miliardi su azzardi che sembrano del tutto solidi, a parte il fatto che i loro conti non tornano.

In secondo luogo, le bolle che scoppiano possono avere lunghi effetti duraturi. Una ragione per la quale adesso stanno crescendo gli affitti, in aggiunta all’inflazione, è la lunga carenza nella costruzione di alloggi che fece seguito alla bolla immobiliare – una bolla che scoppiò quindici anni orsono:

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Il mercato abitativo ancora debole dopo tutti questi anni. Fonte: FRED [5]

Spero proprio che i sostenitori dei combustibili fossili non cerchino di utilizzare l’attuale shock petrolifero per attaccare gli attivisti del clima, che non hanno alcuna responsabilità per il casino in cui siamo finiti.

 

 

 

 

 

[1] Pare che il 20 aprile del 2020. Effettivamente il dollaro vene quotato sotto zero, con un valore negativo. Dipendeva da condizioni straordinarie originate dal blocco dei viaggi per la pandemia, che avevano saturato i depositi delle riserve di petrolio americano a tal punto … che aveva maggior valore liberare le riserve senza costo alcuno.

[2] Nella tabella, quasi il 60 per cento degli intervistati attribuisce la responsabilità ala “pressione degli investitori a mantenere la disciplina sui capitali”, in aggiunta a quasi un dieci per cento che la attribuisce alla mancanza di accesso ai finanziamenti. Poco più del 10 per vento la attribuisce alle tematiche ambientali, sociali e politiche e un po’ meno del 10 per cento ai regolamenti pubblici.

[3] Sul modo in cui Krugman utilizza da una quindicina d’anni l’espressione da lui coniata di “Persone Molto Serie, vedi nelle Note della traduzione.

[4] Aubrey McClendon era il nome dell’amministratore delegato della società Chesepeake Energy. Morì in un incidente stradale mentre guidava da solo una vettura che andò a sbattere contro un ponte di cemento. Nei giorni precedenti aveva subito l’avvio di un procedimento legale per fatti di corruzione nella sua attività imprenditoriale, connessi con le concessioni per l’estrazione di gas naturale dagli scisti in Oklahoma.

[5] La tabella mostra il numero di unità abitative possedute da privati dall’anno 2000 sino ad oggi, negli Stati Uniti.

 

 

 

 

L’altro grande errore di calcolo di Putin, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 4 marzo 2022)

marzo 7, 2022

 

March 4, 2022

Putin’s Other Big Miscalculation

By Paul Krugman

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Despite the astonishingly effective fight Ukraine has put up against invading forces, most military experts seem to believe that Russia’s sheer advantage in firepower will eventually prevail. Having no relevant expertise, I see no reason to question their judgment.

Still, it’s clear that Vladimir Putin made a huge miscalculation. Russia began the invasion with a dash for Kyiv and Kharkiv by small, lightly armed forces, obviously expecting to achieve a quick victory as the defenders’ resistance collapsed. Instead, the initial attack was repelled, and the follow-up with tanks and artillery has been bogged down — in some cases literally, because it’s still mud season in much of Ukraine.

And that wasn’t his only miscalculation. Putin evidently believed that Russia could easily weather the economic fallout from his war. Oh, the West might slap on a few sanctions, but Europe needed Russian gas and oil, and he had built up a huge war chest of foreign currency reserves that was supposed to tide him over until things settled down.

His political judgment wasn’t entirely wrong. Western economic sanctions have conspicuously and pointedly exempted sales of fossil fuels, which make up most Russian exports. Instead, the sanctions have mainly been financial, excluding major Russian banks from the international payments system and freezing the assets of the Russian central bank — in effect, impounding a large fraction of Putin’s vaunted war chest.

How much does this matter? Historically, economic sanctions have tended to be porous: Countries find workarounds, greatly reducing their effectiveness.

But a funny thing has happened in this case. So far, economic pressure against Russia appears to be highly effective, crimping Russian trade even in goods that haven’t officially been placed under sanctions. The financial restrictions that have already been imposed have made transactions with Russia — even the purchase of oil — difficult; fears of future sanctions, plus the general sense that any Western institutions perceived as helping the Putin regime will face harsh treatment from regulators, have led to widespread self-sanctioning, cutting off even trade that is formally permitted.

We don’t know yet how this plays out, but if we see the kinds of mass civilian casualties and reign of terror that seem all too likely in the weeks ahead, the effect may be to largely isolate Russia from the rest of the world economy.

Economists have a rather arcane term for this kind of isolation: “autarky.” And it’s likely to be extremely damaging.

You might think that autarky is just a strong form of protectionism, which also tends to reduce trade. But it’s actually a lot worse.

The dirty little secret of international economics is that while economists love to sing the praises of free trade, the economic costs of tariffs — even fairly high tariffs — tend to be modest. Why? Because the private sector responds to tariffs by cutting off only the least essential imports. Impose, say, a 20 percent tariff on imports, and we will stop importing only goods that can be produced at home at a modestly higher cost or for which there are reasonably good domestic substitutes. If an imported good is really needed — for example, if it’s a crucial input for manufacturing that we can’t quickly start making here — companies will simply pay the tariff and continue buying abroad.

If events cut off a large fraction of a nation’s international trade, however, that kind of prioritization won’t be possible. The domestic economy will lose access not just to cheap stuff but also to goods it has a very hard time doing without.

Do we have historical examples of what happens when a trading nation is forced into autarky? Not many, precisely because it’s such an extreme event. You could say that something like this happened to Japan during World War II, especially after America captured Saipan and Guam in 1944. This put the U.S. submarine bases near Japan’s most crucial shipping routes and airfields close enough to bomb its ports, effectively isolating Japan’s economy from the rest of the world. Sure enough, Japan’s war economy imploded.

But what about autarky in a nation that wasn’t under direct military assault? Well, there’s a surprising — and surprisingly old — example from U.S. history.

America wasn’t a direct participant in the Napoleonic wars, a huge conflict that, among other things, led Britain to accumulate a remarkable amount of government debt:

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The high cost of fighting Napoleon.Credit…FRED

But America was hardly immune to the effects of those wars, especially because both sides engaged in economic warfare, trying to cripple their opponent with economic blockades that also damaged U.S. commerce. Britain was also in the habit of stopping American commercial ships and impressing their sailors — that is, kidnapping them and forcing them to serve in the British navy.

In response, the administration of Thomas Jefferson tried to retaliate by cutting off all international shipping. Yes, we tried to extract concessions from Britain and France by imposing autarky on … ourselves.

Not surprisingly, it didn’t work. But it did impose large costs on the U.S. economy. Data for the early 19th century is, as you might guess, sketchy, but the economist and historian Douglas Irwin has tried to estimate the cost of the Jeffersonian embargo, which he places at about 8 percent of U.S. gross domestic product.

How might the effects of Russian isolation compare with this experience? Russia in 2022 is far more exposed to foreign trade than America was in 1807: U.S. exports then were only 13 percent of G.D.P., while Russian exports on the eve of the invasion were roughly twice that.

I’d also note that economies are a lot more complex than they were two centuries ago. Back then, production didn’t depend on elaborate supply chains that could be brought to a screeching halt for want of a few crucial components, like silicon chips and replacement parts. Now it does, even in countries like Russia that mainly export raw materials rather than manufactured goods. So the consequences of near autarky may be even worse than Russia’s large dependence on trade suggests.

At the moment, in other words, it looks as if Putin made a double miscalculation. His planned short victorious war is turning into a bloody slog that has outraged the world, and his vaunted economic Fortress Russia appears to be headed for a Depression-level slump.

 

L’altro grande errore di calcolo di Putin,

di Paul Krugman

 

Nonostante il combattimento sorprendentemente efficace che l’Ucraina ha messo in atto contro le forze di invasione, la maggior parte degli esperti militari sembrano credere che il vantaggio assoluto della Russia quanto a potenza di fuoco alla fine prevarrà. Non avendo alcuna particolare competenza, non ho ragioni per mettere in dubbio il loro giudizio.

Eppure, è chiaro che Putin ha fatto un enorme errore di calcolo. La Russia ha cominciato l’invasione scagliando contro Kiev e Kharkiv forze modeste con armamenti leggeri, evidentemente aspettandosi di realizzare una vittoria rapida quando la resistenza dei difensori fosse collassata. Invece, l’attacco iniziale è stato respinto e il passo successivo con i carri armati e l’artiglieria si è impantanato – in alcuni casi letteralmente, perché in buona parte dell’Ucraina è ancora la stagione del fango.

E quello non è stato il solo errore di calcolo. Evidentemente Putin credeva che la Russia potesse facilmente resistere alle conseguenze economiche negative della sua guerra. È vero, l’Occidente avrebbe potuto mettere in atto velocemente alcune sanzioni, ma l’Europa aveva bisogno di gas e di petrolio, e lui aveva messo assieme un grande bottino di guerra di valute estere che si supponeva l’avrebbero fatto sopravvivere finché le cose non si fossero assestate.

Il suo giudizio politico non era del tutto sbagliato. Le sanzioni economiche occidentali hanno in modo rilevante e con tutta evidenza esentato la vendita di combustibili fossili, che costituiscono la maggior parte delle esportazioni russe. Invece, le sanzioni sono state principalmente finanziarie, con l’esclusione di importanti banche russe dal sistema internazionale dei pagamenti e il congelamento degli asset della Banca Centrale russa – in pratica confiscando una larga parte del vantato bottino di guerra di Putin.

Quanto è importante tutto questo? Storicamente, le sanzioni economiche tendono ad essere aggirabili: i paesi trovano espedienti, riducendo grandemente la loro efficacia.

Ma in questo caso è successa una cosa curiosa. Sino ad ora, la pressione economica contro la Russia pare essere altamente efficace, mettendo  in difficoltà il commercio russo anche su beni che non sono stati ufficialmente collocati sotto le sanzioni. Le restrizioni finanziarie che sono già state imposte hanno reso le transazioni con la Russia – persino l’acquisto del petrolio – difficili; i timori di sanzioni future, in aggiunta alla sensazione generale che ogni istituzione occidentale ha percepito che aiutare Putin comporterebbe un trattamento brusco da parte dei regolatori, hanno portato ad un generalizzato autosanzionamento, tagliando fuori anche il commercio che era formalmente consentito.

Non sappiamo ancora l’effetto di tutto questo, ma se consideriamo le perdite massicce di civili e il regno del terrore che sembra anche troppo probabile nelle settimane prossime, l’effetto potrebbe essere un ampio isolamento della Russia dal resto dell’economia mondiale.

Gli economisti usano una espressione piuttosto arcana per questo genere di isolamento: “autarchia”. Ed essa probabilmente è destinata ad essere estremamente dannosa.

Si potrebbe pensare che l’autarchia sia solo una forma forte di protezionismo. Ma effettivamente è molto peggio.

Il piccolo segreto sporco dell’economia internazionale è che mentre gli economisti amano cantare gli elogi del libero mercato, i costi economici delle tariffe – persino delle tariffe abbastanza elevate – tendono ad essere modesti. Perché? Perché il settore privato risponde alle tariffe tagliando soltanto le importazioni meno essenziali. Imponiamo, ad esempio, una tariffa del 20 per cento sulle importazioni, e smetteremo di importare soltanto i beni che possono essere prodotti all’interno con un costo modestamente superiore o per i quali ci sono sostituti domestici ragionevolmente buoni. Se un bene importato è realmente necessario – ad esempio, se è un componente cruciale di una manifattura che non si può rapidamente cominciare a fare all’interno – le società semplicemente pagheranno la tariffa e continueranno ad acquistarlo all’estero.

Se gli eventi tagliano via una larga parte del commercio internazionale di una nazione, tuttavia, quel genere di  fissazione di priorità non sarà possibile. L’economia nazionale perderà l’accesso non solo ad oggetti convenienti ma anche a beni dei quali sarà molto difficile fare a meno. Abbiamo esempi storici di ciò che accade quando una nazione è costretta all’autarchia? Non molti, proprio perché è un evento tanto estremo. Si potrebbe dire che una cosa del genere sia accaduta al Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale, in particolare dopo che l’America catturò Saipan e Guam nel 1944. Questo permise di collocare le basi dei sottomarini statunitensi vicino alle rotte navali più importanti del vicino Giappone e gli aeroporti abbastanza vicini da bombardare i suoi porti, in sostanza isolando l’economia del Giappone dal resto del mondo. Come si era previsto, l’economia di guerra del Giappone implose.

Ma cosa si può dire dell’autarchia in una nazione che non è finita sotto un diretto attacco militare? Ebbene, c’è un esempio sorprendente – e sorprendentemente antico – dalla storia statunitense.

L’America non partecipò direttamente alle Guerre Napoleoniche, un vasto conflitto che, tra le altre cose, portò l’Inghilterra ad accumulare una considerevole quantità di debito pubblico:

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Il costo elevato del combattere Napoleone. Fonte: FRED [1]

Ma l’America non restò certo immune agli effetti di quelle guerre, particolarmente perché entrambi gli schieramenti si impegnarono in una guerra economica, cercando di mettere in difficoltà i propri avversari con blocchi economici che danneggiarono anche il commercio statunitense. L’Inghilterra aveva anche l’abitudine di fermare le imbarcazioni commerciali americane e di impressionare i loro marinai – ovvero di sequestrarle e di costringerle al servizio della marineria inglese.

Come risposta, l‘Amministrazione di Thomas Jefferson cercò di reagire tagliando tutte le spedizioni internazionali. Proprio così, cercammo di costringere l’Inghilterra e la Francia a farci concessioni imponendo l’autarchia … su noi stessi.

Non sorprendentemente, questo non funzionò. Eppure provocò grandi costi all’economa statunitense. I dati per gli inizi del 19° secolo sono, come potete immaginare, inaffidabili, ma l’economista e storico Douglas Irwin ha cercato di stimare il costo dell’embargo jeffersoniano, e lo colloca a circa l’8 per cento del prodotto interno lordo statunitense.

Confrontati con questa esperienza, quali potrebbero essere gli effetti dell’isolamento russo? La Russia del 2022 è assai più esposta al commercio estero dell’America del 1807: le esportazioni statunitensi erano allora soltanto il 13 per cento del PIL, mentre le esportazioni russe alla vigilia dell’invasione erano grosso modo il doppio.

Osserverei anche che le economie sono assai più complicate di quanto non fossero due secoli fa. A quei tempi, la produzione non dipendeva da elaborate catena dell’offerta che possono essere indotte a stridenti blocchi per l’effetto di poche componenti cruciali, come i semiconduttori di silicone e le parti di ricambio. Ora è così, anche per paesi come la Russia che esportano principalmente materie prime anziché prodotti manifatturieri. Dunque le conseguenze di una quasi autarchia possono essere persino peggiori di quanto suggerisce l’ampia dipendenza della Russia dal commercio.

Al momento, in altre parole, sembra che Putin abbia fatto un doppio errore di calcolo. Ha pianificato una breve guerra vittoriosa che si sta trasformando in una faticosa e sanguinosa marcia che ha scandalizzato il mondo, e la sua vantata Fortezza economica russa sembra essere indirizzata ad una recessione delle dimensioni di una depressione.

 

 

 

 

 

[1] Ovviamente, il costo delle guerre napoleoniche per l’economia inglese che mostra la tabella, è espresso dalla prima ‘gobba” agli inizi del 1800. La seconda ‘gobba” cominciò con la Prima Guerra Mondiale e proseguì, quasi senza soluzione di continuità, con la Seconda.

 

 

 

A che serve la guerra? Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 1 marzo 2022)

marzo 4, 2022

 

March 1, 2022

War, What Is It Good For?

By Paul Krugman

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The Ukrainian miracle may not last. Vladimir Putin’s attempt to win a quick victory on the cheap, seizing major cities with relatively light forces, has faced major resistance, but the tanks and big guns are moving up. And despite the incredible heroism of Ukraine’s people, it’s still more likely than not that the Russian flag will eventually be planted amid the rubble of Kyiv and Kharkiv.

But even if that happens, the Russian Federation will be left weaker and poorer than it was before the invasion. Conquest doesn’t pay.

Why not? If you go back in history, there are plenty of examples of powers that enriched themselves through military prowess. The Romans surely profited from the conquest of the Hellenistic world, as did Spain from the conquest of the Aztecs and the Incas.

But the modern world is different — where by “modern,” I mean at least the past century and a half.

The British author Norman Angell published his famous tract “The Great Illusion” in 1909, arguing that war had become obsolete. His book was widely misinterpreted as saying that war could no longer happen, a proposition proved horribly wrong over the next two generations. What Angell actually said was that even the victors in war could no longer derive any profit from their success.

And he was surely right about that. We’re all thankful that the Allies prevailed in World War II, but Britain emerged as a diminished power, suffering through years of austerity as it struggled to overcome a shortage of foreign exchange. Even the United States had a harder postwar adjustment than many realize, experiencing a bout of price increases that for a time pushed inflation above 20 percent.

And conversely, even utter defeat didn’t prevent Germany and Japan from eventually achieving unprecedented prosperity.

Why and when did conquest become unprofitable? Angell argued that everything changed with the rise of a “vital interdependence” among nations, “cutting athwart international frontiers,” which he suggested was “largely the work of the past forty years” — beginning around 1870. That seems like a fair guess: 1870 was roughly when railroads, steamships and telegraphs made possible the creation of what some economists call the first global economy:

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Steamships made war obsolete.Credit…Our World In Data

In such a global economy, it’s hard to conquer another country without cutting that country — and yourself — off from the international division of labor, not to mention the international financial system, at great cost. We can see that dynamic happening to Russia as we speak.

Angell also emphasized the limits to confiscation in a modern economy: You can’t just seize industrial assets the way preindustrial conquerors could seize land, because arbitrary confiscation destroys the incentives and sense of security an advanced society needs to stay productive. Again, history vindicated his analysis. For a while, Nazi Germany occupied nations with a combined prewar gross domestic product roughly twice its own — but despite ruthless exploitation, the occupied territories seem to have paid for only about 30 percent of the German war effort, in part because many of the economies Germany tried to exploit collapsed under the burden.

An aside: Isn’t it extraordinary and horrible to find ourselves in a situation where Hitler’s economic failures tell us useful things about future prospects? But that’s where we are. Thanks, Putin.

I’d add two more factors that explain why conquest is futile.

The first is that modern war uses an incredible amount of resources. Pre-modern armies used limited amounts of ammunition and could, to some extent, live off the land. As late as 1864, Union General William Tecumseh Sherman could cut loose from his supply lines and march across Georgia carrying only 20 days’ worth of rations. But modern armies require huge amounts of ammunition, replacement parts and, above all, fuel for their vehicles. Indeed, the latest assessment from Britain’s Ministry of Defense says that the Russian advance on Kyiv has temporarily stalled “probably as a result of continuing logistical difficulties.” What this means for would-be conquerors is that conquest, even if successful, is extremely expensive, making it even less likely that it can ever pay.

Second, we now live in a world of passionate nationalism. Ancient and medieval peasants probably didn’t care who was exploiting them; modern workers do. Putin’s attempt to seize Ukraine appears to be predicated not just on his belief that there is no such thing as a Ukrainian nation, but also on the assumption that the Ukrainians themselves can be persuaded to consider themselves Russians. That seems very unlikely to happen, so even if Kyiv and other major cities fall, Russia will find itself spending years trying to hold down a hostile population.

So conquest is a losing proposition. This has been true for at least a century and a half; it has been obvious to anyone willing to look at the facts for more than a century. Unfortunately, there are still madmen and fanatics who refuse to believe this — and some of them control nations and armies.

 

A che serve la guerra?

Di Paul Krugman

 

Il miracolo ucraino potrebbe non durare. Il tentativo di Vladimir Putin di ottenere una vittoria rapida a buon mercato, impadronendosi delle città importanti con forze relativamente leggere, si è trovato di fronte ad una resistenza importante, ma i carri armati e l’artiglieria pesante procedono. E nonostante l’eroismo incredibile del popolo ucraino, tuttavia è più probabile che alla fine la bandiera russa verrà piantata sulle macerie di Kiev e di Kahrkiv.

Ma anche se accadrà, la Federazione Russa rimarrà più debole e più povera di quello che era prima dell’invasione. La conquista non paga.

Perché no? Se si va indietro nella storia, ci sono un mucchio di esempi di potenze che si sono arricchite con il valore militare. Di sicuro, i Romani trassero vantaggio dalla conquista del mondo ellenistico, come fece la Spagna con la conquista degli Aztechi e degli Incas.

Ma il mondo moderno – dove per “moderno” intendo almeno l’ultimo secolo e mezzo – è diverso.

Nel 1909, l’autore inglese Norman Angell pubblicò il suo famoso pamphlet “La Grande Illusione”, sostenendo che la guerra era diventata obsoleta. Il suo libro venne generalmente mal interpretato quasi dicesse che non ci sarebbero state più guerre, un’idea che nelle due successive generazioni si dimostrò terribilmente sbagliata. Quello che Angell disse effettivamente fu che neppure i vincitori di una guerra avrebbero più tratto alcun profitto dal loro successo.

E su quello aveva sicuramente ragione. Noi tutti siamo  grati che gli Alleati abbiano prevalso nella Seconda Guerra Mondiale, ma l’Inghilterra ne uscì come un potenza ridotta, patendo anni di austerità nel mentre combatteva per superare una scarsità di valuta estera. Persino gli Stati Uniti ebbero un riequilibrio postbellico più difficile di quanto molti comprendano, conoscendo un periodo di aumento dei prezzi che per un po’ spinse l’inflazione sopra il 20 per cento.

E di converso, persino la completa sconfitta non impedì alla Germania ed al Giappone alla fine di realizzare una prosperità senza precedenti.

Perché e da quando le conquiste divennero infruttuose? Angell sosteneva che tutto cambiò con la crescita di una “interdipendenza vitale” tra le nazioni, “tagliando trasversalmente le frontiere internazionali”, il che suggeriva fosse “in gran parte stato preparato dai precedenti quaranta anni” – a partire da circa il 1870. Questa sembra una congettura probabile: il 1870 fu grosso modo quando le ferrovie, le navi a vapore e il telegrafo resero possibile ciò che alcuni economisti definiscono la prima economia globale:

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Le navi a vapore resero la guerra obsoleta. Fonte: Our world in data. [1]

In una tale economia globale è difficile conquistare un altro paese senza tagliare con grandi costi quel paese – e gli stessi vincitori – dalla divisione internazionale del lavoro, per non dire dal sistema finanziario internazionale. Mentre stiamo parlando, possiamo osservare quella dinamica in atto nella Russia.

Angell enfatizzava anche i limiti della confisca in una economia moderna: semplicemente non si può impadronirsi degli asset industriali nei modi in cui i conquistatori potevano impadronirsi di territori, giacché la confisca arbitraria distrugge gli incentivi ed il senso di sicurezza di cui una nazione avanzata ha bisogno per restare produttiva. Anche in questo caso, la storia ha confermato la sua analisi. Per un certo periodo, la Germania nazista occupò nazioni con un prodotto interno lordo che complessivamente era circa il doppio del suo – ma nonostante uno sfruttamento spietato, i territori occupati sembra che abbiano ripagato solo il 30 per cento dello sforzo di guerra tedesco, in parte perché le economie che la Germania cercò di sfruttare collassarono sotto il peso.

Un inciso: non è straordinario e terribile ritrovarci in una situazione nella quale i fallimenti economici di Hitler ci dicono cose utili sulle nostre prospettive future? Grazie, Putin.

Aggiungerei due altri fattori che spiegano perché le conquiste siano effimere.

Il primo è che le guerre moderne impiegano una quantità incredibile di risorse. Gli eserciti premoderni usavano quantità limitate di munizioni e, in qualche misura, potevano vivere sulle spalle dei territori. Non più tardi del 1864, il Generale dell’Unione William Tecumseh Sherman poteva essere indipendente dalle sue linee di rifornimento e marciare attraverso la Georgia trasportando razioni del valore di soli 20 giorni. Ma gli eserciti moderni richiedono grandi quantità di munizioni, di componenti di ricambio e, soprattutto, di carburante per i loro veicoli. Infatti, l’ultima dichiarazione del Ministro della Difesa inglese afferma che l’avanzata russa su Kiev si è interrotta “probabilmente in conseguenza di persistenti difficoltà logistiche”. Ciò che questo comporta per gli aspiranti conquistatori è che la conquista, persino se di successo, è estremamente costosa, rendendo ancor meno probabile che possano mai ripagarla.

Il secondo è che oggi viviamo in un mondo di ardenti nazionalismi. I contadini antichi e del medioevo probabilmente non si curavano di chi li stava sfruttando; diversamente dai lavoratori moderni. Il tentativo di Putin di impadronirsi dell’Ucraina  sembra basarsi non solo sul suo convincimento che non esista qualcosa come la nazione ucraina, ma anche sull’assunto che gli stessi ucraini possano essere persuasi a considerarsi russi. Sembra molto improbabile che ciò accada, dunque anche se Kiev ed altre importanti città cadranno, la Russia si ritroverà a spendere anni nel tentativo di sottomettere una popolazione ostile.

Dunque le conquiste sono un concetto perdente. Questo è stato vero per almeno un secolo e mezzo; è stato evidente a chiunque fosse disponibile a guardare ai fatti da più di un secolo. Sfortunatamente, ci sono ancora pazzi e fanatici che rifiutano di crederci – e alcuni di loro controllano nazioni ed eserciti.

 

 

 

 

 

[1] La tabella mostra il valore dei beni esportati, dal 1827 al 2014.

 

 

 

I democratici inclinano alla tecnocrazia? Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 22 febbraio 2022)

febbraio 26, 2022

 

Feb. 22, 2022

Do Democrats Have a Technocrat Problem?

By Paul Krugman

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More than a decade ago, the commentator Jonathan Chait wrote about the “hack gap,” a striking difference between the behavior of Republican and Democratic experts (or in some cases, “experts”) when their party controls the government. Republican experts slavishly praise their leaders, no matter what they do; Democratic experts strive for objectivity and, if anything, bend over backward to criticize their own side.

This happens in many areas; Chait was talking about legal analysis, but I see it all the time in my home field.

During the Trump years, Republican economists, even those you might have expected to be concerned about their professional reputations, rushed to embrace extravagant and implausible claims about what Donald Trump’s tax cuts would achieve. Some were even willing to abase themselves in ways reminiscent of Putin cronies. Remember when Tomas Philipson of the University of Chicago declared that Trump had economic instincts “on par with many Nobel economists I have worked with”?

Democratic economists, by contrast, often seem eager to display their independence by criticizing Biden administration policies. And while intellectual integrity is a good thing, I’d argue that sometimes the desire to seem independent leads Democratic economists to overdo it — to criticize arguments or policy proposals that actually make sense, perhaps especially if these proposals would be politically popular.

Let me give you two examples, one minor and one much bigger.

The minor example is proposals for a temporary cut in gasoline taxes to reduce inflationary pressures. There are some good arguments against doing this; in the long run we want to discourage people from burning fossil fuels, not make them cheaper. But I’ve been astonished to encounter Democratic-leaning economists and economics writers asserting that a gas-tax cut wouldn’t help consumers and that it would simply increase oil company profits.

What? The price of crude oil is set on world markets and can’t be much influenced by U.S. policy. But there’s no world market for retail gasoline; Europeans can’t fill their tanks at American gas stations. There are, in fact, large international differences in gasoline prices, precisely because tax rates are so different. And the data, presented here for the Group of 7 economies, suggests a roughly one-to-one effect — that is, higher or lower fuel taxes are fully passed on to consumers:

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Yes, taxes affect prices at the pump.Credit…OECD, Globalpetrolprices.com

Why assert anything different? I can only guess that it’s an instinctive reaction against anything that sounds crowd-pleasing.

The same thing is, I suspect, going on when Democratic-leaning economists summarily reject suggestions — most notably by Elizabeth Warren — that corporate abuse of market power may be one factor in inflation, or (not quite the same point) that stepped-up antitrust efforts might be a useful part of anti-inflation strategy. These views have wide public support, but the Biden administration has been diffident about advancing them, reportedly because its economists are reluctant to challenge the professional orthodoxy that such things can’t happen.

I understand where that orthodoxy is coming from. It’s not a naïve denial that corporations are greedy or have price-setting market power. It comes, instead, from the assertion that corporations have always been greedy and had market power, and there’s no reason to believe that these problems have suddenly gotten worse.

This argument, however, misses two important points.

The first is that market power gives businesses some wiggle room on prices. Yes, there’s a profit-maximizing price, but the cost to a business of charging somewhat less than its profit-maximizing price is small, because lower margins would be offset by increased sales. (To be formal about it, the losses caused by deviating from the optimal price are second-order.) This wiggle room means that corporate pricing may be strongly influenced by intangible considerations, like fear of alienating buyers. A similar argument helps explain why social pressure and prevailing norms seem to have a strong effect on wage rates, and a related argument helps explain why minimum wages don’t seem to reduce employment.

Given this reality, it’s not foolish to suggest that some corporations have seen widespread inflation as an opportunity to jack up prices by more than their costs have increased without experiencing the usual backlash. And it’s not just liberal politicians saying this: Recently the market analyst Edward Yardeni, explaining why profits soared in 2021, declared that “it kind of became culturally acceptable to raise prices” because everyone knew that costs were going up. This phenomenon may, for example, explain recent huge price increases in the meatpacking industry.

Nobody sensible would argue that opportunistic exploitation of market power is the main factor behind recent inflation. But contrary to what some people might want you to believe, economic theory by no means rules out the possibility that it may be a factor.

And perhaps an even more important point, cracking down on excessive industrial concentration and market power would help reduce inflation, regardless of the role market power played in causing inflation in the first place. As an old line puts it, you don’t have to refill a flat tire through the hole.

Now, it would clearly be a mistake to make a campaign against price gouging the core of America’s economic strategy. But nobody is suggesting doing that. At this point, monetary policy is bearing the main burden of inflation-fighting, and the Biden administration — unlike its predecessor — has been careful about not placing pressure on the Federal Reserve to keep interest rates low. Republicans may portray Joe Biden as the second coming of Hugo Chavez, but he isn’t even the second coming of Richard Nixon, who tried to fight inflation with price controls while a complaisant Fed, probably trying to ensure his re-election, helped create an unsustainable boom.

In fact, Biden has been far less forthright about condemning corporate power than John F. Kennedy, who publicly berated the steel industry over what he considered excessive price hikes.

Why, then, are Democratic-leaning economists coming down so hard on the Biden administration’s modest, intellectually defensible attempts to highlight the role of abusive corporate pricing? As I said, I suspect that the desire of Democratic experts to avoid being seen as hacks is causing them to overcompensate, dismissing ideas that actually make sense.

So here’s a plea to my fellow wonks: Evaluate economic ideas on their merits. You don’t want to endorse bad policies because they’re popular, but you don’t want to reject policy ideas simply because they are popular, either.

 

I democratici inclinano alla tecnocrazia?

Di Paul Krugman

 

Più di un decennio fa, il commentatore Jonathan Chait scrisse sul “divario dei commentatori”, una differenza impressionante di comportamenti tra gli esperti repubblicani e democratici (in alcuni casi, “esperti” tra virgolette) quando i loro partiti sono al Governo. Gli esperti repubblicani elogiano generosamente i loro leader, a prescindere da quello che fanno; gli esperti democratici cercano di essere obiettivi e, semmai, si fanno in quattro per criticare la loro parte.

Ciò accade in molti settori; Chait stava parlando di analisi delle leggi, ma io lo constato in continuazione nella mia disciplina.

Durante gli anni di Trump, gli economisti repubblicani, anche quelli che ci si sarebbe aspettati fossero preoccupati per le loro reputazioni professionali, si precipitarono ad abbracciare stravaganti ed implausibili argomenti su quello che i tagli delle tasse di Donald Trump avrebbero comportato. Alcuni furono persino disponibili a degradarsi in modi che facevano il pari con le clientele di Putin. Ricordate quando Tomas Philipson dell’Università di Chicago dichiarò che Trump aveva istinti economici “al pari di molti economisti premi Nobel con i quali [lui] aveva collaborato?”

Al contrario, gli economisti democratici sembrano sempre ansiosi di mostrare le loro indipendenza criticando le politiche della Amministrazione Biden. E mentre l’integrità intellettuale è un’ottima cosa, direi che talvolta il desiderio di apparire indipendenti porta gli economisti democratici a strafare – a criticare argomenti o proposte politiche che in realtà hanno senso, forse specialmente se queste proposte  possano essere politicamente popolari.

Consentitemi di fornire due esempi, uno secondario ed uno molto più importante.

L’esempio minore sono le proposte per un taglio temporaneo delle tasse sui carburanti per ridurre le spinte inflazionistiche. Ci sono alcuni buoni argomenti per non farlo; nel lungo periodo noi vogliamo scoraggiare le persone dal bruciare combustibili fossili, non renderli più convenienti. Ma sono rimasto sbalordito nell’incontrare economisti e commentatori economici di tendenze democratiche che asseriscono che tagliare le tasse sulla benzina non aiuterebbe i consumatori e semplicemente farebbe crescere i profitti delle società petrolifere.

Che cosa? Il prezzo del petrolio greggio è fissato nei mercati mondiali e non può essere influenzato in modo rilevante dalla politica statunitense. Ma non c’è alcun mercato mondiale per la vendita al dettaglio della benzina; gli europei non possono riempire i loro serbatoi presso i benzinai americani. Di fatto, ci sono grandi differenze nei prezzi internazionali delle benzine, precisamente perché le aliquote fiscali sono molto diverse. E i dati, presentati ieri dal Gruppo delle sette economie, indicano un effetto grosso modo di uno ad uno – ovvero, le tasse più alte o più basse sui carburanti sono interamente trasferite sui consumatori:

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Sì, le tasse influenzano i prezzi al dettaglio. Fonte: OCSE, Globalpetrolprices.com. [1]

Perché sostenere qualcosa di diverso? Posso solo supporre che sia una reazione istintiva contro tutto ciò che può apparire di gradimento popolare.

Sospetto che la medesima cosa stia avvenendo quando gli economisti di tendenza democratica respingono sommariamente i suggerimenti – i più autorevoli da parte di Elizabeth Warren – secondo i quali l’abuso del potere di mercato da parte delle società possa essere un fattore di inflazione, oppure che (non esattamente lo stesso argomento) incrementare gli sforzi dell’antitrust potrebbe essere una componente utile di una strategia contro l’inflazione. Questi punti di vista hanno un ampio sostegno nell’opinione pubblica, ma l’Amministrazione Biden è stata diffidente nel farli propri, perché a quanto sembra i suoi economisti sono riluttanti a sfidare l’ortodossia della disciplina, secondo la quale cose del genere non possono accadere.

Io comprendo da dove derivi tale ortodossia. Non si tratta della negazione ingenua che le società siano avide o abbiano potere di mercato nella fissazione dei prezzi. Deriva, piuttosto, dal giudizio secondo il quale le società sono sempre state avide ed hanno avuto sempre potere di mercato, e non c’è ragione di credere che questi problemi siano d’un tratto diventati peggiori.

A questo argomento, tuttavia, sfuggono due aspetti importanti.

Il primo è che il potere di mercato dà alle imprese qualche spazio di manovra sui prezzi. È vero, esiste un prezzo di massimizzazione del profitto, ma il costo per un’impresa di caricare qualcosa di meno del suo prezzo di massimizzazione del profitto è modesto, perché i margini più bassi sarebbero bilanciati dalle vendite accresciute (per dirla tecnicamente, le perdite provocate dalla deviazione dal prezzo ottimale sono secondarie). Questo spazio di manovra comporta che la fissazione dei prezzi da parte delle società possa essere fortemente influenzata da considerazioni immateriali, come il timore di alienare gli acquirenti. Un argomento simile contribuisce a spiegare perché la pressione sociale e le norme prevalenti sembrano avere un forte effetto sui tassi salariali, ed un argomento correlato contribuisce a spiegare perché i salari minimi non sembrano ridurre l’occupazione.

Considerata questa realtà, non è sciocco suggerire che alcune società possano aver considerato l’inflazione generalizzata come un’occasione per aumentare i prezzi maggiormente di quanto siano cresciuti i loro costi, senza doversi misurare con i soliti contraccolpi. E non sono solo i politici progressisti a sostenerlo: di recente l’analista di mercato Edward Yardeni, spiegando perché i profitti si sono impennati nel 2021, ha dichiarato che “alzare i prezzi era diventato qualcosa di culturalmente accettabile” dal momento che tutti sapevano che i costi stavano salendo. Il fenomeno, ad esempio, può spiegare il recente forte aumento dei prezzi nel settore del confezionamento delle carni.

Nessuno ragionevolmente sosterrebbe che lo sfruttamento opportunistico del potere di mercato sia il fattore principale che sta dietro l’inflazione recente. Ma, contrariamente a quello che molte persone vorrebbero farvi credere, la teoria economica non esclude in nessun modo la possibilità che esso possa essere un fattore.

E un aspetto forse ancora più importante, il giro di vite sull’eccessiva concentrazione industriale e sul potere di mercato aiuterebbe a ridurre l’inflazione, a prescindere dal ruolo che il potere di mercato ha giocato di per sé nel provocare l’inflazione. Come dice una vecchia espressione, non si deve gonfiare un gomma a terra attraverso il foro.

Ora, sarebbe chiaramente un errore mettere una campagna contro i prezzi truffaldini al centro della strategia economica dell’America. Ma nessuno sta suggerendo di farlo. A questo punto, la politica monetaria sta sopportando il peso principale della lotta all’inflazione, e l’Amministrazione Biden – diversamente da quella del suo predecessore – è stata scrupolosa nel non collocare una pressione sulla Federal Reserve perché mantenga bassi i tassi di interesse. I repubblicani possono presentare Joe Biden come una reincarnazione di Hugo Chaves, ma lui non è nemmeno una riedizione di Richard Nixon, che cercò di combattere l’inflazione con i controlli dei prezzi mentre una Fed compiacente, probabilmente cercando di garantire la sua rielezione, contribuiva a creare un boom insostenibile.

Di fatto, Biden è stato molto meno esplicito nel condannare il potere di mercato delle società di John F. Kennedy, che sferzava l’industria dell’acciaio per quelli che considerava rincari eccessivi dei prezzi.

Perché, allora, gli economisti di tendenze democratiche stanno intervenendo così duramente sui tentativi modesti e intellettualmente difendibili della Amministrazione Biden nel mettere in luce il ruolo di una abusiva fissazione dei prezzi da parte delle società? Come ho detto, ho il sospetto che il desiderio degli esperti democratici di evitare di essere considerati come falchi, li spinga a reagire in eccesso, liquidando idee che in realtà sono sensate.

Dunque, la mia preghiera a miei colleghi esperti: valutate le idee economiche nel merito. Non dovete appoggiare politiche negative perché sono popolari, ma non dovete nemmeno rigettare idee politiche semplicemente perché sono popolari.

 

 

 

 

 

[1] Sull’asse verticale, su una scala da 3 ad 8, i prezzi della benzina al gallone (un gallone sono 3,785 litri); su quello orizzontale, su una scala da 1 a 4, le tasse al gallone. Queste ultima sono in Italia inferiori soltanto al Regno Unito, mentre i prezzi sono i più alti in assoluto.

 

 

 

Il grande flop di Trump con la Cina e altri disastri, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 15 febbraio 2022)

febbraio 17, 2022

 

Feb. 15, 2022

Trump’s Big China Flop and Other Failures

By Paul Krugman

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Do you remember Donald Trump’s trade war? You can be forgiven for having forgotten all about it, given everything that has happened since; it sounds trivial compared with his effort to stay in power by overturning a fair election. Even in terms of policy while in office, it was far less important than his pandemic denial, and probably less important than his tax cuts or his sabotage of health care.

But the trade war was uniquely Trumpian. His other policy actions were standard-issue Republicanism, but the rest of his party didn’t share his obsession with trade deficits; indeed, he probably wouldn’t have been able to do much on that front except for the fact that U.S. law gives presidents enormous discretion when setting tariffs. Only Trump really considered trade deficits an important issue; and he, er, trumpeted what he called a “historic trade deal” under which China agreed to buy an additional $200 billion in U.S. goods and services by the end of 2021.

Now, Chad Bown of the Peterson Institute for International Economics, who has been the go-to source on the trade war from the beginning, has a final assessment of that deal. And it turns out to have been a complete flop: “China bought none of the additional $200 billion of exports Trump’s deal had promised.”

So Trump was a chump; the Chinese took him to the cleaners. But if you want to do a post-mortem on the trade war, Trump’s haplessness in dealing with foreign leaders is actually a minor part of the story. Far more important is the fact that the shocks we’ve been experiencing since the pandemic began make the Trumpian view of trade look even more economically foolish than it did when he took office.

In the world according to Trump and Peter Navarro, the man he chose as his trade czar, international trade is a zero-sum game. If other countries buy stuff from America, we win; if we buy stuff made abroad, we lose. Navarro and Wilbur Ross, Trump’s commerce secretary (he really knew how to pick them), made this explicit in a policy paper they put out during the 2016 campaign, which asserted that the trade deficit subtracts one-for-one from U.S. growth: Every dollar we spend on imports reduces our G.D.P. by a dollar.

Economists scoffed at this crude mercantilism, which completely ignored the point that imports can make us richer, because the whole reason we buy some goods from abroad is that they are cheaper and/or better than domestically produced alternatives. This is especially true in the modern world economy, where many products that enter international trade are “intermediate goods,” like parts that are used in production. As it turned out, Trump’s tariffs disproportionately affected intermediate goods. So the tariffs raised U.S. production costs and, according to almost all estimates, reduced the number of manufacturing jobs.

Still, mercantilism isn’t always unadulterated nonsense. (Sometimes it’s adulterated nonsense?) Under certain conditions — namely, when the economy is depressed because overall demand is inadequate — trade deficits can reduce output and jobs, and actions to reduce those deficits can act as a form of economic stimulus. That’s why, back in 2010, when lack of demand was the overriding constraint on the U.S. economy, I called for strong pressure on China to end the undervaluation of its currency.

And it’s possible that one of these years we will once again find ourselves facing persistent problems of inadequate demand. But that’s not where we are now.

We are, instead, currently living in a world of constrained supply — a world, in particular, in which domestic factories are struggling to produce what consumers want. Those supply constraints are why inflation has surged.

As we have entered this world, the United States has plunged deeper into trade deficit:

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Deeper into deficit.Credit…FRED

How should we think about this plunge? Would we be richer and better off if we didn’t allow as many imports?

The answer should be an obvious “no.” As many economists have pointed out, the pandemic has caused consumers, still nervous about face-to-face interaction, to switch from buying services to buying goods:

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People want the tangible stuff.Credit…FRED

Imports have surged because many of the goods consumers want are produced abroad, and America doesn’t have the capacity to produce them here — at least not on short notice. Furthermore, even when we can satisfy demand with domestic production, that production, the tariff debacle tells us, often requires imported intermediate goods.

So if we had tried to block the pandemic-related import surge, we wouldn’t have had more jobs; we would just have had more shortages and even higher inflation. In fact, some economists have urged President Biden to help the fight against inflation by lifting the Trump tariffs — something he could do without congressional approval.

Unfortunately, it’s easy to see the political and strategic problems with doing this, no matter how much sense it would make. Trump may have been China’s chump, but Republicans would pounce on any action that could be construed as a gift to China, even if continuing Trump’s tariffs hurts us more than it hurts the Chinese government.

I’ve called today’s newsletter a post-mortem on Trump’s trade war, but, in fact, that trade war isn’t over. Trump’s trade policies were foolish and costly — they failed by any measure you choose — but it may be a long time before any president is in a position to undo the damage.

 

Il grande flop di Trump con la Cina e altri disastri,

di Paul Krugman

 

Ricordate la guerra commerciale di Donald Trump? Potreste essere scusati per esservi dimenticati di tutto, dato tutto quello che è successo da allora; sembra banale paragonato al suo sforzo per restare al potere rovesciando elezioni oneste. Anche a proposito della politica mentre era in carica, [quella guerra tariffaria] fu assai meno importante del suo negazionismo sulla pandemia e probabilmente meno importante dei suoi tagli fiscali o del suo sabotaggio della riforma sanitaria.

Ma la guerra commerciale fu interamente attribuibile solo a lui. Le sue altre iniziative politiche furono su temi tradizionalmente repubblicani, ma il resto del suo partito non condivideva la sua ossessione per i deficit commerciali; in effetti, su quel fronte probabilmente non sarebbe stato capace di fare granché, se non per il fatto che la legge statunitense dà ai Presidenti una enorme discrezione nel fissare le tariffe. Soltanto Trump ha considerato i temi commerciali come una questione importante; ed egli, per dir così, strombazzò [1] quello che definì uno “storico accordo commerciale” con il quale la Cina concordava di acquistare 200 miliardi aggiuntivi di dollari di beni e servizi statunitensi per la fine del 2021.

Adesso, Chad Bown dell’Istituto Peterson per la Politica Internazionale, che è stato fin dall’inizio la fonte da consultare sulla guerra commerciale, fornisce una valutazione finale di quell’accordo. E si scopre che è stato un flop completo: “La Cina non ha comprato niente di quei 200 milioni di dollari di esportazioni che l’accordo di Trump aveva promesso”.

Dunque, Trump è stato un fesso; i cinesi l’hanno ridicolizzato. Ma se volete un necrologio sulla guerra commerciale,  l’inettitudine di Trump a trattare con i leader stranieri in effetti è un aspetto secondario della storia. Assai più importante è il fatto che gli shock che stiamo sperimentando dal momento che è iniziata la pandemia hanno fatto apparire economicamente anche più stupida la sua concezione del commercio di quanto non lo fosse quando era in carica.

Secondo Trump e Peter Navarro, l’uomo che egli scelse come ‘zar’ del commercio, il commercio internazionale è un gioco a somma zero. Se gli altri paesi comprano cose dall’America, vinciamo noi; se noi compriamo cose all’estero, perdiamo. Navarro e Wilbur Ross, il Segretario di Trump al Commercio (lui sapeva davvero come sceglierli), lo scrissero esplicitamente in un documento programmatico che pubblicarono durante la campagna del 2016, che stabiliva che il deficit commerciale riduce la crescita statunitense in un rapporto di uno a uno: per ogni dollaro che spendiamo sulle importazioni, il nostro PIL si riduce di un dollaro.

Gli economisti presero in giro questo rozzo mercantilismo, che ignora completamente l’argomento secondo il quale le importazioni possono renderci più ricchi, perché l’intera ragione per la quale compriamo le cose dall’estero è che sono più convenienti e/o migliori delle alternative nazionali. Questo è particolarmente vero nell’economia mondiale moderna, nella quale molti prodotti che entrano nel commercio internazionale sono “beni intermedi”, come componenti che sono utilizzati nella produzione. Dunque le tariffe che hanno elevato i costi di produzione statunitensi, secondo quasi tutte le stime, hanno ridotto i posti di lavoro manifatturieri.

Eppure, il mercantilismo non è sempre una sciocchezza pura (talvolta è una sciocchezza sofisticata?) Sotto certe condizioni – precisamente, quando l’economia è depressa a causa di una domanda complessiva inadeguata – i deficit commerciali possono ridurre la produzione ed i posti di lavoro, e iniziative per ridurre quei deficit possono funzionare come una forma di stimolazione economica. Questa è la ragione per la quale, nel passato 2010, quando la scarsità della domanda era un condizionamento prioritario nell’economia statunitense, io mi pronunciai per un forte pressione sula Cina perché ponesse termine alla sottovalutazione della sua valuta.

Ed è possibile che in uno dei prossimi anni ci ritroveremo ancora a fare i conti con persistenti problemi di domanda inadeguata. Ma oggi non siamo a quel punto.

Stiamo, invece, vivendo in un mondo di offerta condizionata – un mondo, in particolare, nel quale le fabbriche nazionali hanno difficoltà a produrre quello che vogliono i consumatori. Queste limitazioni nell’offerta sono la ragione per la quale è cresciuta l’inflazione.

Come siamo entrati in questo mondo, gli Stati Uniti sono caduti in un deficit commerciale più profondo:

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Dentro un deficit più profondo. Fonte: FRED

Cosa dovremmo pensare di questa caduta? Saremmo più ricchi e più benestanti se non avessimo permesso così tante importazioni?

La risposta dovrebbe essere un chiaro “no”. Come molti economisti hanno messo in evidenza, la pandemia ha spinto i consumatori, ancora timorosi delle relazioni dirette, a spostarsi dall’acquisto dei servizi all’acquisto dei prodotti:

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La gente vuole cose materiali. Fonte: FRED [2]

Le importazioni sono cresciute perché molti dei prodotti desiderati dai consumatori non prodotti all’estero, e l’America non ha la capacità di produrli all’interno – almeno non con breve preavviso. Inoltre, persino quando possiamo soddisfare la domanda con la produzione nazionale, quella produzione – ce lo dice la debacle delle tariffe – spesso richiede beni intermedi importati.

Dunque, se avessimo cercato di bloccare la crescita delle importazioni provocata dalla pandemia, non avremmo avuto più posti di lavoro; avremmo  avuto soltanto maggiori scarsità ed una inflazione persino più elevata. Di fatto, alcuni economisti hanno fatto pressioni sul Presidente Biden perché contribuisca a combattere l’inflazione cancellando le tariffe [3] – qualcosa che egli potrebbe fare senza una approvazione del Congresso.

Sfortunatamente, è facile vedere i problemi politici e strategici a farlo, a prescindere da quanto sarebbe sensato. Trump può essere stato lo sciocco di turno della Cina, ma i repubblicani si scaglierebbero contro ogni iniziativa che potrebbe essere interpretata come un regalo alla Cina, anche se proseguire con le tariffe di Trump provoca più danno a noi di quanto ne provochi al Governo cinese.

Come ho detto, il post di oggi è un necrologio sulla guerra commerciale di Trump, anche se , di fatto, quella guerra non è superata. Le politiche commerciali di Trump sono state sciocche e costose – hanno fallito da ogni punto di vista – ma ci può volere un tempo lungo perché qualche Presidente sia nelle condizioni di disfarsi del danno.

 

 

 

 

[1] L’interiezione “er”, di solito tradotto in italiano con “ehm”, sottolinea un’ironia che non è non traducibile e che deriva dall’accostamento tra il nome di Trump e il suo “strombazzare” (“to trumpet). Come a dire, un Trump che ‘trumpeggia’.

[2] Si tratta di una tabella piuttosto nota, per chi segue le note di Krugman. Con l’inizio della pandemia – e le chiusure – le spese per i servizi (linea rossa), dopo il crollo iniziale, si sono riprese molto lentamente; le spese per i beni materiali (linea blu), invece, sono cresciute notevolmente.

[3] Per chi segue anche il testo inglese, si consideri che “to lift” non significa soltanto “sollevare”, ma anche “cancellare, abolire, sopprimere”.

La ragione per la quale Biden non intende/non può seguire la strada di una abrogazione delle tariffe di Trump, in buona sostanza, è che apparirebbe un favore alla Cina e darebbe vantaggi politici ai repubblicani.

Ovvero, come ha riconosciuto obiettivamente Richard Hass (un passato collaboratore del Presidente repubblicano George Bush), la ragione per la quale questo non può essere fatto è semplicemente che “L’impatto sulle relazioni Stati Uniti–Cina, e sulla politica nazionale sulle relazioni con la Cina, potrebbe essere più ampio di ogni impatto sull’inflazione”. Hass ha così concluso: “Le tariffe, come le sanzioni o le guerre sono più facili da iniziare, che non da rimuovere. Questa è la ragione per la quale Dio ha inventato i diplomatici” (da una analisi di John Harwood su CNNPolitics).

 

 

 

L’economia popolare ‘Molto Seria’, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 11 febbraio 2022)

febbraio 14, 2022

 

Feb. 11, 2022

Very Serious Folk Economics

By Paul Krugman

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A few days ago, Tressie McMillan Cottom published an insightful article in The Times about the power of “folk economics” — which she defined as “the very human impulse to describe complex economic processes in lay terms.” Her subject was the widespread enthusiasm for cryptocurrency, but her article sent me down memory lane, recalling the role folk economics has played in past policy debates.

Just to be clear, the “folk” who hold plausible-sounding but wrongheaded views of the economy needn’t be members of the working class. They can be, and often are, members of the elite: plutocrats, powerful politicians and influential pundits. In fact, elite embrace of folk economics was a large part of what went wrong in the global response to the 2008 financial crisis. And it’s starting to have a destructive effect now.

So, memories: When the 2008 financial crisis struck, economists, believe it or not, had an intellectual framework ready to go, pretty much custom-made for that situation — because it was devised in the 1930s during the Great Depression. The “IS-LM model” was introduced by the British economist John Hicks in 1937 as an attempt to encapsulate the insights of John Maynard Keynes, who had published “The General Theory of Employment, Interest and Money” the previous year. There’s endless argument about whether Hicks was true to Keynes’s vision — which is irrelevant for my discussion now — because Hicks is what economists brought to the table in 2008.

According to IS-LM (which stands for investment-savings, liquidity-money), public policy normally has two tools it can use to fight an economic slump. Loosely speaking, the Fed can print more money to drive interest rates down, or the Treasury can engage in deficit spending to pump up demand. After a financial crisis, however, the economy gets so depressed that monetary policy hits a limit; interest rates can’t go below zero. So, large-scale deficit spending is the appropriate and necessary response.

But folk economics sees deficits as irresponsible and dangerous; if anything, many people have the instinctive feeling that governments should cut back in hard times, not spend more. And this instinct had a big, adverse effect on policy. True, the Obama administration did respond to the slump with fiscal stimulus, but it was underpowered in part because of unwarranted deficit fears. (This isn’t hindsight, and I was tearing my hair out at the time.) And by 2010, influential opinion — the opinion of what I used to call Very Serious People — had shifted around to the view that debt, not mass unemployment, was the most important problem facing the United States and other wealthy nations.

This wasn’t what conventional economics said, and there was no hint that investors were losing faith in U.S. debt. But deficit scaremongering came to dominate political and media discussions, and governments turned to austerity policies that slowed recovery from the Great Recession.

Did economists unanimously oppose austerity? Hey, have economists ever unanimously agreed on anything? (There’s less disagreement within the profession than legend has it, but still.) Indeed, a handful of prominent economists managed to come up with arguments that seemed to support the folk theory that deficits are always bad — an episode that I always think of when I see demands for new economic thinking. You see, during the last crisis the new ideas that actually influenced policy did indeed go against conventional economics — but in ways that supported, rather than challenged, the prejudices of the powerful.

Two papers in particular had a malign influence. One, by Alberto Alesina and Silvia Ardagna, asserted that cutting spending in a depressed economy was actually expansionary, because it would increase confidence. The other, by Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff, declared that government debt had big, negative effects on growth when it crossed a critical threshold, around 90 percent of gross domestic product.

Both papers were widely criticized by other economists as soon as they were circulated, and in fairly short order their empirical claims were pretty much demolished by other researchers. But their arguments were eagerly adopted by influential people who liked their message, and a funny thing happened to the discourse in the media: To a large extent, these speculative (and wrong) arguments for austerity were both accepted as fact and presented as the consensus of the economics profession. Back in 2013, I cited a Washington Post editorial that declared “economists” believed that terrible things happen when debt exceeds 90 percent of G.D.P., when in fact this was very much not what the rest of us were saying.

And I’ve been hearing echoes of that misrepresentation in some current debates, as people advocating new economic ideas — or at least what they claim are new ideas — assert that conventional economic thinking was responsible for austerity policies after 2008. Um, no: Fiscal austerity was exactly what conventional economics told us not to do in a depressed economy, and it was only the peddlers of unorthodox economics who gave austerity policies intellectual cover.

Which brings us to our current moment. This time around, fiscal stimulus wasn’t underpowered, and there’s definitely a case to be made that excessive deficit spending in 2021 was a factor in rising inflation (although we can argue about how big a factor, since inflation is also up a lot in countries that didn’t engage in much stimulus). But now what?

As I said, the IS-LM model tells us that policymakers have two tools for managing the overall level of demand: fiscal and monetary policy. When you’re trying to boost a deeply depressed economy, monetary policy becomes unavailable, because you can’t push interest rates below zero. But if you’re trying to cool off an overheated economy, monetary policy is available: Interest rates can’t go down, but they can go up.

And because changing monetary policy is easy, conventional analysis says that monetary tightening is the way to go. Indeed, the Fed has made it clear that it intends to do just that. Getting the pace and size of rate hikes right will be tricky, but conceptually it isn’t hard.

But the folk economics position — where by “folk,” I mainly mean Senator Joe Manchin — is that excessive government spending caused inflation, so now we have to call off any new spending, even if it’s more or less paid for with new revenue.

Well, that’s not what conventional economics says; on the contrary, the standard model says that the Fed can handle this while we deal with other priorities.

And while conventional economics isn’t always right, any people attacking it now should ask themselves whether they’re doing so in a constructive way. In particular, I’m seeing a lot of denigration of monetary policy from people who don’t seem to realize that they are, de facto, giving aid and comfort to politicians who don’t want to invest in America’s children and the fight against climate change.

 

L’economia popolare ‘Molto Seria’,

di Paul Krugman

 

Pochi giorni fa, Tressie McMillan Cottom ha pubblicato una articolo acuto sul Times sul potere dell’ “economia popolare” – che ella ha definito come “l’impulso molto umano a descrivere complicati processi economici in termini semplici”. Il suo tema era il generale entusiasmo per le criptovalute, ma il suo articolo mi ha rispedito sul filo della memoria, ricordandomi il ruolo giocato dall’economia popolare nei dibattiti politici passati.

Solo per chiarezza, il “popolo” che si attiene a punti di vista apparentemente plausibili ma fuorvianti non c’è bisogno si componga di membri della classe lavoratrice. Possono essere, e spesso sono, membri delle classi dirigenti: plutocrati, politici potenti e influenti commentatori. Di fatto, le classi dirigenti dell’economia popolare costituirono una larga parte di quello che andò storto nella risposta globale alla crisi finanziaria del 2008. E adesso sta ricominciando ad avere un effetto distruttivo.

Dunque, le memorie: quando colpì la crisi finanziaria del 2008, gli economisti, lo crediate o meno, avevano uno schema intellettuale facile da applicare, praticamente fatto su misura per quella situazione – giacché era stato concepito negli anni ’30 durante la Grande Depressione. Il “modello IS-LM” venne introdotto dall’economista inglese John Hicks nel 1937 come un tentativo di incapsulare le intuizioni di John Maynard Keynes, che l’anno precedente aveva pubblicato “La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”.  C’è una discussione infinita sul fatto se quella di Hicks fosse la effettiva visione di Keynes – che per questo mio intervento è irrilevante – considerato che Hicks fu quello che gli economisti misero sul tavolo nel 2008.

Secondo il modello IS-LM (che sta per investimenti-risparmi e liquidità-moneta), normalmente la politica pubblica ha due strumenti utilizzabili per combattere una recessione economica. Parlando genericamente, la Fed può stampare più moneta per spingere in basso i tassi di interesse, oppure il Tesoro può impegnarsi nella spesa in deficit per ravvivare la domanda. Dopo una crisi generale, tuttavia, l’economia diventa così depressa che la politica monetaria raggiunge un limite; i tassi di interesse non possono scendere sotto lo zero. Dunque, una spesa in deficit su larga scala è la risposta appropriata e necessaria.

Ma l’economia popolare considera i deficit come irresponsabili e pericolosi: molte persone hanno la sensazione istintiva che nei tempi difficili i Governi debbano fare dei tagli, non spendere maggiormente. E questo istinto ebbe un grande effetto negativo sulla politica. È vero, l’Amministrazione Obama rispose alla recessione con lo stimolo della spesa pubblica, ma esso fu sottodimensionato in parte a causa di ingiustificate paure sui deficit (non lo dico col senno di poi, e a quell’epoca mi strappavo i capelli). E con il 2010, un punto di vista influente – che io ero solito definire come quello delle Persone Molto Serie – si spostò sull’opinione che il debito, non la disoccupazione di massa, fosse il problema più importante che stava di fronte agli Stati Uniti e ad altre nazioni ricche.

Questo non era ciò che diceva l’economia convenzionale, e non c’era alcun cenno che gli investitori stessero perdendo la fiducia nel debito statunitense. Ma i seminatori di paure arrivarono a dominare i dibattiti politici e sui media, e i Governi si spostarono su politiche di austerità che rallentarono la ripresa dalla Grande Recessione [1].

Gli economisti si opposero in modo unanime all’austerità? Diciamolo, hanno mai concordato unanimemente su qualcosa, gli economisti? (ci fu meno disaccordo nella disciplina di quello che racconta la leggenda, ma tant’è). In effetti, una manciata di eminenti economisti cercarono di uscirsene con argomenti che sembravano sostenere la teoria secondo la quale i deficit sono sempre negativi – un episodio al quale penso in continuazione quando vedo pronunciamenti per un nuovo pensiero economico. Sapete, durante l’ultima crisi le nuove idee che effettivamente influenzarono la politica in effetti andarono contro l’economa convenzionale – ma in un modo che dava sostegno, piuttosto che sfidare, i pregiudizi dei potenti.

Due saggi in particolare ebbero un’influenza malefica. Uno, a cura di Alberto Alesina e Silvia Ardagna, sosteneva che tagliare la spesa in una economia depressa era effettivamente espansivo, perché avrebbe aumentato la fiducia. L’altro, a cura di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, affermava che il debito pubblico aveva grandi effetti negativi sulla crescita quando oltrepassava una soglia critica, attorno al 90 per cento del prodotto interno lordo.

Appena entrarono in circolazione, entrambi i saggi vennero ampiamente criticati da altri economisti,  e in un tempo abbastanza breve le loro pretese empiriche vennero in buona parte demolite da altri ricercatori. Ma i loro argomenti vennero adottati con entusiasmo da parte di persone alle quali tale messaggio andava a genio, ed accadde una cosa curiosa nel dibattito sui media: in larga misura, questi argomenti capziosi (e sbagliati) per l’austerità vennero accettati come fatti e presentati come il parere unanime della disciplina economica. Nel passato 2013, io citai un editoriale del Washington Post che affermava che accadono cose terribili quando il debito eccede il 90 per cento del PIL, quando in realtà questo non era affatto quello che stava dicendo la maggioranza di noi.

E in alcuni dibattiti attuali vengo cogliendo l’eco di tale rappresentazione distorta, quando persone che difendono le nuove idee economiche – o almeno quelle che essi sostengono siano le nuove idee – asseriscono che il pensiero economico convenzionale fu responsabile delle politiche di austerità dopo il 2008. Non è proprio così: l’austerità della finanza pubblica era esattamente quello che l’economia convenzionale ci diceva di non fare in un’economia depressa, e furono soltanto coloro che spacciavano l’economia non ortodossa che diedero copertura intellettuale alle politiche dell’austerità.

Il che mi riporta al momento attuale. Questa volta, lo stimolo della finanza pubblica non è stato sottodimensionato, e c’è sicuramente un argomento che può essere avanzato secondo il quale una eccessiva spesa in deficit sia stata un fattore della crescente inflazione (sebbene si possa discutere quanto sia stato grande quel fattore, dal momento che l’inflazione è in forte crescita anche in paesi che non si sono granché impegnati nello stimolo). Ma adesso che fare?

Come ho detto, il modello IS-LM ci dice che la autorità pubbliche hanno due strumenti per gestire il livello complessivo della domanda: la politica della finanza pubblica e quella monetaria. Quando si cerca di incoraggiare un’economia profondamente depressa, la politica monetaria diventa inutilizzabile, perché non si possono spingere i tassi di interesso sotto lo zero. Ma se si sta cercando di raffreddare un’economia surriscaldata, la politica monetaria è disponibile: i tassi di interesse non hanno margini per scendere, ma possono salire.

E poiché cambiare la politica monetaria è facile, l’analisi convenzionale ci dice che la restrizione monetaria è il modo di procedere. In effetti la Fed ha chiarito che intende proprio far quello. Stabilire il ritmo e la dimensione del rialzi dei tassi sarà complicato, ma concettualmente non è difficile.

Ma la posizione dell’economia popolare – dove per ‘popolare’ intendo principalmente il Senatore Joe Manchin – è che una spesa pubblica eccessiva ha provocato l’inflazione, dunque adesso dobbiamo cancellare ogni nuova spesa, anche se essa è più o meno compensata da nuove entrate.

Ebbene, non è questo che dice l’economia convenzionale: al contrario, il modello standard dice che la Fed può gestire tutto questo mentre ci occupiano di altre priorità.

E se l’economia convenzionale non ha sempre ragione, tutte le persone che la stanno attaccando dovrebbero chiedersi se lo stanno facendo in modo costruttivo. In particolare, constato molta dose di denigrazione della politica monetaria da parte di persone che non sembrano comprendere che, di fatto, stanno dando aiuto e sostegno ai politici che non vogliono investire sul bambini dell’America né combattere contro il cambiamento climatico.

 

 

 

 

 

[1] Ricordo che gli economisti definiscono come Grande Depressione la crisi degli anni ’30 e come Grande Recessione quella successiva al 2008, coerentemente con il fatto che per ‘depressione’ si intende precisamente una fase di crisi duratura, mentre con ‘recessione’ si intende una fase più limitata nel tempo.

 

 

 

Quando abbiamo davvero bisogno di nuove teorie economiche? Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 8 febbraio 2022)

febbraio 10, 2022

 

Feb. 8, 2022

When Do We Need New Economic Theories?

By Paul Krugman

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Today’s newsletter isn’t about Modern Monetary Theory (MMT), which has been the subject of a lot of back-and-forth in the economics world over the past couple of days. Suffice it to say that I consider MMT the cryptocurrency of macroeconomics: It sounds edgy and forward-looking, but when you press its devotees on what exactly is its point, what it can do that you can’t do better using more conventional approaches, the response is a lot of bombast but no clear answer.

My topic today is, instead, more meta (not to be confused with Mark Zuckerberg’s Meta). Here’s the question: When do events tell us that we need a fundamental rethink of economic concepts?

You might think that the need for new theory is obvious whenever consensus economic forecasts are wildly off. But it’s a big, complicated world out there, and conceptually sound models may end up being way off because of inadequate data or outside events.

Here’s an example from “real” science: Britain’s Great Storm of 1987, whose severity came as a complete surprise. Nobody suggested that there was something wrong with the fundamental principles of meteorology. Instead, while forecasters came in for a lot of criticism, the main conclusion was that the Met Office’s data collection for the ocean south and west of Britain was inadequate and needed to be reinforced.

What’s an economic example? This may surprise you: Essentially nobody saw the 2008 financial meltdown coming (other than people who predicted many other crises that didn’t happen), but when it did come, there wasn’t much existential angst among economists I talked to. We’ve long had a theory of banking crises; we just thought that regulations and deposit insurance made an old-fashioned wave of bank runs impossible — which they did, for traditional banks.

What few had realized, however, was that much of the modern financial system now involved “shadow banks” that did bank-type business but, because they weren’t marble buildings with rows of tellers, lacked both the regulations and the government guarantees that protected traditional banking. As soon as that became clear, the crisis, although unanticipated, was easily slotted into the standard framework; in the weeks after Lehman Brothers fell, you could find economists roaming the halls muttering “Diamond-Dybvig, Diamond-Dybvig” under their breath.

So which economic crises clearly demonstrated the need for a fundamental rethink? The Great Depression, of course: Such a thing was undreamed of under the era’s prevailing economic philosophy, and the fact that it happened converted many to the economic vision of John Maynard Keynes.

The stagflation of the 1970s also forced a major rethink. Persistent inflation despite high unemployment seemed to provide a spectacular vindication for the argument of Milton Friedman and Edmund Phelps that sustained inflation would get built into wage- and price-setting — not an entirely new idea but one that became part of the canon.

Conversely, the Volcker recession of the 1980s refuted some of the popular economic models of the 1970s. According to these “equilibrium macro” models, tight money would cause a recession only if people didn’t see it coming. The huge, sustained slump associated with disinflation showed that these models were wrong — although this time, sadly, a large part of the profession refused to accept the evidence and went into decades of denial.

Finally, Japan’s sustained economic weakness beginning in the 1990s had a profound effect on the thinking of a number of economists — including yours truly and a guy named Ben Bernanke (what ever happened to him?). Back in 1998, I argued that the rules would change in an economy in which the amount people wanted to save exceeded the amount businesses wanted to invest. Even huge increases in the money supply would just sit there, rather than causing inflation. Nor would budget deficits raise interest rates, unless they were big enough to absorb all the excess saving.

What about subsequent events? Believe it or not, there has been nothing comparably earthshaking, at least in intellectual terms. After 2008, the whole world started to look like Japan a decade earlier; well, we already had the intellectual framework for that.

It’s true that many financial types and policymakers, together with a few economists, kept predicting that interest rates and the rate of inflation would soar any day now. But these predictions weren’t based on any coherent model. Instead, they reflected some combination of gut feelings and, it must be said, wishful thinking. For example, Alan Greenspan, who kept predicting terrible things from money-printing and deficit spending, declared the failure of inflation and interest rates to soar “regrettable.”

Those of us who stayed with the models thought this was silly. Way back in 2010, I made fun of “invisible bond vigilantes” (and also of people who believed in the confidence fairy).

Getting this story right is important because I keep seeing writers declaring that the persistence of low interest rates, despite large deficits and government debt, is somehow a shocking development that refutes conventional economic thinking, so we should turn to novel doctrines like MMT. Well, I do not think that word “conventional” means what they think it means. You can find famous people who kept predicting a big rise in rates, but nothing that happened between the global financial crisis and the Covid-19 pandemic contradicted standard Keynesian theory.

What about the recent surge in inflation? I don’t want to minimize the fact that I called that one wrong, and it’s a big deal. But the odd thing about this debate is that Team Inflation and Team Transitory started out with more or less the same intellectual framework, just different interpretations of the numbers.

And, for now, the failure of many economists to get inflation right looks like the 2008 failure to appreciate the fragility of the financial system, or, for that matter, the Met Office’s bad weather forecast in 1987, rather than an existential intellectual problem. Nobody saw supply-chain woes or worker shortages driven by the Great Resignation coming, but as I said, it’s a big, complicated world out there, and sometimes stuff happens.

The moral of this discussion isn’t that the mainstream is always right, or that you should listen only to people with the right formal credentials. It is, instead, that new ideas should be judged as ideas, not by whether those proposing those ideas talk a good game. We all love tales of brave innovators challenging a stodgy establishment, but that very love opens the doors for hucksters — who may be fooling themselves, as well as others — who actually have nothing to offer but a good story line.

 

Quando abbiamo davvero bisogno di nuove teorie economiche?

Di Paul Krugman

 

Questo post di oggi non riguarda la Moderna Teoria Monetaria (MMT), che è stata oggetto negli ultimi due giorni di una botta e risposta [1] nel mondo dell’economia.  E’ sufficiente dire he io considero la MMT come la criptovaluta della macroeconomia: essa sembra incisiva e all’avanguardia, ma quando spingete i suoi fedeli su quello che è precisamente il punto, cosa essa può fare di meglio e cosa non può fare rispetto all’utilizzo di approcci più convenzionali, la replica è un sacco di discorsi ma nessuna risposta chiara.

Il mio tema di oggi, invece, è più “meta” [2] (da non confondersi con la Meta di Mark Zuckerberg). La domanda è questa: quando gli eventi ci dicono che abbiamo bisogno di un ripensamento di fondo dei concetti economici?

Potreste pensare che il bisogno di nuove teorie sia evidente quando il consenso dei previsori economici è palesemente in difetto. Ma il nostro mondo è grande e complicato, e modelli concettualmente corretti possono finire fuori strada a causa di dati inadeguati e di eventi esterni.

Ecco un grande esempio dalla scienza “reale”: la grande tempesta inglese del 1987, la cui gravità venne completamente non prevista. Nessuno mostrò che c’era qualcosa di sbagliato nei principi fondamentali della meteorologia. Piuttosto, mentre i meteorologi venivano sommersi da una gran quantità di critiche, la principale conclusione fu che la raccolta di dati dell’Ufficio Meteorologico sull’oceano meridionale e occidentale dell’Inghilterra era inadeguata e aveva bisogno di essere potenziata.

Quale potrebbe essere un esempio dall’economia? Questo può sorprendervi: sostanzialmente nessuno vide arrivare il collasso finanziario del 2008 (se non le persone che avevano previsto molte altre crisi mai avvenute), ma quando il collasso arrivò, non ci furono grandi ansie esistenziali tra gli economisti con cui parlavo. Avevamo da tempo una teoria sulle crisi bancarie; pensavamo semplicemente che i regolamenti e le garanzie sui depositi rendessero un’ondata di vecchia maniera di corse agli sportelli delle banche impossibile  – che era quello che facevano, ma per le banche tradizionali.

Quello che pochi compresero, tuttavia, fu che una gran parte del sistema finanziario moderno a quel punto riguardava le “banche ombra” che facevano affari del genere di quelli di una banca, ma siccome non erano edifici di marmo con file di cassieri, mancavano sia dei regolamenti che delle garanzie dei Governi nel proteggere il tradizionale settore bancario. Come fu presto chiaro, la crisi, sebbene imprevista, fu facilmente inquadrata in un modello classico; nelle settimane successive alla caduta della Lehman Brrothers, si potevano incrociare economisti che vagavano per le sale borbottando sottovoce “Diamond-Dybvig, Diamond-Dybvig” [3] .

Dunque, quali crisi economiche dimostrano chiaramente che c’è bisogno di un ripensamento di fondo? La Grande Depressione, ovviamente: una cosa del genere era inimmaginabile nella prevalente filosofia economica dell’epoca, e il fatto che avvenisse face convertire molti alla visione economica di John Maynard Keynes.

Anche la stagflazione degli anni ’70 costrinse ad un importante ripensamento. La persistente inflazione nonostante l’elevata disoccupazione sembrava fornire uno spettacolare risarcimento alla tesi di Milton Friedman e Edmund Phelps secondo il quale una prolungata inflazione si sarebbe installata nella fissazione dei salari e dei prezzi – non era un’idea del tutto nuova ma divenne parte del canone.

Di converso, la recessione Volcker degli anni ’80 confutò alcuni modelli economici popolari negli anni ’70. Secondo questi modelli di “macro equilibrio”, una stretta monetaria avrebbe provocato una recessione soltanto se le persone non se ne fossero accorte. La vasta, prolungata recessione associata con la disinflazione mostrò che questi modelli erano sbagliati – sebbene questa volta, tristemente, una larga parte della disciplina rifiutò di accettare l’evidenza e si chiuse in decenni di negazionismo.

Infine, la prolungata debolezza economica del Giappone a partire dagli anni ’90 ebbe un effetto profondo sul pensiero di un certo numero di economisti – compresi il sottoscritto e un personaggio dal nome di Ben Bernanke (cosa gli è mai successo?). Nel passato 1998, io sostenni che in un’economia nella quale la quantità di persone che intendevano risparmiare avesse ecceduto la quantità di imprese che volevano investire, le regole sarebbero cambiate. Persino grandi aumenti nell’offerta di moneta sarebbero rimasti inerti, anziché provocare inflazione. Neppure grandi deficit di bilancio avrebbero aumentato i tassi di interesse, a meno che non fossero talmente grandi da assorbire tutti i risparmi in eccesso.

Che dire degli eventi successivi? Ci si creda o no, non c’è stato niente di comparabilmente sconvolgente, almeno in termini intellettuali. Dopo il 2008, il mondo intero ha cominciato a sembrare come il Giappone un decennio dopo: in pratica, avevamo già avuto i modello intellettuale per tutto quello.

È vero che molti personaggi della finanza e molti politici, assieme a pochi economisti, hanno continuato ad annunciare che i tassi di interesse e il tasso di inflazione sarebbero schizzati alle stelle. Ma queste previsioni non erano basate su alcun modello coerente. Piuttosto riflettevano una qualche combinazione di presentimenti e, va detto, di mere illusioni. Ad esempio, Alan Greenspan, che ha continuato a prevedere cose tremende per lo stampare moneta e le spese in deficit, ha dichiarato che la mancata impennata dell’inflazione e dei tassi di interesse era “incresciosa”.

Coloro tra noi che rimasero fedeli ai modelli pensarono che questa fosse una sciocchezza. Nel passato 2010, io prendevo in giro i “vigilantes invisibili delle obbligazioni” (ed anche le persone che credevano nella ‘fata della fiducia’).

Comprendere questa storia è importante perché continuo a vedere persone che scrivono che la persistenza di bassi tassi di interesse, nonostante ampi deficit e  il debito pubblico, è in qualche modo uno sviluppo impressionante che confuta il pensiero economico tradizionale, cosicché dovremmo rivolgerci a dottrine innovative come la MMT. Ebbene, io non penso che la parola “convenzionale” significhi cosa loro pensano. Si può trovare un individuo famoso che ha continuato a prevedere una grande aumento dei tassi, ma niente di ciò che è avvenuto tra la crisi finanziaria globale e la pandemia del Covid-19 ha contraddetto la teoria keynesiana tradizionale.

Che dire, allora, della recente impennata dell’inflazione? Non intendo minimizzare il fatto che ho preso una posizione sbagliata su quell’aspetto, e si tratta di una faccenda importante. Ma la cosa curiosa di questo dibattito è che coloro che sostenevano la tesi dell’inflazione e quelli che sostenevano la sua transitorietà sono partiti più o meno con lo stesso schema intellettuale, solo con interpretazioni diverse dei dati.

E, sino a questo punto, il fatto che molti economisti non siano riusciti a intendere giustamente l’inflazione assomiglia all’incapacità nel 2008 ad apprezzare la fragilità del sistema finanziario, oppure, in modo simile, a quella dell’Ufficio Meteorologico nel 1987 a prevedere il brutto tempo, piuttosto che ad un problema intellettuale fondamentale. Nessuno ha intuito i guai delle catene dell’offerta o le scarsità di lavoratori derivanti dalla Grande Dismissione, ma come ho detto, in giro c’è un mondo grande e complicato, e talvolta le cose accadono.

La morale di questo dibattito non è che il pensiero prevalente ha sempre ragione, o che si dovrebbero ascoltare soltanto le persone con le giuste credenziali formali. È invece che le nuove idee dovrebbero essere giudicate come idee, e non dal fatto che coloro che le propongono giochino bene le loro carte. A tutti noi piacciono i racconti di innovatori coraggiosi che sfidano i gruppi dirigenti tediosi, ma quello che davvero ci piace apre le porte agli imbonitori – che può darsi che, come tutti gli altri, ingannino se stessi – ma che effettivamente non hanno niente da offrire se non bei racconti.

 

 

 

 

[1] Il riferimento è a due articoli, uno elogiativo di Joanna Smialek ed uno molto critico di Noah Smith. Il primo è apparso sul New York Times, il secondo sul blog dello Smith.

[2] Ovvero: “va un po’ oltre”, “trascende”.

[3] Il modello di Diamond-Dybvig (1983) è un modello teorico che si propone di spiegare le modalità attraverso cui si determina un fenomeno di run bancario (corsa agli sportelli), fornendo al contempo una rappresentazione teorica del meccanismo attraverso cui le banche creano liquidità. Il modello rappresenta ad oggi il punto di riferimento teorico per la spiegazione dei fenomeni considerati, e non a caso di esso sono state proposte varie riformulazioni successive. Wikipedia.

 

 

 

Siamo in un’altra bolla immobiliare? Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 28 gennaio 2022)

febbraio 7, 2022

 

Jan. 28, 2022

Are We in Another Housing Bubble?

By Paul Krugman

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Do you remember the housing bubble? OK, if you’re 35 or younger, probably not — you were a teenager at the most when the bubble burst. But it was a huge deal at the time, and a very strange one.

When the bubble was inflating in the early 2000s, it seemed to me and others — Dean Baker may have been the first prominent economist to sound the alarm — to be the most obvious case of mispricing we’d ever seen. At least the dot-com bubble of the late 1990s had the excuse that businesses were developing exciting new technology, so at least some of the new companies might end up becoming extremely valuable. But people have been building houses for thousands of years; what could justify those extraordinary prices?

At the time, however, anyone raising questions about housing was treated like … people who now raise questions about cryptocurrencies. (After yesterday’s column went online, a Wall Streeter friend texted “God help your inbox.”) I got a lot of “You only say there’s a bubble because you hate President Bush” emails.

Anyway, the bubble eventually burst, taking a large part of the financial system down with it. That is a worrying precedent, because housing prices have once again been rising rapidly. In fact, the average real price of housing in major markets is now higher than it was at its 2006 peak:

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Here we go again?Credit…FRED

So is history about to repeat itself? Well, there are important differences between this house-price surge and the previous one, differences that arguably make this one less worrying.

One important feature of the 2000s spike in housing prices was that it affected only some metropolitan areas. When I wrote about the bubble in 2005, I argued that America was effectively divided between Flatland — places where it was easy to increase the housing supply — and the Zoned Zone, where “a combination of high population density and land-use restrictions” made it hard to build new houses. And the big price increases took place only in the latter. For example, here’s a comparison over time between Miami and Dallas:

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But this time it’s more evenly spread.Credit…FRED

That distinction was key to my conclusion that we were in the midst of a bubble. By the mid-2000s, real home prices at a national level were up by “only” about 50 percent, a number you could, with painful intellectual contortions, try to justify on the basis of low interest rates. But there was no way to justify the 100 percent or more increases we were seeing in places like Miami and San Diego.

This time, however, is different. Look again at the Miami-Dallas comparison. As you can see, the new surge in home prices is much more of a national phenomenon, with prices rising as much or more in Flatland than in the Zoned Zones along the coasts. Adjusted for inflation, prices in places that were the epicenter of the 2000s bubble are still below their previous peak (and their price rise is easier to justify, because interest rates are even lower now); the reason the national average is so high is that prices are surging everywhere — even in small towns that used to be bargains.

How is this possible? In the 2000s home prices stayed low in many places, despite surging demand, because there was plenty of supply: Buildable land was abundant both in small cities and in cities that, like Houston, don’t have much in the way of zoning.

This time, however, record home prices haven’t led to a boom in housing construction:

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Build we won’t.Credit…FRED

But why? With houses selling for so much, you’d think there would be a big incentive for developers to throw up new units, which they can do quite quickly. I still remember driving around New Jersey during the McMansion boom and being amazed at how quickly houses went up. Why aren’t the developers rushing in now?

In correspondence, my old M.I.T. classmate and economist Charles Steindel pointed me to the likely answer: It’s the supply chain, stupid. Look at what is happening to the price of building materials:

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The supply chain strikes again.Credit…FRED

So prices are shooting up, even in places with plenty of buildable land, because supply can’t rise to meet the demand.

Put all this together, and the case for a bubble isn’t nearly as compelling as it was in 2005 or 2006. That doesn’t mean that all is well. Real estate people I know tell me that there’s still a feeling of unhealthy frenzy, and people who paid high prices for small-town houses may regret it once supply chains get unsnarled and more houses get built.

But this time is different, even if some house prices are starting to look like the 2000s bubble. I wouldn’t say that everything is fine, but a housing bubble probably isn’t in my top 10 list of things to worry about.

 

Siamo in un’altra bolla immobiliare?

Di Paul Krugman

 

Ricordate la bolla immobiliare? Va bene, se avete 35 anni o meno, probabilmente no – eravate al massimo adolescenti quando la bolla scoppiò. Ma a quel tempo fu una faccenda importante, ed anche molto strana.

Quando nei primi anni 2000 la bolla stava gonfiandosi, sembrò a me e ad altri – Dean Baker forse fu il primo eminente economista a suonare l’allarme – che fosse il caso più evidente di una sbagliata fissazione di un prezzo che si era mai visto. Almeno la bolla delle imprese commerciali che operavano con internet della fine degli anni ’90 aveva avuto la scusa che esse stavano promuovendo una nuova eccitante tecnologia, cosicché almeno alcune delle nuove società potevano finire col diventare estremamente di valore. Ma la gente stava costruendo case da migliaia di anni; cosa poteva giustificare quei prezzi straordinari?

A quei tempi, tuttavia, chiunque sollevasse domande sulle abitazioni veniva trattato come … le persone che oggi sollevano domande sulle criptovalute (dopo il mio articolo di ieri, un amico di Wall Street mi ha scritto: “Dio salvi la tua cassetta delle lettere”). Ricevetti allora una grande quantità di email con: “Tu dici che c’è una bolla solo perché odi il Presidente Bush”.

In ogni caso alla fine la bolla scoppiò, portando giù con sé una ampia parte del sistema finanziario. Quello è un precedente preoccupante perché i prezzi delle abitazioni stanno ancora una volta salendo rapidamente. Di fatto,  il prezzo medio reale degli alloggi nei principali mercati è oggi più elevato di quanto fosse a suo picco del 2006:

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Ci siamo di nuovo? Fonte: FRED

Così la storia è prossima a ripetersi? Ebbene, ci sono differenze importanti tra questa crescita dei prezzi delle abitazioni e quella precedente, differenze che probabilmente rendono quest’ultima meno preoccupante.

Un caratteristia importante dell’impennata dei prezzi delle abitazioni negli anni 2000 fu che essa interessò soltanto alcune aree metropolitane. Quando io scrissi sulla bolla nel 2005, sostenevo che l’America era effettivamente divisa tra le “Distese pianeggianti” – zone nelle quali era facile che l’offerta di alloggi crescesse – e le “Zone della programmazione territoriale”, nelle quali “una combinazione di elevata densità della popolazione e di restrizioni nell’uso dei terreni” rendevano difficile costruire nuove case. E i grandi incrementi dei prezzi ebbero luogo solo nelle seconde. Ad esempio, questo è un confronto negli anni tra Miami e Dallas:

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Ma questa volta è diffusa più equamente. Fonte: FRED   [1]

Quella distinzione era cruciale nella mia conclusione secondo la quale eravamo nel mezzo di una bolla. Alla metà degli anni 2000 i prezzi reali delle abitazioni al livello nazionale erano saliti “soltanto” di un 50 per cento, un dato che si poteva cercare di giustificare, con ragionamenti penosamente contorti, sulla base dei bassi tassi di interesse. Ma non c’era alcun modo di giustificare gli aumenti del 100 per cento e più che si stavano osservando in luoghi come Miami e San Diego.

Questa volta, tuttavia, è diverso. Guardate ancora il confronto tra Miami e Dallas. Come si può vedere, la crescita dei prezzi delle abitazioni è molto più un fenomeno nazionale, con i prezzi che crescono altrettanto o di più nelle distese di pianura che nelle zone con maggiori vincoli di pianificazione lungo le coste. Corretti per l’inflazione, i prezzi nei luoghi che furono epicentro della bolla degli anni 2000 sono ancora al di sotto del loro picco precedente (e la loro crescita è più facile da giustificare, perché i tassi di interesse sono oggi persino più bassi); la ragione per la quale la media nazionale è così alta è che i prezzi stanno aumentando dappertutto – persino nelle piccole città che una volta erano affari.

Come è possibile questo? Negli anni 2000 i prezzi degli alloggi restavano bassi in molte località, nonostante la crescita della domanda, perché c’era una grande quantità d oferta: i terreni edificabili erano abbondanti sia nelle piccole città che nelle città che, come Houston, non avevano molta programmazione in corso. Tuttavia, questa volta i prezzi record delle abitazioni non hanno portato ad un boom nella costruzione di abitazioni:

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Non costruiremo. Fonte: FRED [2]

Ma perché? Con le case che si vendono per così tanto, si penserebbe che ci sia un grande incentivo per i costruttori a tirar su nuovi complessi, cosa che possono fare abbastanza rapidamente. Mi ricordo ancora quando si girava nel New Jersey durante il boom delle McMansion [3] e si restava sorpresi dalla velocità con la quale spuntavano. Perché adesso i costruttori non si precipitano?

Il mio vecchio compagno di corso al MIT ed economista Charles Steindel mi ha fornito per corrispondenza questa risposta: è l’offerta, stupido! [4] Osservate quello che sta accadendo ai prezzi dei materiali da costruzione:

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Le catene dell’offerta colpiscono anche in questo caso. Fonte: FRED

Dunque i prezzi si stanno impennando, persino in luoghi con grandi quantità di terreni edificabili, perché l’offerta non può crescere al punto di soddisfare la domanda.

Mettiamo tutto questo assieme, e l’argomento per una bolla non è neanche lontanamente così stringente come nel 2005 o 2006. Il che non significa che stia andando tutto bene. Persone del settore immobiliare mi riferiscono che c’è ancora una sensazione di insana frenesia, e le persone che hanno pagato alti prezzi per abitazioni in piccole cittadine potrebbero pentirsene una volta che l’aggrovigliarsi delle catene dell’offerta si scioglierà e verrano costruite più case.

Ma questa volta è diverso, anche se alcuni prezzi delle abitazioni stanno cominciando ad assomigliare alla bolla degli anni 2000. Non direi che tutto è a posto, ma probabilmente una bolla immobiliare non è tra le dieci principali cose di cui preoccuparsi.

 

 

 

 

 

[1] La linea rossa riguarda gli andamenti dei prezzi a Dallas, quella blu a Miami.

[2] La tabella mostra l’evoluzione dei nuovi complessi abitativi di proprietà privata negli Stati Uniti.

[3] Nelle comunità sub urbane degli Stati Uniti, McMansion è un termine peggiorativo che indica  complessi abitativi destinati ad un mercato di “produzione di massa” principalmente per le classi medio alte. é peggiorativo perché le vere “mansion” sono ville di gran lusso. Questa foto mostra – da Wikipedia – un serie di McMansions in una località della Virginia:

[4] Questa espressione è consueta per gli americani e deriva, pare, da una analoga sbrigaitva risposta che una volta diede Bill Clinton ad una domanda (“E’ l’economia, stupido!”).

 

 

 

L’inflazione e il potere della narrazione, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 25 gennaio 2022)

febbraio 1, 2022

 

Jan. 25, 2022

Inflation and the Power of Narrative

By Paul Krugman

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President Biden had what I’d call a human moment yesterday. After a Fox News correspondent shouted out a question about whether inflation would be a political liability, Biden could be heard muttering: “No, it’s a great asset. More inflation. What a stupid son of a bitch.” Seriously, can you blame him?

But why is inflation proving to be so much of a political liability? The idea that Americans are down on the economy because price increases have outstripped wage growth has hardened into conventional wisdom. And there’s obviously something to that. But the political reaction is disproportionate to the actual decline in real wages, and I’d argue that journalists are missing a large part of the story if they fail to realize that.

Let’s talk about the long view of wages and prices.

Here’s the annual rate of change in real wages — the rate of wage increase minus the rate of inflation — for blue-collar workers since the late 1970s:

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Real wages over the long run.Credit…FRED

Obviously there was a huge decline following the 1979 oil shock. Perhaps less familiar is the fact that real wages fell for much of the Reagan era. In particular, in October 1984 — on the eve of the presidential election — real wages were 1.4 percent lower than they were a year earlier. In October 1988, they were down 0.6 percent. Yet, Republicans won both elections by large margins by running on the economy.

What about our current situation? The most commonly used wage numbers have been screwy during the pandemic, because of compositional effects. For example, average wages shot up in 2020, not because workers were getting big raises, but because low-wage workers were laid off in disproportionate numbers. So we need to look at estimates that are supposed to correct for these compositional effects, like the Atlanta Fed’s wage tracker:

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Wages are spiking.Credit…Federal Reserve Bank of Atlanta

This tracker shows a sharp acceleration in wages; so does the official Employment Cost Index, although this index hasn’t yet been updated to reflect the past few months.

Still, there’s no question that inflation has outstripped wages over the past year. On the other hand, inflation was low in 2020, measured both by the Consumer Price Index and by the Fed’s preferred measure, the personal consumption expenditure deflator:

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Unfortunately, so are prices.Credit…FRED

So real wages rose last year. On a two-year basis, they’re probably down, but not by a lot. At the same time, we’ve had stellar job growth — and as I said, the combination of modestly declining real wages with a strong job market has actually been a winner for past presidents.

This time, however, consumer sentiment is extremely negative — almost as negative as it was in the late 1970s, when real wages were really plunging and unemployment was rapidly rising:

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Consumers say it’s awful.Credit…FRED

What’s going on? Surely it’s the power of narrative. As many of us have noted, Americans are very down on the national economy, but relatively upbeat about their own personal financial situation:

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But only for other people.Credit…Langer Research Associates

That is, their personal experience is pretty good but they’ve heard that things are terrible for other people.

A lot of this is partisanship. Democrats and Republicans used to have similar assessments of the economy, whoever was president. Now Republicans assess the economy as worse than it was in June 1980, when inflation was 14 percent and real wages were falling 6 percent a year.

Some of it also has to involve the way the media cover the economy. I know journalists hate hearing this, but if the way we report on events doesn’t affect public perceptions, what is the point of what we’re doing? And somehow Biden’s inflation, not Biden’s jobs boom, has come to dominate news coverage.

I’m not arguing that inflation isn’t a problem, nor am I doing a Phil Gramm and calling America a “nation of whiners.” I am saying that the remarkably negative public reaction to what by historical standards would at worst be considered mixed news is an important story in itself and deserves both some coverage and, perhaps, self-reflection on the part of those reporting on the subject.

 

L’inflazione e il potere della narrazione,

di Paul Krugman

 

Ieri il Presidente Biden ha avuto quello che chiamerei una momento di umanità. Dopo che il corrispondente di Fox News aveva gridato una domanda se l’inflazione sarebbe stata un’inconveniente in termini politici, si è potuto sentire Biden borbottare: “No, è un gran vantaggio. Più inflazione. Che stupido figlio di puttana”. Sul serio, si può biasimarlo?

Ma perché l’inflazione si dimostra essere in tal misura un inconveniente politico? L’idea che gli americani siano nelle basse in economia perché i prezzi salgono, nel senso comune, ha distaccato la crescita dei salari che si è rafforzata. E ovviamente c’è una ragione in questo. Ma la reazione politica è sproporzionata rispetto all’effettivo declino dei salari reali, e direi che i giornalisti si stanno perdendo una grande parte del racconto se non riescono a capirlo.

Parliamo dunque del lungo periodo dei salari e dei prezzi.

Ecco il tasso annuale di variazione dei salari reali – il tasso di crescita salariale meno il tasso di inflazione – per i lavoratori della produzione dalla fine degli anni ’70:

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I salari reali nel lungo periodo. Fonte: FRED

Ovviamente ci fu un enorme declino a seguito dello shock del petrolio del 1979. Forse è meno noto il fatto che i salari reali scesero per buona parte dell’epoca reaganiana. In particolare, nell’ottobre del 1984 – al momento della elezione presidenziale – i salari reali erano dell’1,4 per cento più bassi di quello che erano l’anno precedente. Nell’ottobre del 1988, erano scesi dello 0,6 per cento. Tuttavia, i repubblicani vinsero entrambe le elezioni con ampio margine con l’argomento dell’economia.

Che dire della situazione attuale? I dati più comunemente usati sui salari durante la pandemia sono stati anormali, a causa degli effetti composizionali. Ad esempio, le medie salariali si sono impennate nel 2020 non perché i lavoratori abbiano ottenuto grandi aumenti, ma perché i lavoratori con bassi salari erano stati licenziati in un numero sproprorzionato [1]. Dobbiamo dunque osservare le stime che si suppone siano corrette per questi effetti composizionali, come quella del ‘tracciatore’ salariale della Fed di Atlanta:

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I salari sono al culmine. Fonte: Fed di Atlanta

Questo tracciatore mostra una brusca accelerazione dei salari; lo stesso dicasi dell’Indice del Costo dell’Occupazione, sebbene quest’ultimo non sia ancora stato corretto per riflettere i mesi passati.

Eppure, non c’è dubbio che l’inflazione nell’anno passato abbia distaccato i salari. D’altra parte, l’inflazione era bassa nel 2020, come misurata sia dall’Indice dei Prezzi al Consumo che dalla stima preferita dala Fed, il deflatore delle spese personali di consumo:

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Sfortunatamente, anche i prezzi. Fonte: FRED

Dunque, i salari reali l’anno passato sono cresciuti. Su una base biennale essi sono probabilmente scesi, ma non di molto. Nello stesso tempo, abbiamo avuto una crescita stellare dei posti di lavoro – e, come ho detto, la combinazione di un modesto declino dei salari reali e di un forte mercato del lavoro in effetti era stata una carta vincente per i Presidenti del passato.

Questa volta, tuttavia, l’umore dei consumatori è estremamente negativo – quasi altrettanto negativo di come era stato negli ultimi anni ’70, quando i salari reali stavano davvero crollando e la disoccupazione era in rapida crescita:

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Secondo i consumatori il quadro è terribile. Fonte: FRED

Cosa sta succedendo? Certamente è il potere della narrazione. Come molti di noi hanno notato, gli americani sono molto pessimisti sull’economia nazionale, ma relativamente positivi sulla loro personale situazione finanziaria:

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… ma solo per gli altri. Fonte: Langer Research Associates [2]

In altri termini, la loro esperienza personale è abbastanza buona, ma hanno sentito dire che le cose sono terribili per gli altri.

In gran parte è spirito di parte. I democratici e i repubblicani di solito avevano giudizi simili sull’economia, chiunque fosse Presidente. Adesso i repubblicani stimano l‘economia peggiore di come era nel giugno del 1980, quando l’inflazione era al 14 per cento e i salari reali stavano calando del 6 per cento all’anno.

In parte ciò deve riguardare il modo in cui i media informano sull’economia. Conosco giornalisti che odiano sentirne parlare, ma se il modo in cui raccontiamo gli eventi non influenza le percezioni pubbliche, qual è lo scopo di quello che stiamo facendo? E in qualche modo l’inflazione di Biden, non il boom di posti di lavoro di Biden, ha finito col dominare nei resoconti giornalistici.

Non sto sostenendo che l’inflazione non sia un problema, né mi sto comportando come Phil Gramm [3] e chiamando l’America una “nazione di piagnoni”. Sto dicendo che una reazione dell’opinione pubblica considerevolmente negativa a quella che secondo gli standard storici sarebbe nel peggiore dei casi stata considerata una notizia ‘ a metà strada’, è di per sé una storia importante e merita sia una qualche informazione che, forse, una auto riflessione da parte di coloro che forniscono i resoconti su quel tema.

 

 

 

 

 

[1] Ovvero, i lavoratori licenziati del settore dei servizi, in buona parte chiusi per i lockdown dovuti al Covid-19.

[2] La tabella è in effetti interessante soprattutto nell’ultimo segmento, quello successivo alla rilevazione del 16 gennaio 2022. Come si vede, la variazione sulle tre domande poste è la seguente: in netto calo gli ottimisti alla domanda (in blu) sull’economia nazionale, altrettanto in calo gli ottimisti alla domanda sul cambiamento climatico (linea gialla), invece resta elevato l’ottimismo sulle condizioni finanziarie personali (linea rossa).

[3] Un politico ed economista americano, membro della Camera dei Rappresentanti ed eletto nel Texas. Agli inizi della sua carriera politica era un democratico ma in seguito passò al Partito Repubblicano e come repubblicano venne nuovamente eletto alla Camera.

 

 

 

Tesoro, mi si è ristretta la capacità produttiva, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 21 gennaio 2022)

gennaio 28, 2022

 

Jan. 21, 2022

Honey, I Shrank the Economy’s Capacity

By Paul Krugman

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Back in 2010 a group of conservative academics, economists and money managers signed an open letter warning that the efforts of the Federal Reserve to support the economy would be dangerously inflationary. But the inflation never came. So four years later Bloomberg reached out to as many of the signatories as they could, to ask what happened.

Not one was willing to admit having been wrong.

I don’t want to be like those guys. So I’m currently spending a fair bit of time trying to understand why my relaxed view of inflation early last year has been refuted by events. What I want to do today is share where I am now on that topic, and what my current take says about future policy.

Last spring the debate was focused on the American Rescue Plan, the Biden administration’s large spending package. A number of economists, including Larry Summers, Olivier Blanchard, and Jason Furman, warned that this package would overstimulate the economy — that output and employment would soar to levels that would create a lot of inflationary pressure.

Those of us on the other side argued that the risks of excess spending were much less than they warned — that large parts of the Biden package, like aid to state and local governments, would end up being disbursed gradually over time and therefore not have that much of an inflationary impact. To use the jargon, I argued that the A.R.P. would have a low “multiplier.”

So here’s the funny thing: The multiplier does indeed seem to have been low. The economy has expanded fast, but it started in a deep hole, and at this point is still if anything a bit below its prepandemic trend.

Here, for example, is real gross domestic product:

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Still not back to trend.Credit…FRED, author’s estimate

The Congressional Budget Office regularly publishes projections of “potential” G.D.P. — the level of output consistent with stable inflation. So far the official numbers through the third quarter of 2021, extended by private estimates of growth in the fourth quarter, still put us slightly below what we thought the economy’s potential was going to be.

Here’s another number, the employment rate of prime-age adults, which has generally been a good indicator of the state of the labor market (probably better than the unemployment rate):

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Where have all the workers gone?Credit…FRED

We’ve seen a strong recovery in employment, but we’re still significantly below prepandemic levels.

The point is that if you had told me a year ago that this is what current output and employment numbers would be, I wouldn’t have predicted soaring inflation. To put it another way, my expectations of a relatively muted effect of government outlays on demand were more or less vindicated. But of course my expectations of moderate inflation weren’t. So what happened?

Part of the answer lies in supply-chain issues. Overall demand hasn’t grown all that fast, but fear of face-to-face interactions has skewed demand away from services toward goods, overstraining shipping and in some cases manufacturing capacity. These issues account for a lot of recent inflation, but in a way they don’t worry me too much: The private sector has huge incentives to get stuff moving, so sooner or later supply-chain issues will fade away.

However, it’s not just the supply chain; it’s obvious that we’re now experiencing widespread labor shortages even though employment is still below its prepandemic trend.

I mentioned that the employed percentage of prime age adults has generally been a good indicator of the state of the labor market. Another good indicator is the rate at which workers are quitting their jobs: Quits are high when people believe that new jobs are easy to find. Normally these two measures move in tandem; but something has changed.

Here’s a scatter plot of the prime-age employment rate against the quit rate since 2001; the blue dots represent the prepandemic era, the red dots the era since early 2020:

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A nation of quitters? …Credit…FRED

You can see the close relationship between the two measures before 2020. Since then, however, the relationship seems to have shifted, so that a labor market that seems only OK judging by the employment rate looks extremely tight judging by the number of people who are quitting. And wages are rising rapidly, which suggests that quits are telling the real story.

What we’re seeing, of course, is the Great Resignation — which is also, to an important extent, a Great Retirement. A recent blog post from the International Monetary Fund shows that there has been a surge in the number of older Americans (and Britons) choosing not to be in the labor force. (Memo to the IMF: That’s a rather unfortunate acronym you’ve chosen there.)

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… I, however, am still at it.Credit…International Monetary Fund

Now, a labor market in which jobs are easy to find and workers can bargain for higher wages is a good thing. But the fact that labor markets are so tight even though employment and real G.D.P. are below prepandemic projections suggests that we can’t rely on those projections to assess the economy’s productive capacity. For whatever reason or reasons — presumably reasons linked to Covid — the U.S. economy apparently can’t sustainably produce as much as we expected.

 

Tesoro, mi si è ristretta la capacità produttiva, [1]

di Paul Krugman

 

Nel passato 2010 un gruppo di accademici conservatori, di economisti e di operatori finanziari sottoscrisse una lettera aperta che metteva in guardia che gli sforzi della Federal Reserve per sostenere l’economia sarebbero stati pericolosamente inflazionistici. Ma non ci fu traccia di inflazione. Così, quattro anni dopo, Bloomberg raggiunse quanti sottoscrittori riuscì a contattare per chiedere cosa fosse avvenuto.

Nessuno fu disponibile ad ammettere di aver avuto torto.

Io non vorrei finire come quegli individui. Dunque, attualmente sto spendendo un bel po’ di tempo cercando di capire perché il mio rilassato punto di vista sull’inflazione agli inizi dell’anno passato sia stato smentito dagli eventi. Quello che voglio fare oggi è condividere il punto in cui sono adesso su quel tema e cosa dice sulla politica del futuro la mia attuale posizione.

La scorsa primavera il dibattito era concentrato sul Programma Americano di Salvataggio, l’ampio pacchetto di spesa della Amministrazione Biden. Un certo numero di economisti, compresi Larry Summers, Olivier Blanchard e Jason Furman, mettevano in guardia che questo pacchetto avrebbe stimolato in eccesso l’economia – che la produzione e l’occupazione sarebbero schizzate a livelli che avrebbero prodotto molta spinta inflazionistica.

Quelli di noi che erano nell’altro schieramento sostenevano che la spesa in eccesso era molto minore di quanto veniva ammonito – che larga parte del pacchetto di Biden, come gli aiuti agli Stati ed ai governi locali, sarebbe finita con l’essere spesa gradualmente nel tempo e di conseguenza non avrebbe avrebbe avuto un tale impatto inflazionistico. Per dirla in gergo, io sostenevo che il programma avrebbe avuto un “moltiplicatore” basso.

Ebbene, ecco la cosa curiosa: il moltiplicatore sembra in effetti essere stato basso. L’economia si è espansa rapidamente, ma partiva da un buco profondo e a questo punto è semmai ancora un po’ al di sotto del suo livello prepandemico.

Ecco, ad esempio, il prodotto interno lordo reale:

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Ancora non siamo tornati alla tendenza. Fonte: FRED e stime dell’autore

L’Ufficio Congressuale del Bilancio pubblica regolarmente proiezioni del PIL “potenziale” – ovvero il livello di produzione coerente con una inflazione stabile. Sinora i dati ufficiali sino al terzo trimestre del 2021, ampliati da stime private di crescita nel quarto trimestre, ancora ci collocano leggermente al di sotto di quanto pensavamo il potenziale dell’economia fosse destinato ad essere.

Ecco un altro dato, il tasso di occupazione degli adulti nella principale età lavorativa [2], che in generale è stato un buon indicatore della condizione del mercato del lavoro (probabilmente migliore del tasso di disoccupazione):

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Dove sono andati tutti i lavoratori? Fonte_ FRED

Abbiamo visto una forte ripresa nell’occupazione, ma siamo ancora significativamente al di sotto dei livelli prepandemici.

Il punto è che se un anno fa mi aveste detto che questi sarebbero stati i dati attuali della produzione e dell’occupazione, io non avrei previsto alcuna inflazione in forte crescita. Per dirla diversamente, le mie aspettative su un effetto relativamente attenuato delle spese pubbliche sulla domanda erano più o meno confermate. Ma naturalmente non lo sono state le mie aspettative di moderata inflazione. Dunque, cosa è avvenuto?

In parte la risposta consiste nei temi delle catene dell’offerta. La domanda complessiva non è cresciuta tutta così velocemente, ma il timore delle relazioni dirette (tra le persone nella pandemia) ha spostato la domanda dai servizi ai prodotti, gravando in eccesso sulle spedizioni navali e in alcuni casi sulla capacità manifatturiera. Questi aspetti pesano per una buona parte dell’inflazione recente, ma in un modo che non mi preoccupa molto: il settore privato ha incentivi molto grandi per far muovere gli oggetti, dunque presto o tardi i problemi delle catene dell’offerta svaniranno.

Tuttavia, non si tratta solo delle catene dell’offerta; è evidente che adesso stiamo conoscendo scarsità generalizzate di lavoro anche se l’occupazione è ancora al di sotto della sua tendenza prepandemica.

Ho detto prima che la percentuale degli occupati tra gli adulti della principale età lavorativa è stata generalmente un buon indicatore delle condizioni del mercato del lavoro. Un altro buon indicatore è il tasso al quale i lavoratori lasciano il loro posto di lavoro: gli abbandoni sono elevati quando le persone credono che sia facile trovare nuovi posti di lavoro. Normalmente queste due misure si muovono in tandem; ma qualcosa è cambiato.

Ecco un ‘grafico a dispersione’  del tasso di occupazione nella principale età lavorativa in rapporto al tasso di abbandoni dal 2001; i punti blu si riferiscono all’epoca prepandemica, quelli rossi all’epoca a partire dal 2020:

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Una nazione di lavoratori che lasciano il posto di lavoro? Fonte: FRED [3] 

Potete notare la stretta relazione tra le due misurazioni prima del 2020. Da allora, tuttavia, la relazione sembra essersi spostata, cosicché un mercato del lavoro che sembra sostanzialmente positivo a giudicare dal tasso di occupazione appare estremamente rigido a giudicare dal numero delle persone che stanno lasciando. E i salari stanno crescendo rapidamente, il che indica che gli abbandoni stanno raccontando la storia reale [4].

Come si sa, quello che stiamo osservando è la cosiddetta Grande Dismissione che, in misura importante, è un grande ricorso al pensionamento. Un recente post sul blog del Fondo Monetario Internazionale misura che c’è stato un picco degli americani (e degli inglesi) più anziani che scelgono di non restare nella forza lavoro (promemoria per il FMI: avete scelto un acronimo un po’ infelice in questo caso [5]).    

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… io, tuttavia, sono ancora al lavoro. Fonte: Fondo Monetario Internazionale [6]

Ora, un mercato del lavoro nel quale i posti di lavoro sono facili da trovare e i lavoratori possono contrattare salari più alti è una buona cosa. Ma il fatto che i mercati del lavoro siano così rigidi anche se l’occupazione e il PIL reale sono ancora al di sotto delle previsioni indica che non possiamo basarci su quelle previsioni per stimare la capacità produttiva dell’economia. Per qualche ragione o per più ragioni – presumibilmente ragioni collegate al Covid – l’economia statunitense in apparenza non può sostenibilmente produrre quanto ci aspettavamo.

 

 

 

 

[1] Titolo un po’ stravagante, desunto dal famoso film “Tesoro, mi si è ristretto il bambino!”.

[2] Per tasso di occupazione degli adulti nella principale età lavorativa si intende riferirsi alla popolazione tra i 25 ed i 64 anni (ma talora, mi pare, si parte da una età più giovane).

[3] Provo a capire. Un ‘grafico a dispersione’ è un grafico il cui effetto si basa sulla collocazione di un numero anche vasto di risultati singoli – ad esempio quelli relativi ai vari rilevamenti annuali o trimestrali. Il diverso raggruppamento (la ‘dispersione’) dei punti in epoche diverse segnala che si è modificato qualcosa nei comportamenti. Grafici del genere possono inoltre riferirsi a più aspetti interrelati. In questo caso l’asse orizzontale mostra il tasso di occupazione e quello verticale il tasso di abbandoni. Ogni pallino indica contemporaneamente un valore relativo alle due scale di misurazione, e quindi indica la relazione tra i due valori.

In questo caso i punti blu di quasi un ventennio – quelli prepandemici –  si collocavano abbastanza omogeneamente concentrati tra il 75 e l’82 per cento di occupati su tutti gli adulti nell’età tra 25 e 64 anni, e ad un tasso di abbandoni tra un livello superiore all’1 ed uno quasi al 2,5 per cento. Nel periodo della pandemia – puntini rossi –  la ‘dispersione’ appare superiore: si va dal 70 al 78 per cento del tasso di occupazione e dall’1,5 al 3 per cento nel tassso di abbandoni. Ovvero: un tasso di occupazione che – comprensibilmente – è inferiore, assieme ad un tasso di abbandoni che è sorprendentemente  maggiore.

[4] La rigidità (letteralmente, ristrettezza) del mercato del lavoro è quella nella quale la domanda di lavoro è almeno altrettanto forte dell’offerta, ovvero quella di un mercato del lavoro nel quale i datori di lavoro sono in competizione nella ricerca di lavoratori. Il che di solito comporta un potere contrattuale dei lavoratori maggiore e salari in crescita. Comporta anche una maggiore disponibilità dei lavoratori a lasciare i posti che occupavano in passato, per una fondata fiducia di trovarne di nuovi e di migliori. In questo senso il fenomeno del “quitting” – dell’abbandonare i posti di lavoro precedenti, è normalmente considerato dagli economisti un indicatore positivo.

[5] Altra ironia nello stile dell’autore: la tabella del Fondo attribuisce alle persone che scelgono di non tornare al lavoro il nomignolo acronimo ‘nilf’, che però nel gergo giovanile americano sta a significare individui con una attività sessuale piuttosto intensa (da UrbanDictionary).

[6] La tabella mostra, negli anni dal 2015 ad oggi, la quota dei lavoratori più anziani – tra i 55 ed i 74 anni – che non sono più tra la forza lavoro. In termini relativi i numeri sembrano bassi, ma si deve considerare che si riferiscono non solo alle persone davvero anziane (74 anni), ma anche a quelle relativamente meno anziane (da 54 anni) e dunque ad una platea piuttosto vasta. La linea celeste riguarda il Regno Unito, quella blu gli Stati Uniti. Gli anni della pandemia segnalano un netto incremento di ritiri-pensionamenti rispetto alle tendenze prepandemiche indicate dalle linee a trattini.

 

 

 

 

Al buio, nelle pieghe di un Indice dei prezzi, di Paul Krugman (da blog di Krugman, 7 gennaio 2022)

gennaio 14, 2022

 

Jan. 7, 2022

Through A Price Index, Darkly

By Paul Krugman

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The economy of 2021 had its good points (high job growth) and its bad points (high inflation). I argued in yesterday’s column that we couldn’t have had the good without the bad, that trying to keep inflation down would have meant sacrificing much of the good employment performance. And how we evaluate last year will depend a lot on what happens next. It will look like a good bargain if, but only if, inflation fades away.

So when will we know enough to make that judgment? Ah, that’s the problem.

Economic developments since the pandemic began have taken place in Covid time — that is, they’ve moved at a pace that makes past ups and downs look as if they were filmed in slow motion. For example, we used to think that monthly data gave us a quick read on the state of the economy; these days, when you see numbers for, say, December, you now have to ask, “Exactly when in December?” because that can matter a lot for your interpretation. Employment numbers, for example, are for “the pay period including the 12th, which may or may not correspond directly to the calendar week.”

And the speed of events creates problems for some of the ways we normally look at economic data — problems that will create a lot of fog around the inflation picture in the months ahead.

First, when people talk about the rate of inflation, they often mean the percentage rise in prices over the past year. There are good reasons for that convention: By looking at annual rates of change, we both smooth out meaningless wiggles and bypass the problem of seasonal variation (official numbers are “seasonally adjusted” in smart ways, but there are always debates among economists about whether the seasonal adjustments are getting it right).

Right now, however, the one-year rate of change is more or less guaranteed to show continuing high inflation for a while even if actual price pressures are quickly fading away. Look, for example, at the price of gasoline:

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A bit less pricey at the pump.Credit…FRED

Prices at the pump rose steeply for much of 2021 but have recently leveled off and even come down a bit. That leveling off, however, isn’t reflected in the one-year rate of change, which is still extremely high and will remain so for months to come:

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But you’d never know that from the one-year number.Credit…FRED

A second problem involves prices of things people tend to pay for under long-term contracts — which for consumers especially means housing. The Bureau of Labor Statistics, which produces the Consumer Price Index, measures housing prices using rents — actual rents on apartments and an estimate of what homeowners would be paying if they were renting their residences. These measures have risen only moderately so far:

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Bringing up the house(s).Credit…FRED

But if you look at the rental numbers from companies like Zumper that match renters with landlords, they show much bigger increases:

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But new rentals have really soared.Credit…Zumper

This doesn’t mean that the B.L.S. is getting it wrong: It’s measuring what people are currently paying on average, while companies like Zumper are reporting rates on new rentals. And since many housing units are on long-term leases, you expect average rents to lag behind a surge in new-rental prices.

But what this tells us is that there’s a lot of measured housing inflation still in the pipeline, inflation that will show up in the official numbers even if new-rental prices level off. Which they seem to be doing:

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Although things may be slowing.Credit…Zumper

The implication of these and other measurement issues is that reported inflation is more or less fated to be high for much of this year, no matter what. In particular, even if true inflation pressures recede, which is what many of us expect and hope, that probably won’t be obvious in news reports.

Looking at the inflation measurement issue, I was reminded of a line from my former teacher Charles Kindleberger about the balance of payments (a subject nobody discusses anymore, but that’s a story for another day): “The existence of a variety of balance-of-payments definitions makes it possible for an observer always to be grave, or optimistic, according to his temperament.” Well, for the next few months inflation will be like that — and I, at least, will try to keep reminding myself not to emphasize only the numbers I like.

 

Al buio, nelle pieghe di un Indice dei prezzi,

di Paul Krugman

 

L’economia del 2021 ha avuto i suoi aspetti positivi (alta crescita dei posti di lavoro) e i suoi aspetti negativi (alta inflazione). Ho sostenuto nell’articolo di ieri che non avremmo potuto avere il buono senza il cattivo, che cercare di tenere bassa l’inflazione avrebbe comportato sacrificare buone parte della buona prestazione dell’occupazione. E che il modo in cui valuteremo l’anno passato dipenderà molto da ciò che accade prossimamente. Sembrerà essere stato un buon affare se, ma solo se, l’inflazione se ne va.

Dunque quando ne sapremo abbastanza per emettere tale giudizio? Ebbene, quello è il problema.

Gli sviluppi economici dal momento che è iniziata la pandemia hanno avuto luogo nell’epoca del Covid – ovvero si sono mossi con un ritmo che ha fatto sembrare i passati alti e bassi come se fossero filmati al rallentatore. Ad esempio, eravamo soliti pensare che i dati mensili ci fornivano una lettura rapida dello stato dell’economia; di questi tempi quando si osservano i dati, diciamo, di dicembre, ci si deve chiedere: “Esattamente quando a dicembre?”, perché ciò può essere molto importante per la nostra interpretazione. I dati sull’occupazione, ad esempio, riguardano “il periodo di pagamenti che comprende il dodicesimo mese, il che può o non può corrispondere direttamente alla settimana del calendario”.

E la velocità degli eventi crea problemi ad alcuni dei modi nei quali normalmente si osservano i dati economici – problemi che creeranno molta incertezza sul quadro dell’inflazione nei prossimi mesi.

Anzitutto, quando le persone parlano del tasso di inflazione, spesso intendono la crescita percentuale dei prezzi nel corso dell’anno passato. Ci sono buoni motivi per quella convenzione: osservando i tassi delle variazioni annuali, possiamo sia spalmare le oscillazione insignificanti che aggirare il problema delle variazioni stagionali (i dati ufficiali sono “corretti per la loro stagionalità” in modi intelligenti, ma ci sono sempre discussioni tra gli economisti sul fatto che le correzioni stagionali li esprimano in modo giusto).

In questo momento, tuttavia, il tasso di un anno del cambiamento è più o meno sicuro che mostri una prosecuzione per un po’ dell’alta inflazione, anche se la effettiva spinta dei prezzi sta recedendo. Si osservi, ad esempio, il prezzo della benzina:

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Un po’ meno costosa al distributore. Fonte: FRED

I prezzi al distributore sono cresciuti rapidamente per buona patte del 2021, ma di recente si sono livellati e sono persino scesi un po’. Quel livellamento, tuttavia, non si riflette del tasso di cambiamento su base annuale, che è ancora estremamente elevato e resterà tale nei mesi avvenire:

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Ma non lo capireste mai dal dato su base annuale. Fonte: FRED [1]

Un secondo problema riguarda gli oggetti che le persone tendono ad acquistare con contratti a lungo termine – che per i consumatori significa particolarmente le abitazioni. L’Ufficio delle Statistiche del Lavoro (BLS), che elabora l’Indice dei Prezzi al Consumo, misura i prezzi delle abitazioni usando gli affitti – gli affitti effettivi sugli appartamenti e una stima di quello che i possessori di abitazioni pagherebbero se stessero affittando le loro residenze. Sinora questi dati sono cresciuti solo moderatamente:

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La crescita degli alloggi. Fonte: FRED

Ma se osservate i dati delle locazioni da parte delle società come Zumper che mettono assieme gli affittuari ed i proprietari, essi mostrano incrementi molto maggiori:

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Ma i nuovi affitti sono davvero saliti. Fonte: Zumper

Questo non significa che il BLS stia sbagliando: sta misurando quello che le persone stanno effettivamente pagando in media, mentre le società come Zumper stanno riportando i tassi sui nuovi affitti. E dal momento che molte unità abitative sono in locazione a lungo termine, vi aspettate che gli affitti medi crescano in ritardo rispetto alla crescita dei prezzi dei nuovi affitti.

Ma quello che questo ci dice è che c’è ancora molta inflazione in fase di sviluppo che riguarda gli alloggi misurati, inflazione che si mostrerà nei dati ufficiali persino se i prezzi delle nuove locazioni si livellassero. Che sembra è quanto stiano facendo:

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Sebbene la situazione sembra stia rallentando. Fonte: Zumper  [2]

L’implicazione di queste e di altre tematiche di misurazione è che l’inflazione riferita è più o meno destinata ad essere elevata per buona parte di quest’anno, a prescindere dal resto. In particolare, persino se le spinte effettive all’inflazione calassero, che è quello che molti di noi si aspettano e sperano, quello probabilmente non risulterà evidente nei resoconti sulle notizie.

Osservando il tema della misurazione dell’inflazione, mi sono ricordato di una frase del mio passato insegnante Charles Kindleberger sulla bilancia dei pagamenti (che è un tema che nessuno discute più, ma questo racconto lo rinvio ad un altro giorno): “L’esistenza di una varietà di definizioni della bilancia dei pagamenti rende sempre possibile per un osservatore essere funereo, oppure ottimista, a seconda del suo temperamento”. Ebbene, nei prossimi mesi l’inflazione sarà una cosa del genere – e almeno io cercherò di continuare a tenere a mente di non enfatizzare soltanto i dati che mi piacciono.

 

 

 

 

 

[1] La differenze tra le due tabelle è che, se capisco bene, la prima mostra l’andamento del prezzo in valori assoluti, fissando il gennaio del 2020 al valore 100. La seconda mostra invece, per ogni periodo, la variazione percentuale rispetto all’anno precedente. Nel secondo caso, dunque, quello che conta non è solo la variazione effettiva, ma la variazione rispetto ai diversi valori dell’anno passato.

[2] La Tabella mostra – secondo i dati della società Zumper, che è una società americana che aiuta milioni di persone che cercano negli Usa e in Canada case e stanze in affitto – i dati relativi agli andamenti mese per mese dei prezzi degli affitti nel 2019 (linea celeste), nel 2020 (linea nera) e nel 2021 (linea grigia).

 

 

 

Non ditelo a nessuno, ma il 2021 è stato piuttosto sorprendente, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 4 gennaio 2022)

gennaio 7, 2022

 

Jan. 4, 2022

Don’t Tell Anyone, but 2021 Was Pretty Amazing

By Paul Krugman

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Grumpy New Year! There probably weren’t many Americans who started 2022 feeling celebratory. We’re going through yet another Covid wave, which is scary and wearying even though Omicron appears to pose a relatively low risk of serious illness if you’re fully vaccinated. Holiday travel was a mess, with the combination of the pandemic and severe weather causing thousands of flight cancellations.

Yet there’s a good chance that once time has passed and we’ve had a chance to regain perspective, we’ll consider 2021 to have been a very good year, at least in some ways. In particular, although nobody seemed to notice, it was a year of spectacular economic recovery — and one in which many dire warnings failed to come true.

Let me give you some background. Here’s the U.S. unemployment rate since 1979, the beginning of a nasty double-dip recession that was, at the time, the worst slump to hit America since the 1930s:

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That didn’t last long.Credit…FRED

The good news about that episode was that when the slump finally ended, the economy bounced back quickly — so quickly that Ronald Reagan was able to boast about “morning in America” and ride the recovery to a landslide electoral victory.

After that, however, we seemed to lose our knack for economic recovery. The next three recessions — 1990-91, 2001 and 2007-9 — were followed by sluggish recoveries in which unemployment took years to come down.

Then came Covid. The economics of 2020 were, to use the technical term, weird: The economy went into lockdown, experiencing a huge but temporary spike in unemployment. But what would 2021 look like? Many people expected at least a partial replay of the sluggish recovery that followed the 2008 financial crisis; in late 2020, forecasters surveyed by the Philadelphia Fed expected a 5.8 percent unemployment rate at the end of 2021. In fact, unemployment was already down to 4.2 percent by November.

Here’s a comparison you may find illuminating: the cumulative decline in the unemployment rate starting in December 1982 — the beginning of Reagan’s boom — compared with the decline over the course of 2021:

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Morning in America, the sequel.Credit…Bureau of Labor Statistics

Yes, by this measure (and many others) we’re in the middle of another morning in America, despite the drag caused by a lingering pandemic and supply-chain disruptions.

So, about those disruptions: Can we talk for a moment about the Grinch that didn’t steal Christmas? There was a lot of skepticism a couple of months back, when major retailers said that despite supply issues, they expected to be able to meet consumer demand. But I’ve seen almost no reports of empty shelves and frustrated shoppers. And in this case absence of evidence really is evidence of absence, because you know that some media organizations would have loved to hype stories of holiday woe if they could find them. But because Fox News and Newsmax recently got busted using photos of empty shelves taken in other years and other countries to bash Joe Biden, they appear to have been cautious about reporting a miserable Christmas experience unless they could find actual examples — and apparently they couldn’t.

So why are people still so downbeat? There continues to be a huge divergence between people’s negative views about “the economy” — a perception based in part on partisan attitudes, in part on media coverage — and their mostly favorable reporting on their own financial situation:

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I’m doing fine, but the economy is lousy.Credit…Langer Research Associates

Still, inflation is a real problem, and what happens to inflation over the course of 2022 will have a big retrospective effect on how we regard the economy of 2021.

I still expect (hope?) to see inflation gradually subside as we work through the remaining kinks in the supply chain. Measures like the cost of container shipping are still elevated but off their peaks; surveys of purchasing managers suggest that delivery times are still bad but improving. If inflation does come down, 2021 will look in the rearview mirror like an unambiguous success story, a tale of an economy that powered through temporary bottlenecks and rapidly returned to full employment.

Obviously that’s not the only possible outcome — and for a variety of reasons, which I’ll probably talk about in the next newsletter, it will be quite a few months before we’ll have a clear picture on the inflation front.

But one thing is clear: 2021 was a banner year for economic recovery. And people should know that.

 

Non ditelo a nessuno, ma il 2021 è stato piuttosto sorprendente,

di Paul Krugman

 

Capodanno scontroso! Probabilmente non ci sono stati molti americani che hanno cominciato il 2022 sentendosi in vena di far festa. Stiamo passando attraverso un’altra ondata di Covid, che è allarmante ed estenuante anche se Omicron pare comporti un rischio relativamente basso di grave malattia se si è pienamente vaccinati. Viaggiare durante le festività è stato un disastro, con gli effetti congiunti della pandemia e del maltempo che hanno provocato migliaia di cancellazioni di voli.

Tuttavia c’è una discreta possibilità che una volta passato questo periodo e riacquistata una possibilità di vedere le cose in prospettiva, considereremo il 2021 un buon anno, almeno da alcuni punti di vista. In particolare, sebbene nessuno sia sembrato accorgersene, è stato un anno di spettacolare ripresa economica – nel quale molti terribili ammonimenti non si sono avverati.

Permettetemi di fornire un qualche contesto. Ecco il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti a partire dal 1979, l’inizio di una pessima recessione a due cifre che fu, a quel tempo, il peggiore declino che colpiva l’America dagli anni ’30:

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Quella non durò a lungo. Fonte: FRED [1]

La buona notizia in quell’episodio fu che quando quella recessione finalmente terminò, l’economia ebbe un rapido rimbalzo – così rapido che Reagan fu nelle condizioni di vantarsene con lo slogan “è di nuovo giorno in America” e di cavalcare la ripresa verso una schiacciante vittoria elettorale.

Dopo ciò, tuttavia, sembrammo perdere la nostra buona disposizione alla ripresa ecoomica. Le tre successive recessioni – 1990-91, 2001 e 2007-9 – furono segote da riprese fiacche nella quali occorsero anni perché la disoccupazione scendesse.

Poi è venuto il Covid. L’economia del 2020 è stata, per usare un termine [non proprio] tecnico, strana: l’economia è andata in lockdown, conoscendo un picco ampio ma temporaneo di disoccupazione. Ma  a cosa è somigliato il 2021? Molte persone si aspettavano una parziale riedizione della fiacca ripresa che era seguita alla crisi finanziaria del 2008; verso la fine del 2020, gli analisti economici sottoposti ad un sondaggio dalla Fed di Filadelfia si aspettavano un tasso di disoccupazione del 5,8 per cento per la fine del 2021. Di fatto, la disoccupazione era già scesa al 4,2 per cento a novembre.

Ecco un confronto che potreste trovare illuminante: il declino cumulativo nel tasso di disoccupazione a partire dal dicembre 1982 – l’inizio del boom di Reagan – paragonato con il declino nel corso del 2021:

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Il seguito del periodo del “E’ di nuovo giorno in America”. Fonte: Ufficio delle statistiche del lavoro [2]

Propro così, secondo questo metro di misura (e molti altri) noi siamo nel mezzo di un altro periodo come quello del periodo “E’ di nuovo giorno in Amerca”, nonostante la resistenza provocata da una pandemia persistente e dai blocchi nelle catene dell’offerta.

Lo stesso vale per quei blocchi: possiamo parlare un attimo del Guastafeste che non si è portato via il Natale? Un paio di mesi orsono c’era molto scetticismo, quando importanti venditori al dettaglio dicevano che nonostante i problemi dell’offerta, si aspettavano di poter soddisfare la domanda dei consumatori. Ma non abbiamo letto quasi nessun resoconto di scaffali vuoti o di acquirenti frustrati. E in questo caso l’assenza di prove è davvero la prova di una assenza, perché si sa che alcune agenzie dei media sarebbero andate a nozze nel promuovere racconti di sofferenze festive, se li avessero trovati. Ma poiché Fox News e Newsmax recentemente si sono bruciate usando foto di scaffali vuoti presi in altri anni e in altri paesi per attaccare Joe Biden, sembra siano diventati cauti nel fornire resoconti di un miserabile periodo natalizio, a meno che non potessero trovare esempi effettivi – che a quanto pare non hanno trovato.

Dunque, perché le persone sono così depresse? Continua ad esserci una enorme differenza tra i punti di vista negativi delle persone su “l’economia” – una percezione basata in parte su tendenze alla faziosità, in parte sui resoconti dei media – e il loro per la maggior parte giudizio favorevole sulla personale condizione finanziaria:

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A me sta andando bene, ma l’economia fa schifo. Fonte: Langer Research Associates [3]

Ripetiamolo, l’inflazione è un problema reale e quello che accadrà all’inflazione nel 2022 avrà un grande effetto retrospettivo su come valutiamo l’economia del 2021.

Io mi aspetto ancora (spero?) di vadere l’inflazione gradualmente recedere nel mentre lavoriamo sulle rimanenti bizzarrie delle catene dell’offerta. Misure come il costo delle spedizioni navali sono ancora elevate ma lontane dai loro picchi; i sondaggi tra i gestori dei settori degli acquisti indicano che i tempi delle consegne sono ancora cattivi ma stanno migliorando. Se l’inflazione scende, il 2021 apparirà nello specchietto retrovisore come una chiara storia di successo, un racconto di un’economia che ha acquistato energia ttraverso temporanee strozzature ed è rapidamente tornata alla piena occupazione.

Ovviamente, non è questo l’unico risultato possibile – e per varie ragioni, delle quali probabilmente parlerò nella prossima lettera, ci vorranno alcuni mesi prima di avere un quadro chiaro sul fronte dell’inflazione.

Ma una cosa è chiara: il 2021 è stato un anno eccellente per la ripresa economica. E le persone dovrebbero saperlo.

 

 

 

 

 

[1] Il tasso di disoccupazione in circa quaranta anni, come si vede, ha avuto alcuni picchi conseguenti alle recessioni – segmenti in grigio – dal 7,5 sino a sopra il 10 per cento. Il picco straordinario del 2020 è dipendente ovviamente dalla pandemia. Dopo i picchi, il tasso di disoccupazione torna assai lentamente  a percentuali ‘normali’, tra il 3 ed il 5 per cento.

[2] La tabella indica il cambiamento nei vari mesi dei due periodi – nel 1983 e nel 2021 – nella disoccupazione. Colloca ad un livello eguale la disoccupazione a gennaio e ne segue l‘andamento mese per mese. Ovvero non mostra  tassi di disoccupazione, ma i cambiamenti rispetto al comune punto di partenza.

[3] Il diagramma indica le ‘percezioni’ degli intervistati – in un periodo che va dal 2010 agli inizi del 2022 – su tre temi: la condizione finanziaria personale (linea arancione), l’economia nazionale (linea blu) e il cambiamento climatico (linea rossa). Ovvero, gli intervistati sembrano ottimisti sulle proprie condizioni personali (oltre il 63,1%) e molto meno ottimisti sull’andamento dell’economia (41,4%). Comprensibilmente sono poco ottimisti – sebbene, in fondo, ancora troppo –  per il cambiamento climatico (39,3%).

 

 

 

A cosa somiglierebbe un atterraggio di emergenza? Di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 17 dicembre 2021)

gennaio 2, 2022

 

Dec. 17, 2021

What Would a Hard Landing Look Like?

By Paul Krugman

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On Wednesday the Federal Reserve announced that it plans to make monetary policy a bit less easy out of concerns over inflation. Some of the media coverage made it seem like a road-to-Damascus moment, a sudden repudiation of everything Jerome Powell and associates have been saying. But if you read the Fed’s statement carefully, not so much: The Fed is still of the view that a lot of recent inflation is tr-tr-transit- … OK, we can’t use the T-word anymore, so maybe say that it’s fugacious?

The actual announcement says, “Supply and demand imbalances related to the pandemic and the reopening of the economy have continued to contribute to elevated levels of inflation.” Sounds fugacious to me. And the Fed’s projections still include a combination of falling inflation with falling unemployment.

There are good reasons for that optimistic assessment. But the Fed has been wrong about inflation so far. What if it’s wrong again?

Let’s revisit some history. Although we talk a lot about inflation in the 1970s, the real pain came in the 1980s, as Paul Volcker’s Fed tried to bring inflation down. It succeeded, but at an enormous price. Here’s the Fed’s preferred measure of underlying “core” inflation versus the unemployment rate:

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Disinflation was ugly.Credit…FRED

Getting core inflation down to around 4 percent from around 10 percent involved a huge surge in unemployment that took a long time to reverse: Despite “morning in America,” the unemployment rate didn’t get back to its pre-Volcker level until toward the end of the Reagan administration.

It’s not totally clear whether this huge wave of unemployment was necessary. Influential research using state-level data argues that the main factor in the Volcker disinflation was a big change in public expectations that could conceivably have happened without such a severe recession. But for now the working hypothesis for most economists is still that it took a nasty, sustained slump to end the inflation of the 1970s.

Are we looking at something similar in our future?

Probably not, for several reasons.

For one thing, despite high headline numbers lately, underlying inflation by the end of 2022 isn’t likely to be anywhere near 1980 levels. Standard measures are currently unreliable because of pandemic weirdness — who knew used cars could loom so large in the statistics? But possibly more robust measures like the Atlanta Fed’s “sticky price” inflation or the Dallas Fed’s “trimmed mean” suggest that a Powell disinflation, if it has to happen, would start from 3 percent or 4 percent, not Volcker’s 10 percent. In fact, the starting point for such a squeeze would be roughly the end point of Volcker’s squeeze, which raises the question of why we should even bother.

Back to that in a minute.

Even if we assume that we will have to get inflation down to 2 percent from, say, 3 or 4 percent, that’s only a third or a quarter of the 1980s adjustment. And there are reasons to believe that the cost would be even smaller than that comparison implies.

A number of economists have suggested that the current inflation looks more like 1946-48 than like the 1970s. Comparing the two episodes is tricky, in part because we don’t have standard measures of core inflation going back that far, and overall inflation was unstable as families still spent a third of their income on food. But one rough-and-ready way to get something like core inflation for the 1940s is to look at service prices, which were much less volatile than goods prices. Here’s what the disinflation looked like:

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Getting over the postwar inflation surge.Credit…Bureau of Economic Analysis

It looks like a 5- or 6-point decline in underlying inflation, roughly comparable with what happened in the 1980s. But the cost of elevated unemployment was much lower. Here’s the rise in unemployment over time from its initial level in the recessions that ended both inflations:

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It was easier the first time.Credit…Bureau of Labor Statistics

Comparable peaks, but much shorter duration in the 1940s. If we count the “point-years” of excess unemployment — one year of one percentage point elevated unemployment counts as a point-year — the Volcker disinflation cost 14 such point-years, the ’40s disinflation only a third as much.

Why the difference? By 1980 America had experienced many years of high inflation, so it was hard to persuade people that the inflation era was over. That wasn’t true in the 1940s, when some prominent businessmen were still betting on the return of the Great Depression.

So where are we now? Elevated inflation has been going on for less than a year, which suggests that it should be relatively easy to get rid of.

That is, to the extent we want to. The Fed’s 2 percent inflation target was set a couple of decades ago, based to a large extent on economic analyses that have turned out to be wrong — particularly the belief that situations in which even zero interest rates weren’t low enough to yield full employment would be vanishingly rare. There’s actually a very good case that we’d be better off on average with 3 percent or more inflation than we would be returning to 2 percent.

So there may be a real dilemma ahead. Suppose that we find ourselves a year from now with 3-ish percent inflation, and it’s clear that the Fed would have to impose at least a mild recession — costing hundreds of thousands if not millions of jobs, at least for a while — to get it back to 2. Would that be a price worth paying?

Right now the Fed is betting that this dilemma won’t arise. Let’s hope it’s right.

 

A cosa somiglierebbe un atterraggio di emergenza?

Di Paul Krugman

 

Mercoledì la Federal Reserve ha annunciato che, a seguito dei timori per l’inflazione, ha in programma di rendere la politica monetaria un po’ meno rilassata. Alcuni resoconti dei media l’hanno fatto sembrare come un passaggio sulla via di Damasco, un improvviso ripudio  di tutto quello che Jerome Powell e soci venivano dicendo. Ma se leggete attentamente la dichiarazione della Fed, non è proprio così: la Fed ha ancora l’opinione che molta della recente inflazione sia tr-tr-transit. … Va bene, non si può più usare la parola che comincia con la lettera T, dunque forse possiamo dire fugace [1]?

L’annuncio effettivo dice: “Gli squilibri dell’offerta e della domanda connessi alla pandemia hanno continuato a contribuire ad elevati livelli di inflazione”. A me sembra ‘fugace’. E le previsioni della Fed comprendono ancora una combinazione di inflazione in calo con una disoccupazione in calo.

Ci sono buone ragioni per quel giudizio ottimistico. Ma sinora la Fed ha avuto torto sull’inflazione. E se avesse torto ancora una volta?

Rivisitiamo un po’ di storia. Sebbene discutiamo molto della inflazione negli anni ’70, la vera sofferenza arrivò negli anni ’80, quando la Fed di Paul Volcker cercò di abbassare l’inflazione. Ci riuscì, ma ad un prezzo enorme. Ecco qua la preferita misurazione della Fed della sottostante inflazione “sostanziale” in rapporto al tasso di disoccupazione:

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La disinflazione fu pessima. Fonte: FRED [2]

Far scendere l’inflazione sostanziale da circa il 10 per cento a circa il 4 per cento comportò una enorme crescita della disoccupazione che ci volle molto tempo per invertire: nonostante lo slogan “E’ di nuovo giorno in America[3], il tasso di disoccupazione non tornò al suo livello precedente a Volcker sino verso la fine della Amministrazione Reagan.

Non è interamente chiaro se quella grande ondata di disoccupazione fosse necessaria. Una autorevole ricerca che utilizza dati ai livelli degli Stati sostiene che il principale fattore nella disinflazione Volcker fu un grande cambiamento nelle aspettative pubbliche, che ragionevolmente poteva avvenire anche senza una tale grave recessione. Ma per adesso l’ipotesi di lavoro della maggioranza degli economisti è ancora che ci volle un grave e prolungato declino per porre fine all’inflazione degli anni ’70.

Dobbiamo aspettarci qualcosa del genere nel nostro futuro?

Probabilmente no, per varie ragioni.

Da una parte, nonostante i dati recentemente elevati della inflazione “complessiva”, quella “sottostante” non è probabile che sia per la fine del 2022 in nessun modo prossima ai livelli del 1980 [4]. Le misurazioni tradizionali sono attualmente non affidabili a causa della singolarità della pandemia – chi sapeva che le automobili usate potessero avere un peso così grande nelle statistiche? Ma misurazioni probabilmente più solide come l’inflazione dei “prezzi vischiosi” della Fed di Atlanta o la “media troncata” della Fed di Dallas indicano che una disinflazione di Powell, se dovesse aver luogo, partirebbe da un 3 o 4 per cento, non dal 10 per cento di Volcker. Di fatto, il punto di partenza di tale stretta sarebbe grosso modo il punto di arrivo della stretta di Volcker, il che solleva la domanda del perché dovremmo persino preoccuparcene.

Torno su questo aspetto tra un istante.

Anche se ipotizziamo di abbassare l’inflazione, ad esempio dal 3 o 4 per cento, al 2 per cento, quello sarebbe solo un terzo o un quarto della correzione degli anni ’80. E ci sono ragioni per credere che il costo sarebbe persino minore di quello che quel confronto comporta.

Un certo numero di economisti ha suggerito che l’inflazione attuale assomigli più a quella del 1946-48 che a quella degli anni ’80. Il confronto tra i due episodi è complicato, in parte perché non abbiamo misure standard dell’inflazione sostanziale che risalgano tanto indietro nel tempo, e l’inflazione complessiva era instabile quando le famiglie spendevano un terzo dei loro redditi per il cibo. Ma un modo rozzo e sbrigativo per ottenere qualcosa di simile all’inflazione sostanziale per gli anni ’40 è osservare i prezzi dei servizi, che erano molto meno volatili dei prezzi dei prodotti. Ecco a cosa quella disinflazione somiglierebbe:

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Come si superò l’inflazione post bellica. Fonte: Ufficio delle Analisi Economiche [5]

Ciò corrisponde a 5 o 6 punti di declino dell’inflazione sostanziale, grosso modo comparabile con quello che accadde negli anni ’80. Ma il costo della accresciuta disoccupazione fu molto più basso. Ecco le crescita della disoccupazione nel periodo a partire dal suo livello iniziale nelle recessioni che interruppero entrambe le inflazioni:

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La prima volta fu più facile. Fonte: Ufficio delle Analisi Economiche [6]

Le punte sono confrontabili, ma la durata fu molto più breve negli anni ’40. Se consideriamo i “punti-anno” della disoccupazione in eccesso – un anno di un punto percentuale di disoccupazione elevata vale come un “punto-anno” – il costo della disinflazione di Volcker fu di 14 punti-anno, quello della disinflazione degli anni ’40 soltanto un terzo.

Perché tale differenza? Con il 1980 l’America aveva conosciuto molti anni di inflazione elevata, dunque era difficile convincere le persone che l’inflazione fosse superata. Ciò non era vero negli anni ’40, quando qualche importante dirigente di impresa ancora scommetteva sul ritorno della Grande Depressione.

Dunque a che punto siamo adesso? L’inflazione elevata sta procedendo da meno di un anno, il che indica che dovrebbe essere relativamente facile liberarsene.

O meglio, nella misura in cui si voglia farlo. L’obbiettivo del 2 per cento di inflazione della Fed venne fissato una ventina d’anni fa, basandosi in larga misura su analisi che si sono dimostrate sbagliate – in particolare la convinzione che sarebbero state sempre più rare le situazioni nelle quali persino tassi di interesse a zero non sarebbero stati abbastanza bassi da generare piena occupazione.  In effetti ci sono ottimi argomenti per i quali staremmo meglio con una media del 3 per cento o più di inflazione che se tornassimo al 2 per cento.

Dunque, andando avanti ci può essere un vero dilemma. Supponiamo di ritrovarci tra un anno con un’inflazione più o meno del 3 per cento, e che sia chiaro che la Fed debba imporre almeno una leggera recessione – dal costo di centinaia di migliaia se non di milioni di posti di lavoro, almeno per un certo periodo – per tornare al 2 per cento. Varrebbe la pena di pagare quel prezzo?

In questo momento la Fed sta scommettendo che questo dilemma non ci sarà. Speriamo che abbia ragione.

 

 

 

 

 

[1] L’ironia, suppongo, è sul fatto che il suffisso “trans” al momento non pare granché corretto.

[2] Il tasso di disoccupazione è rappresentato dalla linea rossa; la linea blu indica l’andamento delle spese per i consumi esclusi i generi alimentari e l’energia – ovvero la “core inflation”.

[3] Un famoso slogan dell’epoca reaganiana, che pare ebbe un certo effetto nella sua seconda elezione.

[4] Per la distinzione tra “inflazione complessiva” e “inflazione sostanziale o sottostante” – “headline inflation” e “core inflation” – si rimanda ancora una volta alle Note sulla Traduzione.

[5] I rettangoli blu indicano i tassi di inflazione delle spese per i consumi personali, quelli arancioni i tassi di inflazione dei servizi.

[6] Il diagramma mostra il racconto delle due disinflazioni, quella blu negli anni ’40 e quella arancione negli anni ’70. Sull’asse verticale l’ “eccesso di disoccupazione” (che forse significa i punti percentuali di disoccupazione in aggiunta ai livelli ordinari o di partenza), sull’asse orizzontale i mesi dall’inizio delle due strette monetarie (in totale un po’ più di sette anni) che occorsero per riportare ad un livello di disoccupazione ragionevole. Come si vede l’andamento negli anni ’40 fu molto più rapido – sebbene con una risalita quasi alla fine del periodo; quello degli anni ’70 fu invece caratterizzato da vari anni di elevata disoccupazione.

 

 

 

Inflazione: l’anno dell’ignominia, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 16 dicembre 2021)

dicembre 22, 2021

 

 

Dec. 16, 2021

The Year of Inflation Infamy

By Paul Krugman

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I will always associate inflation with the taste of Hamburger Helper.

In the summer of 1973 I shared an apartment with several other college students; we didn’t have much money, and the cost of living was soaring. By 1974 the overall inflation rate would hit 12 percent, and some goods had already seen big price increases. Ground beef, in particular, was 49 percent more expensive in August 1973 than it had been two years earlier. So we tried to stretch it.

Beyond the dismay I felt about being unable to afford unadulterated burgers was the anxiety, the sense that things were out of control. Even though the incomes of most people were rising faster than inflation, Americans were unnerved by the way a dollar seemed to buy less with each passing week. That feeling may be one reason many Americans now seem so downbeat about a booming economy.

The inflation surge of the 1970s was the fourth time after World War II that inflation had topped 5 percent at an annual rate. There would be smaller surges in 1991 and 2008, and a surge that fell just short of 5 percent in 2010-11.

Now we’re experiencing another episode, the highest inflation in almost 40 years. The Consumer Price Index in November was 6.8 percent higher than it had been a year earlier. Much of this rise was due to huge price increases in a few sectors: Gasoline prices were up 58 percent, used cars and hotel rooms up 31 percent and 26 percent, respectively, and, yes, meat prices up 16 percent. But some (though not all) analysts believe that inflation is starting to spread more widely through the economy.

The current bout of inflation came on suddenly. Early this year inflation was still low; as recently as March members of the Fed’s Open Market Committee, which sets monetary policy, expected their preferred price measure (which usually runs a bit below the Consumer Price Index) to rise only 2.4 percent this year. Even once the inflation numbers shot up, many economists — myself included — argued that the surge was likely to prove transitory. But at the very least it’s now clear that “transitory” inflation will last longer than most of us on that team expected. And on Wednesday the Fed moved to tighten monetary policy, reducing its bond purchases and indicating that it expects to raise interest rates at least modestly next year.

Inflation is an emotional subject. No other topic I write about generates as much hate mail. And debate over the current inflation is especially fraught because assessments of the economy have become incredibly partisan and we are in general living in a post-truth political environment.

But it’s still important to try to make sense of what is happening. Does it reflect a policy failure, or just the teething problems of an economy recovering from the pandemic slump? How long can we expect inflation to stay high? And what, if anything, should be done about it?

To preview, I believe that what we’re seeing mainly reflects the inherent dislocations from the pandemic, rather than, say, excessive government spending. I also believe that inflation will subside over the course of the next year and that we shouldn’t take any drastic action. But reasonable economists disagree, and they could be right.

To understand this dispute, we need to talk about what has caused inflation in the past.

Inflation stories

Inflation, goes an old line, is caused by “too much money chasing too few goods.” Alas, sometimes it’s more complicated than that. Sometimes inflation is caused by self-perpetuating expectations; sometimes it’s the temporary product of fluctuations in commodity prices. History gives us clear examples of all three possibilities.

The White House Council of Economic Advisers suggested in July that today’s inflation most closely resembles the inflation spike of 1946-1948. This was a classic case of “demand pull” inflation — that is, it really was a case of too much money chasing too few goods. Consumers were flush with cash from wartime savings, and there was a lot of pent-up demand, especially for durable goods like automobiles, after years of wartime rationing. So when rationing ended there was a rush to buy things in an economy still not fully converted back to peacetime production. The result was about two years of very high inflation, peaking at almost 20 percent.

The next inflation surge, during the Korean War, was also driven by a rapid increase in spending. Inflation peaked at more than 9 percent.

For observers of the current scene, the most interesting aspect of these early postwar inflation spikes may be their transitory nature. I don’t mean that they went away in a matter of months; as I said, the 1946-1948 episode went on for about two years. But when spending dropped back to more sustainable levels, inflation quickly followed suit.

That wasn’t the case for the inflation of the 1960s.

True, this inflation started with demand pull: Lyndon Johnson increased federal spending as he pursued both the Vietnam War and the Great Society, but he was unwilling at first to restrain private spending by raising taxes. At the same time, the Federal Reserve kept interest rates low, which kept things like housing construction running hot.

The difference between Vietnam War inflation and Korean War inflation was what happened when policymakers finally acted to rein in overall spending through interest rate increases in 1969. This led to a recession and a sharp rise in unemployment, yet unlike in the 1950s, inflation remained stubbornly high for a long time.

Some economists had in effect predicted that this would happen. In the 1960s many economists believed that policymakers could achieve lower unemployment if they were willing to accept more inflation. In 1968, however, Milton Friedman and Edmund S. Phelps each argued that this was an illusion.

Sustained inflation, both asserted, would get built into the expectations of workers, employers, companies setting prices and so on. And once inflation was embedded in expectations, it would become a self-fulfilling prophecy.

This meant that policymakers would have to accept ever-accelerating inflation if they wanted to keep unemployment low. Furthermore, once inflation had become embedded, any attempt to get inflation back down would require an extended slump — and for a while high inflation would go along with high unemployment, a situation often dubbed “stagflation.”

And stagflation came. Persistent inflation in 1970-71 was only a foretaste. In 1972 a politicized Fed juiced up the economy to help Richard Nixon’s re-election campaign; inflation was already almost 8 percent when the Arab oil embargo sent oil prices soaring. Inflation would remain high for a decade, despite high unemployment.

Stagflation was eventually ended, but at a huge cost. Under the leadership of Paul Volcker, the Fed sharply reduced growth in the money supply, sending interest rates well into double digits and provoking a deep slump that raised the unemployment rate to 10.8 percent. However, by the time America finally emerged from that slump — unemployment didn’t fall below 6 percent until late 1987 — expectations of high inflation had been largely purged from the economy. As some economists put it, expectations of inflation had become “anchored” at a low level.

Despite these anchored expectations, however, there have been several inflationary spikes, most recently in 2010-11. Each of these spikes was largely driven by the prices of goods whose prices are always volatile, especially oil. Each was accompanied by dire warnings that runaway inflation was just around the corner. But such warnings proved, again and again, to be false alarms.

How 2021 happened

So why has inflation surged this year, and will it stay high?

Mainstream economists are currently divided between what are now widely called Team Transitory and Team Persistent. Team Transitory, myself included, has argued that we’re looking at a temporary blip — although longer lasting than we first expected. Others, however, warn that we may face something comparable to the stagflation of the 1970s. And credit where credit is due: So far, warnings about inflation have proved right, while Team Transitory’s predictions that inflation would quickly fade have been wrong.

But this inflation hasn’t followed a simple script. What we’re seeing instead is a strange episode that exhibits some parallels to past events but also includes new elements.

Soon after President Biden was inaugurated, Larry Summers and other prominent economists, notably Olivier Blanchard, the former chief economist of the International Monetary Fund, warned that the American Rescue Plan, the $1.9 trillion bill enacted early in the Biden administration, would increase spending by far more than the amount of slack remaining in the economy and that this unsustainable boom in demand would cause high inflation. Team Transitory argued, instead, that much of the money the government handed out would be saved rather than spent, so that the inflationary consequences would be mild.

Inflation did in fact shoot up, but the odd thing is that overall spending isn’t extraordinarily high; it’s up a lot this year, but only enough to bring us more or less back to the prepandemic trend. So why are prices soaring?

Part of the answer, as I and many others have noted, involves supply chains. The conveyor belt that normally delivers goods to consumers suffers from shortages of port capacity, truck drivers, warehouse space and more, and a shortage of silicon chips is crimping production of many goods, especially cars. A recent report from the influential Bank for International Settlements estimates that price rises caused by bottlenecks in supply have raised U.S. inflation by 2.8 percentage points over the past year.

Now, global supply chains haven’t broken. In fact, they’re delivering more goods than ever before. But they haven’t been able to keep up with extraordinary demand. Total consumer spending hasn’t grown all that fast, but in an economy still shaped by the pandemic, people have shifted their consumption from experiences to stuff — that is, they’ve been spending less on services but much more on goods. The caricature version is that people unable or unwilling to go to the gym bought Pelotons instead, and something like that has in fact happened across the board.

Here’s what the numbers look like. Overall consumption is up 3.5 percent since the pandemic began, roughly in line with normal growth. Consumption of services, however, is still below prepandemic levels, while purchases of durable goods, though down somewhat from their peak, are still running very high.

No wonder the ports are clogged!

Over time, supply-chain problems may largely solve themselves. A receding pandemic in the United States, despite some rise in cases, has already caused a partial reversal of the skew away from services toward goods; this will take pressure off supply chains. And as an old line has it, the cure for high prices is high prices: The private sector has strong incentives to unsnarl supply chains, and in fact is starting to do that.

In particular, large retailers have found ways to get the goods they need, and they say they’re fully stocked for the holiday season. And measures of supply-chain stress such as freight rates have started to improve.

Yet supply-chain problems aren’t the whole story. Even aside from bottlenecks, the economy’s productive capacity has been limited by the Great Resignation, the apparent unwillingness of many Americans idled by the pandemic to return to work. There are still four million fewer Americans working than there were on the eve of the pandemic, but labor markets look very tight, with record numbers of workers quitting their jobs (a sign that they believe new jobs are easy to find) and understaffed employers bidding wages up at the fastest rate in decades. So spending does appear to be exceeding productive capacity, not so much because spending is all that high but because capacity is unexpectedly low.

Inflation caused by supply-chain disruptions will probably fall within a few months, but it’s not at all clear whether Americans who have dropped out of the labor force will return. And even if inflation does come down, it might stay uncomfortably high for a while. Remember, the first postwar bout of inflation, which in hindsight looks obviously transitory, lasted for two years.

So how should policy respond?

To squeeze or not to squeeze, that is the question

I’m a card-carrying member of Team Transitory. But I would reconsider my allegiance if I saw evidence that expectations of future inflation are starting to drive prices — that is, if there were widespread stories of producers raising prices, even though costs and demand for their products aren’t exceptionally high, because they expect rising costs or rising prices on the part of competitors over the next year or two. That’s what kept inflation high even through recessions in the 1970s.

So far I don’t see signs that this is happening — although the truth is that we don’t have good ways to track the relevant expectations. I’ve been looking at stories in the business press and surveys like the Fed’s Beige Book, which asks many businesses about economic conditions; I haven’t (yet?) seen reports of expectations-driven inflation. Bond markets are essentially predicting a temporary burst of inflation that will subside over time. Consumers say that this is a bad time to buy many durable goods, which they wouldn’t say if they expected prices to rise even more in the future.

For what it’s worth, the Federal Reserve, while it has stopped using the term “transitory,” still appears to believe that we’re mostly looking at a fairly short-term problem, declaring in its most recent statement, “Supply and demand imbalances related to the pandemic and the reopening of the economy have continued to contribute to elevated levels of inflation.”

Still, an unmooring of inflation expectations is possible. Given that, what should policymakers be doing right now? And by “policymakers” I basically mean the Fed; political posturing aside, since, given congressional deadlock, nothing that will make a material difference to inflation is likely to happen on the fiscal side, inflation policy mainly means monetary policy.

I recently participated in a meeting that included a number of the most prominent figures in the inflation debate — a meeting in which, to be honest, those of us still on Team Transitory were definitely in the minority. The meeting was off the record, but I asked Larry Summers and Jason Furman, a top economist in the Obama administration, to share by email summaries of their positions.

Summers offered a grim prognosis, declaring, “I see a clearer path to stagflation as inflation encounters supply shocks and Fed response than to sustained growth and price stability.” The best hope, he suggested, was along the lines of what the Fed has now done, end its purchases of mortgage-backed securities (which I agree with because I don’t see what purpose those purchases serve at this point) and plan to raise interest rates in 2022 — four times, he said — with “a willingness to adjust symmetrically with events.” In other words, maybe hike less, but maybe hike even more.

Furman was less grim, saying, “We should not drop the goal of pursuing a hot economy,” but he wanted us to slow things down, to “get there by throwing one log on the fire at a time.” His policy recommendation, however, wasn’t that different”. He called for three rate hikes next year, as the Fed said on Wednesday that it was considering.

Where am I in this debate? Clearly, a sufficiently large rate hike would bring inflation down. Push America into a recession, and the pressure on ports, trucking and warehouses would end; prices of many goods would stop rising and would indeed come down. On the other hand, unemployment would rise. And if you believe that we’re mainly looking at temporary bottlenecks, you don’t want to see hundreds of thousands, maybe millions of workers losing their jobs for the sake of reducing congestion at the Port of Los Angeles.

But what both Summers and Furman are arguing is that the inflation problem is bigger than temporary bottlenecks; Furman is also in effect arguing that tapping on the monetary brakes could cool off inflation without causing a recession, although Summers doesn’t think we’re likely to avoid at least a period of stagflation when bringing inflation down.

The Fed’s current, somewhat chastened, position seems almost identical to Furman’s. The latest projections from board members and Fed presidents are for the interest rate the Fed controls to rise next year, but by less than one percentage point, and for the unemployment rate to keep falling.

Perhaps surprisingly, my own position on policy substance isn’t all that different from either Furman’s or the Fed’s. I think inflation is mainly bottlenecks and other transitory factors and will come down, but I’m not certain, and I am definitely open to the possibility that the Fed should raise rates, possibly before the middle of next year. I think the Fed should wait for more information but be willing to hike rates modestly if inflation stays high; Furman, as I understand it, thinks the Fed should plan to hike rates modestly (in correspondence he suggested one percentage point or less over the course of 2022, matching the Fed’s projections) but be willing to back off if inflation recedes.

This seems like a fairly nuanced distinction. It is, of course, possible that bad inflation news will force far more draconian tightening than the Fed is currently contemplating, even now.

Maybe the real takeaway here should be how little we know about where we are in this strange economic episode. Economists like me who didn’t expect much inflation were wrong, but economists who did predict inflation were arguably right for the wrong reasons, and nobody really knows what’s coming.

My own view is that we should be really hesitant about killing the boom prematurely. But like everyone who’s taking this debate seriously, I’m hanging on the data and wonder every day whether I’m wrong.

Inflazione: l’anno dell’ignominia, 

di Paul Krugman

Associerò sempre l’inflazione al sapore dell’ “Hamburger Helper” [1]. Nell’estate del 1973 condividevo un appartamento con vari altri studenti dell’Università; non avevamo molti soldi e il costo della vita saliva alle stelle. Col 1974 il tasso complessivo di inflazione avrebbe toccato il 12 per cento, e alcuni prodotti avevano già conosciuto grandi aumenti di prezzo. La carne macinata, in particolare, nell’agosto del 1973 era del 49 per cento più costosa di due anni prima. Dunque provavamo a farci bastare i soldi.

Oltre allo sgomento che sentivo per non potermi permettere carni non adulterate, era l’ansietà, la sensazione che le cose fossero fuori controllo. Anche se i redditi di molti stavano crescendo più velocemente dell’inflazione, gli americani erano innervositi dal modo in cui il potere d’acquisto del dollaro diminuiva per ogni settimana che passava. Quella sensazione può essere una ragione per la quale oggi gli americani sembrano così depressi con una economia in piena espansione.

Con la crescita dell’inflazione negli anni ’70 per la quarta volta, dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’inflazione superò il 5 per cento come tasso annuale. Ci sarebbero stati aumenti più piccoli nel 1991 e nel 2008, e un aumento che fu appena inferiore al 5 per cento nel 2010-11.

Ora siamo di fronte ad un altro episodio, la più alta inflazione in quasi quarant’anni. L’Indice dei Prezzi al Consumo a novembre era più alto del 6,8 per cento rispetto all’anno precedente. Buona parte di questo aumento è dipeso da grandi aumenti dei prezzi in pochi settori: i prezzi della benzina sono saliti del 58 per cento, le macchine usate e le camere d’albergo sono salite del 31 e del 26 per cento. Ma alcuni analisti (sebbene non tutti) ritengono che l’inflazione stia cominciando a diffondersi più ampiamente nell’economia.

Il periodo attuale di inflazione è arrivato improvvisamente. Agli inizi di quest’anno l’inflazione era ancora bassa; non più tardi che a marzo i componenti del Comitato di Mercato Aperto [2], l’organismo che stabilisce la politica monetaria, si aspettavano che la misurazione dei prezzi da loro preferita (che di solito si colloca un po’ al di sotto dell’Indice dei Prezzi al Consumo) crescesse quest’anno soltanto del 2,4 per cento. Persino quando i dati si sono impennati, molti economisti – incluso il sottoscritto – sostenevano che la crescita si sarebbe mostrata probabilmente transitoria. Ma almeno adesso è chiaro che l’inflazione “transitoria” durerà più a lungo di quello che la maggioranza dei componenti di quel gruppo si aspettavano. E mercoledì la Fed si è spostata verso una restrizione della politica monetaria, riducendo i suoi acquisti di obbligazioni e indicando che si aspetta di alzare almeno modestamente i tassi di interesse nel prossimo anno.

L’inflazione è un tema che suscita emozioni. Nessun altro tema su cui scrivo suscita tanto odio nei messaggi mail. E il dibattito sulla inflazione attuale è particolarmente teso a causa dei giudizi sull’economia che sono diventati incredibilmente faziosi e del fatto che, più in generale, stiamo vivendo in un contesto politico che non si basa più sul’accertamento della verità.

Eppure è ancora importante cercare di dare senso a quello che sta accadendo. Riflette un fallimento di governo, oppure le difficoltà iniziali di una economia che si riprende dalla recessione pandemica? Per quanto tempo dobbiamo aspettarci che l’inflazione resti elevata? E cosa si dovrebbe fare, ammesso che si debba fare qualcosa?

Anzitutto, io credo che ciò a cui stiamo assistendo rifletta gli intrinseci spostamenti provocati dalla pandemia, piuttosto che, ad esempio, una eccessiva spesa pubblica. Io credo anche che l’inflazione si ridurrà nel corso del prossimo anno e che non dovremmo prendere alcuna drastica iniziativa. Ma economisti ragionevoli non sono d’accordo, e potrebbero aver ragione loro.

Per comprendere questa disputa, abbiamo bisogno di parlare di ciò che provocò nel passato l’inflazione.

Racconti dell’inflazione  

L’inflazione, come dice una vecchia frase, è provocata da “troppo denaro in cerca di troppo pochi prodotti”. Purtroppo, talvolta è qualcosa di più complicato. Talvolta l’inflazione è provocata da aspettative che si perpetuano; talvolta è la conseguenza temporanea di fluttuazioni nei prezzi delle materie prime. La storia ci fornisce chiari esempi di tutte e tre le possibilità.

Il Comitato dei Consiglieri Economici della Casa Bianca suggeriva a luglio che l’inflazione odierna somigli soprattutto al picco di inflazione degli anni 1946-1948. Quello era un classico caso di inflazione “trainata dalla domanda” – ovvero, era davvero un caso di troppo denaro in cerca di troppo pochi prodotti. I consumatori erano spinti dal contante dei risparmi dei tempi di guerra, e c’era un bel po’ di domanda repressa, dagli anni del razionamento della guerra. Dunque, quando il razionamento finì ci fu una corsa ad acquistare cose in un’economia che non era ancora tornata a convertirsi ad una produzione da tempi di pace. Il risultato furono due anni di inflazione molto elevata, con un livello massimo di quasi il 20 per cento.

La crescita successiva dell’inflazione, durante la Guerra Coreana, fu anch’essa guidata da un rapido aumento della spesa. L’inflazione toccò una punta massima di più del 9 per cento.

Per gli osservatori della situazione attuale, l’aspetto più interessante di questi picchi di inflazione immediatamente postbellica potrebbe essere la loro natura transitoria. Non intendo dire che essi se ne nadarono nel giro di mesi; come ho detto, l’episodio del 1946-1948 proseguì per quasi due anni. Ma quando la spesa scese a livelli più sostenibili, l’inflazione rapidamente fece lo stesso.

Quello non fu il caso dell’inflazione degli anni ’60.

È vero, quell’inflazione cominciò trainata dalla domanda: Lyndon Johnson aumentò la spesa federale impegnandosi nello stesso tempo nella Guerra del Vietnam e nel programma della Grande Società, ma agli inizi fu indisponibile a contenere la spesa privata aumentando le tasse. Nello stesso tempo, la Federal Reserve continuò a tener bassi i tassi di interesse, il che consentì che settori come l’edilizia si surriscaldassero.

La differenza tra l’inflazione della Guerra del Vietnam e quella della Guerra di Corea fu quello che accadde quando le autorità finalmente agirono, nel 1969, per frenare la spesa complessiva attraverso aumenti dei tassi di interesse. Questo portò ad una recessione e ad un brusco innalzamento della disoccupazione; tuttavia, diversamente dagli anni ’50, per un lungo tempo l’inflazione rimase ostinatamente elevata.

Alcuni economisti, in effetti, avevano previsto che questo sarebbe accaduto. Negli anni ’60 molti economisti credevano che le autorità avrebbero potuto realizzare una disoccupazione più bassa se fossero state disponibili ad accettare maggiore inflazione. Nel 1968, tuttavia, Milton Friedman e Edmund S. Phelps sostennero entrambi che si trattava di una illusione.

Una inflazione prolungata, sostennero, avrebbe finito per incorporare le aspettative dei lavoratori, dei datori di lavoro e delle imprese nel fissare i prezzi, e così via. E una volta che l’inflazione si fosse incorporata nelle aspettative, sarebbe diventata come una profezia che si autoavvera.

Questo comportava che le autorità avrebbero dovuto accettare una inflazione in continua accelerazione, se volevano tener bassa la disoccupazione. Inoltre, una volta che l’inflazione si fosse incorporata, ogni tentativo di riportarla indietro avrebbe richiesto una prolungata recessione – e per un certo periodo l’alta inflazione sarebbe andata di pari passo con l’alta disoccupazione, una situazione che era stata spesso definita di “stagflazione”.

E la stagflazione arrivò. La persistente inflazione nel 1970-71 fu solo un assaggio. Nel 1972 una politicizzata Fed rinvigorì l’economia per aiutare la campagna per la rielezione di Richard Nixon; l’inflazione era già quasi all’8 per cento quando l’embargo arabo sul petrolio spedì i prezzi del petrolio alle stelle. L’inflazione sarebbe rimasta alta per un decennio, nonostante una elevata disoccupazione.

La stagflazione alla fine terminò, ma con un costo enorme. Sotto la guida di Paul Volcker, la Fed ridusse bruscamente la crescita nell’offerta di moneta, spedendo i tassi di interesse ben dentro un numero a due cifre e provocando una profonda recessione che elevò il tasso di disoccupazione al 10,8 per cento.  Tuttavia, al momento in cui l’America finalmente emerse dalla recessione – la disoccupazione non scese sotto il 6 per cento fino alla fine del 1987 – le aspettative di elevata inflazione erano state ampiamente depurate dall’economia. Come dissero alcuni economisti, le aspettative di inflazione si erano “ancorate” a un basso livello.

Nonostante queste ancorate aspettative, tuttavia, ci sono stati vari picchi inflazionistici, più di recente nel 2010-11. Ciascuna di queste punte era in gran parte guidata dai prezzi di prodotti che sono spesso volatili, in particolare il petrolio. Ognuna di esse venne accompagnata da terribili ammonimenti secondo i quali una inflazione fuori controllo era proprio dietro l’angolo. Ma quelle messe in guardia si dimostrarono, in continuazione, falsi allarmi.

Come è accaduto il 2021

Dunque, perché quest’anno l’inflazione è cresciuta, e per quanto resterà alta?

I principali economisti sono attualmente divisi tra quello che viene definito il gruppo della ‘transitorietà’ e quello che viene definito il gruppo della ‘persistenza’. Il gruppo della transitorietà, incluso il sottoscritto, ha sostenuto che stiamo assistendo ad un contrattempo temporaneo – sebbene di durata più lunga di quanto non ci si aspettasse agli inizi. Altri, tuttavia, mettono in guardia che potremmo affrontare qualcosa di paragonabile alla stagflazione degli anni ’70. E diamo credito a chi lo merita: sinora gli ammonimenti sull’inflazione si sono dimostrati giusti, mentre le previsioni del gruppo della transitorietà secondo le quali l’inflazione sarebbe rapidamente svanita si sono mostrate sbagliate.

Ma questa inflazione non ha seguito un copione semplice. Quello a cui stiamo invece assistendo è uno strano episodio che mostra alcune somiglianze con il passato ma include anche nuovi elementi.

Subito dopo che il Presidente Biden entrasse in carica, Larry Summers ed altri eminenti economisti, in particolare Olivier Blanchard, il passato capo economista del Fondo Monetario Internazionale, hanno messo in guardia che il Programma americano di Salvataggio, la proposta di legge di 1.900 miliardi di dollari resa esecutiva agli inizi dell’Amministrazione Biden, avrebbe aumentato la spesa molto di più della quantità di fiacchezza che permane nell’economia e che questa insostenibile espansione nella domanda avrebbe provocato una elevata inflazione. La squadra della transitorietà sosteneva invece che buona parte del denaro sborsato dal Governo sarebbe stato risparmiato anziché speso, cosicché le conseguenze inflazionistiche sarebbero state leggere.

L’inflazione di fatto si è impennata, ma la cosa curiosa è che la spesa complessiva non è straordinariamente alta; quest’anno essa è cresciuta molto, ma solo quanto necessario per riportarci più o meno alla tendenza precedente alla pandemia. Dunque perché i prezzi stanno schizzando in alto?

In parte la risposta, come il sottoscritto e molti altri hanno osservato, riguarda le catene dell’offerta. La cinghia di trasmissione che normalmente consegna i prodotti ai consumatori soffre delle scarsità della capacità portuale, degli autotrasportatori, degli spazi di immagazzinamento e altro ancora, e una scarsità di semiconduttori al silicone sta danneggiando la produzione di molti prodotti, particolarmente le automobili. Un recente rapporto da parte della influente Banca dei Regolamenti Internazionali stima che i rialzi dei prezzi provocati dalle strozzature abbiano contribuito, nell’anno passato, per 2,8 punti percentuali all’inflazione.

Ora, le catene globali dell’offerta non si sono rotte. Di fatto, esse stanno consegnando più prodotti che mai in precedenza. Ma non sono state capaci di tenere il passo con una domanda straordinaria. La spesa totale dei consumi non è cresciuta così velocemente, ma in un’economia ancora condizionata dalla pandemia, le persone hanno spostato i loro consumi da varie pratiche agli oggetti – ovvero, stanno spendendo meno sui servizi ma molto di più sui prodotti. La versione caricaturale di tutto questo è che le persone impossibilitate o indisponibili ad andare il palestra hanno invece acquistato la cyclette, e qualcosa di simile è effettivamente successo un po’ dappertutto.

Ecco quello che dicono i dati. I consumi complessivi sono saliti del 3,5 per cento dagli inizi della pandemia, grosso modo in linea con la crescita normale. I consumi dei servizi, tuttavia, restano al di sotto dei livelli prepandemici, mentre gli acquisti di beni durevoli, sebbene scesi un po’ dai loro livelli più alti, stanno ancora correndo molto.

Nessuna sorpresa che i porti siano intasati!

Nel corso del tempo, i problemi delle catene dell’offerta possono un buona parte risolversi da soli. Una attenuazione della pandemia negli Stati Uniti, nonostante una qualche crescita dei casi, ha già provocato una parziale inversione della deviazione dai servizi ai prodotti; questo rimuoverà la pressione sulle catene dell’offerta. E come dice un vecchio detto, la cura per gli alti prezzi sono gli alti prezzi: il settore privato ha un forte incentivo a sbrogliare le catene dell’offerta, e di fatto sta cominciando a farlo.

In particolare, i grandi venditori al dettaglio hanno trovato modi per ottenere i prodotti di cui hanno bisogno e dicono di averli pienamente immagazzinati per il periodo delle festività. E misurazioni della tensione sulle catene dell’offerta come le aliquote dei noli hanno cominciato a migliorare.

Tuttavia i problemi delle catene dell’offerta non sono l’unica spiegazione. Anche a parte le strozzature, la capacità produttiva dell’economia è stata limitata dalla Grande Dismissione, l’apparente indisponibilità di molti americani resi inattivi dalla pandemia a tornare al lavoro. Ci sono ancora quattro milioni di americani in meno al lavoro di quelli che c’erano nell’epoca della pandemia, ma i mercati del lavoro sembrano molto rigidi, con numeri record di lavoratori che lasciano i loro posti di lavoro (un segno che credono che nuovi posti di lavoro siano semplici da trovare) e i datori di lavoro a corto di personale stanno offrendo aumenti salariali ad un tasso più veloce da decenni [3]. Dunque la spesa non pare che ecceda la capacità produttiva, non tanto perché la spesa sia tutta così elevata, ma perché la capacità produttiva è inaspettatamente bassa.

L’inflazione provocata dai blocchi nelle catene dell’offerta probabilmente si ridurrà nel giro di pochi mesi, ma non è del tutto chiaro se gli americani che hanno lasciato la forza lavoro ci torneranno. Ed anche se l’inflazione davvero scendesse, essa potrebbe rimanere per un po’ fastidiosamente elevata. Si ricordi, il primo periodo postbellico di inflazione, che con il senno di poi appare evidentemente transitorio, durò due anni.

Dunque, come potrebbe rispondere la politica?

Dare una stretta o non darla, questa è la domanda

Io sono iscritto al gruppo della transitorietà. Ma riconsidererei la mia fedeltà a quella tesi se vedessi prove che le aspettative della futura inflazione stanno cominciando a spingere i prezzi – ovvero, se ci fossero storie generalizzate di produttori che alzano i prezzi, anche se i costi e la domanda per i loro prodotti non sono eccezionalmente alti, perché si aspettano nel prossimo anno o due costi crescenti o prezzi crescenti da parte dei competitori. Ciò che mantenne l’inflazione alta persino durante le recessioni degli anni ’70.

Sinora non vedo segnali che questo stia avvenendo  – sebbene la verità è che non abbiamo buoni modi per tracciare le aspettative rilevanti. Sto osservando i racconti sulla stampa imprenditoriale e su sondaggi come il Libro Beige della Fed, che pone domande a molte imprese sulle condizioni dell’economia; non ho (ancora?) letto resoconti su un’inflazione guidata dalle aspettative. Il mercato obbligazionario sta fondamentalmente prevedendo una scoppio di inflazione che dovrebbe diminuire con il tempo. I consumatori che dicono che questo non è un buon periodo per acquistare molti beni durevoli, non direbbero di aspettarsi prezzi in crescita anche maggiore nel futuro.

Per quello che vale, la Federal Reserve, mentre ha smesso di utilizzare il termine “transitorio”, sembra ancora credere che stiamo soprattutto assistendo ad un problema abbastanza a breve termine, dichiarando nella sua presa di posizione più recente: “Gli squilibri dell’offerta e della domanda derivanti dalla pandemia e dalla riapertura dell’economia hanno continuato a contribuire ad elevati livelli di inflazione”.

Eppure, un disancoraggio delle aspettative di inflazione è possibile. Ciò considerato, cosa dovrebbero fare a questo punto le autorità? E per “autorità” io intendo fondamentalmente la Fed; dato che, a parte gli atteggiamenti politici, considerato lo stallo del Congresso, niente che faccia una differenza materiale sull’inflazione è probabile che accada sul lato della finanza pubblica, e la politica per l’inflazione riguarda principalmente la politica monetaria.

Di recente ho partecipato ad un incontro che comprendeva un certo numero dei personaggi più eminenti nel dibattito sull’inflazione – un incontro nel quale, ad essere onesti, quelli tra di noi che appartengono al ‘gruppo della transitorietà’ erano senz’altro in minoranza. L’incontro non era registrato, ma io ho chiesto a Larry Summers ed a Jason Furman, un economista principale nella Amministrazione Obama, di diffondere tramite la posta elettronica  una sintesi delle loro posizioni.

La prognosi offerta da Summers è cupa, avendo dichiarato: “Vedo un indirizzo più chiaro verso la stagflazione dato che l’inflazione va incontro a shock dell’offerta e data la risposta della Fed ad una crescita sostenuta ed alla stabilità dei prezzi”. La speranza migliore, ha sostenuto, era sulle linee che la Fed ha adesso intrapreso, smettere i suoi acquisti di titoli garantiti da ipoteche (cosa che condivido, perché non si vede a questo punto a quale scopo quegli acquisti siano utili) e un programma per elevare i tassi di interesse nel 2022 – lo ha detto quattro volte – con “una disponibilità a correggerli simmetricamente sulla base degli eventi”. In altre parole, forse aumenti minori, ma forse aumenti persino maggiori.

Furman è stato meno cupo, dicendo: “Non dovremmo abbandonare l’obbiettivo di perseguire una forte ripresa dell’economia”, seppure egli desiderava che rallentassimo la situazione, “arrivandoci aggiungendo un pezzo di legno alla volta sul fuoco”. La sua raccomandazione politica, tuttavia, non era molto diversa. Egli si è pronunciato per tre rialzi dei tassi l’anno prossimo, come la Fed mercoledì ha detto di star considerando.

Dove io mi colloco in questo dibattito? Chiaramente, un rialzo del tasso sufficientemente alto abbatterebbe l’inflazione. Si spinga l’America in una recessione, e la pressione sui porti, sull’autotrasporto e sugli stoccaggi finirà; i prezzi di molti prodotti smetterebbero di crescere e in effetti si ridurrebbero. D’altra parte, crescerebbe la disoccupazione. E se si crede che stiamo principalmente osservando strozzature temporanee, non si può desiderare di vedere centinaia di migliaia, forse milioni di lavoratori perdere il loro posto di lavoro allo scopo di ridurre la congestione nel Porto di Los Angeles.

Ma quello che sia Summers che Furman stanno sostenendo è che il problema dell’inflazione è più grande di una strozzatura temporanea; Furman sta anche in effetti sostenendo tirare i freni monetari potrebbe raffreddare l’inflazione senza provocare una recessione, per quanto Summers pensi che non sia probabile evitare almeno un periodo di stagflazione nel mentre si porta in basso l’inflazione.

L’attuale posizione della Fed in qualche modo contenuta, sembra quasi identica a quella di Furman. Le ultime proiezioni da parte dei componenti del Comitato e dei Presidenti della Fed prevedono che il tasso di interesse che la Fed controlla cresca nel prossimo anno, ma meno di un punto percentuale, e che il tasso di disoccupazione continui  scendere.

Forse sorprendentemente, la mia stessa posizione nella sostanza politica non è così diversa da quella di Furman o della Fed. Io penso che l’inflazione dipenda principalmente dalle strozzature e da altri fattori transitori e che si ridurrà, ma non ne sono certo, e sono certamente aperto alla possibilità che la Fed debba alzare i tassi, probabilmente prima della metà del prossimo anno. Penso che la Fe dovrebbe attendere di avere maggiori informazioni ma essere disponibile ad alzare modestamente i tassi se l’inflazione rimane alta; Furman, da quanto capisco, pensa che laa Fed dovrebbe programmare di alzare modestamente i tassi (nella corrispondenza, egli ha suggerito un punto percentuale o meno nel corso del 2022, aderendo alle proiezioni della Fed) ma è disponibile a tornare indietro se l’inflazione recede.

Questa sembra una differenza abbastanza sottile. Ovviamente, è possibile che cattive notizie sull’inflazione costringano ad una restrizione più draconiana rispetto a quello che la Fed sta prefigurando, anche adesso.

Forse in questo caso la vera morale dovrebbe essere su quanto poco sappiamo sul punto in cui siamo di questo strano episodio economico. Gli economisti che come me non si aspettavano molta inflazione avevano torto, ma gli economisti che prevedevano l’inflazione avevano probabilmente ragione per le ragioni sbagliate, e nessuno sa davvero cosa sia in arrivo.

Il mio personale punto di vista è che dovremmo essere davvero esitanti nell’ammazzare prematuramente l’espansione. Ma come tutti coloro che stanno prendendo sul serio questo dibattito, resto appeso ai dati e ogni giorno mi chiedo se ho torto.

 

 

 

 

 

[1] L’ “Hamburger Helper” è il nome di un prodotto alimentare – inscatolato in un contenitore di cartone – che contiene pasta essiccata e  vari tipi di condimento.

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[2] Il FOMC (Comitato di Mercato Aperto della Fed) è composto di 12 membri – i 7 componenti della Commissione dei Governatori del sistema Fed, il Presidente della Banca della Federal Reserve di New York e, a rotazione, quattro degli undici restanti Presidenti delle Banche della Federal Reserve. I seggi a rotazione sono riempiti da Presidenti prescelti da quattro gruppi di Banche: Bosti, Filadelfia e Richmond; Cleveland e Chicago; Atlanta, St. Louis e Dallas; Minneapolis, Kansas City e San Francisco. I Presidenti partecipano però tutti agli incontri ed ai dibattiti, ma solo i quattro a rotazione hanno diritto di voto.

[3] La rigidità (letteralmente, ristrettezza) del mercato del lavoro è quella nella quale la domanda di lavoro è almeno altrettanto forte dell’offerta, ovvero quella di un mercato del lavoro nel quale i datori di lavoro sono in competizione nella ricerca di lavoratori. Il che di solito comporta un potere contrattuale dei lavoratori maggiore e salari in crescita. Comporta anche una maggiore disponibilità dei lavoratori a lasciare i posti che occupavano in passato, per una fondata fiducia di trovarne di nuovi e di migliori. In questo senso il fenomeno del “quitting” – dell’abbandonare i posti di lavoro precedenti – è normalmente considerato dagli economisti un indicatore positivo.

 

 

 

 

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